Italia - Repubblica - Socializzazione
 

Rivista trimestrale
di formazione politica

Direttore responsabile: Romolo Giuliana
Amm: Roma,
via D. Fontana, 12

Anno II - n. 1
Gennaio - Marzo 19
70


SOMMARIO

1 - I tre piani della giustizia

2 - La convergenza finale

3 - La socializzazione delle imprese

4 - I governi di Rumor

5 - Contro la NATO

6 - Spirito e materia: antinomia di una rivoluzione

7 - È di scena l'atomica

8 - Maschera e volto dello scetticismo contemporanea

9 - La finta guerra

10 - Monoteismo unidirezionale

11 - Regioni e no

12 - Poderosi scocciatori

13 - I supporti del sistema: le Forze Armate

14 - Arte ed eideticità

15 - Pollock, pittore dell'automatismo

16 - II manifesto realista di Berto Ricci
 


I tre piani della giustizia

Una volta colto il metro di valore della spiritualità dell'uomo, che si realizza pienamente nello Stato, non per esserne limitato da libero, ma per esserne liberato dalla sua limitatezza individuale, la cui registrazione è momento mistico della religiosità, condizionalità e trascendenza, occorre seguirne l'inserimento necessario nel processo della storia e cioè individuare la costituzione statuale della società.
L'errore dell'individualismo liberale è di vagheggiare una libertà come stato di natura dell'intuizione giangiacchiana, che si configura, nella sua manifestazione, come egoismo, negatore della società, ridotta ad amministratore e contabile, e deriva dall'assunzione surrettizia della spontaneità animale a matrice dello spirito.
L'errore del collettivismo è di vagheggiare una giustizia rivendicativa inserita nel mito di uno svolgimento dialettico della realtà storica, che appartiene, invece, solo al processo e quindi al puro campo delle idee.
L'intuizione possente dello Stato, che individua storicamente la trascendenza del reale e, pertanto, condiziona l'individuo per realizzarlo nella sua finale liberazione, conduce invece alla identificazione dell'autentica giustizia con l'autentica libertà.
Seguire il processo di inserimento dell'individuo nella società significa, quindi, individuare almeno tre piani di giustizia, che sono i gradini dell'ascesa alla finale libertà.
Un primo piano di giustizia, che garantisce all'uomo la possibilità di uscire dalla sua solitudine numerica ed anagrafica, per dar luogo alla prima manifestazione della sua personalità, è quello di fornirgli tutti gli elementi di ordine materiale e, cioè, economico, indispensabili a tale manifestazione.
Tale piano primitivo di giustizia rappresenta, spesso, per le ideologie di tipo marxista, il fine ultimo della rivoluzione, mentre, nella nostra enunciazione, ne rappresenta solo la base materiale. Materiale, a tal punto, che la sua attuazione, come appare nelle più recenti esperienze storiche del sistema, può concepirsi al di fuori o contro ogni esigenza di libertà.
È la presenza di un secondo piano di giustizia, nell'ulteriore inserimento dell'individuo nella società, a denunciare la presenza di un valore umano e la successiva spinta verso la conquista di quella libertà.
Tale secondo piano di giustizia permette all'uomo di assurgere ad una posizione di iniziativa e di scelta, che presuppone le capacità spirituali d'inventiva e di organizzazione.
È il terzo piano di giustizia dello Stato, però, che accentua il significato di valore, nella struttura morale e giuridica della società, garantendo la conquista dei fini supremi dello spirito, i quali contengono la libertà finale dell'uomo.
Qui si intravede abbastanza chiaramente il metro di valore della trascendentalità, come impossibilità di commutazione in termini di economia delle attività supreme dello spirito, che, da sole e nella loro autonoma qualificazione, acquistano il diritto alla piena disponibilità dei mezzi strumentali, per attuarsi ed ottenere il loro pieno riconoscimento.
La gerarchia dei valori determina, a questo punto, l'autentica società degli uomini.
Appare necessario l'ulteriore passo della istituzionalità, che liberi il processo dell'integrazione sociale, dai piani inferiori dell'economia a quelli supremi della moralità.




La convergenza finale

Qualche tempo fa, il fisico sovietico Pyotr Kapitsa ha fatto un bel giro culturale in America, ove ha voluto dire la sua come rappresentante dell'intellighentia marxista, esponendo i caposaldi della dottrina del suo maggior compagno, Andrei Sakkarov, detta della «convergenza finale».
In termini molto spiccioli, per non sfociare nello scontro atomico che risolva in apocalisse il tentativo supremo di sopraffare l'avversario di uno dei due poli dell'antitesi dialettica individualismo-collettivismo, il profeta Sakkarov prevede una semplicistica sintesi degli opposti, onde l'America capitalista accetterà le istanze sociali soddisfatte dalle realizzazioni sovietiche, mentre la Russia scioglierà i nodi della vita collettiva, fino ad accettare certe esigenze di espressione individuale, e l'umanità sarà salva.
La semplicioneria apparente della posizione nasconde, in realtà, un fiuto storico non indifferente, in quanto il mugiko intellettuale sente che nessuno dei due materialismi armati potrà dare assetto definitivo all'umanità.
Semplicemente, egli ignora che il mito delle sintesi dialettiche è tramontato, proprio da quando il suo profeta Carlo Marx ha «capovolto» la dialettica hegeliana, che, secondo lui, procedeva a testa in giù.
Il materialismo storico dei collettivisti e quello metafisico degli individualisti positivi e pragmatici, che si riempiono la bocca della parola «libertà», per riempire di piombo tutti coloro che non obbediscono alla legge di Wall Street e di Forte Knox, non può avere svolgimento dialettico, possibile solo con le idee e con la realtà ridotta imprudentemente a idea.
Esso è la matrice comune ai due poli dell'antitesi e solo il suo annullamento risolverà il pericolo di distruzione atomica della civiltà umana, smarrita tra le secche della relatività quantitativa.
Che accadrà?
Noi lo vediamo chiaro, quando accomuniamo i due sistemi della truculenza materiale nella stessa assenza di valore umano, cioè spirituale.
Ci vuole un ulteriore «raddrizzamento» della visione del mondo, della realtà, dell'uomo.
Occorre negare, definitivamente, che la dialettica, dal campo delle idee, secondo la follia romantica hegeliana, possa trasferirsi alla realtà trascendente ed alla storia, occorre tornare ad una visione classica del mondo e dell'uomo, in cui il limite invarcabile della vita spirituale e corporea costringa l'uomo a realizzarsi ed affermare la sua presenza nella storia, con l'inserimento necessario nella molteplicità sociale.
Giustizia e libertà non saranno, allora, poli di un'antitesi dialettica, la cui sintesi è irrealizzabile, ma i due modi d'essere dell'uomo finito, che conquista la liberazione, nello stesso atto del comporsi in armonia di giustizia con tutti gli altri.
La convergenza finale dei due mostri non è possibile, perché non è necessaria, ma il flusso della storia convergerà sulla classica realizzazione dello Stato di popolo, intravisto da pochi che lo hanno enucleato dal dramma del nostro secolo, dal crogiuolo rovente delle crudeltà disumane in cui ci calano, giorno per giorno, i feticci dell'individuo assoluto e della società senza Stato.
La meta finale è lo Stato fascista, come proiezione dell'avvenire, da non confondere con alcunché di già visto o di già fatto.



La Socializzazione delle Imprese

Coloro che dello Stato fascista hanno un'intuizione di tipo rivoluzionario, ma non attingono tale ispirazione a fonti filosofiche e dottrinarie ben chiare, usano identificarlo empiricamente con la rottura sociale codificata da Mussolini, durante la Repubblica, con il Decreto 12-2-1944, n. 375, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 151 del 30-6-1944, che prende il nome di "Socializzazione delle Imprese".
In realtà, la socializzazione fascista, disposta nel bruciante periodo della guerra civile, per ammissione esplicita degli stessi nemici del Fascismo, specialmente di parte liberale e confindustriale, presenta caratteristiche particolarissime, che la distinguono da tutte le altre realizzate e progettate, prima d'allora, poiché dispone originalmente la socializzazione della gestione e non della proprietà.
Si obietta che il trasferimento della proprietà non avviene anche nelle forme cooperativistiche e sindacaliste, ma è anche vero che, nella cooperativa e nell'azienda sindacalizzata, sono proprietarie dei mezzi di produzione le stesse classi lavoratrici.
I critici individualisti e certi fascisti fasulli, che considerano il fascismo un movimento reazionario di destra, tanto da militare nelle file del MSI, che del regime mussoliniano e non del Fascismo, mai realizzato, raccoglie le immondizie, affermano che un tale schema di socializzazione è «ibrida», in quanto inserirebbe un nuovo tipo di gestione, in una struttura fondamentalmente capitalistica, ma ciò avviene semplicemente perché non hanno afferrato il senso di un provvedimento contingente, nel crogiuolo rovente della guerra ormai perduta, che ha significato solo se si portano alle conseguenze estreme i princìpi rivoluzionari dello Stato di popolo, prima sul piano morale e politico e poi su quello economico, di produzione della ricchezza.
Vale la pena, comunque, prima di mettere in termini di chiarezza il caposaldo rivoluzionario della socializzazione, di esporre le direttrici del provvedimento attuato nell'ambito della Repubblica Sociale Italiana.
Anzitutto, il Decreto della socializzazione stabiliva:
1) di socializzare tutte le imprese che possedevano più di un milione di capitale (1944) od impiegavano più di 100 operai;
2) di statizzare tutte le imprese fornitrici di materie prime o servizi di interesse generale.

La socializzazione, nel settore privato, si attuava a mezzo dei seguenti istituti:
1) la figura del Capo dell'Impresa, più pubblica che privata, con poteri di gestione molto vasti;
2) la partecipazione agli organi di gestione dei rappresentanti del Lavoro, in misura pari al capitale;
3) la compartecipazione agli utili dei lavoratori;
4) il Consiglio di gestione.

Tale organizzazione della produzione economica s'ispirava ai princìpi fondamentali seguenti:
1) prevalenza assoluta e costante degli interessi collettivi sul semplice tornaconto privato;
2) responsabilità dell'Imprenditore di fronte allo Stato della produzione economica;
3) carattere sociale dell'Impresa, anche familiare, attraverso il Consiglio di gestione;
4) subordinazione dell'attività imprenditoriale economica alle finalità morali, sociali ed economiche dello Stato.

La socializzazione così strutturata non ha avuto la sua completa realizzazione ed ha mantenuto il carattere di «mina sociale», nel precipitare degli eventi che si concludono con la sconfitta militare del Fascismo e con la restaurazione clericale dei diritti capitalistici, solo minacciati da un'ipotetica instaurazione di un collettivismo di tipo marxista, che comporterebbe l'abbandono strategico dell'Europa, in mani russe, da parte degli Stati Uniti d'America.
Ma ciò che è stato solamente annunciato ed imperfettamente realizzato, durante il ventennio, ha significato attuale e non meramente storico, che s'inquadra nella visione complessiva dello Stato fascista, quale si trae dalle premesse di trascendenza del reale e di essenza religiosa del limite umano, illustrato nei numeri precedenti.
In un mondo di valori, quale noi auspichiamo, la strumentalità non solo non deve costituirsi fine a se stessa e non deve sovrastare, come avviene nella società materialistica di oggi, il fine supremo della vita, ma la stessa attività economica tesa alla produzione della ricchezza indispensabile al riscatto dell'uomo da quella servitù, deve riflettere l'integrazione delle singole partecipazioni, che è necessaria alla socialità.
Per cui, fermo restando il concetto che la spontanea iniziativa dell'individuo e la sua libera scelta nel campo dell'economia rappresentino un fondamento di giustizia più elevato della semplice soddisfazione dei bisogni della vita materiale, tale iniziativa deve essere configurata nel suo sviluppo dinamico e seguita nel suo processo produttivo di organizzazione per inquadrarne il valore e definirne i limiti sociali.
L'iniziativa individuale è senza dubbio la molla potente della produzione economica e della creazione aziendale ma, come tutte le forme di processo umano, si espande e si esaurisce nello spazio e nel tempo.
Cosa succede, allorché l'iniziativa individuale conquista la meta segnata, attinge il culmine della sua potenza e si esaurisce nel fine raggiunto?
Nel processo economico della «libertà naturale» in tutto simile alla spontaneità animale, la meta raggiunta è il diritto sacro ed inviolabile dell'illimitata disponibilità dei beni strumentali acquisiti e quindi dell'infinita possibilità di costituirsi il privilegio della moltiplicazione e dell'accumulazione del capitale.
Da qui l'iniquità del rapporto tra il capitale, di potenza materiale infinita, ed il lavoro, succube dell'arbitrio altrui e quindi impotente ad alimentare la libertà.
È a questo punto che l'integrazione sociale, posta come il lievito indispensabile all'attuazione dei valori umani, interviene a risolvere il grande problema della coesistenza della libertà e della giustizia, nella comunità organizzata.
Allorché l'iniziativa individuale, liberamente manifestatasi nella creazione dell'azienda economica, si è esaurita e tende a cristallizzarsi nel privilegio, deve costituirsi necessariamente e cioè in virtù della legge l'integrazione delle responsabilità, non solo economiche, ma, anzitutto, morali e pertanto anche politiche, nella gestione dell'azienda, nella sua direzione ed organizzazione ed, ovviamente, nell'equa distribuzione della ricchezza tra gli elementi della produzione.
Colui che ha il merito di aver fondato e potenziato l'azienda produttiva, dando luogo alla manifestazione di un valore umano e con ciò non meramente e semplicemente materiale, attraverso gli elementi della sua stessa organizzazione, entra in un rapporto con gli altri e cioè «sociale» di inevitabile integrazione qualitativa e quantitativa.
E la sua organizzazione, in virtù di tale passaggio, si articolerà socialmente nella compartecipazione di tutte le funzioni gerarchicamente distribuite, alla gestione della azienda.
La proprietà legittima del capitale privato conseguito, si dilaterà nella distribuzione susseguente degli utili e dei profitti a tutta la partecipazione del lavoro e la giustificazione finale della libertà d'iniziativa privata sarà espressa dal valore della realizzazione sociale.
Tale forma di «socializzazione», non riducendosi ai termini materiali della detenzione dei mezzi di produzione, investe la spiritualità del valore umano e supera definitivamente il socialismo, in quanto risolve l'esigenza fondamentale di esso, non solo senza abbrutire l'uomo ed avvilirlo nella meccanizzazione dei rapporti sociali, ma procedendo decisamente oltre.



