I tre piani della giustizia
Una volta colto il metro di valore della
spiritualità dell'uomo, che si realizza pienamente nello Stato, non per esserne
limitato da libero, ma per esserne liberato dalla sua limitatezza individuale,
la cui registrazione è momento mistico della religiosità, condizionalità e
trascendenza, occorre seguirne l'inserimento necessario nel processo della
storia e cioè individuare la costituzione statuale della società.
L'errore dell'individualismo liberale è di vagheggiare una libertà come stato di
natura dell'intuizione giangiacchiana, che si configura, nella sua
manifestazione, come egoismo, negatore della società, ridotta ad amministratore
e contabile, e deriva dall'assunzione surrettizia della spontaneità animale a
matrice dello spirito.
L'errore del collettivismo è di vagheggiare una giustizia rivendicativa inserita
nel mito di uno svolgimento dialettico della realtà storica, che appartiene,
invece, solo al processo e quindi al puro campo delle idee.
L'intuizione possente dello Stato, che individua storicamente la trascendenza
del reale e, pertanto, condiziona l'individuo per realizzarlo nella sua finale
liberazione, conduce invece alla identificazione dell'autentica giustizia con
l'autentica libertà.
Seguire il processo di inserimento dell'individuo nella società significa,
quindi, individuare almeno tre piani di giustizia, che sono i gradini
dell'ascesa alla finale libertà.
Un primo piano di giustizia, che garantisce all'uomo la possibilità di uscire
dalla sua solitudine numerica ed anagrafica, per dar luogo alla prima
manifestazione della sua personalità, è quello di fornirgli tutti gli elementi
di ordine materiale e, cioè, economico, indispensabili a tale manifestazione.
Tale piano primitivo di giustizia rappresenta, spesso, per le ideologie di tipo
marxista, il fine ultimo della rivoluzione, mentre, nella nostra enunciazione,
ne rappresenta solo la base materiale. Materiale, a tal punto, che la sua
attuazione, come appare nelle più recenti esperienze storiche del sistema, può
concepirsi al di fuori o contro ogni esigenza di libertà.
È la presenza di un secondo piano di giustizia, nell'ulteriore inserimento
dell'individuo nella società, a denunciare la presenza di un valore umano e la
successiva spinta verso la conquista di quella libertà.
Tale secondo piano di giustizia permette all'uomo di assurgere ad una posizione
di iniziativa e di scelta, che presuppone le capacità spirituali d'inventiva e
di organizzazione.
È il terzo piano di giustizia dello Stato, però, che accentua il significato di
valore, nella struttura morale e giuridica della società, garantendo la
conquista dei fini supremi dello spirito, i quali contengono la libertà finale
dell'uomo.
Qui si intravede abbastanza chiaramente il metro di valore della
trascendentalità, come impossibilità di commutazione in termini di economia
delle attività supreme dello spirito, che, da sole e nella loro autonoma
qualificazione, acquistano il diritto alla piena disponibilità dei mezzi
strumentali, per attuarsi ed ottenere il loro pieno riconoscimento.
La gerarchia dei valori determina, a questo punto, l'autentica società degli
uomini.
Appare necessario l'ulteriore passo della istituzionalità, che liberi il
processo dell'integrazione sociale, dai piani inferiori dell'economia a quelli
supremi della moralità.
La convergenza finale
Qualche tempo fa, il fisico sovietico
Pyotr Kapitsa ha fatto un bel giro culturale in America, ove ha voluto dire la
sua come rappresentante dell'intellighentia marxista, esponendo i caposaldi
della dottrina del suo maggior compagno, Andrei Sakkarov, detta della
«convergenza finale».
In termini molto spiccioli, per non sfociare nello scontro atomico che risolva
in apocalisse il tentativo supremo di sopraffare l'avversario di uno dei due
poli dell'antitesi dialettica individualismo-collettivismo, il profeta Sakkarov
prevede una semplicistica sintesi degli opposti, onde l'America capitalista
accetterà le istanze sociali soddisfatte dalle realizzazioni sovietiche, mentre
la Russia scioglierà i nodi della vita collettiva, fino ad accettare certe
esigenze di espressione individuale, e l'umanità sarà salva.
La semplicioneria apparente della posizione nasconde, in realtà, un fiuto
storico non indifferente, in quanto il mugiko intellettuale sente che nessuno
dei due materialismi armati potrà dare assetto definitivo all'umanità.
Semplicemente, egli ignora che il mito delle sintesi dialettiche è tramontato,
proprio da quando il suo profeta Carlo Marx ha «capovolto» la dialettica
hegeliana, che, secondo lui, procedeva a testa in giù.
Il materialismo storico dei collettivisti e quello metafisico degli
individualisti positivi e pragmatici, che si riempiono la bocca della parola
«libertà», per riempire di piombo tutti coloro che non obbediscono alla legge di
Wall Street e di Forte Knox, non può avere svolgimento dialettico, possibile
solo con le idee e con la realtà ridotta imprudentemente a idea.
Esso è la matrice comune ai due poli dell'antitesi e solo il suo annullamento
risolverà il pericolo di distruzione atomica della civiltà umana, smarrita tra
le secche della relatività quantitativa.
Che accadrà?
Noi lo vediamo chiaro, quando accomuniamo i due sistemi della truculenza
materiale nella stessa assenza di valore umano, cioè spirituale.
Ci vuole un ulteriore «raddrizzamento» della visione del mondo, della realtà,
dell'uomo.
Occorre negare, definitivamente, che la dialettica, dal campo delle idee,
secondo la follia romantica hegeliana, possa trasferirsi alla realtà
trascendente ed alla storia, occorre tornare ad una visione classica del mondo e
dell'uomo, in cui il limite invarcabile della vita spirituale e corporea
costringa l'uomo a realizzarsi ed affermare la sua presenza nella storia, con
l'inserimento necessario nella molteplicità sociale.
Giustizia e libertà non saranno, allora, poli di un'antitesi dialettica, la cui
sintesi è irrealizzabile, ma i due modi d'essere dell'uomo finito, che conquista
la liberazione, nello stesso atto del comporsi in armonia di giustizia con tutti
gli altri.
La convergenza finale dei due mostri non è possibile, perché non è necessaria,
ma il flusso della storia convergerà sulla classica realizzazione dello Stato di
popolo, intravisto da pochi che lo hanno enucleato dal dramma del nostro secolo,
dal crogiuolo rovente delle crudeltà disumane in cui ci calano, giorno per
giorno, i feticci dell'individuo assoluto e della società senza Stato.
La meta finale è lo Stato fascista, come proiezione dell'avvenire, da non
confondere con alcunché di già visto o di già fatto.
La Socializzazione delle Imprese
Coloro che dello Stato fascista hanno
un'intuizione di tipo rivoluzionario, ma non attingono tale ispirazione a fonti
filosofiche e dottrinarie ben chiare, usano identificarlo empiricamente con la
rottura sociale codificata da Mussolini, durante la Repubblica, con il Decreto
12-2-1944, n. 375, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 151 del 30-6-1944, che
prende il nome di "Socializzazione delle Imprese".
In realtà, la socializzazione fascista, disposta nel bruciante periodo della
guerra civile, per ammissione esplicita degli stessi nemici del Fascismo,
specialmente di parte liberale e confindustriale, presenta caratteristiche
particolarissime, che la distinguono da tutte le altre realizzate e progettate,
prima d'allora, poiché dispone originalmente la socializzazione della gestione e
non della proprietà.
Si obietta che il trasferimento della proprietà non avviene anche nelle forme
cooperativistiche e sindacaliste, ma è anche vero che, nella cooperativa e
nell'azienda sindacalizzata, sono proprietarie dei mezzi di produzione le stesse
classi lavoratrici.
I critici individualisti e certi fascisti fasulli, che considerano il fascismo
un movimento reazionario di destra, tanto da militare nelle file del MSI, che
del regime mussoliniano e non del Fascismo, mai realizzato, raccoglie le
immondizie, affermano che un tale schema di socializzazione è «ibrida», in
quanto inserirebbe un nuovo tipo di gestione, in una struttura fondamentalmente
capitalistica, ma ciò avviene semplicemente perché non hanno afferrato il senso
di un provvedimento contingente, nel crogiuolo rovente della guerra ormai
perduta, che ha significato solo se si portano alle conseguenze estreme i
princìpi rivoluzionari dello Stato di popolo, prima sul piano morale e politico
e poi su quello economico, di produzione della ricchezza.
Vale la pena, comunque, prima di mettere in termini di chiarezza il caposaldo
rivoluzionario della socializzazione, di esporre le direttrici del provvedimento
attuato nell'ambito della Repubblica Sociale Italiana.
Anzitutto, il Decreto della socializzazione stabiliva:
1) di socializzare tutte le imprese che possedevano più di un milione di
capitale (1944) od impiegavano più di 100 operai;
2) di statizzare tutte le imprese fornitrici di materie prime o servizi di
interesse generale.
La socializzazione, nel settore privato, si attuava a mezzo dei seguenti
istituti:
1) la figura del Capo dell'Impresa, più pubblica che privata, con poteri di
gestione molto vasti;
2) la partecipazione agli organi di gestione dei rappresentanti del Lavoro, in
misura pari al capitale;
3) la compartecipazione agli utili dei lavoratori;
4) il Consiglio di gestione.
Tale organizzazione della produzione economica s'ispirava ai princìpi
fondamentali seguenti:
1) prevalenza assoluta e costante degli interessi collettivi sul semplice
tornaconto privato;
2) responsabilità dell'Imprenditore di fronte allo Stato della produzione
economica;
3) carattere sociale dell'Impresa, anche familiare, attraverso il Consiglio di
gestione;
4) subordinazione dell'attività imprenditoriale economica alle finalità morali,
sociali ed economiche dello Stato.
La socializzazione così strutturata non ha avuto la sua completa realizzazione
ed ha mantenuto il carattere di «mina sociale», nel precipitare degli eventi che
si concludono con la sconfitta militare del Fascismo e con la restaurazione
clericale dei diritti capitalistici, solo minacciati da un'ipotetica
instaurazione di un collettivismo di tipo marxista, che comporterebbe
l'abbandono strategico dell'Europa, in mani russe, da parte degli Stati Uniti
d'America.
Ma ciò che è stato solamente annunciato ed imperfettamente realizzato, durante
il ventennio, ha significato attuale e non meramente storico, che s'inquadra
nella visione complessiva dello Stato fascista, quale si trae dalle premesse di
trascendenza del reale e di essenza religiosa del limite umano, illustrato nei
numeri precedenti.
In un mondo di valori, quale noi auspichiamo, la strumentalità non solo non deve
costituirsi fine a se stessa e non deve sovrastare, come avviene nella società
materialistica di oggi, il fine supremo della vita, ma la stessa attività
economica tesa alla produzione della ricchezza indispensabile al riscatto
dell'uomo da quella servitù, deve riflettere l'integrazione delle singole
partecipazioni, che è necessaria alla socialità.
Per cui, fermo restando il concetto che la spontanea iniziativa dell'individuo e
la sua libera scelta nel campo dell'economia rappresentino un fondamento di
giustizia più elevato della semplice soddisfazione dei bisogni della vita
materiale, tale iniziativa deve essere configurata nel suo sviluppo dinamico e
seguita nel suo processo produttivo di organizzazione per inquadrarne il valore
e definirne i limiti sociali.
L'iniziativa individuale è senza dubbio la molla potente della produzione
economica e della creazione aziendale ma, come tutte le forme di processo umano,
si espande e si esaurisce nello spazio e nel tempo.
Cosa succede, allorché l'iniziativa individuale conquista la meta segnata,
attinge il culmine della sua potenza e si esaurisce nel fine raggiunto?
Nel processo economico della «libertà naturale» in tutto simile alla spontaneità
animale, la meta raggiunta è il diritto sacro ed inviolabile dell'illimitata
disponibilità dei beni strumentali acquisiti e quindi dell'infinita possibilità
di costituirsi il privilegio della moltiplicazione e dell'accumulazione del
capitale.
Da qui l'iniquità del rapporto tra il capitale, di potenza materiale infinita,
ed il lavoro, succube dell'arbitrio altrui e quindi impotente ad alimentare la
libertà.
È a questo punto che l'integrazione sociale, posta come il lievito
indispensabile all'attuazione dei valori umani, interviene a risolvere il grande
problema della coesistenza della libertà e della giustizia, nella comunità
organizzata.
Allorché l'iniziativa individuale, liberamente manifestatasi nella creazione
dell'azienda economica, si è esaurita e tende a cristallizzarsi nel privilegio,
deve costituirsi necessariamente e cioè in virtù della legge l'integrazione
delle responsabilità, non solo economiche, ma, anzitutto, morali e pertanto
anche politiche, nella gestione dell'azienda, nella sua direzione ed
organizzazione ed, ovviamente, nell'equa distribuzione della ricchezza tra gli
elementi della produzione.
Colui che ha il merito di aver fondato e potenziato l'azienda produttiva, dando
luogo alla manifestazione di un valore umano e con ciò non meramente e
semplicemente materiale, attraverso gli elementi della sua stessa
organizzazione, entra in un rapporto con gli altri e cioè «sociale» di
inevitabile integrazione qualitativa e quantitativa.
E la sua organizzazione, in virtù di tale passaggio, si articolerà socialmente
nella compartecipazione di tutte le funzioni gerarchicamente distribuite, alla
gestione della azienda.
La proprietà legittima del capitale privato conseguito, si dilaterà nella
distribuzione susseguente degli utili e dei profitti a tutta la partecipazione
del lavoro e la giustificazione finale della libertà d'iniziativa privata sarà
espressa dal valore della realizzazione sociale.
Tale forma di «socializzazione», non riducendosi ai termini materiali della
detenzione dei mezzi di produzione, investe la spiritualità del valore umano e
supera definitivamente il socialismo, in quanto risolve l'esigenza fondamentale
di esso, non solo senza abbrutire l'uomo ed avvilirlo nella meccanizzazione dei
rapporti sociali, ma procedendo decisamente oltre.
I governi Rumor
Tira e molla, i discorsi strani che il
presidente del Consiglio monocolore faceva, nella vacanza tra un centrosinistra
e l'altro, e che avevano condotto alcuni ingenui italiani a temere che l'autunno
caldo di Donat-Cattin potesse essere seguito dalla primavera incandescente di De
Martino, si sono ricomposti, dopo l'evento formidabile della canzone sindacale
di Celentano, nella solita nenia programmatica da predicatore di provincia.
Sia che si tratti della minoranza di privilegiati che operano nel Sud o della
popolazione domestica che viene privata della introduzione televisiva al
"Gabbiano" di Cecov o degli industriali del Nord, reinteneriti dalla tolleranza
con cui è stata accolta la rispolveratura della «serrata», il sorriso polposo
del capo indispensabile del governo italiano parte col disco e, nell'ordinata
forma delle sue vocali aperte, intona il ritornello che conclude con un po'
di... Rumor.
A meno che non si creda che i melliflui capi della confraternita al potere si
siano rimbambiti, a furia di stare seduti sulle stesse poltrone, il
comportamento del partito di maggioranza, che attende i socialisti divisi, per
neutralizzarli meglio e poi li accoglie in apparente irriducibilità di posizioni
marxiste, deve avere un sottofondo di furberia clericale, che mal nasconde gli
effetti della visita post-elettorale di Nixon.
