Siamo noi a rispondere
Qualche tempo fa, su una rivista di ex-fascisti che anelavano di reinserirsi nel
sistema, fu svolto un lungo dibattito premuto sopratutto da elementi giovani,
sul significato storico del fascismo, sulla sua attualità, dopo la catastrofe
militare, e sulla sua autentica interprefazione. Ne uscì una grande confusione,
tra ex-gerarchi sclerotizzati nel fanatismo, che si affannavano a sostenere la
perenne continuità delle direttive del regime, e neofiti missini, dotati di
sufficiente senso dello umorismo, che pretendevano una decente giustificazione
dello squallore parlamentare in cui si crogiolano i grandi capi della
restaurazione staraciana e della fedeltà cattolica ed occidentale. Vi fu un
giovane, nella fase finale del discorso tra sordi, che implorò, a gran voce, chi
avesse per caso capito cosa fosse il fascismo di volerglielo spiegare, poiché,
di fronte alla traculenta pervicacia con cui i papaveri del missismo
confindustriale insistevano a diffamare il più grande evento storico del secolo
con la scusa di volerne godere l'eredità nella volgare traduzione dei benefici
democratici e parlamentari, tratti dal suffragio degli ingenui o dei duri a
morire, egli, povero giovane, non sapeva se essere indignato o divorato dalla
nausea.
Non ritenemmo, allora, nostro compito partecipare al consulto preagonico del più
grande equivoco della storia nazionale di questo dopoguerra, che ormai ripiega,
melanconicamente, gli ultimi fogli di una partitura stonata, nel concerto di
false libertà e di sconcertanti ipocrisie propinate dal «secolo americano» alla
sua povera ed addormentata colonia europea. Ma, oggi, dopo che le ultime
argomentazioni elettorali del povero Michelini hanno toccato il livello più
basso di inattualità storica e di beotaggine politica, di fronte alla pretesa di
puntare ancora il dito tremulo d'artrosi ideologica sul cosiddetto pericolo
comunista, in un mondo in attività vulcanica che vede mutate le burocrazie
marxiste in mummie reazionarie e denuda vergognosamente la violenza selvaggia
dei padroni della ricchezza del mondo che uccidono senza pietà chi, anche per
ambizione di baronie universali, poggia i suoi piedi sul consenso dei poveri e
dei discriminati, riprendiamo la penna ed abbiamo intenzione di rispondere.
Lo sfacelo che sbalordisce le menti sprovvedute e provinciali dei moderati e dei
clericali, il disordine apparente delle scosse telluriche che fanno della
società umana in cui viviamo un mondo di vulcani politici, forse matura il
trionfo di chi ha saputo attendere.
L'interpretazione autentica del Fascismo, il cui annuncio storico, sorretto da
una grande intuizione, fu soffocato, quarantacinque anni orsono, dal compromesso
con la monarchia bigotta dei Savoja, con la finanza e la borghesia, che
l'ammorbidì e l'umiliò alla piatta manifestazione di regime, non manca nella
mente dei pochi che non parteciparono alla fiera in liquidazione
dell'imbonimento destrofilo sui crani sfuggenti di seguaci troppo piccoli per
un'idea troppo grande.
Ma, forse, il discorso può iniziare da un ormai lontano episodio del 1944,
quando nella sede del PFR di Maderno, un giovane pubblicista sedeva davanti alla
scrivania di Alessandro Pavolini, intransigente e piuttosto fanatico segretario,
ma dotato di vivida intelligenza toscana e di sensibilità alla cultura, per
essere censurato di un suo articolo sconsacratorio scritto sul "Rengo" di
Verona, il quale così si difendeva: «La differenza tra me e Voi è che Voi
partite dal Fascismo mentre, io, al Fascismo ci arrivo, partendo da una
concezione del mondo e dell'uomo, dalla trascendenza e dalla storia e, per caso,
che reputo molto fortunato, mi incontro (ed, in questo momento mi scontro) con
le intuizioni luminose di Benito Mussolini. È, forse, ora di iniziare il
discorso.
Individuazione storica della trascendenza
Uno degli errori correnti
dell'interpretazione pseudo-dottrinaria dello Stato fascista, che accomuna i
devoti sentimentali e gli avversari rabbiosi, è che esso sia per destinazione
tirannico ed autoritario, non solo, ma implica la dittatura personale del suo
capo.
Tale errore ha radici psicologiche di suggestione storica, perché, di fatto, il
regime fascista del ventennio fu attivo come dittatura «sine die» di Mussolini,
a partire dal 3 gennaio 1925, e la diarchia dei poteri formali ebbe
manifestazioni autoritarie di vero e proprio stato di polizia.
Ma l'equivoco non nasce solo dalla confusione possibile tra la teorizzazione
filosofica dell'annuncio storico mussoliniano ed il suo regime personale del
compromesso con le forze conservatrici della società italiana sorta dall'unità
politica del 1870, ma, anche e sopratutto, dall'assunzione troppo rapida di
prestiti filosofici da fonti preesistenti di dottrina che non reggono
all'analisi critica, una volta registrati gli esiti purtroppo negativi
nell'ordine pratico.
Mussolini, grande uomo d'azione, non sentiva l'esigenza della coerenza
filosofica, tanto è vero che egli usava con eccessiva disinvoltura i termini di
trascendenza ed immanenza, ma ciò non toglie che la sua intuizione dello Stato
sia suscettibile di verifica filosofica, alla luce di una concezione del mondo,
ridotta a perfetta unità.
Ed il suo errore dottrinario più cospicuo fu quello di credere che la filosofia
dell'attualismo di Giovanni Gentile potesse identificarsi con la dottrina del
fascismo. La teoria dell'autocrisi costituiva bensì l'ultimo grande sistema di
filosofia tipicamente italiano e l'altezza morale oltre che intellettuale del
suo autore è fuori discussione, ma la concezione della società che ne deriva,
«in interiore homine», non è che una forma di super individualismo e pertanto la
negazione dello Stato annunciato dal fondatore del fascismo e fin qui poco e
male teorizzato.
Alla base della concezione fascista dello Stato è una visione religiosa della
vita che esclude la superbia romantica dell'assolutizzazione dell'individuo.
Tale religiosità non è ovviamente da confondere con alcuna mitologia
confessionale e pertanto nega le teocrazia e le intrusioni sacerdotali nella
società. È la coscienza del limite umano, agli inizi del processo spirituale, l'invarcabilità
dell'io che pone la condizionalità come trascendenza; ma è necessario riassumere
i termini della sua possibilità storica.
Trascendente vuoi dire che «sta fuori», ma non basta; occorre il vincolo del
condizionamento. Se la forma dell'immediatezza ed invarcabilità
dell'appercezione originaria dell'io è funzione di due opposti, limite e
condizionamento, di cui non è possibile cogliere l'identità, onde essa è di un
rapporto metafisico, mentre l'impossibilità di cogliere tale identità è assoluta
trascendenza, questa trascendenza è di una assoluta realtà, universale,
condizionante ambedue i termini del processo, l'oggetto ed il soggetto, e
contenente tutta la molteplicità individuale.