I governi Rumor

Tira e molla, i discorsi strani che il presidente del Consiglio monocolore faceva, nella vacanza tra un centrosinistra e l'altro, e che avevano condotto alcuni ingenui italiani a temere che l'autunno caldo di Donat-Cattin potesse essere seguito dalla primavera incandescente di De Martino, si sono ricomposti, dopo l'evento formidabile della canzone sindacale di Celentano, nella solita nenia programmatica da predicatore di provincia.
Sia che si tratti della minoranza di privilegiati che operano nel Sud o della popolazione domestica che viene privata della introduzione televisiva al "Gabbiano" di Cecov o degli industriali del Nord, reinteneriti dalla tolleranza con cui è stata accolta la rispolveratura della «serrata», il sorriso polposo del capo indispensabile del governo italiano parte col disco e, nell'ordinata forma delle sue vocali aperte, intona il ritornello che conclude con un po' di... Rumor.
A meno che non si creda che i melliflui capi della confraternita al potere si siano rimbambiti, a furia di stare seduti sulle stesse poltrone, il comportamento del partito di maggioranza, che attende i socialisti divisi, per neutralizzarli meglio e poi li accoglie in apparente irriducibilità di posizioni marxiste, deve avere un sottofondo di furberia clericale, che mal nasconde gli effetti della visita post-elettorale di Nixon.
Certo che l'esperimento ideato per l'ingenuità italiana dal Dipartimento di Stato, ai tempi di John Kennedy, non ha più alcuna possibilità di concrete realizzazioni, se il PSI le vuole attuare con la collaborazione dei comunisti ed il PSU cerca di bloccarle, con la fiera determinazione che contraddistingue i «piselli», da Palazzo Barberini in poi.
È che si sa di non potere forzare la situazione oltre un certo limite, anche se la piazza preme (od è premuta), dopo che i sindacalisti di tutti i colori hanno scoperto la molteplicità del sindacato, per far politica, poiché la conclusione, a difesa dei «diritti del lavoro», sarebbe di tipo ellenico, con colonnelli meno serii e provveduti di quelli di Atene, se dobbiamo stare ad alcune amare esperienze di casa nostra.
Ciò suona scandalo a certe orecchie, ma non si vede come la Russia possa e debba difendere l'area marxista, anche senza il permesso di Amendola, con i carri armati, e l'America, che sorride anche quando spara sui negri di casa propria o sistema i «civili» del Vietnam, non possa e debba, cercando di salvare la faccia democratica con quella di bronzo di certi «giornalisti», ordinare che nessuno si muova e faccia il fesso. Il cancelliere Brandt è socialista, apre ad Est, ma è alleato, guarda un po', dei liberali e va a chiedere, anche lui, a Nixon fin dove possa arrivare.
In Italia, si potranno perdonare incendi e saccheggi con pretesto sportivo, come a Caserta, ma non ci saranno movimenti di piazza (il partigiano Longo lo sa) che tentino di forzare la mano al sistema.
E poiché sarebbe truculento ammettere che siamo al sicuro, che Ferri non può farsi vedere a braccetto con Malagodi e che il piagnucolio precordiale di Almirante è provocato con la cipolla, ecco i ministeri del piagnisteo lento, mieloso e parrocchiale, tra una tazza di te e l'altra, del presidente Mariano.



Contro la NATO

Nell'ultimo numero, con il saggio "NATO e colonialismo USA" è stato condotto da questa rivista un esame dei canoni fondamentali sui quali si basa la politica di prevaricazione che gli Stati Uniti d'America conducono nei confronti dei Paesi dell'Alleanza e vi si è visto -attraverso una analisi approfondita- come la NATO non sia che il mezzo concreto per operare la spartizione del mondo, fine della politica dei blocchi, così come il Patto di Varsavia. Molle antagoniste in un sistema in cui i protagonisti hanno bisogno di strutture falsamente volte l'una contro l'altra, erette invece a mantenere le rispettive posizioni di predominio.
Tale sistema si è retto e si regge sistematicamente sul ricatto politico ed infatti la capacità di evocare i fantasmi del pericolo comunista da una parte e del revanscismo tedesco dall'altra, lo ha collaudato ogni volta che è stato necessario ed è stata sufficiente per ricucire le solidarietà all'interno di ciascuno dei due blocchi, e così a mantenere lo stato di fatto, che dura da un quarto di secolo.
Noi siamo convinti che non durerà in eterno; meglio ancora affermiamo la validità di un processo storico, del quale ci poniamo come anticipatori, che porterà fatalmente allo scardinamento della politica dei blocchi. Lo stato di crisi dei valori anche semplicemente naturali ed umani, che investe i sistemi che a quella politica concorrono, lo conferma.
Per quanto riguarda noi europei, la crisi non investe soltanto le strutture e le istituzioni (sia quelle nazionali sia quelle sovranazionali, queste nate morte nei miseri limiti che segnarono l'asfissia politica di vecchie esperienze), strutture ed istituzioni che possono aver trovato un puntello nello spirito di sopravvivenza al quale la borghesia grande, media e piccola si aggrappa attraverso il riformismo sul quale convergono le ideologie imperanti (è l'ora della socialdemocrazia e del modernismo cattolico). La crisi ha investito da molto tempo ormai l'essenza stessa dell'uomo.
I rimedi che sono stati proposti sono stati pagati col sangue ed hanno rinviato il tempo della risoluzione, ma hanno aggravato la crisi.
Gli interessi precostituiti che hanno fatto argine si sono cristallizzati. Il giorno che cederanno sotto la urgenza delle nuove speranze formeranno solo un cumulo di scorie che darà le dimensioni della dilatazione e dell'asprezza della lotta, della quale oggi non rappresentano la fine ma solo il contenimento.
Coloro che propongono la opposizione alla NATO nei termini della valutazione della propria scelta economicistica, se possono quindi trovarci momentanei compagni di viaggio, non ci trovano consenzienti.
Un qualunque diverso indirizzo della politica USA, conseguente ad una qualunque manovra su mercati di altra dislocazione (Cina, India, Africa) anche politica, potrebbe determinare un diverso orientamento nella politica economica statunitense verso l'Europa. Al tavolo di negoziato dei Governatori delle Banche centrali il rappresentante americano finirà di fare il prepotente, verrà aumentato lo spazio produttivo con l'apertura verso settori che finora sono rimasti tabù.
E questo dovrebbe giustificare la inversione della scelta e la accettazione della NATO?
Il vassallaggio economico, militare e politico dell'Europa 1970 è legato da un preciso rapporto di causa ed effetto ad una dottrina politica ormai fin troppo chiara; parliamo della dottrina occidentalista, della quale ci professiamo oppositori irriducibili.
Per chi ha negato Versailles, è insorto contro Ginevra, ha seminato il proprio sangue per tutte le latitudini europee, la scelta non presenta motivi di perplessità ed assume contenuti di fondo.
Se abbiamo avversato l'Europa di Saint Gérmain e del Trianon, quella di Bruxelles e di Strasburgo non può certo raccogliere la nostra fiducia né ci ispira simpatie. Per l'Europa dei formaggi e del suffragio universale non possiamo essere che elemento di disordine, volto ad accelerarne il dissolvimento, non a puntellarne la sopravvivenza.
Questo sia ben chiaro ai molti tromboni ed alle tante voci bianche che blaterano di europeismo soltanto per nascondere lo stato di servizio della propria servitù politica. E per fare un esempio riferiamoci pure a tutti coloro che inneggiano ed applaudono alla ventilata cosiddetta Conferenza Paneuropea per la sicurezza indetta da Russi e Americani, alla quale gli Europei evidentemente dovranno partecipare per dichiararsi molto sicuri con il Patto di Varsavia e con la NATO. Questo sia ben chiaro sopratutto ai molti carneadi in fregola di farsi illustri che si riempiono la bocca dei luoghi comuni più vieti per nascondere la propria sudditanza ai primi -tromboni e voci bianche-, sudditanza che non è occasionale ma permanente ed effettiva, e cioè ottusa, preconcetta, monotona e sopratutto abbietta.
Contro tutti costoro affermiamo che politicamente l'Europa potrà cessare di essere solo una espressione geografica, solo una somma algebrica di elementi di reddito, nel momento in cui sarà capace di coagularsi intorno ad una Idea che la porti a riaffermare se stessa attraverso la negazione di tutto ciò che Europa non è, con la coscienza che negare significa respingere, sovvertire, distruggere ciò che Europa non è.
Questa Europa è ancora lontana -prima che nei fatti- negli spiriti e nelle volontà. Ma questa è l'Europa che avverrà.
Noi crediamo che l'uomo, tornato a riscoprire se stesso nella dimensione eterna, riuscirà (e crediamo anche che la culla, il crogiolo, il terreno di lotta, chiamatelo come volete, sarà l'Europa) a spazzar via i miti della sua decadenza, i vecchi idoli del razionalismo e del democraticismo, in altre parole i contenuti dell'occidentalismo, la Santa Alleanza del mondo democratico o cosiddetto libero.
È questo il punto nodale. Ponendosi come giustificazione delle restaurazioni politiche riapparse in Europa al seguito degli «Alleati», l'occidentalismo si è anche assunto il compito di fornire alla conservazione il connettivo ideologico.
Il pacifismo, il livellamento verso il basso, la vellicazione egualitaria, il benessere come fine ultimo dell'attività umana, la negazione dei valori eroici e metafisici; quindi l'esaltazione dell'edonismo, la esasperazione pansessuale, l'introduzione dell'individualismo più gretto quale norma di vita a tutti i livelli. Ecco le scelte dalle quali oggi l'occidentalismo ha derivato i canoni della propria subordinazione politica al vincitore, cui Yalta lo ha assegnato.
Noi siamo sulla opposta sponda.
Prendere coscienza -questo è il primo passo- del fatto che l'inamericanamento, in venticinque anni di predominio, cloroformizzando le coscienze, con una sapiente regia propagandistica, ha, tra l'altro, portato l'occidentalismo -da noi già respinto all'epoca della sua derivazione dalle massonerie e dalle plutocrazie ispiratrici delle cosiddette grandi democrazie, con buona pace di coloro che ancora gridano allo scandalo perché gli «europei» si sono scannati fra loro ad esclusivo beneficio di tutti gli antieuropei come se plutocrazia e massonerie avessero avuto da spartire qualcosa con l'Europa o dovessero averne da spartire in futuro, e non fossero state tutt'uno con tutti gli antieuropei- alla negazione dell'autonomia militare degli Stati europei.
Che da codesta negazione derivi quella della autonomia politica, non ci interessa qui di dimostrare. Ma ci preme mettere in evidenza come da quella negazione, che, come abbiamo visto, è conseguenza di una precisa scelta ideologica e politica, sorga il ricatto finale della giustificazione della NATO.
Lasciamo parlare i documenti. Dal 20 al 24 ottobre 1969 a Washington l'Associazione del Trattato Atlantico ha svolto la sua XV Assemblea per la solenne commemorazione del XX Anniversario della firma del Trattato dell'Atlantico del Nord. La risoluzione approvata -dopo le solite serenate alla pace- al paragrafo "Difesa e sicurezza" è incentrata sui seguenti passaggi:
L'Assemblea riconosce il fatto che la minaccia militare nei confronti dell'Alleanza atlantica si è non solo intensificata, ma anche estesa al campo politico, economico e psicologico e ha raggiunto una portata mondiale. In particolare, il rafforzamento delle forze navali sovietiche, non solo nel Baltico e nel Mediterraneo, ma anche nell'Atlantico, nell'Oceano Indiano e nel Pacifico costituisce una minaccia seria per i fianchi settentrionale e meridionale dell'Alleanza e per gli interessi dei suoi membri nel mondo intero (...) Di conseguenza l'Assemblea appoggia energicamente le direttive strategiche già precedentemente approvate dai governi dei paesi membri (...) Ciò comporta l'obbligo di fornire e mantenere i livelli delle forze approvate, sia qualitativamente che quantitativamente, organizzare le riserve necessarie. La presenza nord-americana in Europa, al livello attuale dei suoi effettivi, è più importante che mai. Gli alleati dovrebbero collaborare allo scopo di stabilire le disposizioni finanziarie appropriate per facilitare la realizzazione di questo obiettivo.
E questo è l'intero paragrafo Opinione pubblica:
L'Assemblea ricorda che le scelte politiche dei paesi dell'Occidente dipendono dall'approvazione dei cittadini e che è impossibile continuare a lungo un grande progetto politico senza assicurarsi l'appoggio costante di questa opinione pubblica. L'Assemblea sottolinea la necessità, da parte dell'Associazione del Trattato Atlantico e delle associazioni nazionali di sviluppare presso l'opinione pubblica del mondo atlantico un metodico lavoro di spiegazione e di commento sulla necessità dell'Alleanza atlantica per il presente e per il futuro. Essa invita ad uno sforzo particolare di informazione, riflessione e dialogo con le giovani generazioni, che dovranno svolgere un ruolo sempre più importante nello sviluppo dell'Alleanza verso una vera Comunità atlantica.
— il grande progetto politico, così:
Il mantenimento della pace e lo sforzo di conciliazione in Europa e nella zona dell'Atlantico del Nord sono sempre stati gli obiettivi comuni della nostra Alleanza, obiettivi che sono altrettanti essenziali ai suoi membri europei e americani.
— le ragioni dell'alleanza, così:
Il punto essenziale è che gli Stati Uniti e il Canada hanno un interesse diretto al mantenimento della pace e allo sforzo di conciliazione in Europa, nella stessa misura e allo stesso modo dei paesi europei. Questo comune interesse ha spinto gli Stati Uniti e il Canada a partecipare a due guerre mondiali in Europa, e di conseguenza Stati Uniti e Canada hanno il diritto di partecipare in quanto partners con piena uguaglianza di diritti alla soluzione dei problemi della seconda guerra mondiale ancora insoluti. Non solo hanno il diritto di fare ciò, ma essi non potrebbero, senza pregiudicare notevolmente i loro vitali interessi economici e politici, permettere una nuova espansione dell'egemonia politica ed economica sovietica in Europa. Oltre a una effettiva occupazione militare, tale espansione sarebbe inevitabile se il peso dell'Unione sovietica in Europa non fosse più equilibrato dal potenziale degli Stati Uniti e dal Canada, che ora sostiene i paesi dell'Europa occidentale Ciò è vero oggi come vent'anni fa.
— cosa si deve intendere correttamente per approvazione dei cittadini, così:
Questa è la politica approvata a Washington in aprile e registrata nel paragrafo 5 del comunicato di quella riunione ministeriale.
Il tutto quale premessa del ricatto verso la debolezza degli europei, ricatto che è stato introdotto in questi termini, sotto la specie di un realismo sui generis:
D'altra parte, i governi alleati sono pienamente consapevoli che qualsiasi sforzo compiuto a favore dei negoziati non avrebbe la minima possibilità di successo se si abbandonasse la base indispensabile di una forza sufficiente. Non desiderano partire da una posizione di forza che miri a imporre una soluzione alla parte avversa. Desiderano semplicemente evitare di partire da una posizione di debolezza, che renderebbe inutile, se non disastroso, ogni negoziato.
Tutti gli occidentalisti si sono dichiarati soddisfatti e non poteva essere diversamente, essendo state esattamente conclamate le principali sacre aspirazioni del mondo libero, sopratutto la vecchia trappola del pacifismo ed il machiavello nuovo della distensione. Non si è parlato di libertà, e questo è un segno del mutare dei tempi. Considerato l'appello ai giovani, non sarebbe stato conveniente o, forse, se ne sarebbe dispiaciuto il destinatario del disegno distensivo. Meglio il velo ipocrita dell'indifferenza e questo è il segno della immutabilità della sostanza con cui sono costruiti i cialtroni di tutti i luoghi. Ma non importa, considerata la libertà che avrebbero potuto mettersi in bocca.
Noi avversiamo la NATO per una scelta ideologica e politica opposta a quella che hanno fatto gli occidentalisti. Quindi seguitiamo a respingere i ricatti e la subordinazione, anche se l'Europa è oggi un gregge di 400 milioni di pecore.