Certo che l'esperimento ideato per l'ingenuità italiana dal Dipartimento di
Stato, ai tempi di John Kennedy, non ha più alcuna possibilità di concrete
realizzazioni, se il PSI le vuole attuare con la collaborazione dei comunisti ed
il PSU cerca di bloccarle, con la fiera determinazione che contraddistingue i
«piselli», da Palazzo Barberini in poi.
È che si sa di non potere forzare la situazione oltre un certo limite, anche se
la piazza preme (od è premuta), dopo che i sindacalisti di tutti i colori hanno
scoperto la molteplicità del sindacato, per far politica, poiché la conclusione,
a difesa dei «diritti del lavoro», sarebbe di tipo ellenico, con colonnelli meno
serii e provveduti di quelli di Atene, se dobbiamo stare ad alcune amare
esperienze di casa nostra.
Ciò suona scandalo a certe orecchie, ma non si vede come la Russia possa e debba
difendere l'area marxista, anche senza il permesso di Amendola, con i carri
armati, e l'America, che sorride anche quando spara sui negri di casa propria o
sistema i «civili» del Vietnam, non possa e debba, cercando di salvare la faccia
democratica con quella di bronzo di certi «giornalisti», ordinare che nessuno si
muova e faccia il fesso. Il cancelliere Brandt è socialista, apre ad Est, ma è
alleato, guarda un po', dei liberali e va a chiedere, anche lui, a Nixon fin
dove possa arrivare.
In Italia, si potranno perdonare incendi e saccheggi con pretesto sportivo, come
a Caserta, ma non ci saranno movimenti di piazza (il partigiano Longo lo sa) che
tentino di forzare la mano al sistema.
E poiché sarebbe truculento ammettere che siamo al sicuro, che Ferri non può
farsi vedere a braccetto con Malagodi e che il piagnucolio precordiale di
Almirante è provocato con la cipolla, ecco i ministeri del piagnisteo lento,
mieloso e parrocchiale, tra una tazza di te e l'altra, del presidente Mariano.
Contro la NATO
Nell'ultimo numero, con il saggio "NATO e
colonialismo USA" è stato condotto da questa rivista un esame dei canoni
fondamentali sui quali si basa la politica di prevaricazione che gli Stati Uniti
d'America conducono nei confronti dei Paesi dell'Alleanza e vi si è visto
-attraverso una analisi approfondita- come la NATO non sia che il mezzo concreto
per operare la spartizione del mondo, fine della politica dei blocchi, così come
il Patto di Varsavia. Molle antagoniste in un sistema in cui i protagonisti
hanno bisogno di strutture falsamente volte l'una contro l'altra, erette invece
a mantenere le rispettive posizioni di predominio.
Tale sistema si è retto e si regge sistematicamente sul ricatto politico ed
infatti la capacità di evocare i fantasmi del pericolo comunista da una parte e
del revanscismo tedesco dall'altra, lo ha collaudato ogni volta che è stato
necessario ed è stata sufficiente per ricucire le solidarietà all'interno di
ciascuno dei due blocchi, e così a mantenere lo stato di fatto, che dura da un
quarto di secolo.
Noi siamo convinti che non durerà in eterno; meglio ancora affermiamo la
validità di un processo storico, del quale ci poniamo come anticipatori, che
porterà fatalmente allo scardinamento della politica dei blocchi. Lo stato di
crisi dei valori anche semplicemente naturali ed umani, che investe i sistemi
che a quella politica concorrono, lo conferma.
Per quanto riguarda noi europei, la crisi non investe soltanto le strutture e le
istituzioni (sia quelle nazionali sia quelle sovranazionali, queste nate morte
nei miseri limiti che segnarono l'asfissia politica di vecchie esperienze),
strutture ed istituzioni che possono aver trovato un puntello nello spirito di
sopravvivenza al quale la borghesia grande, media e piccola si aggrappa
attraverso il riformismo sul quale convergono le ideologie imperanti (è l'ora
della socialdemocrazia e del modernismo cattolico). La crisi ha investito da
molto tempo ormai l'essenza stessa dell'uomo.
I rimedi che sono stati proposti sono stati pagati col sangue ed hanno rinviato
il tempo della risoluzione, ma hanno aggravato la crisi.
Gli interessi precostituiti che hanno fatto argine si sono cristallizzati. Il
giorno che cederanno sotto la urgenza delle nuove speranze formeranno solo un
cumulo di scorie che darà le dimensioni della dilatazione e dell'asprezza della
lotta, della quale oggi non rappresentano la fine ma solo il contenimento.
Coloro che propongono la opposizione alla NATO nei termini della valutazione
della propria scelta economicistica, se possono quindi trovarci momentanei
compagni di viaggio, non ci trovano consenzienti.
Un qualunque diverso indirizzo della politica USA, conseguente ad una qualunque
manovra su mercati di altra dislocazione (Cina, India, Africa) anche politica,
potrebbe determinare un diverso orientamento nella politica economica
statunitense verso l'Europa. Al tavolo di negoziato dei Governatori delle Banche
centrali il rappresentante americano finirà di fare il prepotente, verrà
aumentato lo spazio produttivo con l'apertura verso settori che finora sono
rimasti tabù.
E questo dovrebbe giustificare la inversione della scelta e la accettazione
della NATO?
Il vassallaggio economico, militare e politico dell'Europa 1970 è legato da un
preciso rapporto di causa ed effetto ad una dottrina politica ormai fin troppo
chiara; parliamo della dottrina occidentalista, della quale ci professiamo
oppositori irriducibili.
Per chi ha negato Versailles, è insorto contro Ginevra, ha seminato il proprio
sangue per tutte le latitudini europee, la scelta non presenta motivi di
perplessità ed assume contenuti di fondo.
Se abbiamo avversato l'Europa di Saint Gérmain e del Trianon, quella di
Bruxelles e di Strasburgo non può certo raccogliere la nostra fiducia né ci
ispira simpatie. Per l'Europa dei formaggi e del suffragio universale non
possiamo essere che elemento di disordine, volto ad accelerarne il
dissolvimento, non a puntellarne la sopravvivenza.
Questo sia ben chiaro ai molti tromboni ed alle tante voci bianche che blaterano
di europeismo soltanto per nascondere lo stato di servizio della propria servitù
politica. E per fare un esempio riferiamoci pure a tutti coloro che inneggiano
ed applaudono alla ventilata cosiddetta Conferenza Paneuropea per la sicurezza
indetta da Russi e Americani, alla quale gli Europei evidentemente dovranno
partecipare per dichiararsi molto sicuri con il Patto di Varsavia e con la NATO.
Questo sia ben chiaro sopratutto ai molti carneadi in fregola di farsi illustri
che si riempiono la bocca dei luoghi comuni più vieti per nascondere la propria
sudditanza ai primi -tromboni e voci bianche-, sudditanza che non è occasionale
ma permanente ed effettiva, e cioè ottusa, preconcetta, monotona e sopratutto
abbietta.
Contro tutti costoro affermiamo che politicamente l'Europa potrà cessare di
essere solo una espressione geografica, solo una somma algebrica di elementi di
reddito, nel momento in cui sarà capace di coagularsi intorno ad una Idea che la
porti a riaffermare se stessa attraverso la negazione di tutto ciò che Europa
non è, con la coscienza che negare significa respingere, sovvertire, distruggere
ciò che Europa non è.
Questa Europa è ancora lontana -prima che nei fatti- negli spiriti e nelle
volontà. Ma questa è l'Europa che avverrà.
Noi crediamo che l'uomo, tornato a riscoprire se stesso nella dimensione eterna,
riuscirà (e crediamo anche che la culla, il crogiolo, il terreno di lotta,
chiamatelo come volete, sarà l'Europa) a spazzar via i miti della sua decadenza,
i vecchi idoli del razionalismo e del democraticismo, in altre parole i
contenuti dell'occidentalismo, la Santa Alleanza del mondo democratico o
cosiddetto libero.
È questo il punto nodale. Ponendosi come giustificazione delle restaurazioni
politiche riapparse in Europa al seguito degli «Alleati», l'occidentalismo si è
anche assunto il compito di fornire alla conservazione il connettivo ideologico.
Il pacifismo, il livellamento verso il basso, la vellicazione egualitaria, il
benessere come fine ultimo dell'attività umana, la negazione dei valori eroici e
metafisici; quindi l'esaltazione dell'edonismo, la esasperazione pansessuale,
l'introduzione dell'individualismo più gretto quale norma di vita a tutti i
livelli. Ecco le scelte dalle quali oggi l'occidentalismo ha derivato i canoni
della propria subordinazione politica al vincitore, cui Yalta lo ha assegnato.
Noi siamo sulla opposta sponda.
Prendere coscienza -questo è il primo passo- del fatto che l'inamericanamento,
in venticinque anni di predominio, cloroformizzando le coscienze, con una
sapiente regia propagandistica, ha, tra l'altro, portato l'occidentalismo -da
noi già respinto all'epoca della sua derivazione dalle massonerie e dalle
plutocrazie ispiratrici delle cosiddette grandi democrazie, con buona pace di
coloro che ancora gridano allo scandalo perché gli «europei» si sono scannati
fra loro ad esclusivo beneficio di tutti gli antieuropei come se plutocrazia e
massonerie avessero avuto da spartire qualcosa con l'Europa o dovessero averne
da spartire in futuro, e non fossero state tutt'uno con tutti gli antieuropei-
alla negazione dell'autonomia militare degli Stati europei.
Che da codesta negazione derivi quella della autonomia politica, non ci
interessa qui di dimostrare. Ma ci preme mettere in evidenza come da quella
negazione, che, come abbiamo visto, è conseguenza di una precisa scelta
ideologica e politica, sorga il ricatto finale della giustificazione della NATO.
Lasciamo parlare i documenti. Dal 20 al 24 ottobre 1969 a Washington
l'Associazione del Trattato Atlantico ha svolto la sua XV Assemblea per la
solenne commemorazione del XX Anniversario della firma del Trattato
dell'Atlantico del Nord. La risoluzione approvata -dopo le solite serenate alla
pace- al paragrafo "Difesa e sicurezza" è incentrata sui seguenti passaggi:
L'Assemblea riconosce il fatto che la minaccia militare nei confronti
dell'Alleanza atlantica si è non solo intensificata, ma anche estesa al campo
politico, economico e psicologico e ha raggiunto una portata mondiale. In
particolare, il rafforzamento delle forze navali sovietiche, non solo nel
Baltico e nel Mediterraneo, ma anche nell'Atlantico, nell'Oceano Indiano e nel
Pacifico costituisce una minaccia seria per i fianchi settentrionale e
meridionale dell'Alleanza e per gli interessi dei suoi membri nel mondo intero
(...) Di conseguenza l'Assemblea appoggia energicamente le direttive strategiche
già precedentemente approvate dai governi dei paesi membri (...) Ciò comporta
l'obbligo di fornire e mantenere i livelli delle forze approvate, sia
qualitativamente che quantitativamente, organizzare le riserve necessarie. La
presenza nord-americana in Europa, al livello attuale dei suoi effettivi, è più
importante che mai. Gli alleati dovrebbero collaborare allo scopo di stabilire
le disposizioni finanziarie appropriate per facilitare la realizzazione di
questo obiettivo.
E questo è l'intero paragrafo Opinione pubblica:
L'Assemblea ricorda che le scelte politiche dei paesi dell'Occidente dipendono
dall'approvazione dei cittadini e che è impossibile continuare a lungo un grande
progetto politico senza assicurarsi l'appoggio costante di questa opinione
pubblica. L'Assemblea sottolinea la necessità, da parte dell'Associazione del
Trattato Atlantico e delle associazioni nazionali di sviluppare presso
l'opinione pubblica del mondo atlantico un metodico lavoro di spiegazione e di
commento sulla necessità dell'Alleanza atlantica per il presente e per il
futuro. Essa invita ad uno sforzo particolare di informazione, riflessione e
dialogo con le giovani generazioni, che dovranno svolgere un ruolo sempre più
importante nello sviluppo dell'Alleanza verso una vera Comunità atlantica.
— il grande progetto politico, così:
Il mantenimento della pace e lo sforzo di conciliazione in Europa e nella zona
dell'Atlantico del Nord sono sempre stati gli obiettivi comuni della nostra
Alleanza, obiettivi che sono altrettanti essenziali ai suoi membri europei e
americani.
— le ragioni dell'alleanza, così:
Il punto essenziale è che gli Stati Uniti e il Canada hanno un interesse diretto
al mantenimento della pace e allo sforzo di conciliazione in Europa, nella
stessa misura e allo stesso modo dei paesi europei. Questo comune interesse ha
spinto gli Stati Uniti e il Canada a partecipare a due guerre mondiali in
Europa, e di conseguenza Stati Uniti e Canada hanno il diritto di partecipare in
quanto partners con piena uguaglianza di diritti alla soluzione dei problemi
della seconda guerra mondiale ancora insoluti. Non solo hanno il diritto di fare
ciò, ma essi non potrebbero, senza pregiudicare notevolmente i loro vitali
interessi economici e politici, permettere una nuova espansione dell'egemonia
politica ed economica sovietica in Europa. Oltre a una effettiva occupazione
militare, tale espansione sarebbe inevitabile se il peso dell'Unione sovietica
in Europa non fosse più equilibrato dal potenziale degli Stati Uniti e dal
Canada, che ora sostiene i paesi dell'Europa occidentale Ciò è vero oggi come
vent'anni fa.
— cosa si deve intendere correttamente per approvazione dei cittadini, così:
Questa è la politica approvata a Washington in aprile e registrata nel paragrafo
5 del comunicato di quella riunione ministeriale.
Il tutto quale premessa del ricatto verso la debolezza degli europei, ricatto
che è stato introdotto in questi termini, sotto la specie di un realismo sui
generis:
D'altra parte, i governi alleati sono pienamente consapevoli che qualsiasi
sforzo compiuto a favore dei negoziati non avrebbe la minima possibilità di
successo se si abbandonasse la base indispensabile di una forza sufficiente. Non
desiderano partire da una posizione di forza che miri a imporre una soluzione
alla parte avversa. Desiderano semplicemente evitare di partire da una posizione
di debolezza, che renderebbe inutile, se non disastroso, ogni negoziato.
Tutti gli occidentalisti si sono dichiarati soddisfatti e non poteva essere
diversamente, essendo state esattamente conclamate le principali sacre
aspirazioni del mondo libero, sopratutto la vecchia trappola del pacifismo ed il
machiavello nuovo della distensione. Non si è parlato di libertà, e questo è un
segno del mutare dei tempi. Considerato l'appello ai giovani, non sarebbe stato
conveniente o, forse, se ne sarebbe dispiaciuto il destinatario del disegno
distensivo. Meglio il velo ipocrita dell'indifferenza e questo è il segno della
immutabilità della sostanza con cui sono costruiti i cialtroni di tutti i
luoghi. Ma non importa, considerata la libertà che avrebbero potuto mettersi in
bocca.
Noi avversiamo la NATO per una scelta ideologica e politica opposta a quella che
hanno fatto gli occidentalisti. Quindi seguitiamo a respingere i ricatti e la
subordinazione, anche se l'Europa è oggi un gregge di 400 milioni di pecore.