Questa molteplicità, a sua volta, realizza la comunicazione tra i soggetti,
nell'integrazione processuale ed il condizionamento degli oggetti della attività
spirituale, per cui tende a superare la sua struttura molteplice in unità.
Ciò può accadere, perché l'unificazione delle condizioni si manifesta concreta e
reale e cioè come «individuazione storica».
La individuazione storica della trascendenza, però, non è più la realtà assoluta
condizionante il processo in seno all'individuo, ma si manifesta con i medesimi
caratteri di condizionalità, nei confronti della molteplicità individuale colta
dall'integrazione processuale della storia, di quella assoluta.
Se, pertanto, nell'atteggiamento mistico dello spirito che da luogo alla
religiosità circonfondente e fenomenologica di cui si diceva prima, la
trascendenza è assoluta in rapporto al relativo, pura universalità nei confronti
dell'individuale concreto, in quanto la sua unità ripone l'unità vivente
dell'individuo, nel rapporto di condizionabilità con la molteplicità
individuale, questa è racchiusa in un processo di universalizzazione, per
individuazioni sempre più estensive, che sono il gruppo, la comunità, lo Stato.
Lo Stato, così concepito alla luce di una visione metafisica del reale che non
si ferma all'attualità del processo storico, assolutizzato dall'idealismo, ma
coglie i fermenti di tutto il pensiero filosofico contemporaneo, dallo
storicismo di Dilthey al relativismo di Aliotta, dalla fenomenologia di Husserl
alla gerarchia dei valori di Scheler, dall'aporetica di Hartmann allo stesso
esistenzialismo europeo, rivalutato dalle più recenti considerazioni
psicologiche di Merleau-Ponthv, e uno Stato che non conculca l'individuo, ma lo
realizza compiutamente e cioè lo conduce alla sua vera libertà. Ove si cerca,
difatti, l'essenza di quella condizionalità individuante che ha i medesimi
caratteri della trascendenza, ma non comprende la posizione immediata dell'io,
la relazione extraprocessuale ed il momento religioso dello spirito, incapace
questo di sviluppo processuale e quindi sterile di fronte alla storia, si
comprende con assoluta chiarezza, che la divinizzazione dello Stato (e, tanto
meno, delle sue istituzioni) è impossibile.
In tal senso deve intendersi la tanto discussa libertà di coscienza, come
autonomia del soggetto nell'attingimento dell'invarcabilità e della
trascendenza, onde con Michoud si può affermare che «nessuna persona morale,
nemmeno lo Stato, assorbe completamente la vita individuale dei suoi
componenti».
Lo Stato, cioè, non può pretendere di attuare rivelazioni religiose, poiché, in
tal caso, cadrebbe nella mitizzazione di tipo pagano, ma nessuna comunità può
fondarsi sulla rivelazione religiosa, senza costituirsi in Stato terreno ed è la
Teocrazia.
L'uomo integrale, nei suoi potenziamenti spirituali del pensiero, dell'azione e
della fantasia, si realizza così tutto nello Stato, individuazione storica della
trascendenza, ma proprio per la sua molteplice individuazione, questo non può
condizionare l'autonomia del singolo nella intenzionalità o tensione finale di
ordine assoluto e qui sta la perenne dignità della persona umana.
Autonomia e partecipazione necessaria si fondono, in tal modo, in un'unica
registrazione della trascendenza.
Dittatura dell'Intelligenza
Noi non crediamo che i giovani
costituiscano in sé una categoria od un ordine sociale che possa integrarsi o
tantomeno opporsi ad altre categorie della società. Ove ciò fosse, verrebbe meno
il concetto della integralità dell'uomo e verrebbe negata la sua spiritualità,
in quanto il dato naturalistico dell'età anagrafica determinerebbe la presenza
ed il potenziale d'integrazione, negando gli stessi valori individuali. Ci sono
giovani malati e giovani imbecilli, che non possono costituire elementi positivi
dell'inserimento umano nel corpo sociale, solo perché «nati dopo». Tuttavia,
poiché nell'ordine fenomenologico la temporalità acquista quel valore
trascendentale che è poi la storia, i nati dopo, cioè i giovani, purché siano
capaci di instaurare quel rapporto di integrazione nella molteplicità che li
renda autonomi ai fini della propria realizzazione individuale nello Stato,
rappresentano pur sempre una concretizzazione di purezza delle intenzioni, per
cui le loro esigenze debbono essere ascoltate. Ascoltate, s'intende, perché
tornino a loro come incentivi ad operare nell'ambito di tutta la società.
Accanto a palesi manifestazioni d'infantilismo e di immaturità, perciò, nei
giovani di tutto il mondo, che si agitano, anche se mossi da meccanismi troppo
palesi nelle mani di ben individuate fonti di alienazione, proprio quando
sembrano proteste irrazionali e novità disintegratrici, affiorano nella cornice
di contraddittorietà che li neutralizza, direzioni di marcia spirituale che, ben
enucleate dal magma di quell'irrazionalità, possono costituire l'essenza di una
nuova impostazione del problema rivoluzionario su tutti i fronti.
I recenti avvenimenti della Cecoslovacchia, ad esempio, che tutta la reazione
occidentale, specie i papaveri del giornalismo italiano cosiddetto indipendente,
vorrebbero forzare a conclusioni affrettatamente controrivoluzionarie hanno
fornito indicazioni molto significative. Fra tutti i motivi della controversia
tra vecchio e nuovo corso, crediamo che sia da porre in alto rilievo la
contrapposizione della «dittatura» dell'intelligenza sulla «dittatura» del
proletariato. La reazione rabbiosa di Mosca a tale alternativa indica di per sé
il suo valore catartico su tutto il fronte rivoluzionario mondiale, ed è per noi
l'inizio della nemesi storica, il trionfo delineato delle nostre tesi, lo
spettrogramma della nostra lunga attesa.
A parte gli innegabili errori contingenti del metodo personale e gli effetti
deleteri del compromesso borghese con i patriottardismi periferici dei Federzoni,
con i machiavellismi provinciali dei conti di Merdano e con il vitellonismo
agricolo dei Balbo che fecero fallire, allora, il patto di pacificazione con i
socialisti, in che cosa consiste il valore profondamente spirituale del
Fascismo, se non nell'aver indicato per primo che la rivoluzione sociale non
poteva appendersi alla barba profetica di Carlo Marx, che non poteva raddrizzare
la dialettica ma la affossava, definitivamente con la testa in giù, esaltando la
taumaturgia della tuta e dei calli, amministrata dai sacerdoti della piccola
borghesia laureata nelle aule universitarie dei preti, dei padroni, e delle
sette internazionali?
Il superamento del marxismo, indicato da Mussolini è soprattutto supremazia
dell'intelligenza e poiché, finalmente si legge sulle testate dei giornali
borghesi che il colonialismo dell'era contemporanea è l'ignoranza, ben vengano a
noi i giovani rivoluzionari che hanno capito, per operare se non la dittatura
che è uno dogati almeno l'apporto dell'intelligenza.