Spirito e materia - antinomia di una rivoluzione

Questa riflessione sul tema non vuole essere di concetti astrusi ed eterei, una mera analisi, bensì, consapevoli come siamo che i predetti possano variamente reagire sulla cartina di tornasole dell'economia dialettica, e quindi divenire buoni servitori ma anche pessimi padroni del nostro studio introspettivo, ci proponiamo innanzi tutto di vitalizzare la diafana essenza di ciò che noi definiamo Spirito.
L'impresa è ardua. Realmente, non v'è dubbio che nell'attuale contesto sociale in cui lo Spirito sembra non debba più avere diritto di cittadinanza essendogli stato preferito la sua eterna rivale Materia, il nostro tentativo assumerebbe per lo meno l'aspetto dell'inattualità.
Ma il credere, lettore, che vi sia, foss'egli anche l'ultimo, un uomo in grado di recepire le nostre parole, ebbene questa convinzione ci farà asserire quanto segue.
Spirito è euritmia, eterno svolgersi ed enuclearsi della matrice prima della parte più bella ed aristocratica di noi; Spirito è lotta e conseguentemente volontaria prevalenza dell'iper-essere nei confronti dell'in-essere, entificazione, quest'ultima, statica, sciatta, anodina, parto di coloro i quali nella quiete materiale dei sensi vedono l'espressione più valida della vita.
Spirito è rivoluzione -che il termine s'intenda nella sua accezione positiva- mentale e pratica soprattutto, in quanto la realtà fattuale è come il soggetto la attualizza e non già come egli la immagina.
Il non progredire, o peggio, il refluire, è una grave iattura dello Spirito, e se per un attimo vogliamo scendere dall'universale al particolare, diremo che proprio la rivoluzione spirituale fascista ha subìto un processo involutivo di autodistruzione che solo pochi intravedevano e che solo pochi hanno invano tentato di bloccare. Profluito da una vergine crisalide, lo Spirito fascista si è contaminato, insozzato, ed infine materializzato nel crogiolo degli interessi criptomorfici messi in moto dai soliti sicofanti di professione, assai esperti nell'arte dei colori.
In una parola lo Spirito fascista ha posto tra parentesi se stesso, ha abdicato alla sua funzione, deontologicamente catalizzatrice e di mediazione, tra l'emanazione «stricto sensu» spirituale, vorrei dire divina, e il sostrato umano: ha preferito, non nella sua totalità, fortunatamente, «esser come porci in brago» e noi dunque abbiamo il diritto naturale ed il dovere sacrosanto di accusare spietatamente i «botoli» fascistelli che dell'Idea hanno fatto turpe mercato, ed a maggior ragione, i loro attuali tardi epigoni, rei di non comprendere o di non voler comprendere che l'uomo intanto vive in quanto inficia le terrene pastoie, le recide e si innalza con suprema volontà alle aure limpide dell'antimateria.




È di scena l'atomica

II 3 dicembre 1969 i paesi della NATO hanno approvato il piano di difesa antisovietica, che prevede l'impiego di atomiche tattiche contro le truppe russe, fin dal primo giorno di guerra, e snellisce il procedimento di consultazione fra i membri dell'alleanza, affidando «de jure», oltre che «de facto», al Presidente degli Stati Uniti, la decisione politico-strategica dell'impiego o meno delle atomiche strategiche, e specificando l'autonomia di decisione dei comandanti NATO in Europa (tutti americani) riguardo all'impiego delle atomiche tattiche.
Quasi contemporaneamente, a Varsavia i rappresentanti dei paesi membri del Blocco Orientale approvavano il piano sovietico di difesa contro gli imperialisti occidentali, che prevede l'impiego di atomiche strategiche; unico competente, il Soviet Supremo.
Pompidou, in un discorso ai Capi di Stato Maggiore, annunciava il ridimensionamento della «force de frappe», e l'abbandono di ogni progetto per il suo futuro accrescimento.
Willy Brandt sollecitava personalmente Mosca di consentirgli di firmare il TNP come primo atto di governo. Lo ha ottenuto.
Ad Helsinki, due commissioni, una americana e una sovietica, studiano indefessamente il problema del disarmo atomico. Il portavoce di quella americana ha definito «soddisfacenti» i sondaggi preliminari. Non si ha notizia di sondaggi che non siano stati «soddisfacenti». Entro «un paio d'anni» al più tardi, ci ha rassicurati il portavoce, la Conferenza per il disarmo di Helsinki avrà portato a termine il suo compito. Che consiste nello «sgombrare la strada» a malintesi.
Niente di nuovo, né ad ovest e neppure ad est.
 



Maschera e volto dello scetticismo contemporanea


«Qualsiasi critica allo spirito
del moderno deve sempre
rendersi conto
che il presente
non va attaccato dalle posizioni
del passato da esso superato:
l'attacco deve essere sferrato
solo in nome
dell'Eternità
in esso tradita».
(Fedor Stepum)