Spirito e materia - antinomia di una rivoluzione
Questa riflessione sul tema non vuole
essere di concetti astrusi ed eterei, una mera analisi, bensì, consapevoli come
siamo che i predetti possano variamente reagire sulla cartina di tornasole
dell'economia dialettica, e quindi divenire buoni servitori ma anche pessimi
padroni del nostro studio introspettivo, ci proponiamo innanzi tutto di
vitalizzare la diafana essenza di ciò che noi definiamo Spirito.
L'impresa è ardua. Realmente, non v'è dubbio che nell'attuale contesto sociale
in cui lo Spirito sembra non debba più avere diritto di cittadinanza essendogli
stato preferito la sua eterna rivale Materia, il nostro tentativo assumerebbe
per lo meno l'aspetto dell'inattualità.
Ma il credere, lettore, che vi sia, foss'egli anche l'ultimo, un uomo in grado
di recepire le nostre parole, ebbene questa convinzione ci farà asserire quanto
segue.
Spirito è euritmia, eterno svolgersi ed enuclearsi della matrice prima della
parte più bella ed aristocratica di noi; Spirito è lotta e conseguentemente
volontaria prevalenza dell'iper-essere nei confronti dell'in-essere,
entificazione, quest'ultima, statica, sciatta, anodina, parto di coloro i quali
nella quiete materiale dei sensi vedono l'espressione più valida della vita.
Spirito è rivoluzione -che il termine s'intenda nella sua accezione positiva-
mentale e pratica soprattutto, in quanto la realtà fattuale è come il soggetto
la attualizza e non già come egli la immagina.
Il non progredire, o peggio, il refluire, è una grave iattura dello Spirito, e
se per un attimo vogliamo scendere dall'universale al particolare, diremo che
proprio la rivoluzione spirituale fascista ha subìto un processo involutivo di
autodistruzione che solo pochi intravedevano e che solo pochi hanno invano
tentato di bloccare. Profluito da una vergine crisalide, lo Spirito fascista si
è contaminato, insozzato, ed infine materializzato nel crogiolo degli interessi
criptomorfici messi in moto dai soliti sicofanti di professione, assai esperti
nell'arte dei colori.
In una parola lo Spirito fascista ha posto tra parentesi se stesso, ha abdicato
alla sua funzione, deontologicamente catalizzatrice e di mediazione, tra
l'emanazione «stricto sensu» spirituale, vorrei dire divina, e il sostrato
umano: ha preferito, non nella sua totalità, fortunatamente, «esser come porci
in brago» e noi dunque abbiamo il diritto naturale ed il dovere sacrosanto di
accusare spietatamente i «botoli» fascistelli che dell'Idea hanno fatto turpe
mercato, ed a maggior ragione, i loro attuali tardi epigoni, rei di non
comprendere o di non voler comprendere che l'uomo intanto vive in quanto inficia
le terrene pastoie, le recide e si innalza con suprema volontà alle aure limpide
dell'antimateria.
È di scena l'atomica
II 3 dicembre 1969 i paesi della NATO
hanno approvato il piano di difesa antisovietica, che prevede l'impiego di
atomiche tattiche contro le truppe russe, fin dal primo giorno di guerra, e
snellisce il procedimento di consultazione fra i membri dell'alleanza, affidando
«de jure», oltre che «de facto», al Presidente degli Stati Uniti, la decisione
politico-strategica dell'impiego o meno delle atomiche strategiche, e
specificando l'autonomia di decisione dei comandanti NATO in Europa (tutti
americani) riguardo all'impiego delle atomiche tattiche.
Quasi contemporaneamente, a Varsavia i rappresentanti dei paesi membri del
Blocco Orientale approvavano il piano sovietico di difesa contro gli
imperialisti occidentali, che prevede l'impiego di atomiche strategiche; unico
competente, il Soviet Supremo.
Pompidou, in un discorso ai Capi di Stato Maggiore, annunciava il
ridimensionamento della «force de frappe», e l'abbandono di ogni progetto per il
suo futuro accrescimento.
Willy Brandt sollecitava personalmente Mosca di consentirgli di firmare il TNP
come primo atto di governo. Lo ha ottenuto.
Ad Helsinki, due commissioni, una americana e una sovietica, studiano
indefessamente il problema del disarmo atomico. Il portavoce di quella americana
ha definito «soddisfacenti» i sondaggi preliminari. Non si ha notizia di
sondaggi che non siano stati «soddisfacenti». Entro «un paio d'anni» al più
tardi, ci ha rassicurati il portavoce, la Conferenza per il disarmo di Helsinki
avrà portato a termine il suo compito. Che consiste nello «sgombrare la strada»
a malintesi.
Niente di nuovo, né ad ovest e neppure ad est.
Maschera e volto dello scetticismo contemporanea
«Qualsiasi critica allo spirito
del moderno deve sempre
rendersi conto
che il presente
non va attaccato dalle posizioni
del passato da esso superato:
l'attacco deve essere sferrato
solo in nome
dell'Eternità
in esso tradita».
(Fedor Stepum)
L'Apocalisse oggi è nuovamente di attualità.
Un'epoca che ha vissuto due guerre mondiali, e che si trova di fronte allo
spettro di una terza, deve forzatamente riconoscersi in un quadro apocalittico.
C'è una tal frenesia nel ricercare in noi stessi «la verità» che ricopre la
sostanza delle cose, che talvolta non siamo capaci di riconoscere i nostri
limiti, di palesare la nostra impotenza. «Ricercare noi stessi, scoprire nuovi
valori, ritrovare il nostro IO nei meandri dell'inconoscibile: scoperta
dell'Uomo e della dignità del pensiero, celebrazione o negazione della vita»,
ecc... i modi di dire correnti, come per lo più accade, falsi e demagogici,
frutto per lo più di aride «equazioni personali» non ricoprono la vera sostanza
delle cose.
Sarebbe diverso a voler prestare fede al nostro spirito... ma chi all'infuori di
noi crede ancora nello spirito se nonostante tutto, intuiamo di essere degli
isolati, degli «anarchici dell'intelletto», e ci appare dinnanzi agli occhi un
mondo che rinneghiamo, filato con l'ordito incolore delle illusorie matematiche
fallaci ed insicure, composto con la trama sgualcita dell'ipocrisie che reggono
i destini dell'uomo.
L'UOMO. Ecco l'intoppo: il nodo gordiano da cui nasce il dubbio moderno, da cui
si sviluppa la scepsi contemporanea.
Disgraziatamente uno scetticismo radicale è tanto raro quanto una fede
incondizionata. Abitualmente si crede e si dubita solo entro certi limiti. È
questa la misura dell'uomo moderno. Ciò vale anche per i rapporti che legano
scetticismo, nihilismo, anarchia e fede alla storia universale.
Entro certi limiti quasi tutti sono diventati scettici nei riguardi della storia
e del cosiddetto «senso» della storia, ma solamente pochi si troveranno a loro
agio nel pensare che il cosiddetto «mondo storico» non possegga fine e senso
alcuno.
Si continua a conferirle anche qualche senso perché non si vuoi spingere il
dubbio sino in fondo.
Qualcuno già obietterà che nessuna ricerca reca in sé la soluzione, come nessuna
negazione significa fede incondizionata.
Bene! Eppure gli avvenimenti ci costringono a farlo, ci afferrano troppo
profondamente per poter abbandonarci in un nihilismo protettore. Gli eventi sono
ancora troppo a noi vicini per non richiedere un adattamento del nostro spirito
nella direzione voluta.
Una risposta a tutto ciò avrebbe un'influenza decisiva, determinatrice, e
rappresenterebbe per quanti sono incerti ed insicuri una direzione obbligata.
Tuttavia considerazioni del genere che seguono, sia ben chiaro, vogliono essere
completamente aderenti alla età presente, e nel medesimo istante lontane da
essa. Di conseguenza ogni nostra ricerca deve andare oltre il puro accadimento,
penetrando in profondità ed in lontananza.
Considerazioni del genere hanno un valore se viste come tentativi di realizzare
in sede umana, ciò che va col nome di Tradizione. Anche uno storico saggio e
coerente come Burckhardt, pur respingendo la fede nella storia nel senso della
filosofia della storia hegeliana e della teologia della storia agostiniana,
tenne tuttavia fermo nell'ammettere un minimo significato: la «continuità della
tradizione», benché, per altro, fosse ben convinto che in un mondo nel quale
principio e fine restano sconosciuti, mentre ciò che sta fra loro è in continuo
movimento, lo scetticismo autentico non sia troppo.
Ma in che consiste uno scetticismo autentico se non in una interpretazione
«tradizionale» del «cosiddetto mondo storico»?
La scepsi classica legata al mondo tradizionale ammetteva pur tuttavia una
credenza incondizionata in comunanze sovratemporali e pertanto essenziali. Il
Dubbio era se mai legato alla valutazione di quell'intrigo spugnoso e melmoso
dei processi storici ed alla concordanza delle funzioni storiche che in essi si
manifestava.
Abbiamo già accennato alla ragione per la quale il termine Apocalisse -che
originariamente ha il significato di manifestazione- può prendere un significato
negativo, escatologico, la rivelazione della fine della storia umana.
Però l'affermazione che la curiosità, cioè l'indagine compiuta a posteriori in
modo «scientifico», è segno della fine di una storia, sembra contraddire la
concezione corrente che la storia ha inizio proprio con la curiosità. Il
medesimo racconto biblico della cacciata dal Paradiso terrestre -da un mondo
senza storia, senza curiosità, indagine «scientifica», nel quale non vi era la
necessità della vergogna di fronte al nostro corpo, in cui il lavoro non si
realizzava con fatica e con dolore- pare anch'esso affermare che la storia umana
comincia con il sorgere della curiosità.
Come va dunque intesa la nostra tesi sullo scetticismo?
Il fatto stesso che non comprendiamo più il significato originario del racconto
tradizionale, è una dimostrazione della nostra storia che volge alla fine.
Già la stessa scepsi classica della filosofia greca non è la medesima cosa del
«dubbio moderno» di un Montaigne o di Cartesio o di Pascal. Nessun esempio è
valido all'uopo.
Valido per noi è e resta solamente il flusso, ciò che noi chiamiamo la «trama
degli avvenimenti», poiché il «Dubbio Moderno», con i suoi malati intellettuali
cronici ed avvizziti, non ha ancora capito e non capirà mai che il significato
non è mai nello avvenimento, ma nel moto attraverso l'avvenimento.
Altrimenti si potrebbe benissimo isolare un istante nello avvenimento,
nell'evento storico, e dire che questo è l'avvenimento stesso ed il suo stesso
significato.
In fondo a questo ha portato il Cristianesimo, nel modificare il rapporto tra
scienza e fede. Il mondo antico, quello essenzialmente tradizionale, mitico e
pagano, non conosceva l'opposizione cristiana, post-cristiana, critica e
diagnostica di intelligenza e fede, ma solo quella di scienza e opinione.
Esisteva quindi non un adattamento ed una realtà costituitasi indipendentemente
dal nostro volere, e neppure un progresso fatale e meccanico quale è stato
auspicato alla luce dell'evoluzionismo di marca darwiniana o spenceriana, bensì
l'Elevazione dello «Essere» a forme di esistenza sempre più intense, superiori e
ricche, autonome, articolate, realizzabili per opera nostra.
Pretendere di dare questa dimostrazione all'esistenza di un Kosmos greco, di un
Rita indiano, di una Ratio latina, di una azione che sacreggia l'ordine cosmico,
partendo da qualcos'altro di NON-DIVINO, sarebbe assurdo, come sarebbe
impossibile pretendere di darla partendo da qualcosa di pienamente manifesto e
«reale».
La sensibilità «tradizionale», pagana, è legata ad una spiritualità libera da
tratti confessionali e razionalistici, contrassegnata cioè da una ricerca della
verità entro i confini imposti dalla ragione umana, sotto la direzione Univoca
di una rivelazione divina.
Senso classico della misura, ideale di chiarezza in un ordine sovrannaturale,
affermazione di Sangue, Popolo e Razza entro i limiti di un Ordinamento vigente
di là del mondo dell'essere e del divenire, ed al di là di una realtà sia pur
tragica ed elementare.
Ci sia concessa la seguente premessa: ogni mondo «mitico» -ed il mondo cui noi
ci riferiamo ci piace così definirlo- è nella sua essenza storico, anzi esso
realizza sempre una lotta contro l'irrompere della storia. Il mondo mitico non è
che una forma della rivelazione dell'Identico, dell'eterno ritorno,
dell'originario ed essenziale. È l'ambito nel quale non vi è possibilità per il
nuovo. Perciò i segni mitici, le rappresentazioni mitiche, non possono venire
risolte in considerazioni estetiche senza violentarne l'essenza più profonda.
Dato che il mito cerca di dimostrare ogni momento della realtà nel suo
significato eterno, necessariamente il mito è sempre lotta contro il tempo. Il
mito eleva il quotidiano in ogni suo aspetto all'eterno, ossia al suo
significato religioso.
Ogni atto nell'ambito del mondo mitico assurge ad atto ieratico, che àncora il
quotidiano.
Ogni azione che sacreggia l'ordine cosmico è negazione del nuovo. Di qui diventa
comprensibile che la Scepsi pagana, alla stessa guida della rivelazione
apocalittica -come rivelazione ultima- è sempre negazione della storia moderna e
rivelazione del sorgere dell'eterna realtà dell'uomo.
Ecco perché noi abbiamo assunto e perseguiremo in un atteggiamento di
sospensione di fronte a convinzioni e discorsi squisitamente «attuali» e
«moderni».
Come positivismo significa assumere il «fatto sociale» a criterio di
determinazione di ogni valore teoretico e pratico; come naturalismo significa
assoggettamento dell'uomo alle forze e leggi della natura, magari allo scopo di
sfruttarla per una più piena attuazione dell'ideale di «vivere comodo»; come
«capitalismo o comunismo, come sistemi politico-sociologici con le loro
insensate dottrine ideologiche, sono insieme gli agenti inseparabili della
rovina delle civiltà europee conosciute e noi stessi azionisti della civiltà
industriale del capitale di miliardi di carta... e di migliaia di ore di lavoro,
vacuo, noioso ed inutile, allora noi affermiamo che tutti questi sintomi sono il
prodotto di un'unica malattia fondamentale: la stanchezza di vivere, il
decadimento, lo spegnersi della volontà di potenza e di creazione, la tensione
dell'attenzione verso tutto ciò che può valere da paradigma per la struttura del
«tempo apparente»: codificazione demoniaca di una concezione sociologica del
mondo e dell'uomo: realizzazione ultima di quel positivismo fissato con estrema
esattezza dalla sociologia, scienza in senso stretto figlia del positivismo
stesso, nata dalla volontà di «liberare» il sapere dalla fede religiosa e di
distruggere ogni possibile speculazione metafisica.
Tutto qui! L'esame «obiettivo» di questa relatività attuale dell'uomo della sua
condizionatezza è stato condotto con tanta completezza dalla scepsi classica che
non resta più nulla da aggiungere. Testi sacri indù, oltre tremila anni or sono,
già avevano preconizzato l'avvento di questa «età oscura».
È dunque un errore quello di ritenere che sia stato il moderno relativismo
«storicistico» a produrre il rovesciamento di ogni principio dogmatico. Le
medesime situazioni, secondo un ritmo alterno di corsi e ricorsi storici, si
sono verificate da che vita è vita. Naturalmente, nonostante ogni tale dubbio ed
ogni incertezza sul tempo presente, ognuno di noi deciderà in un modo o
nell'altro ad ogni situazione data, cioè avrà da decidere e pertanto sarà
costretto a decidere.