Opportunismo, tradizione nazionale
Il successo riportato dal PCI nell'ultima
competizione elettorale non ha sortito altro effetto che cristallizzare su certe
posizioni un'altra considerevole massa di elettori, il cui voto non ha certo
permesso al partito di uscire dall'isolamento in cui si trova.
Infatti, l'unica cosa certa che si può rilevare dall'incerto, e quasi iniziatico
mondo della politica italiana, è che il partito comunista è completamente
isolato, checché ne dicano le querule sibille della ormai putrescente destra
italiana, sempre pronte, da anni, a denunciare all'opinione pubblica il
minaccioso avvicinarsi alle fontane di piazza San Pietro dei feroci cosacchi,
desiderosi di abbeverarvi i loro stanchi cavalli.
La manovra iniziata dalla Democrazia Cristiana nel 1963 (creazione della formula
di centro-sinistra, avente lo scopo di allargare e rendere più forte la base di
sostegno del governo e di allontanare -cosa questa assai più importante- sempre
più i socialisti dai comunisti) si può dire ormai completamente riuscita.
L'esito del primo congresso dei socialisti unificati non lascia dubbi in
proposito: al di là delle molte incertezze, appare evidente la volontà della
maggioranza del partito di partecipare alla nuova edizione del centro-sinistra.
Per vincere i complessi e le frustrazioni derivate dalle umiliazioni subite
nella precedente esperienza di governo, essi hanno affermato risolutamente la
volontà di non cedere più ai ricatti dei loro partners e di ottenere da questi
precise garanzie per il futuro. Solo una esigua minoranza sarebbe disposta ad un
lavoro comune con gli ex-compagni comunisti: la sparuta schiera dei seguaci di
Lombardi.
Se l'isolamento di solito è un bene, e non un male, per una forza
rivoluzionaria, questo fatto naturalmente non tange per nulla il partito
comunista, in quanto niente vi potrebbe essere di più ingiusto della qualifica
di rivoluzionario assegnata a tale partito.
La stessa matrice culturale del comunismo italiano, del resto, ha in sé i germi
della involuzione piccolo-borghese del PCI: basta pensare alla notevole
influenza esercitata dal pensiero di Croce sulla formazione di Gramsci e dello
stesso Togliatti, e quindi alle inevitabili conseguenze sul piano del pensiero e
della prassi.
Questo sul piano ideologico. Sul piano storico basta soffermarsi a considerare
-al di là di esaltazioni retoriche e reducistiche- la massima espressione
dell'azione comunista: la resistenza. Essa, in sostanza, non ebbe altra
conclusione (come Bordiga ha sempre rinfacciato ai suoi ex-colleghi di partito)
che l'affermazione di un certo tipo di borghesia su di un altro tipo, sempre a
spese della classe operaia. Fu in realtà un fenomeno «gattopardesco»: si era
voluto cambiar tutto per non cambiare nulla.
Il dialogo con i cattolici
Nel 1965 Pietro Ingrao proponeva al partito, per rompere la cintura sanitaria
che lo circondava, la linea del dialogo con i cattolici. Sia con il grande
partito cattolico, che con le frange dei cattolici del dissenso.
Se fosse possibile continuare il discorso con la Democrazia Cristiana e portare
a buon fine l'operazione intrapresa, il PCI si troverebbe a gestire il potere
immediatamente, ben inteso in condominio con la DC. Si tratterebbe in fondo di
un nuovo tipo di centro-sinistra. È superfluo ricercare quale sarebbe
l'effettiva autonomia dei comunisti in una simile formula di governo. La
precedente esperienza dei socialisti insegni.
Ora, a ben considerare, le possibilità di riuscita di una tale manovra sono
piuttosto scarse. Infatti l'atto del porgere la mano al PCI non è stato
certamente dettato al partito cattolico da una profonda esigenza di carità
cristiana: il tutto rientrava in un preciso piano politico. In fin dei conti non
è stato altro che un ricatto nei confronti dei socialisti. Un ricatto che
suonava pressappoco così: «State buoni, non esagerate con le vostre richieste,
altrimenti vi scavalchiamo e ci accordiamo direttamente con i vostri amici di un
tempo, i comunisti». Si ricordi, a prova di questo, che la DC tanto più si
mostrava aperturista e possibilista nei confronti del PCI quanto più i suoi
alleati di governo si mostravano irrequieti (ad esempio il discorso di Piccoli
alla Camera in occasione della crisi SIFAR).
Ben più facile si rivela il dialogo con i gruppi del dissenso, sia che facciano
capo a correnti all'interno della DC o delle ACLI, sia che si tratti di cani
sciolti.
Questi gruppi benché siano impotenti a spingere il partito cattolico ad una
reale intesa con i comunisti, sarebbero però disponibili qualora si venisse a
creare un nuovo organismo politico in cui confluissero tutte le forze della
sinistra.
L'unità delle sinistre
Passata in secondo piano, per le difficoltà incontrate, la linea che proponeva
l'inserimento in una specie di centrosinistra allargato, la strategia radicale
per l'unità delle sinistre, sostenuta all'interno del partito da Amendola, si è
presa una rivincita sulle tesi di Ingrao, che tanta fortuna avevano goduto negli
anni precedenti.
La creazione di un «partito unico dei lavoratori» che catalizzi intorno a sé
tutte le forze della sinistra, viene considerata dai più l'unica realtà politica
capace di scalzare la DC dalle sue più che ventennali posizioni di potere e di
affidare finalmente e per la prima volta alla sinistra la gestione del potere.
Raggiunta la direzione dello Stato si potrebbe forse realizzare quel pacchetto
di riforme che già il centro-sinistra avrebbe dovuto attuare (revisione del
Concordato, introduzione del divorzio, decentramento amministrativo con la
formazione delle regioni, ristrutturazione nel campo economico e sociale e così
via).
È bene riaffermare che -per quanto efficaci possano essere- le riforme non
intaccano per nulla le profonde radici strutturali su cui poggia il sistema.
Anche se si ottenessero con ciò alcuni miglioramenti nelle condizioni generali
di vita dei lavoratori, non si sarebbe fatto un solo passo avanti verso la
distruzione dell'«ordine» borghese e verso l'immissione sostanziale delle masse
lavoratrici nella gestione del potere. Anzi, il sistema borghese capitalista
-conquistata una maggiore rispettabilità con lo sventolare la bandiera di una
ormai acquisita ed indiscutibile «giustizia sociale»- si rafforzerebbe al suo
interno proprio per via di queste riforme che avrebbero, in ultima analisi, lo
scopo di anestetizzare ancora più profondamente la coscienza delle classi fin
qui escluse dalla vera politica con l'ipocrita e comodo paravento della
democrazia mediata di tipo parlamentare.
PCI, socialdemocrazia, radicalismo
Il fatto che l'unità di tutto lo schieramento delle sinistre sia una esigenza
sentita non vuol dire che gli altri partiti siano troppo d'accordo nel
considerare il PCI quale «polo di attrazione a sinistra», formula con la quale
si è voluta sintetizzare questa strategia del partito.