L'Apocalisse oggi è nuovamente di attualità.
Un'epoca che ha vissuto due guerre mondiali, e che si trova di fronte allo spettro di una terza, deve forzatamente riconoscersi in un quadro apocalittico.
C'è una tal frenesia nel ricercare in noi stessi «la verità» che ricopre la sostanza delle cose, che talvolta non siamo capaci di riconoscere i nostri limiti, di palesare la nostra impotenza. «Ricercare noi stessi, scoprire nuovi valori, ritrovare il nostro IO nei meandri dell'inconoscibile: scoperta dell'Uomo e della dignità del pensiero, celebrazione o negazione della vita», ecc... i modi di dire correnti, come per lo più accade, falsi e demagogici, frutto per lo più di aride «equazioni personali» non ricoprono la vera sostanza delle cose.
Sarebbe diverso a voler prestare fede al nostro spirito... ma chi all'infuori di noi crede ancora nello spirito se nonostante tutto, intuiamo di essere degli isolati, degli «anarchici dell'intelletto», e ci appare dinnanzi agli occhi un mondo che rinneghiamo, filato con l'ordito incolore delle illusorie matematiche fallaci ed insicure, composto con la trama sgualcita dell'ipocrisie che reggono i destini dell'uomo.
L'UOMO. Ecco l'intoppo: il nodo gordiano da cui nasce il dubbio moderno, da cui si sviluppa la scepsi contemporanea.
Disgraziatamente uno scetticismo radicale è tanto raro quanto una fede incondizionata. Abitualmente si crede e si dubita solo entro certi limiti. È questa la misura dell'uomo moderno. Ciò vale anche per i rapporti che legano scetticismo, nihilismo, anarchia e fede alla storia universale.
Entro certi limiti quasi tutti sono diventati scettici nei riguardi della storia e del cosiddetto «senso» della storia, ma solamente pochi si troveranno a loro agio nel pensare che il cosiddetto «mondo storico» non possegga fine e senso alcuno.
Si continua a conferirle anche qualche senso perché non si vuoi spingere il dubbio sino in fondo.
Qualcuno già obietterà che nessuna ricerca reca in sé la soluzione, come nessuna negazione significa fede incondizionata.
Bene! Eppure gli avvenimenti ci costringono a farlo, ci afferrano troppo profondamente per poter abbandonarci in un nihilismo protettore. Gli eventi sono ancora troppo a noi vicini per non richiedere un adattamento del nostro spirito nella direzione voluta.
Una risposta a tutto ciò avrebbe un'influenza decisiva, determinatrice, e rappresenterebbe per quanti sono incerti ed insicuri una direzione obbligata.
Tuttavia considerazioni del genere che seguono, sia ben chiaro, vogliono essere completamente aderenti alla età presente, e nel medesimo istante lontane da essa. Di conseguenza ogni nostra ricerca deve andare oltre il puro accadimento, penetrando in profondità ed in lontananza.
Considerazioni del genere hanno un valore se viste come tentativi di realizzare in sede umana, ciò che va col nome di Tradizione. Anche uno storico saggio e coerente come Burckhardt, pur respingendo la fede nella storia nel senso della filosofia della storia hegeliana e della teologia della storia agostiniana, tenne tuttavia fermo nell'ammettere un minimo significato: la «continuità della tradizione», benché, per altro, fosse ben convinto che in un mondo nel quale principio e fine restano sconosciuti, mentre ciò che sta fra loro è in continuo movimento, lo scetticismo autentico non sia troppo.
Ma in che consiste uno scetticismo autentico se non in una interpretazione «tradizionale» del «cosiddetto mondo storico»?
La scepsi classica legata al mondo tradizionale ammetteva pur tuttavia una credenza incondizionata in comunanze sovratemporali e pertanto essenziali. Il Dubbio era se mai legato alla valutazione di quell'intrigo spugnoso e melmoso dei processi storici ed alla concordanza delle funzioni storiche che in essi si manifestava.
Abbiamo già accennato alla ragione per la quale il termine Apocalisse -che originariamente ha il significato di manifestazione- può prendere un significato negativo, escatologico, la rivelazione della fine della storia umana.
Però l'affermazione che la curiosità, cioè l'indagine compiuta a posteriori in modo «scientifico», è segno della fine di una storia, sembra contraddire la concezione corrente che la storia ha inizio proprio con la curiosità. Il medesimo racconto biblico della cacciata dal Paradiso terrestre -da un mondo senza storia, senza curiosità, indagine «scientifica», nel quale non vi era la necessità della vergogna di fronte al nostro corpo, in cui il lavoro non si realizzava con fatica e con dolore- pare anch'esso affermare che la storia umana comincia con il sorgere della curiosità.
Come va dunque intesa la nostra tesi sullo scetticismo?
Il fatto stesso che non comprendiamo più il significato originario del racconto tradizionale, è una dimostrazione della nostra storia che volge alla fine.
Già la stessa scepsi classica della filosofia greca non è la medesima cosa del «dubbio moderno» di un Montaigne o di Cartesio o di Pascal. Nessun esempio è valido all'uopo.
Valido per noi è e resta solamente il flusso, ciò che noi chiamiamo la «trama degli avvenimenti», poiché il «Dubbio Moderno», con i suoi malati intellettuali cronici ed avvizziti, non ha ancora capito e non capirà mai che il significato non è mai nello avvenimento, ma nel moto attraverso l'avvenimento.
Altrimenti si potrebbe benissimo isolare un istante nello avvenimento, nell'evento storico, e dire che questo è l'avvenimento stesso ed il suo stesso significato.
In fondo a questo ha portato il Cristianesimo, nel modificare il rapporto tra scienza e fede. Il mondo antico, quello essenzialmente tradizionale, mitico e pagano, non conosceva l'opposizione cristiana, post-cristiana, critica e diagnostica di intelligenza e fede, ma solo quella di scienza e opinione.
Esisteva quindi non un adattamento ed una realtà costituitasi indipendentemente dal nostro volere, e neppure un progresso fatale e meccanico quale è stato auspicato alla luce dell'evoluzionismo di marca darwiniana o spenceriana, bensì l'Elevazione dello «Essere» a forme di esistenza sempre più intense, superiori e ricche, autonome, articolate, realizzabili per opera nostra.
Pretendere di dare questa dimostrazione all'esistenza di un Kosmos greco, di un Rita indiano, di una Ratio latina, di una azione che sacreggia l'ordine cosmico, partendo da qualcos'altro di NON-DIVINO, sarebbe assurdo, come sarebbe impossibile pretendere di darla partendo da qualcosa di pienamente manifesto e «reale».
La sensibilità «tradizionale», pagana, è legata ad una spiritualità libera da tratti confessionali e razionalistici, contrassegnata cioè da una ricerca della verità entro i confini imposti dalla ragione umana, sotto la direzione Univoca di una rivelazione divina.
Senso classico della misura, ideale di chiarezza in un ordine sovrannaturale, affermazione di Sangue, Popolo e Razza entro i limiti di un Ordinamento vigente di là del mondo dell'essere e del divenire, ed al di là di una realtà sia pur tragica ed elementare.
Ci sia concessa la seguente premessa: ogni mondo «mitico» -ed il mondo cui noi ci riferiamo ci piace così definirlo- è nella sua essenza storico, anzi esso realizza sempre una lotta contro l'irrompere della storia. Il mondo mitico non è che una forma della rivelazione dell'Identico, dell'eterno ritorno, dell'originario ed essenziale. È l'ambito nel quale non vi è possibilità per il nuovo. Perciò i segni mitici, le rappresentazioni mitiche, non possono venire risolte in considerazioni estetiche senza violentarne l'essenza più profonda.
Dato che il mito cerca di dimostrare ogni momento della realtà nel suo significato eterno, necessariamente il mito è sempre lotta contro il tempo. Il mito eleva il quotidiano in ogni suo aspetto all'eterno, ossia al suo significato religioso.
Ogni atto nell'ambito del mondo mitico assurge ad atto ieratico, che àncora il quotidiano.
Ogni azione che sacreggia l'ordine cosmico è negazione del nuovo. Di qui diventa comprensibile che la Scepsi pagana, alla stessa guida della rivelazione apocalittica -come rivelazione ultima- è sempre negazione della storia moderna e rivelazione del sorgere dell'eterna realtà dell'uomo.
Ecco perché noi abbiamo assunto e perseguiremo in un atteggiamento di sospensione di fronte a convinzioni e discorsi squisitamente «attuali» e «moderni».
Come positivismo significa assumere il «fatto sociale» a criterio di determinazione di ogni valore teoretico e pratico; come naturalismo significa assoggettamento dell'uomo alle forze e leggi della natura, magari allo scopo di sfruttarla per una più piena attuazione dell'ideale di «vivere comodo»; come «capitalismo o comunismo, come sistemi politico-sociologici con le loro insensate dottrine ideologiche, sono insieme gli agenti inseparabili della rovina delle civiltà europee conosciute e noi stessi azionisti della civiltà industriale del capitale di miliardi di carta... e di migliaia di ore di lavoro, vacuo, noioso ed inutile, allora noi affermiamo che tutti questi sintomi sono il prodotto di un'unica malattia fondamentale: la stanchezza di vivere, il decadimento, lo spegnersi della volontà di potenza e di creazione, la tensione dell'attenzione verso tutto ciò che può valere da paradigma per la struttura del «tempo apparente»: codificazione demoniaca di una concezione sociologica del mondo e dell'uomo: realizzazione ultima di quel positivismo fissato con estrema esattezza dalla sociologia, scienza in senso stretto figlia del positivismo stesso, nata dalla volontà di «liberare» il sapere dalla fede religiosa e di distruggere ogni possibile speculazione metafisica.
Tutto qui! L'esame «obiettivo» di questa relatività attuale dell'uomo della sua condizionatezza è stato condotto con tanta completezza dalla scepsi classica che non resta più nulla da aggiungere. Testi sacri indù, oltre tremila anni or sono, già avevano preconizzato l'avvento di questa «età oscura».
È dunque un errore quello di ritenere che sia stato il moderno relativismo «storicistico» a produrre il rovesciamento di ogni principio dogmatico. Le medesime situazioni, secondo un ritmo alterno di corsi e ricorsi storici, si sono verificate da che vita è vita. Naturalmente, nonostante ogni tale dubbio ed ogni incertezza sul tempo presente, ognuno di noi deciderà in un modo o nell'altro ad ogni situazione data, cioè avrà da decidere e pertanto sarà costretto a decidere.
Non importa da che parte ci troviamo, cristiani o pagani, anarchici od individualisti, tanto questa decadenza ci ha tutti afferrati e trascinati nel suo vortice, rivelandosi la nostra intima debolezza e problematicità e ci ha trasformati a tal punto che dal processo di fusione degli ultimi decenni nessuno è uscito tale e quale vi era entrato.
O solamente ben pochi.
Ma una risolutezza pratica di questo genere resterà sempre indietro dell'intelligenza dell'indeciso prò e contro.
Le nostre decisioni non hanno una validità razionale, ma nascono dall'incertezza degli argomenti razionali. Esse riposano così poco su un sapere indubitabile intorno al vero ed al giusto, che mirano piuttosto ad eliminare radicalmente ogni validità del sapere teoretico e scientifico.
In conseguenza queste relazionalità di tutte le cose a circostanze intrinseche ed estrinseche, a diversi costumi, leggi, dottrine, ideologie politiche, dichiarazioni di fede, noi non ci arroghiamo il diritto di decidere che cosa sia in se, ma ci limitiamo ad opporre ad opinione e discorso inevitabilmente unilaterali, opinione e discorso egualmente efficaci, restando sempre in un atteggiamento di ricerca invece di pronunciarsi avventatamente con un assenso o rifiuto a priori.
Certo l'assenso ed il rifiuto vanno espressi, ma in termini di meditato, sicuro giudizio, perché una tale sospensione del giudizio è un soffermarsi dell'esame a cui si accompagna certamente una quiete dello stato d'animo, «la pace dell'anima», la imperturbabilità dell'atarassia e quindi una tranquillità morale che fa riscontro a quella teoretica.
Le considera/Ioni precedenti ci inducono a riflettere ulteriormente sui rapporti tra la coscienza, l'angoscia e la libertà. Una cosa è certa: appena la coscienza si risveglia, l'angoscia e pronta ad invaderla; e per questo è necessario tutto un sistema di mezzi di difesa perché la personalità possa svilupparsi normalmente, e la coscienza stessa diventi uno strumento utile, e non un ostacolo, all'incremento della vita.
Sennonché tutta l'evoluzione psicologica è caratterizzata da un crescente distaccarsi dell'istinto, e dall'enuclearsi di una forma di coscienza sempre più autonoma e differenziata: ma proprio per questo la coscienza non scevra di pericoli, perché relativizza ogni suo contenuto, ed inevitabilmente -sradicandosi da una realtà immutabile- ci sprofonda nel Nulla e nella Angoscia.
Quivi, oramai, la spontaneità dell'istinto tace, ma si sviluppa e si determina invece la funzione positiva della libertà: e può dirsi che mentre la coscienza relativizza, la libertà impegna; mentre la coscienza ha la capacità di minare la sicurezza, la libertà ha forse la intrinseca possibilità di ricostruirla.
In effetti, una sicurezza che ignori l'esperienza della insicurezza è soltanto precaria, come una sicurezza che prescinda dalla libertà può essere rovesciata ad ogni istante dalla libertà (come potenza della negazione e della pura possibilità).
Se noi quindi vogliamo la sicurezza, ma cominciamo a dubitare di essa, il dubbio non si arresta più, e non ci resta allora che accettare integralmente questa esperienza che sorge ineludibile dai penetrali della coscienza.
Ma ora ci rendiamo sempre più conto che le nozioni ordinarie -moderne- della sicurezza e dell'insicurezza sono del tutto inadeguate, non solo dal punte di vista teoretico, ma proprio dal punto di vista psicologico: l'insicurezza non è solo ciò che sta al margine della sicurezza, nel senso che questa costituisce il saldo fondamento della nostra vita psichica, l'insicurezza rappresentando soltanto un alone marginale, gradualmente riducibile dalla tecnica o trascurabile agli effetti pratici della azione.
Ma la nevrosi ossessiva, collettiva, comune o singola, oggi imperante nel mondo, è il chiaro sintomo che le cose non stanno semplicemente in questo modo, che l'insicurezza è una continua minaccia, e che non può essere pertanto solo ignorata ma deve essere francamente riconosciuta e superata con altri mezzi. L'uomo, in quanto si risveglia alla coscienza, riconosce la sua individualità spazio-temporale, la sua intrinseca solitudine, la sua insicurezza.
Ciò fa parte della condizione umana, ed è proprio ciò che rende così difficile simile condizione.
Certamente non sempre questa coscienza è così lucida, e nella maggioranza degli uomini le forze dell'istinto, dell'abitudine e della tradizione sono ancora abbastanza forti da temperare o nascondere la drammaticità di questa situazione.
Ma d'altro canto, quanto più l'uomo diventa cosciente ed autonomo, tanto più viene sospinto fuori da questi porti sicuri (dello istinto, della abitudine e della tradizione), verso lo spazio vuoto dell'inesorabile solitudine e dell'angoscia.
Che fare in simili condizioni?
La ricerca intellettualistica della sicurezza non può condurre che a magri risultati, e ove non sia essa stessa l'espressione di una reazione di difesa, non è che la trascrizione cifrata di una ricerca di ordine esistenziale.
Se la sicurezza non possiamo ottenerla in questo modo, non ci resta che attraversare il pelago dell'insicurezza.
Noi abbiamo perduto di vista il significato funzionale dell'eroismo e dell'ascetismo, del martirio e della santità: non ci resta altra sicurezza che quella che si consegue accettando di compiere sino a fondo la prova, l'esperienza dell'insicurezza: e la libertà non è forse, in fondo, che il coraggio di sottoporsi questa prova.
L'Eroismo diventa, in simili circostanze, una necessità imposta dalla forma stessa della nostra coscienza in quanto questa tenda a conseguire una propria autenticità.
Sennonché, non può nascondersi che una sottile ambiguità sussista nella maniera stessa di concepire questa prova, di intendere il coraggio e l'eroismo.
L'Uomo può cercare di superare il dramma della sua coscienza in due modi: cercando di riconquistare la potenza originaria creatrice, oppure esponendosi alla «grazia».
Sono due vie ben diverse, completamente differenti ed equidistanti. L'una contempla nella sua enunciazione la luce, la Verità; l'altra è intessuta con la trama sgualcita ed incolore della decadenza, della vacuità, della virtù femminea.
Sono due vie equidistanti: l'una di ricongiungersi all'Assoluto attraverso il riconoscimento di una propria intrinseca parentela; l'altra invece di «approfondire», ovvero d'affossare, il senso della propria condizione di creatura «umana».
La secolare polemica tra Paganesimo e Cristianesimo, Oriente ed Occidente, e nell'interno del cristianesimo tra i vari ordini e le varie confessioni, è forse riconducibile, nella sua essenza più recondita, alla distinzione tra queste due vie.
Ma è altresì importante comprendere come non ci troviamo di fronte a un semplice problema teorico, bensì di fronte ad un Processo Storico tutt'ora in corso, nel quale siamo direttamente impegnati. La riflessione sul «significato» di questo processo storico costituisce un portato inevitabile, e forse il punto culminante, dello sforzo di consapevolizzazione che rappresenta a sua volta una delle caratteristiche principali della filosofia contemporanea.
A questa affermazione che la visibile storia mondana «moderna» e l'invisibile Storia della Salvezza pagana e del Superamento dell'Umano non coincidono e che pertanto non è possibile illuminare la storia moderna con la luce della fede in una giustificazione ultima, a questa nostra tesi si contrappongono Tutte, ripetiamo Tutte le interpretazioni della realtà strico-politica in quasi tutte le dottrine della Storia.
Le filosofie e le teologie della Storia da Bossuet a Hegel ed oltre, fino a Compte a Marx, Spengler e Toynbee, si sono sforzate di ricavare dalla storia universale un senso ultimo.
Bossuet intese questo senso come la progressiva coordinazione di storia della salvezza e storia universale: Hegel come un processo verso il compimento della coscienza della libertà; Compte come il processo verso l'organizzazione positivistico-scientifica dell'umanità «civile» Marx come l'introduzione «rivoluzionaria» di una società senza classi che deve attuare la libertà in un «regno della libertà» di carattere sociale.
È sintomatico a proposito di tutto questo che i termini «sociologia» e «psicanalisi» si debbano a filosofi di questa taglia, figli grati di quel positivismo che ha rinnegato ogni speculazione metafisica, e che ha relegato la speranza di raggiungere l'obiettività nel senso di «verità» (sic) rigorosamente agli obiettivi di indagine fisica, di cui sono modello le scienze naturali, sperimentali da un lato, matematiche dell'altro.
L'unico ad azzardare forse un'intuizione valida fu lo Spengler, riponendo il senso della consapevole volizione di un destino in sé privo di senso perché naturale.
La dottrina della storia di Toynbee ondeggia incoerentemente tra una apparente legittimazione empirica della dottrina classica dei corsi ciclici della vita e la sua fede cristiana in una progressiva rivelazione, insieme ad una sempre più approfondita penetrazione religiosa che deve scaturire dal dissolvimento delle «civiltà moderne».
Tutto ciò a noi non basta! Tutte queste teorie derivano dalla secolarizzazione di presupposti cristiani e particolarmente dall'idea di un fine ultimo e quindi di un senso che troverà compimento nel futuro. In quanto sottopongono il processo storico nel suo Insieme alle questioni di principio circa il senso, esse presuppongono un fine ultimo, cioè un Telos come Esckaton, e quindi vedono nel futuro l'orizzonte di compimento del movimento storico.
Questo è il punto! Questa la verità assoluta, la prospettiva ultima di una umanità che prende coscienza di se stessa attraverso la propria cretinità, attraverso quelle forme intermedie così care alla democrazia, al liberalismo e al socialismo, e che condurranno diritto diritto alla concezione «religiosa» dell'uomo terrestrizzato. Esse tutte sono espressioni degenerate di una idea fallace. Esse pervertono il senso classico dell'Historein, che non si riferiva al futuro, ma a ciò che era stato e, come tale, fatto e conoscibile.
La scienza non conosce un senso finale: solo la fede può affermarlo! A voler semplificare la lezione impartita da questa specie di esperienza, tradotta in parola, si può dire che essa compare sempre sotto il manto goffo e grossolano degli eterni luoghi comuni: che l'umanità è una realtà innegabile e l'uomo una pura astrazione; che si possono adoperare gli uomini come numeri in operazioni di aritmetica filosofico-politica, poiché essi non si comportano come i simboli dello zero e dell'infinito, i quali sconvolgono tutte le operazioni matematiche; che l'uomo cioè è semplice addendo e numero equidistante sia dallo zero che dall'infinito; che il fine giustifica il mezzo e non soltanto entro limiti assai ristretti ma in modo globale; che l'etica è in funzione solo ed unicamente dell'utilità «sociale»; che l'Humanitas non è la forza di gravita che mantiene le civiltà nella loro orbita, ma è soltanto un sentimento piccolo-borghese.
È l'antica dicotomia: «la vita deve dominare sul sapere od il sapere deve dominare la vita?».
Nessuno di noi può dubitarne: è la vita la potenza superiore e sovrana ed è l'uomo il suo artefice.
La scepsi classica discuteva le contraddizioni razionali intorno all'esser-vero od all'esser-falso da parte di asserzioni: il dubbio cristiano ed in genere quello moderno, invece, investe il problema se l'Uomo, quale «peccatore», ossia errante (ecco il grande intoppo), possa essere in generale «nella verità». È inutile chiedersi quanto cammino si sia percorso sulla via della saggezza se crediamo di poter sostituire la mancanza di sapere con «decisioni» esistentive e reputando di avere in tal modo oltrepassato l'incertezza de1 sapere al punto di aver eliminato la scepsi classica pagana.
Tanto per essere più chiari: mettendosi sulla strada del criticismo, Kant era ben convinto di lasciare dietro alle spalle così lo scetticismo come il dogmatismo, avendo trovato il modo di superarli ed oltrepassarli ambedue.
E con la sua dialettica del sapere assoluto -in cui il dubbio è soltanto un momento nella conoscenza dell'Assoluto- Hegel «pensò» di aver superato il criticismo di Kant.
Ma il contrapporsi semplice ed originario di scepsi e dogmatismo, di ricerca e di «possesso di verità», si riproduce costantemente e non è eliminabile né per via critica né per via dialettica. Vale a dire
che noi rifiutiamo come metodi di indagine e di sintesi nella ricerca della verità sia il criticismo che la dialettica.
È tempo di parlare chiaro: di dire a noi stessi che l'Uomo non può essere concepito solo come essere critico, dialettico, ovvero come unità atomica, come puro numero nel regno della quantità. Società e collettività non possono essere che sinonimi. Il nostro dubbio, la nostra scepsi si sviluppa dunque così: ben venga ogni concezione del mondo antisociale, anti-individualista ed anticollettivista, a patto che porre la disuguaglianza voglia dire trascendere la quantità per ammettere la qualità: a patto che l'emancipazione del singolo dalla società significhi libertà rispetto a se stessi e non rispetto ad un giogo esterno; a patto che il pelago dell'insicurezza sia superato attraverso il dubbio e lo scetticismo.
Insicurezza che si supera non attraverso formule storicistico-empiriche, che condizionano epoche e tempi, principi e sistemi, ma superamento dello scetticismo «umano» attraverso una visione rivoluzionaria della vita e dell'Uomo che si traduce come affermazione finale di vita e come negazione assoluta e totale di qualsiasi orientamento in cui si rifletta in un qualunque modo il mito moderno del progresso e della discussione, con le sue fisime affrancataci e coi suoi miraggi fascinosi di civilizzazione tecnica.
L'uomo sta di fronte a fenomeni che continuamente debbono venire determinati e circoscritti, ed è quindi obbligato ad uscire dalla relatività. A sua volta l'unità della vita sensitiva ed intelliggibile dell'uomo risulta infranta, perché nella sua esistenza si manifesta ed impone una nuova «necessità».
Tale fine non può essere raggiunto né da un singolo uomo, né da una famiglia, né da una nazione.
La somma capacità dell'uomo è evidentemente la volontà rivoluzionaria, unico modo per uscire dal dubbio e dall'incertezza. Dato che tale capacità non può essere realizzata compiutamente né da un singolo uomo, né da una delle comunità precedentemente nomate, ne conviene che il genere umano può realizzarsi solo nella dimensione rivoluzionaria di una molteplicità integrale, la quale sola realizzerà appieno la capacità specifica dell'uomo.
Ha il nostro tempo già in mano tal forma?
Si vedrà come ciò che possediamo è più profondamente debitore alla scepsi pagana di quanto possa apparire a prima vista.
Ma è capace un'apocalittica sorta dal nihilismo del secolo passato di dare ciò che esige un'epoca diversa?
Si potrà rispondere soltanto con una presa di posizione e non con un'analisi di ciò che è dato constatare.
Con ciò abbiamo stabilito tutto quello che decideva la questione. Anche per il nostro tempo l'Apocalittica deve giustificarsi in tale doppio aspetto.
Non le è lecito esaurirsi nella rappresentazione del macabro. È necessario che essa additi nella decadenza l'Avvento, nella insicurezza l'Approdo della certezza, nella scepsi la Verità, nella rovina il nuovo Inizio.
È necessario che, mentre giudica e condanna, ci dia una speranza. La speranza per l'Uomo!
 