Non importa da che parte ci troviamo, cristiani o pagani, anarchici od
individualisti, tanto questa decadenza ci ha tutti afferrati e trascinati nel
suo vortice, rivelandosi la nostra intima debolezza e problematicità e ci ha
trasformati a tal punto che dal processo di fusione degli ultimi decenni nessuno
è uscito tale e quale vi era entrato.
O solamente ben pochi.
Ma una risolutezza pratica di questo genere resterà sempre indietro
dell'intelligenza dell'indeciso prò e contro.
Le nostre decisioni non hanno una validità razionale, ma nascono dall'incertezza
degli argomenti razionali. Esse riposano così poco su un sapere indubitabile
intorno al vero ed al giusto, che mirano piuttosto ad eliminare radicalmente
ogni validità del sapere teoretico e scientifico.
In conseguenza queste relazionalità di tutte le cose a circostanze intrinseche
ed estrinseche, a diversi costumi, leggi, dottrine, ideologie politiche,
dichiarazioni di fede, noi non ci arroghiamo il diritto di decidere che cosa sia
in se, ma ci limitiamo ad opporre ad opinione e discorso inevitabilmente
unilaterali, opinione e discorso egualmente efficaci, restando sempre in un
atteggiamento di ricerca invece di pronunciarsi avventatamente con un assenso o
rifiuto a priori.
Certo l'assenso ed il rifiuto vanno espressi, ma in termini di meditato, sicuro
giudizio, perché una tale sospensione del giudizio è un soffermarsi dell'esame a
cui si accompagna certamente una quiete dello stato d'animo, «la pace
dell'anima», la imperturbabilità dell'atarassia e quindi una tranquillità morale
che fa riscontro a quella teoretica.
Le considera/Ioni precedenti ci inducono a riflettere ulteriormente sui rapporti
tra la coscienza, l'angoscia e la libertà. Una cosa è certa: appena la coscienza
si risveglia, l'angoscia e pronta ad invaderla; e per questo è necessario tutto
un sistema di mezzi di difesa perché la personalità possa svilupparsi
normalmente, e la coscienza stessa diventi uno strumento utile, e non un
ostacolo, all'incremento della vita.
Sennonché tutta l'evoluzione psicologica è caratterizzata da un crescente
distaccarsi dell'istinto, e dall'enuclearsi di una forma di coscienza sempre più
autonoma e differenziata: ma proprio per questo la coscienza non scevra di
pericoli, perché relativizza ogni suo contenuto, ed inevitabilmente
-sradicandosi da una realtà immutabile- ci sprofonda nel Nulla e nella Angoscia.
Quivi, oramai, la spontaneità dell'istinto tace, ma si sviluppa e si determina
invece la funzione positiva della libertà: e può dirsi che mentre la coscienza
relativizza, la libertà impegna; mentre la coscienza ha la capacità di minare la
sicurezza, la libertà ha forse la intrinseca possibilità di ricostruirla.
In effetti, una sicurezza che ignori l'esperienza della insicurezza è soltanto
precaria, come una sicurezza che prescinda dalla libertà può essere rovesciata
ad ogni istante dalla libertà (come potenza della negazione e della pura
possibilità).
Se noi quindi vogliamo la sicurezza, ma cominciamo a dubitare di essa, il dubbio
non si arresta più, e non ci resta allora che accettare integralmente questa
esperienza che sorge ineludibile dai penetrali della coscienza.
Ma ora ci rendiamo sempre più conto che le nozioni ordinarie -moderne- della
sicurezza e dell'insicurezza sono del tutto inadeguate, non solo dal punte di
vista teoretico, ma proprio dal punto di vista psicologico: l'insicurezza non è
solo ciò che sta al margine della sicurezza, nel senso che questa costituisce il
saldo fondamento della nostra vita psichica, l'insicurezza rappresentando
soltanto un alone marginale, gradualmente riducibile dalla tecnica o
trascurabile agli effetti pratici della azione.
Ma la nevrosi ossessiva, collettiva, comune o singola, oggi imperante nel mondo,
è il chiaro sintomo che le cose non stanno semplicemente in questo modo, che
l'insicurezza è una continua minaccia, e che non può essere pertanto solo
ignorata ma deve essere francamente riconosciuta e superata con altri mezzi.
L'uomo, in quanto si risveglia alla coscienza, riconosce la sua individualità
spazio-temporale, la sua intrinseca solitudine, la sua insicurezza.
Ciò fa parte della condizione umana, ed è proprio ciò che rende così difficile
simile condizione.
Certamente non sempre questa coscienza è così lucida, e nella maggioranza degli
uomini le forze dell'istinto, dell'abitudine e della tradizione sono ancora
abbastanza forti da temperare o nascondere la drammaticità di questa situazione.
Ma d'altro canto, quanto più l'uomo diventa cosciente ed autonomo, tanto più
viene sospinto fuori da questi porti sicuri (dello istinto, della abitudine e
della tradizione), verso lo spazio vuoto dell'inesorabile solitudine e
dell'angoscia.
Che fare in simili condizioni?
La ricerca intellettualistica della sicurezza non può condurre che a magri
risultati, e ove non sia essa stessa l'espressione di una reazione di difesa,
non è che la trascrizione cifrata di una ricerca di ordine esistenziale.
Se la sicurezza non possiamo ottenerla in questo modo, non ci resta che
attraversare il pelago dell'insicurezza.
Noi abbiamo perduto di vista il significato funzionale dell'eroismo e
dell'ascetismo, del martirio e della santità: non ci resta altra sicurezza che
quella che si consegue accettando di compiere sino a fondo la prova,
l'esperienza dell'insicurezza: e la libertà non è forse, in fondo, che il
coraggio di sottoporsi questa prova.
L'Eroismo diventa, in simili circostanze, una necessità imposta dalla forma
stessa della nostra coscienza in quanto questa tenda a conseguire una propria
autenticità.
Sennonché, non può nascondersi che una sottile ambiguità sussista nella maniera
stessa di concepire questa prova, di intendere il coraggio e l'eroismo.
L'Uomo può cercare di superare il dramma della sua coscienza in due modi:
cercando di riconquistare la potenza originaria creatrice, oppure esponendosi
alla «grazia».
Sono due vie ben diverse, completamente differenti ed equidistanti. L'una
contempla nella sua enunciazione la luce, la Verità; l'altra è intessuta con la
trama sgualcita ed incolore della decadenza, della vacuità, della virtù
femminea.
Sono due vie equidistanti: l'una di ricongiungersi all'Assoluto attraverso il
riconoscimento di una propria intrinseca parentela; l'altra invece di
«approfondire», ovvero d'affossare, il senso della propria condizione di
creatura «umana».
La secolare polemica tra Paganesimo e Cristianesimo, Oriente ed Occidente, e
nell'interno del cristianesimo tra i vari ordini e le varie confessioni, è forse
riconducibile, nella sua essenza più recondita, alla distinzione tra queste due
vie.
Ma è altresì importante comprendere come non ci troviamo di fronte a un semplice
problema teorico, bensì di fronte ad un Processo Storico tutt'ora in corso, nel
quale siamo direttamente impegnati. La riflessione sul «significato» di questo
processo storico costituisce un portato inevitabile, e forse il punto
culminante, dello sforzo di consapevolizzazione che rappresenta a sua volta una
delle caratteristiche principali della filosofia contemporanea.
A questa affermazione che la visibile storia mondana «moderna» e l'invisibile
Storia della Salvezza pagana e del Superamento dell'Umano non coincidono e che
pertanto non è possibile illuminare la storia moderna con la luce della fede in
una giustificazione ultima, a questa nostra tesi si contrappongono Tutte,
ripetiamo Tutte le interpretazioni della realtà strico-politica in quasi tutte
le dottrine della Storia.
Le filosofie e le teologie della Storia da Bossuet a Hegel ed oltre, fino a
Compte a Marx, Spengler e Toynbee, si sono sforzate di ricavare dalla storia
universale un senso ultimo.
Bossuet intese questo senso come la progressiva coordinazione di storia della
salvezza e storia universale: Hegel come un processo verso il compimento della
coscienza della libertà; Compte come il processo verso l'organizzazione
positivistico-scientifica dell'umanità «civile» Marx come l'introduzione
«rivoluzionaria» di una società senza classi che deve attuare la libertà in un
«regno della libertà» di carattere sociale.
È sintomatico a proposito di tutto questo che i termini «sociologia» e
«psicanalisi» si debbano a filosofi di questa taglia, figli grati di quel
positivismo che ha rinnegato ogni speculazione metafisica, e che ha relegato la
speranza di raggiungere l'obiettività nel senso di «verità» (sic) rigorosamente
agli obiettivi di indagine fisica, di cui sono modello le scienze naturali,
sperimentali da un lato, matematiche dell'altro.
L'unico ad azzardare forse un'intuizione valida fu lo Spengler, riponendo il
senso della consapevole volizione di un destino in sé privo di senso perché
naturale.
La dottrina della storia di Toynbee ondeggia incoerentemente tra una apparente
legittimazione empirica della dottrina classica dei corsi ciclici della vita e
la sua fede cristiana in una progressiva rivelazione, insieme ad una sempre più
approfondita penetrazione religiosa che deve scaturire dal dissolvimento delle
«civiltà moderne».
Tutto ciò a noi non basta! Tutte queste teorie derivano dalla secolarizzazione
di presupposti cristiani e particolarmente dall'idea di un fine ultimo e quindi
di un senso che troverà compimento nel futuro. In quanto sottopongono il
processo storico nel suo Insieme alle questioni di principio circa il senso,
esse presuppongono un fine ultimo, cioè un Telos come Esckaton, e quindi vedono
nel futuro l'orizzonte di compimento del movimento storico.
Questo è il punto! Questa la verità assoluta, la prospettiva ultima di una
umanità che prende coscienza di se stessa attraverso la propria cretinità,
attraverso quelle forme intermedie così care alla democrazia, al liberalismo e
al socialismo, e che condurranno diritto diritto alla concezione «religiosa»
dell'uomo terrestrizzato. Esse tutte sono espressioni degenerate di una idea
fallace. Esse pervertono il senso classico dell'Historein, che non si riferiva
al futuro, ma a ciò che era stato e, come tale, fatto e conoscibile.
La scienza non conosce un senso finale: solo la fede può affermarlo! A voler
semplificare la lezione impartita da questa specie di esperienza, tradotta in
parola, si può dire che essa compare sempre sotto il manto goffo e grossolano
degli eterni luoghi comuni: che l'umanità è una realtà innegabile e l'uomo una
pura astrazione; che si possono adoperare gli uomini come numeri in operazioni
di aritmetica filosofico-politica, poiché essi non si comportano come i simboli
dello zero e dell'infinito, i quali sconvolgono tutte le operazioni matematiche;
che l'uomo cioè è semplice addendo e numero equidistante sia dallo zero che
dall'infinito; che il fine giustifica il mezzo e non soltanto entro limiti assai
ristretti ma in modo globale; che l'etica è in funzione solo ed unicamente
dell'utilità «sociale»; che l'Humanitas non è la forza di gravita che mantiene
le civiltà nella loro orbita, ma è soltanto un sentimento piccolo-borghese.
È l'antica dicotomia: «la vita deve dominare sul sapere od il sapere deve
dominare la vita?».
Nessuno di noi può dubitarne: è la vita la potenza superiore e sovrana ed è
l'uomo il suo artefice.
La scepsi classica discuteva le contraddizioni razionali intorno all'esser-vero
od all'esser-falso da parte di asserzioni: il dubbio cristiano ed in genere
quello moderno, invece, investe il problema se l'Uomo, quale «peccatore», ossia
errante (ecco il grande intoppo), possa essere in generale «nella verità». È
inutile chiedersi quanto cammino si sia percorso sulla via della saggezza se
crediamo di poter sostituire la mancanza di sapere con «decisioni» esistentive e
reputando di avere in tal modo oltrepassato l'incertezza de1 sapere al punto di
aver eliminato la scepsi classica pagana.
Tanto per essere più chiari: mettendosi sulla strada del criticismo, Kant era
ben convinto di lasciare dietro alle spalle così lo scetticismo come il
dogmatismo, avendo trovato il modo di superarli ed oltrepassarli ambedue.
E con la sua dialettica del sapere assoluto -in cui il dubbio è soltanto un
momento nella conoscenza dell'Assoluto- Hegel «pensò» di aver superato il
criticismo di Kant.
Ma il contrapporsi semplice ed originario di scepsi e dogmatismo, di ricerca e
di «possesso di verità», si riproduce costantemente e non è eliminabile né per
via critica né per via dialettica. Vale a dire
che noi rifiutiamo come metodi di indagine e di sintesi nella ricerca della
verità sia il criticismo che la dialettica.
È tempo di parlare chiaro: di dire a noi stessi che l'Uomo non può essere
concepito solo come essere critico, dialettico, ovvero come unità atomica, come
puro numero nel regno della quantità. Società e collettività non possono essere
che sinonimi. Il nostro dubbio, la nostra scepsi si sviluppa dunque così: ben
venga ogni concezione del mondo antisociale, anti-individualista ed
anticollettivista, a patto che porre la disuguaglianza voglia dire trascendere
la quantità per ammettere la qualità: a patto che l'emancipazione del singolo
dalla società significhi libertà rispetto a se stessi e non rispetto ad un giogo
esterno; a patto che il pelago dell'insicurezza sia superato attraverso il
dubbio e lo scetticismo.
Insicurezza che si supera non attraverso formule storicistico-empiriche, che
condizionano epoche e tempi, principi e sistemi, ma superamento dello
scetticismo «umano» attraverso una visione rivoluzionaria della vita e dell'Uomo
che si traduce come affermazione finale di vita e come negazione assoluta e
totale di qualsiasi orientamento in cui si rifletta in un qualunque modo il mito
moderno del progresso e della discussione, con le sue fisime affrancataci e coi
suoi miraggi fascinosi di civilizzazione tecnica.
L'uomo sta di fronte a fenomeni che continuamente debbono venire determinati e
circoscritti, ed è quindi obbligato ad uscire dalla relatività. A sua volta
l'unità della vita sensitiva ed intelliggibile dell'uomo risulta infranta,
perché nella sua esistenza si manifesta ed impone una nuova «necessità».
Tale fine non può essere raggiunto né da un singolo uomo, né da una famiglia, né
da una nazione.
La somma capacità dell'uomo è evidentemente la volontà rivoluzionaria, unico
modo per uscire dal dubbio e dall'incertezza. Dato che tale capacità non può
essere realizzata compiutamente né da un singolo uomo, né da una delle comunità
precedentemente nomate, ne conviene che il genere umano può realizzarsi solo
nella dimensione rivoluzionaria di una molteplicità integrale, la quale sola
realizzerà appieno la capacità specifica dell'uomo.
Ha il nostro tempo già in mano tal forma?
Si vedrà come ciò che possediamo è più profondamente debitore alla scepsi pagana
di quanto possa apparire a prima vista.
Ma è capace un'apocalittica sorta dal nihilismo del secolo passato di dare ciò
che esige un'epoca diversa?
Si potrà rispondere soltanto con una presa di posizione e non con un'analisi di
ciò che è dato constatare.
Con ciò abbiamo stabilito tutto quello che decideva la questione. Anche per il
nostro tempo l'Apocalittica deve giustificarsi in tale doppio aspetto.