Nella strategia dei socialdemocratici e dei radicali è compresa la
strumentalizzazione delle forze del partito comunista. Queste, inserite nel
contesto del nuovo partito, verrebbero usate per la realizzazione dei loro fini.
Punto di arrivo di tale strumentalizzazione sarebbe il definitivo inserimento
del PCI nell'area cosiddetta «democratica» e, da un punto di vista ideologico,
la sua totale «socialdemocratizzazione». A tale riguardo si ricordi, a mo' di
esempio, il discorso tenuto da La Malfa nell'aprile del 1966 ai comunisti in un
dibattito con Amendola, eterno amplificatore delle tesi «radicali» nel PCI. In
tale discorso si precisava che in occidente l'unica sinistra può essere quella
democratica, perché la sola capace di inserirsi nel sistema per modificarne le
strutture e per correggerne il meccanismo di sviluppo. Da ciò conseguirebbe per
il comunismo in generale la necessità di rifiutare le posizioni
«rivoluzionarie», per il PCI in particolare, la necessità di piegarsi
completamente ed unicamente alla funzione di sostegno dei «radicali» impegnati
nel centro-sinistra.
Tale strategia rientra completamente, a livello mondiale, nel processo
distensionista, teso alla ricerca di una inconfessata sintesi tra sistema
capitalista e sistema socialista, da tempo in atto tra le due superpotenze
imperialiste che nel 1944 a Yalta si spartirono il mondo in sfere d'influenza.
Prospettive unitarie
Il partito comunista è indiscutibilmente il più forte e il più organizzato tra
quelli interessati all'unità. Stando alle dimensioni, nell'economia del nuovo
partito dovrebbe esercitare un ruolo di priorità. Da qui la fonte di
preoccupazioni per socialdemocratici e radicali che ha reso più difficile la
formazione di questo nuovo strumento politico. Se prima delle ultime elezioni la
meta era sembrata molto vicina, ora di unità si potrà parlare, se non
interverranno ovviamente fatti nuovi, fra molto tempo e forse addirittura dopo
le elezioni del '73. Ciò appare evidente dalle dichiarazioni rilasciate
recentemente da La Malfa e da alcuni esponenti del PSU.
Infatti fra le condizioni ricercate per intavolare trattative più serie e
conclusive vi era -oltre ad un ammorbidimento delle posizioni ideologiche e
politiche del PCI- la necessità di un suo sensibile calo di elettori, che lo
ponesse in condizioni di inferiorità (per lo meno psicologiche) di fronte ai
suoi interlocutori, nonché un sensibile rafforzamento del PSU e del PRI. Ma i
risultati delle urne, come è noto, hanno deluso i pronostici della vigilia.
Quindi, per il prossimo futuro, ogni passo verso l'unità, che non sia puramente
tattica e contingente, è da escludere. Ciò non vuol dire che socialisti e
radicali non abbiano intenzione di continuare il discorso con i comunisti. Anzi
il dibattito su questo problema, nelle dichiarazioni di uomini politici e sulle
colonne di giornali quale "l'Espresso" e "l'Astrolabio", si è fatto negli ultimi
tempi sempre più intenso, e sicuramente aumenterà di tono col passar del tempo.
I socialisti e i radicali sono consapevoli della attuale portata storica della
unità della sinistra italiana, senza la quale, del resto, nessuna formazione
partitica sarebbe in grado di raggiungere il potere con le proprie forze. E
coscienziosamente si sono messi a lavorare per le prospettive che offre loro il
futuro. Anche se per ora il lavoro in comune con i comunisti non può sfociare
-per quanto detto sopra- in unità organizzativa, mantiene sempre una sua
importante funzione. Quella di spingere sempre di più il PCI su posizioni
riformistiche, approfittando di quella crisi del partito che è crisi non solo a
livello politico ma anche, e soprattutto, a livello ideologico (come i fatti di
Praga hanno drammaticamente messo in evidenza nei mesi scorsi).
Da parte sua il partito comunista -incapace di trovare una sua vocazione
rivoluzionaria, con la minaccia di una spaccatura sospesa sul capo- si dimostra
sempre più sensibile e recettivo verso quelle tematiche di importazione radicale
e socialdemocratica che permeano ormai vasti strati dei suoi quadri. Cedendo via
via alle lusinghe che vengono dal centro e alle suggestioni che vengono da
sinistra, il PCI ha creduto di poter uscire dal ghetto in cui da venti anni si
trova costretto, seguendo le due strade che gli si offrivano aperte. Così
facendo, ha ottenuto in definitiva un solo risultato: quello di spingersi sempre
più sulla strada di una lunga tradizione italiana: l'opportunismo.
Europa… rivoluzione
È coerente con la nostra concezione dello
Stato l'unità Europea?
Una frettolosa corsa a posizioni di protesta e di costante opposizione al
sistema democratico parlamentare potrebbe condurre ad affermare che l'EU dia
un'immagine contraddittoria al processo di rivoluzione spirituale a cui noi
tendiamo.
Ma si tratta del puro equivoco per cui quando si fa opposizione ad una idea la
si fa sulla sua cattiva realizzazione che si ha di fronte.
L'Unità Europea, vagheggiata dai cosiddetti democratici provenienti dalla «Belle
Époque», come Schuman e Carlo Sforza, era senza dubbio un tema reazionario che
tendeva a riunire le forze capitalistiche del continente alla insegna
dell'anticomunismo sistematico, per ribadire il regime dei padroni, nella
massima concentrazione finanziaria possibile, nella tutela della colonizzazione
americana.
In pratica, sarebbe stata un'organizzazione finanziaria, con capitali francesi,
tecnici tedeschi e manovali italiani, per obbedire alle direttive
anti-sovietiche del padrone d'oltre oceano.
La democristianeria italiana non gradiva, all'inizio, tale piano escogitato
dalle logge massoniche occidentali ed era il tempo in cui veniva soppressa la
rappresentanza personale del presidente americano presso il Vaticano.
Successivamente le cose cominciarono a correre per altra direzione. Scomparsi
per morte fisica i grandi venerabili della Sacra iniziativa privata e
attenuatosi l'interesse strategico degli Stati Uniti al territorio europeo,
l'unità fu vista come un unico lievito, capace di aggregare all'infinito il
sistema economico del vecchio continente al neocapitalismo mondiale, di
espressione consumistica, ed ecco che l'isola britannica esce dal suo isolamento
ed annuncia la sua intenzione di rappresentare il predominio della lingua
inglese nel contesto europeo. A questo punto si verifica il contraccolpo della
vecchia borghesia continentale e si fa avanti la prosopopea napoleonica di De
Gaulle, che ha comunque il merito dì rifiutare il ruolo coloniale dell'Europa.
Ma con tutto questo alternarsi di colpi dei nascosti interessi delle antiche
baronie, a cui dobbiamo le guerre degli ultimi 150 anni, l'idea europea subisce
piuttosto un processo di ingarbugliamento che di chiarificazione.