La finta guerra

Crediamo che nessun comunista militante sprovveduto abbia mai potuto credere ad una guerra di sterminio tra Russia e Cina, eppure i borghesucci della politica rivistaiola avevano soffiato nelle trombe della speranza che il comunismo mondiale, pur con i suoi palesi errori di metodologia, potesse dissolversi nella lotta fratricida dei diseredati.
È la cantonata a rovescio di Carlo Marx, che profetizzava l'autodistruzione del capitalismo nella crisi della superproduzione, la quale, invece, sfocia nel progetto Apollo dei 126 mila miliardi che non solleva di un millimetro l'uomo dalla sua miseria morale, ma corrompe ed imborghesisce sopratutto i compagni proletari.
Certo, la Russia è giunta più volte al limite di rottura ed il possesso dei mezzi apocalittici di distruzione avrà fatto sognare ai mediocri del collegio sovietico la cancellazione del poeta fastidioso, che ti trasforma quasi un miliardo di ex-oppiati dagli inglesi in avanguardie fanatiche della rivoluzione mondiale.
Ma la rivoluzione mondiale continua a marciare, anche se non avrà, ormai, più il marchio esclusivo della steppa, come dimostra il rifiuto di quasi tutto il mondo di accettare, per realizzarla, il metodo collettivista, il partito unico e le troike burocratiche dell'economicismo ottocentesco.
La malvagità umana e lo spirito di sopraffazione affiorano in tutti i sistemi di aggregazione sociale, quando si attenuano gli afflati della moralità, nella contingenza storica del potere, per cui, in un decennio si ha la proposta oscena e male informata della guerra preventiva del generale Narstadt, da Parigi, e, nel successivo, si può avere la crudele intenzione del capo mugiko Breznev, da Mosca, di annullare l'esistenza fisica del rivale più intelligente, ereditata dal maestro Stalin, ma la guerra storica tra URSS e Cina non è possibile, se non come funzione scenica dello svuotamento del marxismo.
Lo dimostra l'evento più importante degli anni sessanta, che è la sconfitta ideologica e militare degli Stati Uniti d'America, nell'Indocina, dove russi e cinesi, fingendo di non vedersi, stanno vincendo insieme una battaglia.
 



Monoteismo unidirezionale

Da quando la Chiesa cattolica ha rinunciato, più o meno tacitamente, all'assolutezza della sua origine divina e cioè a considerare inesistenti o teoricamente errate le posizioni spirituali delle altre confessioni religiose, giungendo a sia pure parziali intenzioni di colloquio con i non credenti, ha più volte ostentato di stendere una mano fraterna alle gerarchie ed alle comunità che si riconducono al monoteismo e cioè alla fonte unica personale e spirituale della realtà e della storia, riconoscendo così nell'unico principio della trascendenza misteriosamente individualizzata la ragion sufficiente di una comunione storica degli spiriti.
Atto clamoroso fu quello di Giovanni XXIII, che cancellò da una fondamentale preghiera dei cattolici la proposizione accusatoria di «perfidi giudei», che la tradizione cristiana aveva inferto, per secoli, come una scudisciata agli ebrei della sinagoga e che non poche persecuzioni antisemite aveva giustificato alla teocrazia ed al fanatismo dei bracci secolari.
Ma tale forma di aperta ed originale tolleranza, destinata ad accentuare la comprensione ed il rispetto reciproco tra gli uomini di tutte le religioni positive, ma anche con tutti i laici aconfessionali di ispirazione filo-sofica non materialistica o trascendentista, sopratutto ai fini di una riconquista dei valori morali, che incidano sull'attività politica delle nazioni civili, doveva rivelarsi ben presto condizionata da limitazioni contraddittorie e parzialità nocive, che mal si accordano con la dichiarata prospettiva di conciliazione tra le varie forme di spiritualità dell'uomo.
La politica del Vaticano, che spesso fa sorgere dubbi sulla presenza di virtù ispiratrici come quella della bontà e della santità, ha dato luogo, di recente, ad ostentazioni di vera e propria scelta nel conflitto del Medio Oriente, pur senza pubblici anatemi nei confronti di Israele. Le due posizioni spirituali in conflitto si rifanno, ambedue, al monoteismo che fu anticristiano e con l'ipoteca pesante del deicidio e con la spietata guerra santa all'infedele.
Si sa che gli atti diplomatici hanno un significato più o meno misterioso per i profani, ma di facile interpretazione per gli esperti.
In occasione dell'incendio della Moschea di Al Aqza, l'unica parte lesa dall'oltraggio erano gli Arabi, eppure il Pontefice romano, Paolo VI, ha ricevuto un rappresentante del governo israeliano di passaggio a Roma, al quale ha espresso i suoi timori per la salvaguardia della presenza cristiana a Gerusalemme e la distruzione di un tempio islamico non può venire in mente, a meno che non sia pazzo, che ad un cristiano o ad un giudeo.
I disegni del Capo della cattolicità sono, ovviamente, al di fuori di ogni censura, specialmente da parte dei non credenti, ma, per quanto riguarda il monoteismo, la impressione che se ne ricava è di una solidarietà unidirezionale.
 



Regioni e no

È logico che chi, come noi, sbandiera una dottrina dello Stato, come individuazione storica della trascendenza, in cui l'individuo si realizza necessariamente e pienamente fino ad attingere il suo valore universale, come libertà, che è autonomia della legge morale, cioè possibile identità del diritto e del dovere, il primo come presenza reale nel mondo, il secondo come compresenza degli altri, nella molteplicità, debba esprimere la sua opinione sulla struttura che il sistema democratico-parlamentare al potere ha deciso di imporre al Paese.
Tutti sanno quanto le nostre posizioni siano lontane da quelle dei cosiddetti fascisti di estrema destra che hanno assunto a programma della loro azione politica, naturalmente limitata e storicamente anacronistica, la parte deteriore del regime mussoliniano del ventennio, al servizio di quegli stessi interessi reazionari, che hanno determinato la sconfitta militare del 1945.
Pertanto, l'ostilità preconcetta che liberali e missini e monarchici ostentano; perché mossi, pur fingendo di essere diversi nel sistema, dallo stesso interesse filo-capitalista che li sostiene, ad ogni forma di decentramento amministrativo delle strutture, non può caratterizzare la nostra opposizione, contingente o definitiva, di fronte alla sarabanda elettorale che sta per scatenarsi sullo sprovveduto popolo italiano, drogato a sufficienza dalle continue calate di canzonettari e dalle ubriacature calcistiche della domenica, nelle quali il tempo libero dei lavoratori s'impegna nei modi e nei tempi, stabiliti dai registi del gettito fiscale di massa.
Ricordiamo solo che, nella fretta dell'improvvisazione, la RSI aveva promulgato il principio organizzatore del regime repubblicano, nella formula della «massima unità politica e massimo decentramento amministrativo».
Una delle prove più pesanti della malafede democratica dei partiti antifascisti è costituita dai continui riferimenti alla lentezza burocratica dello Stato italiano, contemporaneamente clericale e massone, conservatore e riformista, prodigo di promesse mai mantenute e di violente repressioni della cosiddetta libertà sindacale.
Il decentramento dell'apparato burocratico ed amministrativo è cosa che si può ottenere, senza tante chiacchiere, con un complesso di leggi ben fatte, che operi in profondità per la demolizione delle sovrastrutture che la colonizzazione savoiarda di cento anni fa ha fatto calare sull'Italia papalina e borbonica, allo scopo di perpetuare, nel disegno cavourriano, il predominio dell'economia padana.
Ma creare dei parlamenti regionali, con poteri politici di discriminazione dialettale delle varie risorse e velleità, significa solo esasperare il già diffuso razzismo di zona, scatenare il più vasto municipalismo della tradizione medievale ed, in definitiva, alimentare le sperequazioni, le ingiustizie e le vergogne.
I meridionali si crogioleranno nella loro miseria, i centrali nella loro bonomia casereccia ed il Nord padano coltiverà il suo sogno d'inserimento nei canali europei di un edonismo pragmatico di alternative concorrenziali galliche o teutoniche, secondo il vento.
 



Poderosi scocciatori

In un lungo articolo pubblicato su un rotocalco a grande tiratura, un vecchio giornalista della destra conservatrice chiama a raccolta le forze veramente «sane» della Patria contro il pericolo dell'opposizione extraparlamentare. Non che i componenti di questa siano pericolosi, spiega il Nostro; anzi, sono tutti dei borghesi frustrati che si sfogano giocando alla rivoluzione; ma possono portare le Istituzioni ad un punto di crisi tale da lasciar posto ai rivoluzionari veri.
In una colonna e mezza, il giornalista liquida i «fascistoidi» antimissini, avvertendo che sono tanti e tanti i loro gruppetti, da non poterne elencare che qualcuno; e fra questi, campeggiano i GAN di Mario Tedeschi, il FUAN di Mantovani e la Giovane Italia, onnipresente grazie al suo temibile passato!
Ovviamente, avverte l'immaginoso, ci sono delle «sfumature» di divergenza fra gruppo e gruppo (ad esempio tra il "Fronte Nazionale" di Borghese e "Lotta di Popolo", o fra "Europa Civiltà" e la CNR); ma il sottofondo nietzschiano, evoliano, soreliano, gentiliano ecc. ecc, non sfugge alla vigile indagine del reporter, anche se, bontà sua, qualifiche come quella di «nazi-maoista» sono troppo sbrigative.
Nel pezzo si avverte costantemente la preoccupazione del sig. B. V. (non gli vogliamo fare pubblicità e perciò non lo citiamo per intiero), di chiamare a raccolta i «gentili lettori e le gentili lettrici» perché mobilitino il loro sdegno generoso contro i «borghesucci fascistoidi» che sognano niente meno l'«uomo» come un «guerriero che impone la giustizia sociale con la forza, difensore strenuo dell'ordine e della gerarchia, ma nemico di tutti i privilegi e sperequazioni materiali, ascetico, solitario, aristocratico».
E B. V., dopo questa sintetica definizione dell'uomo fascista (anzi «fascistoide»), trae la sua conclusione che liberamente riassumiamo: quelli del MSI, quelli che conosciamo e che possiamo pure chiamare «giovani nazionali», in fin dei conti si accontentavano di qualche manganellata, che certe volte ci voleva pure; ma questi di adesso, invece di fare il loro dovere, di appoggiare gli Stati Uniti contro il bolscevismo ateo e assassino, di difendere l'Alto Adige e le macchine dei cittadini perbene, arrivano a pensare, a concepire come ideale di vita un uomo che in definitiva è «uno scocciatore poderoso quanto quello immaginato dalle sinistre» (testuale).
Attenti alle «scocciature poderose».