Non le è lecito esaurirsi nella rappresentazione del macabro. È necessario che
essa additi nella decadenza l'Avvento, nella insicurezza l'Approdo della
certezza, nella scepsi la Verità, nella rovina il nuovo Inizio.
È necessario che, mentre giudica e condanna, ci dia una speranza. La speranza
per l'Uomo!
La finta guerra
Crediamo che nessun comunista militante
sprovveduto abbia mai potuto credere ad una guerra di sterminio tra Russia e
Cina, eppure i borghesucci della politica rivistaiola avevano soffiato nelle
trombe della speranza che il comunismo mondiale, pur con i suoi palesi errori di
metodologia, potesse dissolversi nella lotta fratricida dei diseredati.
È la cantonata a rovescio di Carlo Marx, che profetizzava l'autodistruzione del
capitalismo nella crisi della superproduzione, la quale, invece, sfocia nel
progetto Apollo dei 126 mila miliardi che non solleva di un millimetro l'uomo
dalla sua miseria morale, ma corrompe ed imborghesisce sopratutto i compagni
proletari.
Certo, la Russia è giunta più volte al limite di rottura ed il possesso dei
mezzi apocalittici di distruzione avrà fatto sognare ai mediocri del collegio
sovietico la cancellazione del poeta fastidioso, che ti trasforma quasi un
miliardo di ex-oppiati dagli inglesi in avanguardie fanatiche della rivoluzione
mondiale.
Ma la rivoluzione mondiale continua a marciare, anche se non avrà, ormai, più il
marchio esclusivo della steppa, come dimostra il rifiuto di quasi tutto il mondo
di accettare, per realizzarla, il metodo collettivista, il partito unico e le
troike burocratiche dell'economicismo ottocentesco.
La malvagità umana e lo spirito di sopraffazione affiorano in tutti i sistemi di
aggregazione sociale, quando si attenuano gli afflati della moralità, nella
contingenza storica del potere, per cui, in un decennio si ha la proposta oscena
e male informata della guerra preventiva del generale Narstadt, da Parigi, e,
nel successivo, si può avere la crudele intenzione del capo mugiko Breznev, da
Mosca, di annullare l'esistenza fisica del rivale più intelligente, ereditata
dal maestro Stalin, ma la guerra storica tra URSS e Cina non è possibile, se non
come funzione scenica dello svuotamento del marxismo.
Lo dimostra l'evento più importante degli anni sessanta, che è la sconfitta
ideologica e militare degli Stati Uniti d'America, nell'Indocina, dove russi e
cinesi, fingendo di non vedersi, stanno vincendo insieme una battaglia.
Monoteismo unidirezionale
Da quando la Chiesa cattolica ha
rinunciato, più o meno tacitamente, all'assolutezza della sua origine divina e
cioè a considerare inesistenti o teoricamente errate le posizioni spirituali
delle altre confessioni religiose, giungendo a sia pure parziali intenzioni di
colloquio con i non credenti, ha più volte ostentato di stendere una mano
fraterna alle gerarchie ed alle comunità che si riconducono al monoteismo e cioè
alla fonte unica personale e spirituale della realtà e della storia,
riconoscendo così nell'unico principio della trascendenza misteriosamente
individualizzata la ragion sufficiente di una comunione storica degli spiriti.
Atto clamoroso fu quello di Giovanni XXIII, che cancellò da una fondamentale
preghiera dei cattolici la proposizione accusatoria di «perfidi giudei», che la
tradizione cristiana aveva inferto, per secoli, come una scudisciata agli ebrei
della sinagoga e che non poche persecuzioni antisemite aveva giustificato alla
teocrazia ed al fanatismo dei bracci secolari.
Ma tale forma di aperta ed originale tolleranza, destinata ad accentuare la
comprensione ed il rispetto reciproco tra gli uomini di tutte le religioni
positive, ma anche con tutti i laici aconfessionali di ispirazione filo-sofica
non materialistica o trascendentista, sopratutto ai fini di una riconquista dei
valori morali, che incidano sull'attività politica delle nazioni civili, doveva
rivelarsi ben presto condizionata da limitazioni contraddittorie e parzialità
nocive, che mal si accordano con la dichiarata prospettiva di conciliazione tra
le varie forme di spiritualità dell'uomo.
La politica del Vaticano, che spesso fa sorgere dubbi sulla presenza di virtù
ispiratrici come quella della bontà e della santità, ha dato luogo, di recente,
ad ostentazioni di vera e propria scelta nel conflitto del Medio Oriente, pur
senza pubblici anatemi nei confronti di Israele. Le due posizioni spirituali in
conflitto si rifanno, ambedue, al monoteismo che fu anticristiano e con
l'ipoteca pesante del deicidio e con la spietata guerra santa all'infedele.
Si sa che gli atti diplomatici hanno un significato più o meno misterioso per i
profani, ma di facile interpretazione per gli esperti.
In occasione dell'incendio della Moschea di Al Aqza, l'unica parte lesa
dall'oltraggio erano gli Arabi, eppure il Pontefice romano, Paolo VI, ha
ricevuto un rappresentante del governo israeliano di passaggio a Roma, al quale
ha espresso i suoi timori per la salvaguardia della presenza cristiana a
Gerusalemme e la distruzione di un tempio islamico non può venire in mente, a
meno che non sia pazzo, che ad un cristiano o ad un giudeo.
I disegni del Capo della cattolicità sono, ovviamente, al di fuori di ogni
censura, specialmente da parte dei non credenti, ma, per quanto riguarda il
monoteismo, la impressione che se ne ricava è di una solidarietà unidirezionale.
Regioni e no
È logico che chi, come noi, sbandiera una
dottrina dello Stato, come individuazione storica della trascendenza, in cui
l'individuo si realizza necessariamente e pienamente fino ad attingere il suo
valore universale, come libertà, che è autonomia della legge morale, cioè
possibile identità del diritto e del dovere, il primo come presenza reale nel
mondo, il secondo come compresenza degli altri, nella molteplicità, debba
esprimere la sua opinione sulla struttura che il sistema
democratico-parlamentare al potere ha deciso di imporre al Paese.
Tutti sanno quanto le nostre posizioni siano lontane da quelle dei cosiddetti
fascisti di estrema destra che hanno assunto a programma della loro azione
politica, naturalmente limitata e storicamente anacronistica, la parte deteriore
del regime mussoliniano del ventennio, al servizio di quegli stessi interessi
reazionari, che hanno determinato la sconfitta militare del 1945.
Pertanto, l'ostilità preconcetta che liberali e missini e monarchici ostentano;
perché mossi, pur fingendo di essere diversi nel sistema, dallo stesso interesse
filo-capitalista che li sostiene, ad ogni forma di decentramento amministrativo
delle strutture, non può caratterizzare la nostra opposizione, contingente o
definitiva, di fronte alla sarabanda elettorale che sta per scatenarsi sullo
sprovveduto popolo italiano, drogato a sufficienza dalle continue calate di
canzonettari e dalle ubriacature calcistiche della domenica, nelle quali il
tempo libero dei lavoratori s'impegna nei modi e nei tempi, stabiliti dai
registi del gettito fiscale di massa.
Ricordiamo solo che, nella fretta dell'improvvisazione, la RSI aveva promulgato
il principio organizzatore del regime repubblicano, nella formula della «massima
unità politica e massimo decentramento amministrativo».
Una delle prove più pesanti della malafede democratica dei partiti antifascisti
è costituita dai continui riferimenti alla lentezza burocratica dello Stato
italiano, contemporaneamente clericale e massone, conservatore e riformista,
prodigo di promesse mai mantenute e di violente repressioni della cosiddetta
libertà sindacale.
Il decentramento dell'apparato burocratico ed amministrativo è cosa che si può
ottenere, senza tante chiacchiere, con un complesso di leggi ben fatte, che
operi in profondità per la demolizione delle sovrastrutture che la
colonizzazione savoiarda di cento anni fa ha fatto calare sull'Italia papalina e
borbonica, allo scopo di perpetuare, nel disegno cavourriano, il predominio
dell'economia padana.
Ma creare dei parlamenti regionali, con poteri politici di discriminazione
dialettale delle varie risorse e velleità, significa solo esasperare il già
diffuso razzismo di zona, scatenare il più vasto municipalismo della tradizione
medievale ed, in definitiva, alimentare le sperequazioni, le ingiustizie e le
vergogne.
I meridionali si crogioleranno nella loro miseria, i centrali nella loro bonomia
casereccia ed il Nord padano coltiverà il suo sogno d'inserimento nei canali
europei di un edonismo pragmatico di alternative concorrenziali galliche o
teutoniche, secondo il vento.
Poderosi scocciatori
In un lungo articolo pubblicato su un
rotocalco a grande tiratura, un vecchio giornalista della destra conservatrice
chiama a raccolta le forze veramente «sane» della Patria contro il pericolo
dell'opposizione extraparlamentare. Non che i componenti di questa siano
pericolosi, spiega il Nostro; anzi, sono tutti dei borghesi frustrati che si
sfogano giocando alla rivoluzione; ma possono portare le Istituzioni ad un punto
di crisi tale da lasciar posto ai rivoluzionari veri.
In una colonna e mezza, il giornalista liquida i «fascistoidi» antimissini,
avvertendo che sono tanti e tanti i loro gruppetti, da non poterne elencare che
qualcuno; e fra questi, campeggiano i GAN di Mario Tedeschi, il FUAN di
Mantovani e la Giovane Italia, onnipresente grazie al suo temibile passato!
Ovviamente, avverte l'immaginoso, ci sono delle «sfumature» di divergenza fra
gruppo e gruppo (ad esempio tra il "Fronte Nazionale" di Borghese e "Lotta di
Popolo", o fra "Europa Civiltà" e la CNR); ma il sottofondo nietzschiano,
evoliano, soreliano, gentiliano ecc. ecc, non sfugge alla vigile indagine del
reporter, anche se, bontà sua, qualifiche come quella di «nazi-maoista» sono
troppo sbrigative.
Nel pezzo si avverte costantemente la preoccupazione del sig. B. V. (non gli
vogliamo fare pubblicità e perciò non lo citiamo per intiero), di chiamare a
raccolta i «gentili lettori e le gentili lettrici» perché mobilitino il loro
sdegno generoso contro i «borghesucci fascistoidi» che sognano niente meno
l'«uomo» come un «guerriero che impone la giustizia sociale con la forza,
difensore strenuo dell'ordine e della gerarchia, ma nemico di tutti i privilegi
e sperequazioni materiali, ascetico, solitario, aristocratico».
E B. V., dopo questa sintetica definizione dell'uomo fascista (anzi «fascistoide»),
trae la sua conclusione che liberamente riassumiamo: quelli del MSI, quelli che
conosciamo e che possiamo pure chiamare «giovani nazionali», in fin dei conti si
accontentavano di qualche manganellata, che certe volte ci voleva pure; ma
questi di adesso, invece di fare il loro dovere, di appoggiare gli Stati Uniti
contro il bolscevismo ateo e assassino, di difendere l'Alto Adige e le macchine
dei cittadini perbene, arrivano a pensare, a concepire come ideale di vita un
uomo che in definitiva è «uno scocciatore poderoso quanto quello immaginato
dalle sinistre» (testuale).
Attenti alle «scocciature poderose».
I SUPPORTI DEL SISTEMA
Le forze armate
1) SITUAZIONE POLITICA
Per comprendere lo stato di crisi che
travaglia le FF.AA. si impone, a nostro avviso, una più completa interpretazione
della nuova realtà politica venuta a determinarsi in seguito alla rottura
ideologica e politica tra Russia e Cina, alla distensione, alle sempre più
accentuate tendenze autonomiste degli Stati europei, nonché ai nuovi fermenti
rivoluzionari in atto nel Sud America, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente.
Quelli inerenti alle FF.AA. sono quindi problemi essenzialmente politici. Gli
aspetti tecnici connessi ad ogni singolo problema sono da ritenere secondari e
subordinati ai primi. È la politica che, in effetti, arma e disarma,
rinvigorisce o deprime le FF.AA. e ne realizza l'efficienza morale e tecnica.
Contrariamente a quanto si sostiene negli ambienti di destra e in quelli di
sinistra, noi riteniamo che gli URSS e gli USA, superata la fase di espansione
aggressiva, si dibattono oggi in una sempre difficile opera di consolidamento
dello status di Yalta. Ovviamente ciò esplica influenza determinante nei
rispettivi eserciti ed in quelli satelliti.
L'intervento russo in Cecoslovacchia, evidentemente concordato con gli USA e
l'imposizione al "mondo libero" del trattato di non proliferazione atomica, ne
sono la riprova.
Pertanto, le FF.AA. italiane, male armate e poco addestrate, vengono tenute in
vita solo quale supporto del sistema instaurato dai vincitori.
E non potrebbe essere diversamente.
Ove i comunisti si facessero più potenti e minacciosi, e la situazione non fosse
più contrattabile attraverso i canali normali, la CIA ordinerebbe un colpo di
forza. Avremmo così al potere i generali e i colonnelli.
Con vantaggio di chi? Non certamente del popolo italiano, né della Europa
social-nazionale alla quale aspira la migliore gioventù.
Non è lecito nutrire dubbi al riguardo. L'esempio greco è chiarissimo e non meno
chiaro fu l'atteggiamento del Pentagono in occasione del putch di Algeri.
È evidente quindi che disperdere ed immiserire le nostre forze in azioni
anticomuniste, vuoi dire porsi al servizio del nemico il quale, è bene
ripeterlo, è uno solo: la Russiamerica e i rispettivi emissari.
Da varie parti si vanno tentando ignobili manovre dispersive e di asservimento,
alle quali occorre reagire energicamente, poiché il lasciarsi vincolare dal
compromesso anticomunista potrebbe risultare esiziale e per lungo tempo
pregiudizievole alla nostra riscossa.
La rivoluzione o è totale o non è.
E un vero rivoluzionario è come un caposaldo nel deserto: deve saper combattere
contro tutti, su 360 gradi.
A proposito delle FF.AA., fino a quando rimarranno operanti le clausole del
diktat cioè, fino a quando lo Stato italiano non potrà autonomamente:
— fabbricare tutte le armi, comprese quelle atomiche e le relative munizioni;
— decidere gli organici delle proprie FF.AA.;
— condannare quanti sono ancora protetti dall'articolo 16 del diktat;
— liberarsi da assurde alleanze che vorrebbero rendere atlantica una nazione
mediterranea per tradizioni millenarie come la nostra;
è privo di senso parlare di autentiche FF.AA. nazionali, così come è sciocco e
ridicolo invitare i civili a difendere l'esercito.
Le FF.AA. in un paese sub-coloniale e militarmente satellizzato come è oggi
l'Italia, non possono inoltre non risentire delle spurie maggioranze governative
ed essere spesso strumentate come gruppo di pressione.
Ripercorrendo le tappe attraverso le quali si è gradualmente realizzato
l'adeguamento democratico delle FF.AA., dimostreremo come sia essenziale
convincersi che oggi, ai fini della ripresa rivoluzionaria è controproducente
assumere la loro difesa in quanto -come è stato autorevolmente osservato- «il
voler basare la propria strategia per la conquista del potere su una presunta
frattura tra il sistema ed uno qualunque dei suoi istituti (che ne sono in
realtà valido supporto) e quindi contare sull'appoggio che questi gruppi
potrebbero dare ad una battaglia antisistema è totalmente errato».