Europa sovranazionale, federativa o gerarchica, delle patrie o dei prodotti
agricoli è un guazzabuglio di ipocrisie e di volontà speculative nel quale si
perpetua la perspicace insidia dei clericali dello stampo dei Colombo e dei
Rumor, di ridurre, sempre più, con l'aria di parlare in grande e di cose
impossibili l'area della repubblichetta italiana, suddivisa in regioni e
consorterie, al regime della parrocchia, del terrorismo liturgico e della
censura permanente. È, comunque, nella obiettività delle posizioni che risiede
la impossibilità attuale di concludere una cosiddetta unità europea.
Non si ripetono eventi storici come quello della malcostruita unità politica
italiana che fu risorgimento solo nell'afflato romantico dei poeti ed, in
realtà, solo una surrettizia estensione a tutto il territorio della penisola del
progetto mercantile di Cavour di offrire, al proprio re savoiardo, un modesto
regno dell'Italia settentrionale.
L'unità europea è possibile solo se accetta il concetto fascista che è lo Stato
che fa la nazione e per tale atto è necessario un amalgama spirituale che faccia
degli abitanti di un territorio un popolo unico, mosso da un'idea rivoluzionaria
che smuova dalle fondamenta la società fatiscente di tutti gli errori della
storia.
La rivoluzione sociale, lo stato di popolo, la condizionabilità necessaria di un
riscatto definitivo per la realizzazione di un uomo nuovo, questo sì che potrà
condurre all'Europa del futuro.
Clericalismo dei laici
Se fenomeno appariscente vi è nella
cosiddetta restaurazione democratica di questo dopoguerra, esso si configura con
i caratteri di un clericalismo dilagante che supera i confini della sua
accezione comune di pretesa teocratica dei cattolici militanti, per diffondersi
quale «forma mentis» di tutti i moti intellettuali protagonisti del sistema,
all'insegna della rabbia antifascista.
Ma è soprattutto nelle manifestazioni dell'arte, dalla letteratura narrativa al
cinema, dalla pittura al teatro, dalla televisione alla stessa musica, seria e
no, che si verifica Vatteggiamento ài ogni coscienza clericale, come fanatismo
ideologico, contenutismo didascalico, moralismo poetico.
Ed è questo il vero cemento della costruzione surrettizia di coabitazione dello
spiritualismo ipocrita dei bigotti e del materialismo volgare dei marxisti, che
delizia il sistema suffragistico delle promesse dilatorie e delle sobillazioni
statistiche in cui viviamo da più di venti anni.
Se, però, sembra naturale l'aspirazione dei guelfi a muovere dalle parrocchie
per la riconquista delle cittadelle, che portano ancora i segni del lungo
medioevo italiano ed europeo, per quanto antistorica sia la minaccia dei giudizi
di Dio e delle intrusioni inquisitorie nelle vicende degli uomini del ventesimo
secolo, equivoca e contraddittoria si presenta la sistematica d'azione dei laici
di matrice leninista, quando, a sostegno delle direttrici di marcia che
dovrebbero puntare sulla distruzione della società individualistica e borghese,
mutua gli strumenti della penetrazione psicologica di tradizione tomistica,
ossia del sistema empirico-nazionale che fu degli ordini religiosi regolari e
del grande esercito dei Gesuiti.
C'è una giustificazione, alquanto spregevole, della tattica usata dai
rivoluzionari nostrani, costretti ad agire con notevole profitto individuale in
seno ad una società che devono distruggere, ad è bicornuta, in una punta di
terrore per gli eventuali processi della direzione moscovita e nell'altra di
illusione di mostrar fradicio ciò che semplicemente appartiene ad altra epoca
della storia.
Comunque, i messeri dell'antifascismo che da ventitre anni non concludono nulla
al di fuori della registrazione pura e semplice dei fenomeni quantitativi di
derivazione tecnologica e strumentale, si sfogano nella casistica dei
significati ed hanno soffocato, se non eliminato, il dominio della fantasia.
Dopo la ridicola pretesa di attuare «ricerche» di ordine sociale e di coscienza
nazionale coi filmetti veristici di storielle casalinghe dell'ambiente
romanesco, toscano o d'altra qualsiasi regionalità dialettale, ecco che i più
istruiti di lettere sbagliate t'inventano il teatro, in cui non conta più
l'opera compiuta nei mezzi d'espressione dell'azione e della parola, ma dal
quale s'intende trarre la verifica di tesi balorde o rispettabili, nella
edificazione dello spettatore ricondotto alla condizione di plebe ondeggiante
nelle piazze delle sacre rappresentazioni.
Se un cattolico d'obbedienza, per la nuova alleanza tra ebrei e cristiani, ti
re-inventa un processo a Cristo con appendice sulla cosiddetta resistenza degli
italiani all'invasore, un acceso marxista ti adopera shakespeare come un
qualsiasi accendimoccoli da strapazzo per ricalcare dalle sue vicende teatrali
la lotta alla monarchia oppure il contrasto tra le generazioni anagrafiche dei
giovani e degli adulti.
Così si assume la rudimentalità di un cantastorie di provincia a soggetto di una
catarsi rivoluzionaria e le più elementari difficoltà della vita quotidiana,
senza alcuna elaborazione fantastica o con intendimenti da presepe natalizio,
diventano caposaldi d'intrattenimento televisivo.
Non mancano gli imbianchini ed i pupari dilettanti ai quali, purché
disciplinatamente scrivano a stampatello su una tela un bel «dead» od un
magnifico «kaput» si riconosce il titolo di pittore d'avanguardia in quanto,
piantando un chiodo di traverso in un modo usato mai da altri, iniziano un
discorso per cui essi «operano nel campo visivo» e «distruggono la pittura» per
fare della propaganda elettorale tra gli sprovveduti dei quartieri alti.
E così via dicendo.
Fingono costoro di non sapere che il contenutismo in arte, pur se ricorre
storicamente in alterne fasi del pensiero estetico, come ingrediente morale di
reazione al dominio creativo della pura forma, sia stato definitivamente
superato agli albori dello umanesimo e che una sua riassunzione poetica segni il
puro e semplice ritorno alla confessionalità, alla verità rivelata, alla norma
di coscienza eteronoma, all'intrusione dì caste sacerdotali, non importa se
cristiane o marxiste, nel rapporto di manifestazione pratica tra individuo e
società.
È significativo, in tal senso, che i marxisti di ogni colore mostrino
un'ostilità preconcetta agli svolgimenti dottrinari che sì rifanno al settecento
illuministico, con la scusa che esso ha i caratteri dell'individualismo. Ma,
anche qui, commettono l'errore di ignorare che il laicismo, come rifiuto di una
legge morale dettata da Dio sul monte Sinai e quindi come coscienza del limite
umano, e nato nel secolo dei Lumi, banditore di ogni ingerenza clericale nella
vita dei popoli e pertanto molto più moderno ed attuale di quanto pensano i
«clerici vagantes» della rivoluzione sbagliata.