I SUPPORTI DEL SISTEMA

Le forze armate


1) SITUAZIONE POLITICA

Per comprendere lo stato di crisi che travaglia le FF.AA. si impone, a nostro avviso, una più completa interpretazione della nuova realtà politica venuta a determinarsi in seguito alla rottura ideologica e politica tra Russia e Cina, alla distensione, alle sempre più accentuate tendenze autonomiste degli Stati europei, nonché ai nuovi fermenti rivoluzionari in atto nel Sud America, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente. Quelli inerenti alle FF.AA. sono quindi problemi essenzialmente politici. Gli aspetti tecnici connessi ad ogni singolo problema sono da ritenere secondari e subordinati ai primi. È la politica che, in effetti, arma e disarma, rinvigorisce o deprime le FF.AA. e ne realizza l'efficienza morale e tecnica.
Contrariamente a quanto si sostiene negli ambienti di destra e in quelli di sinistra, noi riteniamo che gli URSS e gli USA, superata la fase di espansione aggressiva, si dibattono oggi in una sempre difficile opera di consolidamento dello status di Yalta. Ovviamente ciò esplica influenza determinante nei rispettivi eserciti ed in quelli satelliti.
L'intervento russo in Cecoslovacchia, evidentemente concordato con gli USA e l'imposizione al "mondo libero" del trattato di non proliferazione atomica, ne sono la riprova.
Pertanto, le FF.AA. italiane, male armate e poco addestrate, vengono tenute in vita solo quale supporto del sistema instaurato dai vincitori.
E non potrebbe essere diversamente.
Ove i comunisti si facessero più potenti e minacciosi, e la situazione non fosse più contrattabile attraverso i canali normali, la CIA ordinerebbe un colpo di forza. Avremmo così al potere i generali e i colonnelli.
Con vantaggio di chi? Non certamente del popolo italiano, né della Europa social-nazionale alla quale aspira la migliore gioventù.
Non è lecito nutrire dubbi al riguardo. L'esempio greco è chiarissimo e non meno chiaro fu l'atteggiamento del Pentagono in occasione del putch di Algeri.
È evidente quindi che disperdere ed immiserire le nostre forze in azioni anticomuniste, vuoi dire porsi al servizio del nemico il quale, è bene ripeterlo, è uno solo: la Russiamerica e i rispettivi emissari.
Da varie parti si vanno tentando ignobili manovre dispersive e di asservimento, alle quali occorre reagire energicamente, poiché il lasciarsi vincolare dal compromesso anticomunista potrebbe risultare esiziale e per lungo tempo pregiudizievole alla nostra riscossa.
La rivoluzione o è totale o non è.
E un vero rivoluzionario è come un caposaldo nel deserto: deve saper combattere contro tutti, su 360 gradi.
A proposito delle FF.AA., fino a quando rimarranno operanti le clausole del diktat cioè, fino a quando lo Stato italiano non potrà autonomamente:
— fabbricare tutte le armi, comprese quelle atomiche e le relative munizioni;
— decidere gli organici delle proprie FF.AA.;
— condannare quanti sono ancora protetti dall'articolo 16 del diktat;
— liberarsi da assurde alleanze che vorrebbero rendere atlantica una nazione mediterranea per tradizioni millenarie come la nostra;
è privo di senso parlare di autentiche FF.AA. nazionali, così come è sciocco e ridicolo invitare i civili a difendere l'esercito.
Le FF.AA. in un paese sub-coloniale e militarmente satellizzato come è oggi l'Italia, non possono inoltre non risentire delle spurie maggioranze governative ed essere spesso strumentate come gruppo di pressione.
Ripercorrendo le tappe attraverso le quali si è gradualmente realizzato l'adeguamento democratico delle FF.AA., dimostreremo come sia essenziale convincersi che oggi, ai fini della ripresa rivoluzionaria è controproducente assumere la loro difesa in quanto -come è stato autorevolmente osservato- «il voler basare la propria strategia per la conquista del potere su una presunta frattura tra il sistema ed uno qualunque dei suoi istituti (che ne sono in realtà valido supporto) e quindi contare sull'appoggio che questi gruppi potrebbero dare ad una battaglia antisistema è totalmente errato».
Pertanto, non vi sono «giuste linee rivoluzionarie» che non inglobino queste valutazioni.
Tuttavia non è da trascurare, in sede di proselitismo, il fatto che le FF.AA. comprendono ancora uomini dotati di eccellenti risorse fisiche, morali, intellettuali, né sono da sottovalutare le profonde analogie esistenti tra l'educazione militare e la concezione eroica della vita propria dei fascisti.
Appare ovvio quindi che, mentre con la strategia rivoluzionaria si combatte "in toto" il sistema, con la tattica non si può che tendere alla conquista ideologica e all'impiego dei singoli, quale che sia l'ambiente in cui operano. Ogni altra via, a nostro avviso, conduce inevitabilmente alla collaborazione col sistema.

2) ADEGUAMENTO DEMOCRATICO DELLE FF.AA.

Le FF.AA. rispecchiano il popolo dal quale sono reclutate e ne riflettono ovviamente qualità e difetti.
Mette conto precisare a questo punto che lo scopo delle considerazioni che seguono consiste unicamente in un esame critico il più possibile obbiettivo nei confronti di un ambiente umano che, pur nel travaglio nel quale è oggi costretto a dibattersi, sentiamo vicino a noi per formazione morale e per temperamento. Siamo convinti, d'altronde, che né le demagogiche esaltazioni di destra né le ricorrenti denigrazioni di sinistra giovino a fornirci l'idea della nuova funzione europea che dovranno svolgere le FF.AA. nel prossimo futuro.
Ricco di intraprendenza e di sentimento, ma per troppi secoli vissuto in servitù, il popolo italiano è meno dotato di qualità di carattere. Per venti anni il fascismo tentò di correggere i difetti del carattere degli Italiani (individualismo, scetticismo, amore per la vita comoda) e di farlo assurgere a rango di popolo degno di un grande destino.
La fermezza e l'amore di patria, che pur si manifestarono per la prima volta in quel periodo in forma così estesa e vibrante, furono per molti solo una opportunistica vernice od un assai transitorio fenomeno di suggestione.
Venne la prova più tragica, la guerra. Avemmo un maggior numero di volontari ed uno minore di disertori rispetto ad altre precedenti guerre.
Gli ufficiali, specie quelli di complemento, si dimostrarono valenti e valorosi.
I migliori caddero. I soldati non mancarono mai e, forse, furono i migliori del mondo in campo per abnegazione e capacità di sacrificio.
Pochi generali massoni, confortati dall'azione scellerata di qualche politico, nel momento più drammatico, quando cioè si dovevano rinnovare le gesta del Piave, prepararono il tradimento più sciocco e più ignobile.
L'Italia perse così, contemporaneamente, la guerra e la pace.
L'8 settembre peserà sempre negativamente nella storia nazionale anche perché il tradimento, pretendendo la esaltazione della sconfitta, spezzò la coscienza e l'unità nazionali.
Né si poteva ricostruire l'unità morale e spirituale di una nazione vinta e martoriata da una sanguinosa guerra civile mediante le "assimilazioni" tra FF.AA. e bande partigiane, le epurazioni e le leggi retroattive.
II popolo fu abbandonato nelle mani dell'invasore angloamericano ed alla mercé della vendetta dell'alleato tradito.
Dopo tale cataclisma politico-militare, nulla è stato fatto al fine di ricreare la pacificazione e l'unità nazionale.
È naturale quindi, che dopo 25 anni di mortificazione democratica, le nostre FF.AA. si palesino carenti soprattutto nell'elemento preminente atto a determinare la capacità di un esercito alla lotta: la consapevolezza di incarnare il destino storico della nazione.
Analoga carenza ha fatto si che il pur ben munito esercito cecoslovacco non sparasse un solo colpo dì fucile contro gli invasori.
Un quarto di secolo di politica democratica ha trasformato l'apparato militare italiano in uno strano animale a tre zampe. L'una oscillante tra varie aspirazioni autonome o di terzaforzismo, l'altra affondata senza peso e senza convinzione nella NATO e la terza tenuta sospesa in aria per essere appoggiata -a seconda dell'evolversi della non facile politica interna- sul patto di Varsavia, magari con statuto speciale.
È chiaro che un tale discorso riguarda solo le "alte sfere militari", ma è altrettanto chiaro che queste sono le sole che contino qualcosa.
Ciò premesso, appare evidente come, dall'unità ad oggi, solo due eserciti, quello del Piave e quello della RSI, possano considerarsi autenticamente italiani.
Vincere o morire per la Patria, vincere o morire per la rivoluzione, queste sotto le sole alternative dei veri eserciti tradizionali e di quelli veramente rivoluzionari. Chi manca subisce la squalifica.
In certi campi le mezze misure non hanno diritto di cittadinanza.
Vittorioso il primo e sconfitto il secondo, essi sono i soli due eserciti ai quali possono guardare con orgoglio le nuove generazioni.
Pur non avendo mai vantato una vera e propria casta militare e, nonostante i Persano, i Caradonna, i Badoglio e i De Lorenzo, gli italiani in armi hanno tuttavia saputo costruirsi una apprezzabile tradizione militare.
Ma è sempre mancato loro un grande S.M. ed una profonda educazione militare. Lo si è visto quando, con disinvoltura, si abolì il grigioverde e si adottarono non solo le armi, ma persino i manuali di addestramento del nemico vincitore.
E questa fu la sconfitta più cocente.
Non ci stupisce pertanto la inadeguata "tenuta" militare di molti giovani ufficiali.
Dilaniati dal carrierismo e dalla difesa "sindacale" della "categoria", troppi giovani ufficiali si dimostrano scettici, ironici e sprezzanti quando odono parlare di eroismo, di sacrificio e di santità della missione delle armi, che è tutta permeata di valori spirituali ed eroici.
È facile avvertire nel loro comportamento, frammisto a tutti gli impulsi naturali della gioventù, uno strano desiderio di novità che si estrinseca unicamente mediante un'aspra e sterile critica a tutto il bagaglio di tradizioni loro pervenute dalle passate generazioni.
Prevale in essi il concetto dell'ufficiale tecnico su quello dell'ufficiale guerriero che, come tale, sarà sempre tecnicamente preparato alle proprie responsabilità in pace e in guerra.
Ma, sono forse stati educati a vedere con sguardo più ampio e più profondo il significato della loro missione?
Siffatte deficienze formative vengono aggravate dalle interferenze politiche e dal nepotismo nelle promozioni, nonché dalla tendenza -tipica nei lunghi periodi di pace- a valutare i pregi intellettuali degli ufficiali in base a mere facoltà oratorie ed a preferire gli elementi più arrendevoli a scapito di quelli in possesso di vere e proprie qualità di carattere.
Basti riflettere sulla borghesissima proposta di legge volta ad attenere il conferimento della "laurea in scienze militari" in seguito alla "frequenza" dell'Accademia e della Scuola di Applicazione e quello della libera docenza agli ufficiali brevettati dalla Scuola di Guerra. La confusione tra spalline e titoli accademici è sintomo davvero inquietante.
Non di militarismo essi sono carenti, che è sinonimo di degenerazione sorta per creare fratture fra soldati e ufficiali e tra popolo ed esercito, ma di autentico spirito militare che nasce solo dalla consapevolezza di appartenere ad una aristocrazia intellettuale e morale cui è affidato il compito più sacro: la difesa della nazione.
Deviazione analoga, del resto, si riscontra in altri eserciti dell'est e dell'ovest e soprattutto in quello USA, nell'interno del quale è in atto la nota polemica per la revisione del "codice di condotta"; polemica che ha travolto capi e gregari nelle FF.AA. della nazione più potente del mondo.
Fenomeno tipicamente democratico, tale contesa dimostra l'antitesi irreconciliabile tra democrazia e gerarchia, concorre all'auspicato auto-annientamento degli eserciti tradizionali e apre la via a quelli rivoluzionari.
L'uomo d'armi di domani sarà un uomo libero, un legionario, capace contemporaneamente del più alto grado di coerenza ideologico-politico e di perfetta condotta militare.
Un nuovo Duce non potrà che essere, al tempo stesso, capo militare, legislatore e pontefice.

3) LE FF.AA. DI POLIZIA

L'attuale stato di disarmo morale delle FF.AA. di polizia può essere compreso solo attraverso un'analisi della involuzione loro imposta dal sistema democratico.
L'Arma dei Carabinieri e gli altri Corpi di polizia, risorti dopo la sconfitta per opera di ufficiali capaci ed intelligenti assunsero un comportamento tanto decisamente militare da non sembrare destinati a servire da "oggetto" politico di uno Stato senza mète senza ideali, senza un vero volto nazionale e reso sempre più traballante da forze sovvertitici in continua ascesa, bensì si palesarono votate a rendersi "soggetto" partecipe, valido ed operante di uno Stato nazionale che ricercasse, mediante l'armonia interna, l'avvenire ed il prestigio anche all'esterno.
Lo spirito di disciplina e di dedizione che aveva animato i magnifici battaglioni mobilitati durante la guerra dalle FF.AA. di polizia, sembrò essersi reincarnato nei nuovi reparti i quali non cedettero sul confine orientale alla costante pressione slava e non mollarono nelle piazze alla canaglia socialcomunista.
Quasi tutti gli istituti di formazione militare e molti reparti "chiave" erano comandati da ufficiali che avevano iniziato la carriera nelle trincee di Montello, del Pasubio, del Grappa, ecc. e che uscivano, sconfitti ma non vinti, dai campi di battaglia di Russia, d'Africa, d'Albania e dalla Slovenia. Campagne queste nelle quali le FF.AA. di polizia profusero tanti e tali esempi di abnegazione e di eroismo che potrebbero costituire la gloria di un intero esercito.
Nel pieno dell'imbastardimento nazionale, siffatta rinascita di spirito militare fece sorgere serie preoccupazioni nell'animo dei sovversivi. È assiomatico: forze di polizia veramente efficienti rendono forte -anche suo malgrado- lo Stato al quale appartengono e uno Stato forte può essere attaccato solo dall'esterno.
A prescindere da quest'ultima considerazione che può essere approfondita solo in sede di studio sulla guerra rivoluzionaria, è chiaro che gli ambienti democratici italiani, da sempre ricettacolo di disertori, di negatori della Patria, di sobillatori, di obiettori di coscienza, non avrebbero tollerato a lungo un così spiccato risorgere di spirito militare nelle FF.AA. di polizia. A questa classe dirigente non occorrono dei «soldati», ma solo un buon numero di «poliziotti» visibilmente armati, ma realmente disarmati e resi impotenti da leggi e disposizioni ambigue.
Tuttavia le FF.AA. di polizia risentirono solo per breve tempo della benefica impostazione fascista, ma tanto da far naufragare le prime operazioni di livellamento economico e gerarchico tentate da Scoccimarro alle Finanze, da Nenni e Romita agli Interni.
Si affermò poi la politica di Scelba che, nonostante qualche aspetto positivo, ha in sé tutti i germi della dissoluzione democratica:
— fortissimi ampliamenti di organici;
— carenza di un preciso criterio selettivo in sede di reclutamento;
— carenza di preparazione ideologica nei quadri;
— prevalenza del concetto dell'impiego in massa.
Una così errata impostazione organizzativa ha portato all'impiego delle FF.AA. di polizia nell'umiliante ruolo di «cuscinetto a sfera» tra artificiose rivalità politiche e sindacali e gli organi di governo. Rivalità e contese estranee ai reali interessi dello Stato e del mondo del lavoro.
Sotto la spinta dei vari Lama che hanno blaterato di «animo distorto» nei componenti le forze di polizia, è stata progettata una riforma che prevede una totale ristrutturazione dei comandi e un aumento del 30 per cento dei contingenti. Mediante tale riforma il sistema compie un altro grosso errore, onde noi la accoglieremo con vivo piacere.
Prive di possibilità decisionali autonome e ridotte a mero strumento politico, le FF.AA. di polizia sono il più valido supporto del sistema, anche malgrado la volontà dei singoli che ne fanno parte.
Né «corpo unico» né «polizia civile» né «disarmo» potranno mai cambiare le carte in tavola: il sistema non rinuncerà mai alla propria difesa e alle fazioni rivoluzionarie non rimane altra via che quella della conquista ideologica dei singoli, per renderla meno efficiente.
L'accattonaggio in favore delle Forze Armate di polizia è l'ultima ignobile e disgustosa beffa che il sistema, borghese e parrocchiano, poteva infliggere agli ultimi uomini ancora in grigio-verde che un giorno saranno chiamati a scegliere tra la «nazione» e la «fazione».