Pertanto, non vi sono «giuste linee rivoluzionarie» che non inglobino queste
valutazioni.
Tuttavia non è da trascurare, in sede di proselitismo, il fatto che le FF.AA.
comprendono ancora uomini dotati di eccellenti risorse fisiche, morali,
intellettuali, né sono da sottovalutare le profonde analogie esistenti tra
l'educazione militare e la concezione eroica della vita propria dei fascisti.
Appare ovvio quindi che, mentre con la strategia rivoluzionaria si combatte "in
toto" il sistema, con la tattica non si può che tendere alla conquista
ideologica e all'impiego dei singoli, quale che sia l'ambiente in cui operano.
Ogni altra via, a nostro avviso, conduce inevitabilmente alla collaborazione col
sistema.
2) ADEGUAMENTO DEMOCRATICO DELLE FF.AA.
Le FF.AA. rispecchiano il popolo dal quale sono reclutate e ne riflettono
ovviamente qualità e difetti.
Mette conto precisare a questo punto che lo scopo delle considerazioni che
seguono consiste unicamente in un esame critico il più possibile obbiettivo nei
confronti di un ambiente umano che, pur nel travaglio nel quale è oggi costretto
a dibattersi, sentiamo vicino a noi per formazione morale e per temperamento.
Siamo convinti, d'altronde, che né le demagogiche esaltazioni di destra né le
ricorrenti denigrazioni di sinistra giovino a fornirci l'idea della nuova
funzione europea che dovranno svolgere le FF.AA. nel prossimo futuro.
Ricco di intraprendenza e di sentimento, ma per troppi secoli vissuto in
servitù, il popolo italiano è meno dotato di qualità di carattere. Per venti
anni il fascismo tentò di correggere i difetti del carattere degli Italiani
(individualismo, scetticismo, amore per la vita comoda) e di farlo assurgere a
rango di popolo degno di un grande destino.
La fermezza e l'amore di patria, che pur si manifestarono per la prima volta in
quel periodo in forma così estesa e vibrante, furono per molti solo una
opportunistica vernice od un assai transitorio fenomeno di suggestione.
Venne la prova più tragica, la guerra. Avemmo un maggior numero di volontari ed
uno minore di disertori rispetto ad altre precedenti guerre.
Gli ufficiali, specie quelli di complemento, si dimostrarono valenti e valorosi.
I migliori caddero. I soldati non mancarono mai e, forse, furono i migliori del
mondo in campo per abnegazione e capacità di sacrificio.
Pochi generali massoni, confortati dall'azione scellerata di qualche politico,
nel momento più drammatico, quando cioè si dovevano rinnovare le gesta del
Piave, prepararono il tradimento più sciocco e più ignobile.
L'Italia perse così, contemporaneamente, la guerra e la pace.
L'8 settembre peserà sempre negativamente nella storia nazionale anche perché il
tradimento, pretendendo la esaltazione della sconfitta, spezzò la coscienza e
l'unità nazionali.
Né si poteva ricostruire l'unità morale e spirituale di una nazione vinta e
martoriata da una sanguinosa guerra civile mediante le "assimilazioni" tra
FF.AA. e bande partigiane, le epurazioni e le leggi retroattive.
II popolo fu abbandonato nelle mani dell'invasore angloamericano ed alla mercé
della vendetta dell'alleato tradito.
Dopo tale cataclisma politico-militare, nulla è stato fatto al fine di ricreare
la pacificazione e l'unità nazionale.
È naturale quindi, che dopo 25 anni di mortificazione democratica, le nostre
FF.AA. si palesino carenti soprattutto nell'elemento preminente atto a
determinare la capacità di un esercito alla lotta: la consapevolezza di
incarnare il destino storico della nazione.
Analoga carenza ha fatto si che il pur ben munito esercito cecoslovacco non
sparasse un solo colpo dì fucile contro gli invasori.
Un quarto di secolo di politica democratica ha trasformato l'apparato militare
italiano in uno strano animale a tre zampe. L'una oscillante tra varie
aspirazioni autonome o di terzaforzismo, l'altra affondata senza peso e senza
convinzione nella NATO e la terza tenuta sospesa in aria per essere appoggiata
-a seconda dell'evolversi della non facile politica interna- sul patto di
Varsavia, magari con statuto speciale.
È chiaro che un tale discorso riguarda solo le "alte sfere militari", ma è
altrettanto chiaro che queste sono le sole che contino qualcosa.
Ciò premesso, appare evidente come, dall'unità ad oggi, solo due eserciti,
quello del Piave e quello della RSI, possano considerarsi autenticamente
italiani.
Vincere o morire per la Patria, vincere o morire per la rivoluzione, queste
sotto le sole alternative dei veri eserciti tradizionali e di quelli veramente
rivoluzionari. Chi manca subisce la squalifica.
In certi campi le mezze misure non hanno diritto di cittadinanza.
Vittorioso il primo e sconfitto il secondo, essi sono i soli due eserciti ai
quali possono guardare con orgoglio le nuove generazioni.
Pur non avendo mai vantato una vera e propria casta militare e, nonostante i
Persano, i Caradonna, i Badoglio e i De Lorenzo, gli italiani in armi hanno
tuttavia saputo costruirsi una apprezzabile tradizione militare.
Ma è sempre mancato loro un grande S.M. ed una profonda educazione militare. Lo
si è visto quando, con disinvoltura, si abolì il grigioverde e si adottarono non
solo le armi, ma persino i manuali di addestramento del nemico vincitore.
E questa fu la sconfitta più cocente.
Non ci stupisce pertanto la inadeguata "tenuta" militare di molti giovani
ufficiali.
Dilaniati dal carrierismo e dalla difesa "sindacale" della "categoria", troppi
giovani ufficiali si dimostrano scettici, ironici e sprezzanti quando odono
parlare di eroismo, di sacrificio e di santità della missione delle armi, che è
tutta permeata di valori spirituali ed eroici.
È facile avvertire nel loro comportamento, frammisto a tutti gli impulsi
naturali della gioventù, uno strano desiderio di novità che si estrinseca
unicamente mediante un'aspra e sterile critica a tutto il bagaglio di tradizioni
loro pervenute dalle passate generazioni.
Prevale in essi il concetto dell'ufficiale tecnico su quello dell'ufficiale
guerriero che, come tale, sarà sempre tecnicamente preparato alle proprie
responsabilità in pace e in guerra.
Ma, sono forse stati educati a vedere con sguardo più ampio e più profondo il
significato della loro missione?
Siffatte deficienze formative vengono aggravate dalle interferenze politiche e
dal nepotismo nelle promozioni, nonché dalla tendenza -tipica nei lunghi periodi
di pace- a valutare i pregi intellettuali degli ufficiali in base a mere facoltà
oratorie ed a preferire gli elementi più arrendevoli a scapito di quelli in
possesso di vere e proprie qualità di carattere.
Basti riflettere sulla borghesissima proposta di legge volta ad attenere il
conferimento della "laurea in scienze militari" in seguito alla "frequenza"
dell'Accademia e della Scuola di Applicazione e quello della libera docenza agli
ufficiali brevettati dalla Scuola di Guerra. La confusione tra spalline e titoli
accademici è sintomo davvero inquietante.
Non di militarismo essi sono carenti, che è sinonimo di degenerazione sorta per
creare fratture fra soldati e ufficiali e tra popolo ed esercito, ma di
autentico spirito militare che nasce solo dalla consapevolezza di appartenere ad
una aristocrazia intellettuale e morale cui è affidato il compito più sacro: la
difesa della nazione.
Deviazione analoga, del resto, si riscontra in altri eserciti dell'est e
dell'ovest e soprattutto in quello USA, nell'interno del quale è in atto la nota
polemica per la revisione del "codice di condotta"; polemica che ha travolto
capi e gregari nelle FF.AA. della nazione più potente del mondo.
Fenomeno tipicamente democratico, tale contesa dimostra l'antitesi
irreconciliabile tra democrazia e gerarchia, concorre all'auspicato
auto-annientamento degli eserciti tradizionali e apre la via a quelli
rivoluzionari.
L'uomo d'armi di domani sarà un uomo libero, un legionario, capace
contemporaneamente del più alto grado di coerenza ideologico-politico e di
perfetta condotta militare.
Un nuovo Duce non potrà che essere, al tempo stesso, capo militare, legislatore
e pontefice.
3) LE FF.AA. DI POLIZIA
L'attuale stato di disarmo morale delle FF.AA. di polizia può essere compreso
solo attraverso un'analisi della involuzione loro imposta dal sistema
democratico.
L'Arma dei Carabinieri e gli altri Corpi di polizia, risorti dopo la sconfitta
per opera di ufficiali capaci ed intelligenti assunsero un comportamento tanto
decisamente militare da non sembrare destinati a servire da "oggetto" politico
di uno Stato senza mète senza ideali, senza un vero volto nazionale e reso
sempre più traballante da forze sovvertitici in continua ascesa, bensì si
palesarono votate a rendersi "soggetto" partecipe, valido ed operante di uno
Stato nazionale che ricercasse, mediante l'armonia interna, l'avvenire ed il
prestigio anche all'esterno.
Lo spirito di disciplina e di dedizione che aveva animato i magnifici
battaglioni mobilitati durante la guerra dalle FF.AA. di polizia, sembrò essersi
reincarnato nei nuovi reparti i quali non cedettero sul confine orientale alla
costante pressione slava e non mollarono nelle piazze alla canaglia
socialcomunista.
Quasi tutti gli istituti di formazione militare e molti reparti "chiave" erano
comandati da ufficiali che avevano iniziato la carriera nelle trincee di
Montello, del Pasubio, del Grappa, ecc. e che uscivano, sconfitti ma non vinti,
dai campi di battaglia di Russia, d'Africa, d'Albania e dalla Slovenia. Campagne
queste nelle quali le FF.AA. di polizia profusero tanti e tali esempi di
abnegazione e di eroismo che potrebbero costituire la gloria di un intero
esercito.
Nel pieno dell'imbastardimento nazionale, siffatta rinascita di spirito militare
fece sorgere serie preoccupazioni nell'animo dei sovversivi. È assiomatico:
forze di polizia veramente efficienti rendono forte -anche suo malgrado- lo
Stato al quale appartengono e uno Stato forte può essere attaccato solo
dall'esterno.
A prescindere da quest'ultima considerazione che può essere approfondita solo in
sede di studio sulla guerra rivoluzionaria, è chiaro che gli ambienti
democratici italiani, da sempre ricettacolo di disertori, di negatori della
Patria, di sobillatori, di obiettori di coscienza, non avrebbero tollerato a
lungo un così spiccato risorgere di spirito militare nelle FF.AA. di polizia. A
questa classe dirigente non occorrono dei «soldati», ma solo un buon numero di
«poliziotti» visibilmente armati, ma realmente disarmati e resi impotenti da
leggi e disposizioni ambigue.
Tuttavia le FF.AA. di polizia risentirono solo per breve tempo della benefica
impostazione fascista, ma tanto da far naufragare le prime operazioni di
livellamento economico e gerarchico tentate da Scoccimarro alle Finanze, da
Nenni e Romita agli Interni.
Si affermò poi la politica di Scelba che, nonostante qualche aspetto positivo,
ha in sé tutti i germi della dissoluzione democratica:
— fortissimi ampliamenti di organici;
— carenza di un preciso criterio selettivo in sede di reclutamento;
— carenza di preparazione ideologica nei quadri;
— prevalenza del concetto dell'impiego in massa.
Una così errata impostazione organizzativa ha portato all'impiego delle FF.AA.
di polizia nell'umiliante ruolo di «cuscinetto a sfera» tra artificiose rivalità
politiche e sindacali e gli organi di governo. Rivalità e contese estranee ai
reali interessi dello Stato e del mondo del lavoro.
Sotto la spinta dei vari Lama che hanno blaterato di «animo distorto» nei
componenti le forze di polizia, è stata progettata una riforma che prevede una
totale ristrutturazione dei comandi e un aumento del 30 per cento dei
contingenti. Mediante tale riforma il sistema compie un altro grosso errore,
onde noi la accoglieremo con vivo piacere.
Prive di possibilità decisionali autonome e ridotte a mero strumento politico,
le FF.AA. di polizia sono il più valido supporto del sistema, anche malgrado la
volontà dei singoli che ne fanno parte.
Né «corpo unico» né «polizia civile» né «disarmo» potranno mai cambiare le carte
in tavola: il sistema non rinuncerà mai alla propria difesa e alle fazioni
rivoluzionarie non rimane altra via che quella della conquista ideologica dei
singoli, per renderla meno efficiente.
L'accattonaggio in favore delle Forze Armate di polizia è l'ultima ignobile e
disgustosa beffa che il sistema, borghese e parrocchiano, poteva infliggere agli
ultimi uomini ancora in grigio-verde che un giorno saranno chiamati a scegliere
tra la «nazione» e la «fazione».
4) GUERRA RIVOLUZIONARIA
Il disarmo morale delle FF.AA. è stato raggiunto dalla sovversione attraverso
una costante ed abile propaganda antimilitarista, sorretta sempre da attenta e
tenace attività parlamentare.
Le modifiche apportate al codice di procedura, alle leggi sull'«uso delle armi»;
la revisione dei regolamenti di servizio e certe circolari ministeriali ne sono
prove eloquenti.
Si aggiunga poi l'indirizzo tutto democratico ed irrazionale imposto alle azioni
delle FF.AA. di polizia, azioni orientate quasi unicamente verso la
«repressione» pura e semplice dei delitti e delle violazioni, mentre per oltre
un secolo il «prevenire» era stato ritenuto l'atto tipico della più saggia
azione di polizia.
Ogni buon democratico non poteva non tollerare prima ed incoraggiare poi l'opera
di sottile propaganda tesa ad accomunare tutte le FF.AA. in un unico giudizio di
«inutilità» quando non addirittura di «parassitismo» e di «criminalità». Ciò è
nella logica stessa della democrazia. La grossa campagna portata concordemente
innanzi dalla stampa comunista, clericale e governativa in favore di pochi
cialtroni «obbiettori di coscienza» è la più valida testimonianza di quanto
asseriamo.
Taluno ha avanzato la proposta di «dar vita a dei centri di irradiazione delle
idee controrivoluzionarie in tutti i settori della vita pubblica e privata dalla
nazione, con particolare riferimento agli ambienti dell'Esercito e delle Forze
dell'Ordine». Ma, per quali fini?
Per la lotta al sistema e la sua sostituzione o per la collaborazione col
sistema per il suo consolidamento?
Lette certe pubblicazioni, vagliati certi atteggiamenti e tenuto conto di «certi
rientri» appare evidente che non si hanno (o non si vogliono avere) idee chiare
al riguardo. È opportuno, pertanto, dare una nostra «risposta» alla guerra
psicologica altrui ed allestire una «nostra» linea autonoma per la «nostra»
sacrosanta guerra rivoluzionaria.
Abbiamo perciò studiato sia i nemici che i presunti amici. I sovversivi si sono
aggiornati, sono divenuti cauti, tempestivi, manovrieri, e soprattutto prudenti
calcolatori. Evitano abilmente i vecchi e forse innocui atteggiamenti
barricadieri e si giovano di grosse manifestazioni sindacali a carattere
riformista.
Preparano e pongono in atto azioni sottili da posizioni ben defilate con
l'ausilio della stampa, del cinema, della TV, del teatro, del pulpito.