La Rivoluzione continua
Ogni guerra reca l'impronta delle
condizioni politiche e sociali della epoca in cui si sviluppa. Non vi sono dubbi
perciò circa il carattere rivoluzionario dei conflitti futuri, tenuto conto
anche che il fenomeno guerra ha via via sempre più acquisito contenuti
squisitamente politici.
Per «rivoluzionario» però non va inteso soltanto il rovesciamento dei canoni
della strategia e della tattica tradizionali, ma soprattutto la preponderanza
dell'elemento ideologico-politico su ogni altro fattore. In sostanza, al
concetto di occupazione del territorio previo annientamento dell'esercito
nemico, viene sostituito il concetto di conquista ideologica della popolazione
avversaria mediante lo scardinamento ed il superamento dei postulati ideologici
agitati dal nemico.
Più che le armi, quindi, si impose l'ergersi ad unici portatori di una ideologia
le cui applicazioni politiche siano congruamente condivise ed attese dalle masse
umane avversarie.
Queste essendo le caratteristiche della guerra rivoluzionaria, ne consegue la
necessità di un nuovo tipo di condotta politica delle cose militari; condotta
solo appena accennata nella ultima guerra mondiale con la presenza sui campi di
battaglia delle SS e dei commissari politici, delle Brigate Nere e del nostro
Servizio Ausiliario Femminile.
È da notare, per altro, che persino lo S.M. ha teorizzato la necessità -nella
costituzione organica dei comandi in sede di guerriglia difensiva- di una non
ben definita «premessa» di elementi civili: medici, scienziati, funzionari dello
Stato, propagandisti, psicologi, insegnanti, esperti delle popolazioni e dei
luoghi.
Tale impostazione tecnocratica del problema non può tuttavia essere condivisa,
sia alla luce delle più recenti esperienze rivoluzionarie, sia in considerazione
del preciso contenuto della Dottrina. Va pertanto subito riaffermata, come
fattore essenziale di successo, la subordinazione della tecnica alla politica,
dei militari ai militanti rivoluzionari.
Pur con competenze ed intuizioni militari assai diverse e, talvolta geniali,
Trotski, Stalin, Mussolini, Hitler, Mao Tze Tung, Ben Bella, Castro, Tito,
Buomedienne non furono e non sono militari.
Militari di carriera però furono gli sconfitti della Corea, dell'Indocina e
dell'Algeria ai quali mancò la determinante collaborazione di militanti
politici.
È accertato, del resto, che nella acquisizione di discipline militari possono
rendere enormemente di più elementi politici, in pochi mesi di appassionata
applicazione, di quanto non apprendano, nel corso della intera carriera, taluni
ufficiali in s.p.e. di origine borghese e borghesi essi stessi nell'anima e nel
costume.
Ovviamente la vittoria non sanzionerà, come per il passato, soltanto un nuovo
assetto territoriale, bensì affermerà un nuovo ordine politico-sociale.
Nonostante le molteplici analogie con le guerre precedenti, la seconda guerra
mondiale, soprattutto nella fase finale, è già una vera e propria guerra
rivoluzionaria. Portatori di una rivoluzione da una parte, conservatori e falsi
rivoluzionari dall'altra.
Piazzale Loreto, Norimberga e Sugamo, costituendo episodi del temporaneo arresto
di una rivoluzione mediante la eliminazione fisica delle intere classi dirigenti
sconfitte, non possono essere considerati come epilogo di una guerra
tradizionale.
Episodi, quindi: la rivoluzione continua.
In ciò risiede il cardine fondamentale della «nostra» guerra rivoluzionaria che
vedrà ancora schierati, l'uno contro l'altro, i possessori dei maggiori beni del
globo (oro, carbone, acciaio, petrolio, energia atomica), sostenuti dalla falsa
rivoluzione comunista, figlia del capitale e capitalista essa stessa ed i popoli
della rivoluzione dello spirito votati alla conquista di un nuovo ordine umano,
religioso, politico, sociale ed economico.
Riaffermata la nostra disponibilità anche nella ripresa della lotta armata per
il trionfo della Causa, il problema che si pone è triplice:
a) realizzare la preponderanza ideologica sul nemico, mediante la costante messa
a punto di tesi politiche in armonia con i principi della Dottrina;
b) risvegliare il sentimento della rivincita europea contro un verdetto che ci
vide sconfitti solo militarmente;
e) preparare gli uomini e predisporre i mezzi necessari alla lotta.
Presupposto irrinunciabile della Dottrina -giova rammentarlo- è che si deve
forgiare il destino e non subirlo.
Visto il quadro delle guerre attuali è da ritenere che quelle future, nella loro
sempre più completa totalità, saranno vicende di una drammaticità inimmaginabile
e, pertanto, esigeranno dei combattenti dotati di sempre maggiore completezza
psicofisico-spirituale. In essi verranno impegnate tutte le molteplici
componenti della personalità.
Rivoluzionari integrali, i futuri combattenti saranno inclini sia verso le più
ardite applicazioni tecnologiche, che verso le più elevate armonie spirituali.
Il loro servizio, in pace e in guerra, avrà il carattere del più completo
volontarismo e della totale dedizione alla Causa.
Sono stati rivolti al nostro ambiente vari studi sulla guerra rivoluzionaria, ma
non è stata formulata una «risposta» adeguata alle nostre reali condizioni
psicologico-organizzative. Sono state proposte «risposte» che non possono essere
le «nostre» risposte. Queste infatti risultano condizionate ed avvilite da
fattori contingenti, nonché pesantemente limitate al puro e semplice esame di
aspetti tecnici e psicologici delle guerre di sovversione poste in atto da uno
dei due blocchi nelle sfere di influenza dell'altro e ne risulta una guerra
rivoluzionaria intesa come un tipo di «guerra», condotta da squallidi sovversivi
atti solo a «condizionare» e a «terrorizzare» psicologicamente l'avversario e,
quindi, incapaci di concepire e di condurre combattimenti con autentica fierezza
e generosità guerriere, con tutti i mezzi ed in qualsivoglia condizione, per il
trionfo di una causa nobile e giusta.
Un tipo di guerra per sovversivi di sinistra e di destra e non per i nuovi
combattenti rivoluzionari europei.
Persino M. Dayan, che evidentemente nutre una profonda avversione per la guerra
rivoluzionaria (ingeneroso sentimento proprio della sua razza per tutto ciò che
sa di abnegazione e di eroismo), cosi ha recentemente definito la guerriglia:
«È la guerra del deboli, ma non una guerra debole».
I combattenti rivoluzionari hanno però già appreso che con un rudimentale
barchino possono -in pochi minuti- annientare una nave lanciamissili, cosi come
-mediante l'impiego di poche squadre di arditi- è possibile paralizzare,
colpendone intelligentemente i servizi logistici, una divisione corazzata.
Dalla insulsa interpretazione di «guerra debole» e di «guerra minore» ha preso
consistenza il convincimento che la guerra rivoluzionaria sia un facile
argomento da salotto o da circolo ricreativo. V'è poi chi, più furbescamente,
l'ha considerata un espediente per strani giochi para-politici volti a
coinvolgere tutto il nostro ambiente nel contesto di un velleitarismo di destra
privo di consistenza e di prospettive.