4) GUERRA RIVOLUZIONARIA

Il disarmo morale delle FF.AA. è stato raggiunto dalla sovversione attraverso una costante ed abile propaganda antimilitarista, sorretta sempre da attenta e tenace attività parlamentare.
Le modifiche apportate al codice di procedura, alle leggi sull'«uso delle armi»; la revisione dei regolamenti di servizio e certe circolari ministeriali ne sono prove eloquenti.
Si aggiunga poi l'indirizzo tutto democratico ed irrazionale imposto alle azioni delle FF.AA. di polizia, azioni orientate quasi unicamente verso la «repressione» pura e semplice dei delitti e delle violazioni, mentre per oltre un secolo il «prevenire» era stato ritenuto l'atto tipico della più saggia azione di polizia.
Ogni buon democratico non poteva non tollerare prima ed incoraggiare poi l'opera di sottile propaganda tesa ad accomunare tutte le FF.AA. in un unico giudizio di «inutilità» quando non addirittura di «parassitismo» e di «criminalità». Ciò è nella logica stessa della democrazia. La grossa campagna portata concordemente innanzi dalla stampa comunista, clericale e governativa in favore di pochi cialtroni «obbiettori di coscienza» è la più valida testimonianza di quanto asseriamo.
Taluno ha avanzato la proposta di «dar vita a dei centri di irradiazione delle idee controrivoluzionarie in tutti i settori della vita pubblica e privata dalla nazione, con particolare riferimento agli ambienti dell'Esercito e delle Forze dell'Ordine». Ma, per quali fini?
Per la lotta al sistema e la sua sostituzione o per la collaborazione col sistema per il suo consolidamento?
Lette certe pubblicazioni, vagliati certi atteggiamenti e tenuto conto di «certi rientri» appare evidente che non si hanno (o non si vogliono avere) idee chiare al riguardo. È opportuno, pertanto, dare una nostra «risposta» alla guerra psicologica altrui ed allestire una «nostra» linea autonoma per la «nostra» sacrosanta guerra rivoluzionaria.
Abbiamo perciò studiato sia i nemici che i presunti amici. I sovversivi si sono aggiornati, sono divenuti cauti, tempestivi, manovrieri, e soprattutto prudenti calcolatori. Evitano abilmente i vecchi e forse innocui atteggiamenti barricadieri e si giovano di grosse manifestazioni sindacali a carattere riformista.
Preparano e pongono in atto azioni sottili da posizioni ben defilate con l'ausilio della stampa, del cinema, della TV, del teatro, del pulpito.
Realizzano attività antinazionali pianificate e bene dosate mediante l'azione occulta e felpata delle «gerarchie parallele» e, facendo leva sulla collaborazione estorta ad ambienti politici opportunamente cloroformizzati, pongono in atto accorte manovre intessute di ricatti e di doppio-giochi.
Ebbene, a questo punto, o noi facciamo altrettanto e meglio, o noi saremo fatalmente destinati a rafforzare il nemico.
Da troppi segni, appare chiaro che molti presunti amici abbiano ormai definitivamente assunto quest'ultimo compito.
Nel nostro ambiente ancora operano taluni individui pronti ad osannare ai «paras» ed ai «corsi di ardimento» mentre troppi camerati si fanno irretire dalle numerose organizzazioni massoniche capaci solo di trasmettere «vibrate» proteste al ministro della difesa perché non venga punito quel generale o quell'ammiraglio i quali però, in fondo, altro non vorrebbero che un esercito ed una marina più efficienti da mettere a disposizione della NATO. Si avvicina però il giorno del «redde rationem» per quanti hanno determinato l'arresto del nostro ambiente nello sterile terreno delle «fasi di analisi» e, come in ogni rivoluzione che si rispetti, la punizione dei traditori costituirà il primo tempo della prima fase operativa.
Al nostro ambiente si impone quindi la necessità di saper rispondere alla guerra rivoluzionaria altrui con una propria guerra rivoluzionaria. Ogni altro atteggiamento ed ogni altra linea sono da ritenere alibi o tradimento.
Questo è il nostro dovere: riunirci intorno a programmi rivoluzionari, superare il divisionismo, riprendere uniti la lotta contro il sistema, ma non da comparse bensì da protagonisti, da combattenti autentici e non da ausiliari o da mercenari.
Uniti, dobbiamo provocare e sfruttare le occasioni di sempre più profonde crisi del sistema.
I nostri militanti debbono sentirsi parte di un esercito legionario, che senza collusioni e senza corruzioni, sappia condurre una sempre più serrata lotta al sistema per l'instaurazione dell'Ordine Nuovo in Europa e nel mondo.
Potenza e mobilità erano i poli dell'azione bellica tradizionale.
Fede incrollabile e volontà di lotta ad oltranza sono i cardini della guerra rivoluzionaria. Possederle entrambe deve essere la unica aspirazione di quanti vogliono battersi con noi per una nuova ITALIA e per una nuova EUROPA.

5) ESERCITO EUROPEO

Nel numero precedente abbiamo dimostrato come il colonialismo USA-URSS, parto della logica dei patti di Yalta, consenta agli europei solo una risibile consistenza militare.
La NATO e il Patto di Varsavia infatti sono pressocché integralmente nelle mani degli Americani e dei Russi, talché, considerati i rapporti di forza, gli altri paesi membri, alleati di nome, sono, di fatto, tributari destinati a sopravvivere rinnegando se stessi.
Ciò posto, l'Europa potrà risollevarsi solo nella misura in cui saprà respingere, tanto all'est quanto all'ovest, l'infame prassi terapeutica impostale dai vincitori e solo nella misura in cui gli europei, considerandosi solo temporaneamente sconfitti, sapranno darsi una comune volontà di rivincita.
Presente sul mondo unicamente come «mercato comune», l'Europa deve ritrovare il suo spirito unitario, il culto delle sue tradizioni e incentrare la sua politica militare sulla continuazione di una guerra che, prima di essere «nazifascista», era soprattutto europea.
Né, del resto, sarebbe concepibile un esercito di mercanti e di bottegai, estratto da rissose plebi intente solo alla ricerca del benessere economico, che le rende sempre meno ricche e sempre più schiave.
Non vi sono dubbi: i popoli storicamente europei sono nettamente superiori per numero, per potenza economico-industriale e per livello culturale agli USA e all'URSS messi insieme; essi tuttavia rimangono disuniti per insufficiente consapevolezza di un comune destino storico.
A tale drammatica carenza si riferiva il cristiano-democratico Kiesinger quando affermò che «è una vergogna che 200 milioni di americani debbono difendere 300 milioni di europei».
Ma non basta qualche raro momento di sincerità per affermare il diritto d'Europa a vivere unita, libera e forte. Per la riscossa, s'impongono decisioni e sacrifici la cui portata non è oggi prevedibile. Si avvertono oggi solo i primi sintomi incoraggianti.
Infatti, da parte di ambienti seriamente e coraggiosamente europei è stato acutamente osservato che «la costituzione di un corpo d'esercito europeo potrebbe avere una portata psicologica d'impulso formativo incommensurabile per l'Unità europea» ("Iniziativa" - Anno II, n. 3).
Sintomi di cui noi, che amiamo l'Italia con la passione di chi difese l'Europa contro la più grande coalizione di tutti i tempi, prendiamo atto con viva simpatia.
E veniamo al nostro esercito.
A prescindere da talune concezioni tecnocratiche, ancora tanto care allo S.M., non è dato rilevare in tale ambiente alcun serio indizio di evoluzione in senso europeistico.
Per convincersene, basterà tenere presente il testo della conferenza tenuta dal Gen. di C.d'A. U. De Martino agli allievi dell'Accademia Militare di Modena sul tema «Passato e futuro dell'Alleanza Atlantica».
Siffatte manifestazioni di insensibilità, nascono dal non aver compreso la lezione impartita dalla seconda guerra mondiale che ha fatto giustizia degli uomini dediti alla sola professione delle armi e degli eserciti a coscrizione obbligatoria; esse, inoltre, sussistono perché non si vuol far comprendere la drammatica realtà vietnamita: un esercito reazionario, non potrà mai vincere un esercito rivoluzionario.
Il dato ideologico predominò gli ultimi due anni di guerra si che oggi equivale a porsi fuori della realtà e fuori della storia col prescindere da una totale politicizzazione delle FF.AA., dal momento che tutto ciò che inerisce alla guerra è materia squisitamente politica.
Mussolini, Stalin e Hitler poterono guidare i loro popoli alla vittoria o alla distruzione solo in quanto, non essendo militari, non concepivano il senso della capitolazione. E fu la loro gloria.
D'altro canto a reggere i fronti interni della «guerra civile europea» -spesso più difficili di quelli esterni- furono chiamati uomini ed organizzazioni non propriamente e non solamente militari: corpi di difesa civile in Inghilterra, Commissari politici in Russia, M.V.S.N. in Italia, SS in Germania, i vari servizi ausiliari femminili, ecc.
Dopo un quarto di secolo di letargo democratico, è dato ancora sperare in una rigenerazione spirituale tanto profonda da far riconoscere agli europei gli errori commessi contro l'Europa?
Per noi l'ingiusto verdetto del 1945 non è irrevocabile e, a nostro avviso, una tale catarsi può aver luogo solo mediante l'adesione ai princìpi rivoluzionari della RSI, assertori dell'«Europa Nazione» e portatori dell'unica idea sociale atta a concretizzare l'indispensabile amalgama politico contro il capitalismo russo-americano e a rendere sempre più vivo ed operante quello splendido cameratismo europeo che già fu sentito come comunanza di sangue, di aspirazioni, di tradizioni e di più alti destini.
 



Arte ed eideticità

La polemica sull'arte si è fatta stantia. Tanto, non si tratta più di critica a manifestazioni individuali della fantasia, poiché, dicono i letterati del campo, l'opera d'arte eterna non serve più, si riduce tutto ad inventare oggetti di consumo, con una certa bizzarria che esprima atteggiamenti psicologici da noi previsti e catalogati.
Questa storiella ha creato un mercato, che da da vivere ad un gruppo di «critici», di mercanti e di non-artisti che fanno la non-arte, come arte.
Dobbiamo rassegnarci ad ammettere che il movimento, in apparenza sostenuto da un corpo di idee che non è pensiero, abbia veramente provocato la fine dell'Arte?
C'è un modo di resistere a tale mistificazione ed è quello di continuare a credere nell'arte come tale e non confondere un vetrinista con un pittore ed un aggiustatore meccanico con uno scultore.
Ma v'è una via più alta e dignitosa che consiste, per gli artisti, nel produrre, possibilmente, opere che durino oltre la fama degli Argan, dei Ballo, dei Dorfles ed altri teorici senza teoria (vogliamo dire, senza autentici contributi filosofici, che vadano oltre la lettura degli epigoni di Freud e l'idolatria della civiltà americana) e, per i filosofi, quella di promuovere estetiche, cioè teorie dell'arte, che non entrino in contraddizione con se stesse, affermando che la arte non esiste, come attività indipendente dello spirito umano, oppure che l'arte deve essere distrutta perché espressione del predominio della classe borghese e del capitalismo.
Purtroppo, tali sciocchezze fanno presa, proprio su tutti i «parvenus» dell'inciviltà dei consumi, che riempiono le loro case di polemici cartoni spruzzati di «acrilico» e di molle a spirale comprate dal robivecchi, in nulla differenti dai «parvenus» di cinquantanni fa che vedevano la «luce» in una crosta bianca e «l'erba viva» in una spennellata verde di un paesaggista di provincia.
Un discorso serio sull'arte comincia dalle ultime propaggini dell'estetica romantica e, se si vuole considerare, in ritardo, l'influsso della fenomenologia di Husserl, mai letto in Italia, sulla crisi di ripiegamento della realtà, occorre considerare che essa è contemporanea alla fioritura neo-hegeliana e, pertanto, non ne è superamento, ma solo richiamo alla trascendentalità del tempo e della storia.
E, se l'esigenza spirituale del secolo è, in effetti, quella di superare l'individualismo romantico, non si può annegare l'individuo nell'oggettività di un falso mondo che lo circonda, poiché esso stesso è il soggetto di quella oggettività.
Quindi, l'atto individuale della creatività rimane, anche se si rifiuta la sua assolutizzazione.
D'altra parte, la pretesa di far la politica o la missione sociale coi quadri e con le sculture è più ingenuo e provinciale dell'ignorantesco premito di moda.
Certo, i contenuti dell'espressione artistica mutano, ma questo, che c'entra?
Il contenuto di un'opera d'arte è la spiritualità dell'artista ed ecco perché i futuristi volevano il pittore al centro del quadro. Con il linguaggio della fenomenologia, il quadro ha un significato «eidetico», che va oltre il contenuto apparente.
Ma, senza elaborazione tecnica e cioè trasfigurazione del contenuto in una forma, non v'è stata mai arte, perciò i «cazzabubboli» dell'estetica mercantile vaneggiano la fine dell'arte.
I loro ragli cesseranno, appena l'ugola si seccherà e l'Arte sarà eterna come la condizione incondizionata che trascende la storia ed il suo limitato protagonista: l'uomo.
 