Realizzano attività antinazionali pianificate e bene dosate mediante l'azione
occulta e felpata delle «gerarchie parallele» e, facendo leva sulla
collaborazione estorta ad ambienti politici opportunamente cloroformizzati,
pongono in atto accorte manovre intessute di ricatti e di doppio-giochi.
Ebbene, a questo punto, o noi facciamo altrettanto e meglio, o noi saremo
fatalmente destinati a rafforzare il nemico.
Da troppi segni, appare chiaro che molti presunti amici abbiano ormai
definitivamente assunto quest'ultimo compito.
Nel nostro ambiente ancora operano taluni individui pronti ad osannare ai
«paras» ed ai «corsi di ardimento» mentre troppi camerati si fanno irretire
dalle numerose organizzazioni massoniche capaci solo di trasmettere «vibrate»
proteste al ministro della difesa perché non venga punito quel generale o
quell'ammiraglio i quali però, in fondo, altro non vorrebbero che un esercito ed
una marina più efficienti da mettere a disposizione della NATO. Si avvicina però
il giorno del «redde rationem» per quanti hanno determinato l'arresto del nostro
ambiente nello sterile terreno delle «fasi di analisi» e, come in ogni
rivoluzione che si rispetti, la punizione dei traditori costituirà il primo
tempo della prima fase operativa.
Al nostro ambiente si impone quindi la necessità di saper rispondere alla guerra
rivoluzionaria altrui con una propria guerra rivoluzionaria. Ogni altro
atteggiamento ed ogni altra linea sono da ritenere alibi o tradimento.
Questo è il nostro dovere: riunirci intorno a programmi rivoluzionari, superare
il divisionismo, riprendere uniti la lotta contro il sistema, ma non da comparse
bensì da protagonisti, da combattenti autentici e non da ausiliari o da
mercenari.
Uniti, dobbiamo provocare e sfruttare le occasioni di sempre più profonde crisi
del sistema.
I nostri militanti debbono sentirsi parte di un esercito legionario, che senza
collusioni e senza corruzioni, sappia condurre una sempre più serrata lotta al
sistema per l'instaurazione dell'Ordine Nuovo in Europa e nel mondo.
Potenza e mobilità erano i poli dell'azione bellica tradizionale.
Fede incrollabile e volontà di lotta ad oltranza sono i cardini della guerra
rivoluzionaria. Possederle entrambe deve essere la unica aspirazione di quanti
vogliono battersi con noi per una nuova ITALIA e per una nuova EUROPA.
5) ESERCITO EUROPEO
Nel numero precedente abbiamo dimostrato come il colonialismo USA-URSS, parto
della logica dei patti di Yalta, consenta agli europei solo una risibile
consistenza militare.
La NATO e il Patto di Varsavia infatti sono pressocché integralmente nelle mani
degli Americani e dei Russi, talché, considerati i rapporti di forza, gli altri
paesi membri, alleati di nome, sono, di fatto, tributari destinati a
sopravvivere rinnegando se stessi.
Ciò posto, l'Europa potrà risollevarsi solo nella misura in cui saprà
respingere, tanto all'est quanto all'ovest, l'infame prassi terapeutica
impostale dai vincitori e solo nella misura in cui gli europei, considerandosi
solo temporaneamente sconfitti, sapranno darsi una comune volontà di rivincita.
Presente sul mondo unicamente come «mercato comune», l'Europa deve ritrovare il
suo spirito unitario, il culto delle sue tradizioni e incentrare la sua politica
militare sulla continuazione di una guerra che, prima di essere «nazifascista»,
era soprattutto europea.
Né, del resto, sarebbe concepibile un esercito di mercanti e di bottegai,
estratto da rissose plebi intente solo alla ricerca del benessere economico, che
le rende sempre meno ricche e sempre più schiave.
Non vi sono dubbi: i popoli storicamente europei sono nettamente superiori per
numero, per potenza economico-industriale e per livello culturale agli USA e
all'URSS messi insieme; essi tuttavia rimangono disuniti per insufficiente
consapevolezza di un comune destino storico.
A tale drammatica carenza si riferiva il cristiano-democratico Kiesinger quando
affermò che «è una vergogna che 200 milioni di americani debbono difendere 300
milioni di europei».
Ma non basta qualche raro momento di sincerità per affermare il diritto d'Europa
a vivere unita, libera e forte. Per la riscossa, s'impongono decisioni e
sacrifici la cui portata non è oggi prevedibile. Si avvertono oggi solo i primi
sintomi incoraggianti.
Infatti, da parte di ambienti seriamente e coraggiosamente europei è stato
acutamente osservato che «la costituzione di un corpo d'esercito europeo
potrebbe avere una portata psicologica d'impulso formativo incommensurabile per
l'Unità europea» ("Iniziativa" - Anno II, n. 3).
Sintomi di cui noi, che amiamo l'Italia con la passione di chi difese l'Europa
contro la più grande coalizione di tutti i tempi, prendiamo atto con viva
simpatia.
E veniamo al nostro esercito.
A prescindere da talune concezioni tecnocratiche, ancora tanto care allo S.M.,
non è dato rilevare in tale ambiente alcun serio indizio di evoluzione in senso
europeistico.
Per convincersene, basterà tenere presente il testo della conferenza tenuta dal
Gen. di C.d'A. U. De Martino agli allievi dell'Accademia Militare di Modena sul
tema «Passato e futuro dell'Alleanza Atlantica».
Siffatte manifestazioni di insensibilità, nascono dal non aver compreso la
lezione impartita dalla seconda guerra mondiale che ha fatto giustizia degli
uomini dediti alla sola professione delle armi e degli eserciti a coscrizione
obbligatoria; esse, inoltre, sussistono perché non si vuol far comprendere la
drammatica realtà vietnamita: un esercito reazionario, non potrà mai vincere un
esercito rivoluzionario.
Il dato ideologico predominò gli ultimi due anni di guerra si che oggi equivale
a porsi fuori della realtà e fuori della storia col prescindere da una totale
politicizzazione delle FF.AA., dal momento che tutto ciò che inerisce alla
guerra è materia squisitamente politica.
Mussolini, Stalin e Hitler poterono guidare i loro popoli alla vittoria o alla
distruzione solo in quanto, non essendo militari, non concepivano il senso della
capitolazione. E fu la loro gloria.
D'altro canto a reggere i fronti interni della «guerra civile europea» -spesso
più difficili di quelli esterni- furono chiamati uomini ed organizzazioni non
propriamente e non solamente militari: corpi di difesa civile in Inghilterra,
Commissari politici in Russia, M.V.S.N. in Italia, SS in Germania, i vari
servizi ausiliari femminili, ecc.
Dopo un quarto di secolo di letargo democratico, è dato ancora sperare in una
rigenerazione spirituale tanto profonda da far riconoscere agli europei gli
errori commessi contro l'Europa?
Per noi l'ingiusto verdetto del 1945 non è irrevocabile e, a nostro avviso, una
tale catarsi può aver luogo solo mediante l'adesione ai princìpi rivoluzionari
della RSI, assertori dell'«Europa Nazione» e portatori dell'unica idea sociale
atta a concretizzare l'indispensabile amalgama politico contro il capitalismo
russo-americano e a rendere sempre più vivo ed operante quello splendido
cameratismo europeo che già fu sentito come comunanza di sangue, di aspirazioni,
di tradizioni e di più alti destini.
Arte ed eideticità
La polemica sull'arte si è fatta stantia.
Tanto, non si tratta più di critica a manifestazioni individuali della fantasia,
poiché, dicono i letterati del campo, l'opera d'arte eterna non serve più, si
riduce tutto ad inventare oggetti di consumo, con una certa bizzarria che
esprima atteggiamenti psicologici da noi previsti e catalogati.
Questa storiella ha creato un mercato, che da da vivere ad un gruppo di
«critici», di mercanti e di non-artisti che fanno la non-arte, come arte.
Dobbiamo rassegnarci ad ammettere che il movimento, in apparenza sostenuto da un
corpo di idee che non è pensiero, abbia veramente provocato la fine dell'Arte?
C'è un modo di resistere a tale mistificazione ed è quello di continuare a
credere nell'arte come tale e non confondere un vetrinista con un pittore ed un
aggiustatore meccanico con uno scultore.
Ma v'è una via più alta e dignitosa che consiste, per gli artisti, nel produrre,
possibilmente, opere che durino oltre la fama degli Argan, dei Ballo, dei
Dorfles ed altri teorici senza teoria (vogliamo dire, senza autentici contributi
filosofici, che vadano oltre la lettura degli epigoni di Freud e l'idolatria
della civiltà americana) e, per i filosofi, quella di promuovere estetiche, cioè
teorie dell'arte, che non entrino in contraddizione con se stesse, affermando
che la arte non esiste, come attività indipendente dello spirito umano, oppure
che l'arte deve essere distrutta perché espressione del predominio della classe
borghese e del capitalismo.
Purtroppo, tali sciocchezze fanno presa, proprio su tutti i «parvenus»
dell'inciviltà dei consumi, che riempiono le loro case di polemici cartoni
spruzzati di «acrilico» e di molle a spirale comprate dal robivecchi, in nulla
differenti dai «parvenus» di cinquantanni fa che vedevano la «luce» in una
crosta bianca e «l'erba viva» in una spennellata verde di un paesaggista di
provincia.
Un discorso serio sull'arte comincia dalle ultime propaggini dell'estetica
romantica e, se si vuole considerare, in ritardo, l'influsso della fenomenologia
di Husserl, mai letto in Italia, sulla crisi di ripiegamento della realtà,
occorre considerare che essa è contemporanea alla fioritura neo-hegeliana e,
pertanto, non ne è superamento, ma solo richiamo alla trascendentalità del tempo
e della storia.
E, se l'esigenza spirituale del secolo è, in effetti, quella di superare
l'individualismo romantico, non si può annegare l'individuo nell'oggettività di
un falso mondo che lo circonda, poiché esso stesso è il soggetto di quella
oggettività.
Quindi, l'atto individuale della creatività rimane, anche se si rifiuta la sua
assolutizzazione.
D'altra parte, la pretesa di far la politica o la missione sociale coi quadri e
con le sculture è più ingenuo e provinciale dell'ignorantesco premito di moda.
Certo, i contenuti dell'espressione artistica mutano, ma questo, che c'entra?
Il contenuto di un'opera d'arte è la spiritualità dell'artista ed ecco perché i
futuristi volevano il pittore al centro del quadro. Con il linguaggio della
fenomenologia, il quadro ha un significato «eidetico», che va oltre il contenuto
apparente.
Ma, senza elaborazione tecnica e cioè trasfigurazione del contenuto in una
forma, non v'è stata mai arte, perciò i «cazzabubboli» dell'estetica mercantile
vaneggiano la fine dell'arte.
I loro ragli cesseranno, appena l'ugola si seccherà e l'Arte sarà eterna come la
condizione incondizionata che trascende la storia ed il suo limitato
protagonista: l'uomo.
Pollok, pittore dell'automatismo
Jackson Pollock, pittore americano, nativo
di Wyoming, e da diversi anni scomparso, ascriveva a sua indiscussa originalità
un impreveduto esercizio pittorico consistente nel «dripping», ovvero nella
sgocciolatura del colore dall'alto, in una sorta di bombardamento molecolare
sulle tele d'argento. La sua cultura non ha niente di europeo, anche per l'arte
moderna francese. La sua derivazione da Mirò, Ernst, dai surrealisti, da Picasso
di "Guernica", è solo in riferimento ad una identità di metodo e di linguaggio,
più. grafico che poetico, che va dall'acquisizione del modo di raggiungere la
spazialità e la libertà nella collocazione degli oggetti sulla tela,
all'istintivo automatismo del colore, ad una belluina forza espressiva, riferita
costantemente ad una pretesa urgenza espressionistica.
In effetti Pollock è il cantatore, o meglio «l'urlatore», di quell'America senza
tradizione, pragmatica e sperimentale, tutta protesa alla conquista della
tecnica artefice di una «civiltà» meccanicizzata e materialistica. La sua arte,
che non è unità, ma che risente di quella molteplicità che è caratteristica
proprio della sua tecnica {una tecnica senza dubbio «sua», personalissima ed
inconfondibile se vogliamo), non si prefigge di creare, di esprimere o di
descrivere, ma piuttosto di trattare le componenti contingenti e materiali del
sentimento, non già di esaltare il sentimento stesso come forza espressionistica
o esplosione spirituale. Ecco perché la sua pittura, il cui colore, come abbiamo
detto, viene lasciato colare dall'alto a mo di «condimento», reca in sé stesso,
nel momento in cui si forma, non già la elaborazione o la predeterminazione di
una immagine, di un sentimento, di un'idea, ma soltanto la vera attività
materiale del dipingere. Il suo è puro automatismo, perché l'esperienza
dell'artista si forma nel momento stesso in cui il colore sgocciola o condisce
la tela posta in basso.
Pollock ha composto le sue tele, grandi e senza confini, quasi incapaci di
contenere tanta furia e tanta esplosione, con arbitrario e casuale automatismo,
il cui impulso e la cui vita scaturiscono soltanto dal gesto del braccio, che
segue con giri concentrici, con arresti, con riprese asmatiche la imponderabile
caduta del colore dal tubetto, ora filiforme, ora grumoso, ora diviso in
macchioline e schizzi. La sua originalità consiste nella furia ritmica del
braccio che accompagna la vernice, che ricompone sulla tela la materia, in uno
sfavillio di colori caotici, ora tenebrosi e spaventosi, ora in chiazze e zone
come una veduta aerea, ora stridenti ed ottusi.
Il colore cioè non determina una visione, poniamo, decorativa o di pura
visibilità, né è in funzione di luce o di valore: il colore è soltanto la
materia, la pasta colorata spremuta da un tubetto di latta, quando addirittura
il pittore non sente il bisogno di inspessirlo con l'aggiunta di materiale
estraneo quali chiodi, coperchi di tubetti, sabbia, pezzi di sughero e di vetro.
Questo è tutto.
Non nascondiamo che l'effetto che se ne ritrae è alle volte sorprendente ed
allucinante, alle volte suggestivo. Ma non sappiamo nemmeno come definire questa
attività (gli inglesi sbrigativamente dicono: american type painting!) che non è
certamente la tradizionale arte del colore; mentre si è certi di poter
richiamare un'ideologia materialista a sostegno di questa attività, che sottende
una esperienza empirica e che è il naturale risultato «artistico» di una società
ed un mondo esistenzialmente decadenti.
Manifesto realista
di Berto Ricci
Apparso su "L'Universale" anno III n. 1, del 10 gennaio 1933.
Alcuni Italiani, sazi di sentir parole, e
desiderosi d'un ritorno italiano alle idee, ritengono utile esporre il loro
pensiero su cose di qualche interesse presente e futuro. Questo manifesto non è
perciò che una franca espressione d'opinioni fortemente sentite, delle quali
alcune coincidono con princìpi ormai stabiliti in Italia e in via d'affermarsi
anche fuori, altre sono controverse: né le prime si danno qui come novità, né le
seconde come suggerimenti a nessuno. Più cercatori di verità che recitatori di
catechismi, e accomunati da questa ricerca e dal dispregio della facile sapienza
che si sbriga de' massimi problemi con frasi usate, i firmatari trovandosi
d'accordo su alcuni punti essenziali ne danno notizia a chi come loro si pone
oggi domande rigorose e si sforza di trovarvi risposta.