Constata l'esistenza dei due blocchi attivamente cooperanti al mantenimento
dello «status» di Yalta, non rimangono che due vie: quella dell'autonomia
completa e quella della collaborazione con quello che sembra il meno nemico dei
due blocchi, ma che, in realtà, è il solo vero nemico, uno essendo il nostro
nemico russo-americano.
Non v'è dubbio, comunque, che l'accettazione di tali tesi da parte delle nostre
esigue forze equivarrebbe al sicuro suicidio.
In qualsiasi tipo di guerra si ha l'obbligo essenziale di conoscere
inequivocabilmente il nemico da combattere. Noi lo individuiamo tanto
nell'occidentalismo, quanto nel comunismo; tanto nelle forze della NATO, quanto
in quelle del Patto di Varsavia ed in tutti i rispettivi partigiani di destra e
di sinistra.
Nonostante il fatto positivo di aver ri-sensibilizzato molti tra noi ai problemi
di indole militare, tali iniziative hanno tuttavia suggerito atteggiamenti
controrivoluzionari e contribuito non poco al diffondersi di stati d'animo di
inconcepibile sudditanza verso uno dei blocchi.
Ciò soprattutto per aver proposto l'adesione alle dottrine dell'occidentalismo e
dell'anticomunismo (vecchio e nuovo). Dottrine poggiate -all'interno- sul
potenziamento delle FF.AA. e di altre istituzioni del sistema e -all'esterno-
sul rafforzamento politico-militare della NATO.
A nostro avviso, una fazione veramente rivoluzionaria, pena la squalifica, deve
saper scartare le tesi di collaborazione e di compromesso per disporsi
autonomamente ad uscire allo scoperto.
Altra sola alternativa: rinunciare ad ogni disegno di rivincita ed abbandonare
il campo.
Ciò stante, appare chiara la necessità e l'urgenza di riconsiderare tutto il
problema «guerra rivoluzionaria» e di porlo finalmente su basi «nostre», per
contare su quanti sono «nostri» e su altri che possono diventare «nostri»
(giovani soprattutto) i quali, al di sopra di avvilenti manovre politiche, siano
animati da sincera volontà di battersi.
Gli espedienti tattici potranno aver luogo nelle fasi successive e solo se
impostati su veri rapporti di forza e su lucide valutazioni politico-militari.
Il nostro ambiente deve riprendere coscienza di essere una minoranza che, pur
essendo in possesso di validissime ragioni storico-politiche, non è in grado di
farle valere. L'aver dimenticato questa realtà e l'aver disperso forze in
manovre poco ortodosse, ha prodotto lo slittamento su posizioni di agnosticismo
e di collaborazione, precludendo così ogni possibilità di proficuo dialogo con
la gioventù rivoluzionarla, che vuole combattere per un avvenire pulito e
liberamente scelto.
Altra verità che non deve essere taciuta è che siamo bloccati da troppo tempo
nella fase della radunata delle forze ancora divise da assurdi personalismi.
Basti pensare all'abulia di certi nostri ex-comandanti, al cannibalismo
elettorale di certi ambienti ed al fatto che ancora circolano tra noi individui
disposti a far credere che Salazar, Franco, De Gaulle, i mercenari e persino i
colonnelli greci manovrati dalla CIA, siano fascisti.
In questa fase, che difficilmente sarà superata senza altre dolorose
lacerazioni, è pazzesco solo pensare a manovre di sorta.
Radunare le forze quindi, ma non intorno a personaggi per altro discussi e
veramente assai discutibili (come si va tentando), bensì radunarle intorno a
programmi realistici scaturiti da idee chiare o da lucide volontà
rivoluzionarie.
S'è sempre detto che ogni cura ed energia vanno rivolte alla gioventù. Ma, se
non si vuole ricadere nel pernicioso missismo ed in altre forme di
dilettantismo, i giovani vanno avvicinati e preparati con estrema serietà, con
l'esempio costante e sincero e non senza indiscusse doti di carattere e capacità
rivoluzionarie, essendo insufficiente il solo proselitismo di una Dottrina ormai
poco conosciuta ed ancor meno vissuta con adeguata dignità.
Chi non crede più è fallito in partenza. Chi non crede più, bene farebbe a
togliersi di mezzo.
Futurismotomia
Uno dei tentativi più cospicui
dell'antifascismo viscerale è quello di negare che il regime abbia posseduto un
afflato culturale, dovendosi accettare l'ipotesi che Mussolini ed i suoi seguaci
abbiano costituito complessivamente una banda di filibustieri senza conoscenze
grammaticali.
In sede politica e sociale basta, però, indicare come "Legge Serpieri" la legge
Mussolini del 1933 sulla Bonifica integrale perché la mistificazione acida si
riversi sulla gioventù studiosa, mentre sul piano propriamente culturale non è
tanto facile convincere che Giovanni Gentile, Giotto Dainelli, Guglielmo
Marconi, Pietro Mascagni, Luigi Pirandello, Gioacchino Volpe, Gustavo Giovannoni,
Mario Sironi, Pietro Carena ed altri fossero degli analfabeti.
Il colmo del ridicolo però viene attinto dai mandarini della clerical-democrazia
nel campo dell'arte, dove, spesso, lo stesso mercato dei consumi ha reso
giustizia dell'ostracismo a cui erano stati condannati i capolavori del
novecento pittorico facendoli assurgere a quotazioni elevatissime, oppure la
critica storica ha assunto a caposaldi della spiritualità antifascista una "Casa
del Balilla" del 1930, solo perché l'architetto Terrani è morto in Russia e non
può protestare.
Caso tipico è, tuttavia, quello del futurismo italiano, che, dopo un tentativo
di oblio da parte dei bonzi psicanalitici, dei pianificatori psichiatrici, e
degli stregoni psicotici, perché intimamente connesso con l'attivismo
post-romantico del primo novecento, all'improvviso viene rivalutato e
sbandierato come uno dei caposaldi dell'avanguardia internazionale e si scrivono
testi autorevoli, si allestiscono mostre retrospettive e, perché no, anche
celebrazioni televisive.
La nota costante di tale restauro, di per sé pregevole negli effetti, anche se
tendenzioso nelle intenzioni, somiglia molto a quella degli affreschi, che si
separano dal muro col sistema del distacco e se, per esempio, nel suo contenuto
celebrativo esalta troppo le gesta di un signore del Rinascimento che fu
indomito e ribelle all'autorità pontificia, si scopre come la sinopia
sottostante rappresenta un angelo Gabriele molto interessante, cosicché
l'affresco passa in una sala buia del museo ed il trionfo della fede resta
immune da intrusioni umanistiche troppo accentuate.
L'operazione chirurgica a cui si vuole sottoporre il futurismo italiano, come
movimento rivoluzionario e di avanguardia di valore universale, da cui dipendono
tutte le manifestazioni valide dell'arte contemporanea, è quella di una vera e
propria resezione del fondamento spirituale che lo sostiene e delle sue
proiezioni politiche e sociali.
Il non farlo sarebbe altamente pericoloso, poichè si verrebbe a riscoprire per
gli sprovveduti e gli immaturi che il fascismo delle origini è artisticamente
rivoluzionario, e che i futuristi della prima e seconda generazione, ove non
siano morti in guerra, furono in gran parte fascisti convinti e militanti. A
partire dal suo capo, F. T. Marinetti, accademico d'Italia, la cui vita si
conclude in territorio della RSI con i funerali a spese dello Stato
Puntando sulle virtù camaleontiche degli intellettuali italiani e sulla
sprovvedutezza festaiola delle masse, il gioco riesce a più riprese, per figure
e personaggi di alto valore, come Petrolini, per il quale si assicura il trionfo
ma ci si meraviglia come «un uomo così intelligente abbia potuto essere
fascista» con Pirandello, del quale non si può negare la priorità, rispetto a T.
Wilder, nell'impianto di una tecnica teatrale metafisica, per cui si lascia
cadere nel silenzio lo squittio d'anatra spennata di Mario Soldati che protesta
perché l'autore de "I giganti della montagna" è spregevole in quanto non
fingeva, come gli altri, di essere fascista, ma lo era veramente.
Ma per Marinetti ciò non è possibile. Rimane, accanto alla poesia parolibera ed
all'azione di rottura di tutta la sua vita, la sua stessa produzione letteraria
ed il suo stato di servizio accanto a Mussolini.
Il suo fondamentale saggio, difatti, che conserviamo nelle nostre biblioteche,
ha per titolo "Fascismo e Futurismo" e le sue prime esperienze di piazza sono le
manette della polizia regia che lo conducono a S. Vittore, insieme con
Mussolini.
Il tentativo è ridicolo ed è destinato a ripristinare, per virtù irresistibile
di testimonianze e pensieri, la verità nei suoi termini.
Il Futurismo ha il suo valore di annunzio rivoluzionario nell'arte ed ha i suoi
limiti nelle manifestazioni individuali, il Fascismo ha l'essenza dell'annuncio
storico di un nuovo rapporto tra l'individuo e lo Stato ed ha i suoi limiti nel
compromesso con l'antica società e negli errori degli uomini. Ma, nel loro
contenuto spirituale di avanguardia italiana del secolo, emanano dal medesimo
atteggiamento e sono inscindibili. Illudersi di ottenere ciarlatanescamente
resezioni per ingannare i recettivi della propaganda e del consumo è da
filibustieri della cultura e da imbonitori di aste, la cui capacità di
mistificazione è labile e disordinata. Fa ridere i più piccini.
Contestatio italica
Nel termine contestazione si riassume e,
vanificata, si degrada, la rivolta contro il vigente sistema politico-morale.
Nel Vietnam ed in Cecoslovacchia ci si fa bruciare vivi; nel mondo occidentale
ed in particolare in Italia, tutto scorre nel migliore dei modi. Non solo, ma la
contestazione è una valvola di sfogo per una società opulenta che non trova in
se stessa la via della salvezza, prigioniera come è dei propri miti, (populismo,
rivendicazioni salariali, la povertà e la fame, la resistenza) miti fittizi,
alieni da qualsiasi aggancio con la realtà sostanziale dell'uomo. La
contestazione viene accettata dalla comunità nella quale si presenta, come il
peccato viene accettato nella Chiesa.
Tanto, prima o poi, si arriva al confessionale, o al suo parallelo protestante:
il lettino dello psicanalista.
In Italia poi, il tutto prende i toni melodrammatici congeniali al nostro modo
di vivere le cose politiche, con ampi resoconti sulle riviste da salotto. Gli è
che noi, non siamo di una pasta eccessivamente solida.
È stata fatta, in Germania, una inchiesta fra i giovani su cosa pensassero dei
vari popoli della Terra. Noi Italiani siamo giudicati pigri, senza puntualità,
incapaci di applicazione: un popolo di venditori di gelati, commercianti di
spaghetti, e cantanti. È la verità e non bisogna arrossirne, e probabilmente lo
siamo tanto più quanto più di fronte a questi giudizi degli altri sbuffiamo e ci
diamo a paroloni d'effetto.
In sostanza, la reazione delle forze, radicali comunisti compresi, ai primi
accenni di contestazione, facendosi portavoce delle richieste più contingenti e
pressanti e concedendo il proprio appoggio alla battaglia rivoluzionaria è
riuscita a vanificare le possibilità creatrici di un movimento di giovani che
dalle forze intatte della gioventù avrebbe potuto trarre una ragione reale di
vita e di lotta.
In più, l'azione degli anarchici ebrei, tipo Coen Bendit, che la stampa mondiale
ha presentato come capi del movimento studentesco ha ulteriormente portato su
una strada vuota la rivolta.
Ma se ciò si è verificato la verità vera è che il radicalesimo ha trovato il
terreno adatto per questa operazione, e che gli altri partiti politici impegnati
nella operazione hanno trovato una sia pur piccola base disposta a seguirli
sulle loro solite tematiche. Come è stata percepita questa contestazione dalla
più parte degli Italiani? «Più pane, salario da poter permettere anche agli
operai di gustare gli stessi divertimenti dei borghesi, pace, meno studio, meno
applicazione e meno esami», come se la vita potesse essere un sarcofago nel
quale far macerare tranquillamente l'ammasso di carne che ci contraddistingue,
alla vista, dagli altri. Ciò deriva in primo luogo che noi non abbiamo superato
affatto la fase del consumatismo, anzi, ci stiamo comodi dentro e non ne
sentiamo ancora nella carne il folle peso, come in Vietnam ed in Cecoslovacchia
sentono il tallone straniero.
Ma poi bisogna scavare più sotto, arrivare al carattere che è in sostanza ciò
che muove qualsiasi uomo. E il carattere dell'italiano medio è ben descritto
dalla opinione dei giovani tedeschi.
A questo punto si pone per noi tutti il dovere di un sereno meditato profondo
esame di coscienza. Non collettivo, ma individuale.
Occorre infatti che ciascuno di noi si chieda in realtà fino a che punto il suo
fascismo è espressione di una esigenza sentita oppure è soltanto revanchismo o,
peggio ancora, nostalgismo. Perché la misura della nostra possibilità, più che
nelle idee, siamo noi stessi e la nostra voglia di realizzarle o no.
Oggi veramente noi possiamo perdere definitivamente Mussolini per non ritrovarlo
più.
Noi dobbiamo poter verificare fino a che punto il nostro nazionalismo nasconda a
noi stessi che noi difficilmente potremo realizzare con l'italiano medio il tipo
d'uomo che noi aspiriamo; d'altro canto dobbiamo veramente renderci conto quanto
una concezione aristocratica e tradizionale dei rapporti sociali rappresenti di
fuga dalla realtà.
Noi abbiamo finora perduto il nostro tempo nello sforzo di far combaciare la
realtà esteriore con ciò che noi vorremmo essere. Il nostro successo invece è
solo legato ad una spietata e precisa analisi della realtà che ci circonda ed a
una decisa e vera volontà di servircene.
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