E in primo luogo affermano che secondo ogni apparenza l'odierna crisi spirituale
e pratica di molti popoli è crisi di civiltà, e sta ad indicare la decadenza
della civiltà occidentale nei suoi aspetti di nazionalismo e di capitalismo,
nonché in quello più antico e solenne di cristianesimo.
È prova della decadenza del nazionalismo il suo stesso acuirsi morboso al
servizio di nascosti interessi negli Stati più forti e di più remota formazione,
e l'esasperarsi degli egoismi nazionali sul piano diplomatico e militare in
contrasto col crescente universalismo dell'intelligenza e dei costumi; il suo
ricorrere a trappole pacifiste per garantire ai profittatori di Versailles il
predominio.
Dimostrano la decadenza del capitalismo la crisi generale delle industrie e dei
mercati, la guerra doganale e lo sciovinismo economico, la disoccupazione come
stato permanente di folle, il tracollo delle grandi e piccole aziende divenuto
normalità, il deprezzamento della stessa proprietà agricola e il definitivo
struggersi di patrimoni di vecchia data, l'impotenza dei cosiddetti «cartelli» e
forse la loro medesima costituzione, la frequente impossibilità di smercio delle
materie e delle manifatture, la difficoltà e spesso l'impossibilità di giovarsi
degli sbocchi esistenti, la svalutazione della mano d'opera determinata dal
progresso meccanico in una società inetta e restia a farne l'uso migliore,
l'ingigantirsi numerico della burocrazia a tutto scapito del lavoro,
l'agglomeramento sterile e malsano nello grandi città, lo squilibrio tra una
produzione progredita a dismisura e una distribuzione sociale e internazionale
rimasta indietro di secoli, l'intervento inevitabile degli Stati nell'economia
privata.
Dimostrano la decadenza del cristianesimo: l'attenuarsi del sentimento del
peccato negli uomini, la presa sempre minore che hanno i principi cristiani
sulla vita degl'individui sia credenti che no, l'affievolimento del concetto di
trascendenza nello spirito umano quando non si riduca a spicciola superstizione
e bigotteria, il clero sempre più abbassato a mestiere, l'imborghesirsi di
quello secolare e la sua stessa correttezza esteriore che ne fa una classe di
stipendiati incapace ugualmente di grandi vizi e di grandi virtù, il distacco
d'una società nominalmente cristiana dagli apostoli delle missioni e dai martiri
delle persecuzioni, il degenerare della maschia bontà evangelica in una gelida
irreprensibilità al di qua del bene e del male, il trionfo della moda pubblica e
impura di beneficenza sul precetto individuale e austero di carità mentre già si
afferma come valore sociale superiore a entrambi quello di solidarietà; la
promessa e non raggiunta conciliazione tra dogma cattolico e scienza e pensiero
moderno; la disperata siccità e la depravazione intellettuale delle chiese
protestanti; infine il palese prevalere quasi dappertutto del potere pratico e
spirituale dello Stato sul potere pratico e spirituale della Chiesa di Roma, e
delle altre che meno legittimamente si nominano da quella religione: tanto da
rendere oggi pazzesca l'ipotesi, ieri ancora verosimile e varie volte avverata,
di moltitudini cristiane accorrenti in difesa del papa o della fede colpita come
in Russia e nel Messico.
Concludiamo perciò che i sintomi di declino della civiltà occidentale investono
i! nazionalismo, il capitalismo, e il cristianesimo; che questo triplice
decadimento è sensibile nella crisi presente, la quale non si risolverà nel
sistema ma oltre il sistema, cioè oltre il nazionalismo, oltre il capitalismo,
oltre le degenerazioni storiche del cristianesimo.
Rileviamo a tal proposito quanto sia transitorio, e da riferirsi più che altro
al secolo passato, il concetto stesso di mondo occidentale come ambiente chiuso
e vivente a sé; e come sia da reputarsi probabile che alla civiltà futura
collaboreranno genti d'ogni razza e d'ogni paese.
I sottoscritti escludono parò che Ia società e la civiltà avvenire abbiano a
fondarsi sul comunismo russo o sul gandhismo indiano, essendo il primo
nient'altro che il contraccolpo locale e temporaneo della rapida rovina d'un
feudalismo mitigato, e il secondo un impulso tradizionale non adattabile ad
altro clima. Pur apprezzando l'immenso valore dei due fenomeni e la parte
indubbia che avranno nella prossima storia del mondo, come pure il necessario e
già visibile apporto che a questa daranno altre razze, essi sono convinti che
tutte queste energie variamente modificate e incanalate dagli eventi e dalle
necessità dovranno far capo all'Italia e alla rivoluzione fascista, rivoluzione
imperiale, centro d'una imminente civiltà non più caratteristica d'un continente
o d'una famiglia di popoli, ma universale.
Credono quindi che sia grave errore definire il Fascismo come salvatore della
civiltà d'Occidente, anziché venuto a darle morte serbando di lei unicamente il
cardine eterno, e cioè il rispetto e la funzione della personalità umana:
principio mediterraneo, anteriore al cristianesimo, e dal cristianesimo accolto
come sopravvivenza imperitura di paganità fino ad esser ripreso dal Rinascimento
italiano. Vedono nell'universalismo un moto fatale della storia contemporanea,
accresciuto senza più possibile freno dal moltiplicarsi degli scambi e dal
progresso delle scienze; e sono persuasi che l'unione dei popoli sarà attuata
dall'Impero fascista con le armi della pace e della guerra, nonché col concorso
di tutti i lieviti rivoluzionari oggi in azione nel mondo. Vedono cioè nel
Fascismo, di là da ogni contingenza provvisoria, un moto cosmopolita come son le
cose d'Italia, assimilatore e unificatore di popoli. Ripudiano dunque come
arretrato ed equivoco il linguaggio di chi vocifera di romanità secondo una
ristretta visuale nazionalista di origine non certo italiana, del tutto
contraria alla missione di Roma, che non è quella di contrapporsi ai barbari ma
di farli cittadini. E osservano con particolare soddisfazione come sia fallito
senza rimedio il proposito d'inserire la Rivoluzione fascista nel quadro d'un
ridicolo legittimismo europeo rimasto a sognare Sante Alleanze per uso di pochi
maniaci del principio dinastico mondiale e nostalgici d'un ordine feudale ucciso
dai Comuni italiani e dal Rinascimento italiano.
Affermano che il nome d'Italiano Implica oggi, e sempre più richiederà in un
prossimo futuro, non la sola qualità di abitante d'un territorio e di suddito
d'uno Stato, ma quella di milite d'una rivoluzione in atto e di costruttore
dell'Impero. Queste due realtà-idealità madri della storia moderna, Rivoluzione
e Impero, appaiono inseparabilmente legate dalla relazione di causa ed effetto,
ed è vuoto artificio il dividerle. Sbaglia chi nel giudicare le rivoluzioni si
ferma ai loro presupposti astratti o alla cronaca loro, e sbaglia chi scambiando
il modo con l'essenza vede nell'Impero un fatto soltanto militare. Gl'imperi più
o meno vastamente raggiunti e più o meno stabilmente mantenuti dai popoli
moderni sui territori e sugli spiriti nascono dalle rivoluzioni e ne propagano
le idee; decadono e lentamente si dissolvono quando le idealità che li
ingenerarono hanno esaurito il loro compito nel mondo. E le moderne rivoluzioni,
dalla luterana alla inglese d'un secolo dopo, dall'americana alla giacobina alla
bolscevica, e alla kemalista, esprimono innanzi tutto (qualunque ne sia la base
teorica) la vitalità del paese d'origine, la volontà e capacità di dominio del
loro popolo.
I sottoscritti considerano l'Impero nella piena estensione metafisica e
geografica del termine, con tutto quel ch'esso inchiude di necessaria violenza,
ma soprattutto come atto d'amore sul mondo: non fondarono imperi Attila e
Tamerlano. Credono, con Dante, ch'esso spetti all'Italia e a Roma; e credono che
gl'imperi d'altri non siano che abbozzi e ombre di lui. Considerano come
secondaria la forma di governo di esso, purché assicuri la partecipazione intera
dell'individuo allo Stato, lo sviluppo di aristocrazie non necessariamente
ereditarie né elettive ma naturalmente sorte dall'ingegno e dal lavoro, e la
possibilità della dittatura. Vedono nella rivoluzione italiana intrapresa col
moto per la libertà e l'unità nazionale, e ora portata al più alto grado e
facentesi popolo e spinta sul campo d'Europa dal Fascismo, la premessa
necessaria dell'Impero umano che realizzerà la Monarchia di Dante e il Concilio
di Mazzini. Per questo motivo sopra ogni altro, attestano a Mussolini, Capo
della Rivoluzione fascista, e Capo d'Italia, la loro calda e sicura devozione.
Prendendo a esaminare gli elementi che si possono opporre fin d'ora alla civiltà
attuale, e sui quali presumibilmente si fonderà la futura, riscontrano anzitutto
come il determinismo economico e il materialismo storico siano dottrine smentite
da molti fatti, e vere soltanto per una limitata classe di fenomeni all'infuori
dei quali agiscono forze spirituali d'intensità uguale e talvolta maggiore,
benché di più difficile percezione: forze il cui alterno moto aggrega o disgrega
i ceti sociali, accresce e debilita le nazioni. Negano che sia da vedersi oggi
alcuna vitalità nelle ideologie liberali, nel patriottismo convenzionale, nelle
mascherate massoniche, nella democrazia rappresentativa e nelle furbe utopie
ginevrine, parvenze morte e morti istituti che innestati sul cristianesimo della
Riforma e della Controriforma costituiscono appunto la contraddittoria e
crollante intravatura della società contemporanea; e rifiutano di conseguenza a
questi elementi ogni funzione storica nel futuro prossimo o remoto. E dichiarano
quanto segue.
Per il problema religioso: che la fede religiosa è un fatto individuale, e che
la libertà di coscienza potenzialmente acquisita dai popoli con la rivoluzione
francese e proclamata molto prima in terra italiana è proporzionata alle
possibilità degl'individui, ma non si può né si deve sopprimere con ritorni di
barbarie; che, per quanto riguarda l'Italia, la libera universalità del Fascismo
esclude anche in via d'ipotesi ritorni tali; che la tradizione nostra civile non
rientra nella cattolica e può e ha potuto svolgersi indipendentemente da quella;
che l'intrecciarsi del paganesimo mediterraneo al cristianesimo cattolico è
stato condizione certa e costante della storia italiana, col risultato di
contemperare i due elementi fino a che una più alta forma non li riassuma; che
il problema religioso non si risolverà con filosofie e meno che mai con idoli
(idealistici, ma solo sul terreno religioso e cioè o per un rinnovamento
profondo delle religioni esistenti o per l'avvento di nuove energie spirituali
sulla terra quando quelle religioni avessero ultimata l'opera loro; che a tale
rinnovamento o a tali energie d'altra provenienza spetterà di metter fine al
dissidio concettuale e morale tra civiltà moderna e fede; che infine il
rampollare dal tronco mediterraneo di una etica fascista al disopra delle
preoccupazioni confessionali degl'individui è l'annuncio del tempo nuovo.
Per il problema politico: che gl'istituti politici sono transitori ed hanno
valore solo in quanto tendono all'Impero; e che è merito grandissimo del
Fascismo affermare e sostenere il concetto d'una politicità dell'uomo impressa e
riconoscibile in ogni attività umana. Che questa politicità o essere politico
non consiste nella briga dei partiti, delle categorie e delle clientele, bensì
nella partecipazione dell'individuo allo Stato secondo le proprie capacità,
secondo ed «entro» il proprio ufficio, e nel sorgere spontaneo e continuo delle
aristocrazie naturali; ch'essa supera di molto le rispettabili ma non più
sufficienti virtù del pariottismo sentimentale, dell'ossequio alle leggi e di
una medievale sudditanza detta modernamente civismo; che se l'italianità potè
per secoli essere più che altro natura (Cellini) e per successivi decenni più
che altro convinzione eroica (martiri di Belfiore), occorre oggi trasmettere a
tutto il popolo la fusione di questi due aspetti di lei, uno istintivo l'altro
riflessivo, già attuata con continuità nei grandissimi da Dante Alighieri a
Giuseppe Garibaldi, e in ore supreme negli umilissimi dai combattenti
dell'Assedio a quelli del Carso e di Fiume: si che nel corso di poche
generazioni essa italianità princìpi ad agire simultaneamente come fatalità e
come volontà, come energia innata e come confessata fede. Chiedono che si
sviluppi e si estenda in Italia un imperialismo popolare non incorporato in
associazioni, ma emanante dal Fascismo quale sua conseguenza immediata, e dal
Fascismo trasfuso a tutta la patria come coscienza d'una missione universale.
Detto imperialismo non può significare rinunzia al compimento dell'unità
geografica e oblio delle terre italiane rimaste in mano serba, inglese o
francese, ma solo condanna di chi non veda oltre quelle, e cerchi di polarizzare
su quelle l'attenzione e la passione dei giovani.
Per il problema economico e sociale, i sottoscritti riconoscono come portata dai
tempi e sintomo certo di profonda trasformazione la necessità di una limitazione
qualitativa e quantitativa del diritto di proprietà, e d'una subordinazione
ferrea ed equa degli interessi privati all'interesse dello Stato. Credono che
ciò non voglia dire avviarsi a un marxismo incompatibile con la natura umana e
soprattutto con la natura italiana, ma solo trasferire nell'ordine economico il
concetto di politicità dell'individuo come esposto sopra; e che il tramonto
inarrestabile del sistema liberale esiga da una parte l'eticità dell'economia,
dall'altra la graduale partecipazione dei lavoratori alle aziende e la fine
d'ogni proletariato. Ritengono che la società futura avrà a fondarsi sul dovere
del lavoro e sul diritto del produttore alla proprietà nei limiti utili allo
Stato; e che il diritto di proprietà e quello d'eredità siano buoni in quanto
servano allo Stato, nocivi in quanto non concordino coi suoi fini; che
l'iniziativa individuale sia da favorirsi oppure da limitarsi e reprimersi
secondo lo stesso criterio. Additano al disprezzo degl'Italiani e all'attenzione
dei legislatori della Rivoluzione quella classe di ricchi oziosi che sta assente
dalla lotta economica, e che potendo dar vita alle aziende, lavoro ai
lavoratori, ricchezza alla nazione, preferisce godersi le rendite o sfruttare
con metodi primitivi
I possessi lasciando al Governo tutto il peso delle bonifiche e dei lavori
pubblici, e dimostrandosi indegna dei beni così malamente amministrati. E
ravvisano nel corporativismo fascista il principio del nuovo ordine,
suscettibile d'imprevisti sviluppi e d'impensabili risultati; giudicando che sia
errore deplorevole quanto comune il prendere per punti d'arrivo di esso
corporativismo quelli che ne sono invece i primi passi necessari, quali
l'iscrizione generale ai sindacati, le otto ore lavorative, l'assicurazione
obbligatoria, la magistratura del lavoro. Infine, tengono per fatto importante e
forse capitale lo scadimento del dualismo vecchio tra campagne e città sia
nell'ordine economico che in quello sociale e morale, e il convergere della
civiltà, umanità ed economia rustica e della civiltà, umanità ed economia
cittadina verso un unico tipo.
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