Pollok, pittore dell'automatismo

Jackson Pollock, pittore americano, nativo di Wyoming, e da diversi anni scomparso, ascriveva a sua indiscussa originalità un impreveduto esercizio pittorico consistente nel «dripping», ovvero nella sgocciolatura del colore dall'alto, in una sorta di bombardamento molecolare sulle tele d'argento. La sua cultura non ha niente di europeo, anche per l'arte moderna francese. La sua derivazione da Mirò, Ernst, dai surrealisti, da Picasso di "Guernica", è solo in riferimento ad una identità di metodo e di linguaggio, più. grafico che poetico, che va dall'acquisizione del modo di raggiungere la spazialità e la libertà nella collocazione degli oggetti sulla tela, all'istintivo automatismo del colore, ad una belluina forza espressiva, riferita costantemente ad una pretesa urgenza espressionistica.
In effetti Pollock è il cantatore, o meglio «l'urlatore», di quell'America senza tradizione, pragmatica e sperimentale, tutta protesa alla conquista della tecnica artefice di una «civiltà» meccanicizzata e materialistica. La sua arte, che non è unità, ma che risente di quella molteplicità che è caratteristica proprio della sua tecnica {una tecnica senza dubbio «sua», personalissima ed inconfondibile se vogliamo), non si prefigge di creare, di esprimere o di descrivere, ma piuttosto di trattare le componenti contingenti e materiali del sentimento, non già di esaltare il sentimento stesso come forza espressionistica o esplosione spirituale. Ecco perché la sua pittura, il cui colore, come abbiamo detto, viene lasciato colare dall'alto a mo di «condimento», reca in sé stesso, nel momento in cui si forma, non già la elaborazione o la predeterminazione di una immagine, di un sentimento, di un'idea, ma soltanto la vera attività materiale del dipingere. Il suo è puro automatismo, perché l'esperienza dell'artista si forma nel momento stesso in cui il colore sgocciola o condisce la tela posta in basso.
Pollock ha composto le sue tele, grandi e senza confini, quasi incapaci di contenere tanta furia e tanta esplosione, con arbitrario e casuale automatismo, il cui impulso e la cui vita scaturiscono soltanto dal gesto del braccio, che segue con giri concentrici, con arresti, con riprese asmatiche la imponderabile caduta del colore dal tubetto, ora filiforme, ora grumoso, ora diviso in macchioline e schizzi. La sua originalità consiste nella furia ritmica del braccio che accompagna la vernice, che ricompone sulla tela la materia, in uno sfavillio di colori caotici, ora tenebrosi e spaventosi, ora in chiazze e zone come una veduta aerea, ora stridenti ed ottusi.
Il colore cioè non determina una visione, poniamo, decorativa o di pura visibilità, né è in funzione di luce o di valore: il colore è soltanto la materia, la pasta colorata spremuta da un tubetto di latta, quando addirittura il pittore non sente il bisogno di inspessirlo con l'aggiunta di materiale estraneo quali chiodi, coperchi di tubetti, sabbia, pezzi di sughero e di vetro.
Questo è tutto.
Non nascondiamo che l'effetto che se ne ritrae è alle volte sorprendente ed allucinante, alle volte suggestivo. Ma non sappiamo nemmeno come definire questa attività (gli inglesi sbrigativamente dicono: american type painting!) che non è certamente la tradizionale arte del colore; mentre si è certi di poter richiamare un'ideologia materialista a sostegno di questa attività, che sottende una esperienza empirica e che è il naturale risultato «artistico» di una società ed un mondo esistenzialmente decadenti.
 



Manifesto realista
di Berto Ricci
Apparso su "L'Universale" anno III n. 1, del 10 gennaio 1933.

Alcuni Italiani, sazi di sentir parole, e desiderosi d'un ritorno italiano alle idee, ritengono utile esporre il loro pensiero su cose di qualche interesse presente e futuro. Questo manifesto non è perciò che una franca espressione d'opinioni fortemente sentite, delle quali alcune coincidono con princìpi ormai stabiliti in Italia e in via d'affermarsi anche fuori, altre sono controverse: né le prime si danno qui come novità, né le seconde come suggerimenti a nessuno. Più cercatori di verità che recitatori di catechismi, e accomunati da questa ricerca e dal dispregio della facile sapienza che si sbriga de' massimi problemi con frasi usate, i firmatari trovandosi d'accordo su alcuni punti essenziali ne danno notizia a chi come loro si pone oggi domande rigorose e si sforza di trovarvi risposta.
E in primo luogo affermano che secondo ogni apparenza l'odierna crisi spirituale e pratica di molti popoli è crisi di civiltà, e sta ad indicare la decadenza della civiltà occidentale nei suoi aspetti di nazionalismo e di capitalismo, nonché in quello più antico e solenne di cristianesimo.
È prova della decadenza del nazionalismo il suo stesso acuirsi morboso al servizio di nascosti interessi negli Stati più forti e di più remota formazione, e l'esasperarsi degli egoismi nazionali sul piano diplomatico e militare in contrasto col crescente universalismo dell'intelligenza e dei costumi; il suo ricorrere a trappole pacifiste per garantire ai profittatori di Versailles il predominio.
Dimostrano la decadenza del capitalismo la crisi generale delle industrie e dei mercati, la guerra doganale e lo sciovinismo economico, la disoccupazione come stato permanente di folle, il tracollo delle grandi e piccole aziende divenuto normalità, il deprezzamento della stessa proprietà agricola e il definitivo struggersi di patrimoni di vecchia data, l'impotenza dei cosiddetti «cartelli» e forse la loro medesima costituzione, la frequente impossibilità di smercio delle materie e delle manifatture, la difficoltà e spesso l'impossibilità di giovarsi degli sbocchi esistenti, la svalutazione della mano d'opera determinata dal progresso meccanico in una società inetta e restia a farne l'uso migliore, l'ingigantirsi numerico della burocrazia a tutto scapito del lavoro, l'agglomeramento sterile e malsano nello grandi città, lo squilibrio tra una produzione progredita a dismisura e una distribuzione sociale e internazionale rimasta indietro di secoli, l'intervento inevitabile degli Stati nell'economia privata.
Dimostrano la decadenza del cristianesimo: l'attenuarsi del sentimento del peccato negli uomini, la presa sempre minore che hanno i principi cristiani sulla vita degl'individui sia credenti che no, l'affievolimento del concetto di trascendenza nello spirito umano quando non si riduca a spicciola superstizione e bigotteria, il clero sempre più abbassato a mestiere, l'imborghesirsi di quello secolare e la sua stessa correttezza esteriore che ne fa una classe di stipendiati incapace ugualmente di grandi vizi e di grandi virtù, il distacco d'una società nominalmente cristiana dagli apostoli delle missioni e dai martiri delle persecuzioni, il degenerare della maschia bontà evangelica in una gelida irreprensibilità al di qua del bene e del male, il trionfo della moda pubblica e impura di beneficenza sul precetto individuale e austero di carità mentre già si afferma come valore sociale superiore a entrambi quello di solidarietà; la promessa e non raggiunta conciliazione tra dogma cattolico e scienza e pensiero moderno; la disperata siccità e la depravazione intellettuale delle chiese protestanti; infine il palese prevalere quasi dappertutto del potere pratico e spirituale dello Stato sul potere pratico e spirituale della Chiesa di Roma, e delle altre che meno legittimamente si nominano da quella religione: tanto da rendere oggi pazzesca l'ipotesi, ieri ancora verosimile e varie volte avverata, di moltitudini cristiane accorrenti in difesa del papa o della fede colpita come in Russia e nel Messico.
Concludiamo perciò che i sintomi di declino della civiltà occidentale investono i! nazionalismo, il capitalismo, e il cristianesimo; che questo triplice decadimento è sensibile nella crisi presente, la quale non si risolverà nel sistema ma oltre il sistema, cioè oltre il nazionalismo, oltre il capitalismo, oltre le degenerazioni storiche del cristianesimo.
Rileviamo a tal proposito quanto sia transitorio, e da riferirsi più che altro al secolo passato, il concetto stesso di mondo occidentale come ambiente chiuso e vivente a sé; e come sia da reputarsi probabile che alla civiltà futura collaboreranno genti d'ogni razza e d'ogni paese.
I sottoscritti escludono parò che Ia società e la civiltà avvenire abbiano a fondarsi sul comunismo russo o sul gandhismo indiano, essendo il primo nient'altro che il contraccolpo locale e temporaneo della rapida rovina d'un feudalismo mitigato, e il secondo un impulso tradizionale non adattabile ad altro clima. Pur apprezzando l'immenso valore dei due fenomeni e la parte indubbia che avranno nella prossima storia del mondo, come pure il necessario e già visibile apporto che a questa daranno altre razze, essi sono convinti che tutte queste energie variamente modificate e incanalate dagli eventi e dalle necessità dovranno far capo all'Italia e alla rivoluzione fascista, rivoluzione imperiale, centro d'una imminente civiltà non più caratteristica d'un continente o d'una famiglia di popoli, ma universale.
Credono quindi che sia grave errore definire il Fascismo come salvatore della civiltà d'Occidente, anziché venuto a darle morte serbando di lei unicamente il cardine eterno, e cioè il rispetto e la funzione della personalità umana: principio mediterraneo, anteriore al cristianesimo, e dal cristianesimo accolto come sopravvivenza imperitura di paganità fino ad esser ripreso dal Rinascimento italiano. Vedono nell'universalismo un moto fatale della storia contemporanea, accresciuto senza più possibile freno dal moltiplicarsi degli scambi e dal progresso delle scienze; e sono persuasi che l'unione dei popoli sarà attuata dall'Impero fascista con le armi della pace e della guerra, nonché col concorso di tutti i lieviti rivoluzionari oggi in azione nel mondo. Vedono cioè nel Fascismo, di là da ogni contingenza provvisoria, un moto cosmopolita come son le cose d'Italia, assimilatore e unificatore di popoli. Ripudiano dunque come arretrato ed equivoco il linguaggio di chi vocifera di romanità secondo una ristretta visuale nazionalista di origine non certo italiana, del tutto contraria alla missione di Roma, che non è quella di contrapporsi ai barbari ma di farli cittadini. E osservano con particolare soddisfazione come sia fallito senza rimedio il proposito d'inserire la Rivoluzione fascista nel quadro d'un ridicolo legittimismo europeo rimasto a sognare Sante Alleanze per uso di pochi maniaci del principio dinastico mondiale e nostalgici d'un ordine feudale ucciso dai Comuni italiani e dal Rinascimento italiano.
Affermano che il nome d'Italiano Implica oggi, e sempre più richiederà in un prossimo futuro, non la sola qualità di abitante d'un territorio e di suddito d'uno Stato, ma quella di milite d'una rivoluzione in atto e di costruttore dell'Impero. Queste due realtà-idealità madri della storia moderna, Rivoluzione e Impero, appaiono inseparabilmente legate dalla relazione di causa ed effetto, ed è vuoto artificio il dividerle. Sbaglia chi nel giudicare le rivoluzioni si ferma ai loro presupposti astratti o alla cronaca loro, e sbaglia chi scambiando il modo con l'essenza vede nell'Impero un fatto soltanto militare. Gl'imperi più o meno vastamente raggiunti e più o meno stabilmente mantenuti dai popoli moderni sui territori e sugli spiriti nascono dalle rivoluzioni e ne propagano le idee; decadono e lentamente si dissolvono quando le idealità che li ingenerarono hanno esaurito il loro compito nel mondo. E le moderne rivoluzioni, dalla luterana alla inglese d'un secolo dopo, dall'americana alla giacobina alla bolscevica, e alla kemalista, esprimono innanzi tutto (qualunque ne sia la base teorica) la vitalità del paese d'origine, la volontà e capacità di dominio del loro popolo.
I sottoscritti considerano l'Impero nella piena estensione metafisica e geografica del termine, con tutto quel ch'esso inchiude di necessaria violenza, ma soprattutto come atto d'amore sul mondo: non fondarono imperi Attila e Tamerlano. Credono, con Dante, ch'esso spetti all'Italia e a Roma; e credono che gl'imperi d'altri non siano che abbozzi e ombre di lui. Considerano come secondaria la forma di governo di esso, purché assicuri la partecipazione intera dell'individuo allo Stato, lo sviluppo di aristocrazie non necessariamente ereditarie né elettive ma naturalmente sorte dall'ingegno e dal lavoro, e la possibilità della dittatura. Vedono nella rivoluzione italiana intrapresa col moto per la libertà e l'unità nazionale, e ora portata al più alto grado e facentesi popolo e spinta sul campo d'Europa dal Fascismo, la premessa necessaria dell'Impero umano che realizzerà la Monarchia di Dante e il Concilio di Mazzini. Per questo motivo sopra ogni altro, attestano a Mussolini, Capo della Rivoluzione fascista, e Capo d'Italia, la loro calda e sicura devozione.
Prendendo a esaminare gli elementi che si possono opporre fin d'ora alla civiltà attuale, e sui quali presumibilmente si fonderà la futura, riscontrano anzitutto come il determinismo economico e il materialismo storico siano dottrine smentite da molti fatti, e vere soltanto per una limitata classe di fenomeni all'infuori dei quali agiscono forze spirituali d'intensità uguale e talvolta maggiore, benché di più difficile percezione: forze il cui alterno moto aggrega o disgrega i ceti sociali, accresce e debilita le nazioni. Negano che sia da vedersi oggi alcuna vitalità nelle ideologie liberali, nel patriottismo convenzionale, nelle mascherate massoniche, nella democrazia rappresentativa e nelle furbe utopie ginevrine, parvenze morte e morti istituti che innestati sul cristianesimo della Riforma e della Controriforma costituiscono appunto la contraddittoria e crollante intravatura della società contemporanea; e rifiutano di conseguenza a questi elementi ogni funzione storica nel futuro prossimo o remoto. E dichiarano quanto segue.
Per il problema religioso: che la fede religiosa è un fatto individuale, e che la libertà di coscienza potenzialmente acquisita dai popoli con la rivoluzione francese e proclamata molto prima in terra italiana è proporzionata alle possibilità degl'individui, ma non si può né si deve sopprimere con ritorni di barbarie; che, per quanto riguarda l'Italia, la libera universalità del Fascismo esclude anche in via d'ipotesi ritorni tali; che la tradizione nostra civile non rientra nella cattolica e può e ha potuto svolgersi indipendentemente da quella; che l'intrecciarsi del paganesimo mediterraneo al cristianesimo cattolico è stato condizione certa e costante della storia italiana, col risultato di contemperare i due elementi fino a che una più alta forma non li riassuma; che il problema religioso non si risolverà con filosofie e meno che mai con idoli (idealistici, ma solo sul terreno religioso e cioè o per un rinnovamento profondo delle religioni esistenti o per l'avvento di nuove energie spirituali sulla terra quando quelle religioni avessero ultimata l'opera loro; che a tale rinnovamento o a tali energie d'altra provenienza spetterà di metter fine al dissidio concettuale e morale tra civiltà moderna e fede; che infine il rampollare dal tronco mediterraneo di una etica fascista al disopra delle preoccupazioni confessionali degl'individui è l'annuncio del tempo nuovo.
Per il problema politico: che gl'istituti politici sono transitori ed hanno valore solo in quanto tendono all'Impero; e che è merito grandissimo del Fascismo affermare e sostenere il concetto d'una politicità dell'uomo impressa e riconoscibile in ogni attività umana. Che questa politicità o essere politico non consiste nella briga dei partiti, delle categorie e delle clientele, bensì nella partecipazione dell'individuo allo Stato secondo le proprie capacità, secondo ed «entro» il proprio ufficio, e nel sorgere spontaneo e continuo delle aristocrazie naturali; ch'essa supera di molto le rispettabili ma non più sufficienti virtù del pariottismo sentimentale, dell'ossequio alle leggi e di una medievale sudditanza detta modernamente civismo; che se l'italianità potè per secoli essere più che altro natura (Cellini) e per successivi decenni più che altro convinzione eroica (martiri di Belfiore), occorre oggi trasmettere a tutto il popolo la fusione di questi due aspetti di lei, uno istintivo l'altro riflessivo, già attuata con continuità nei grandissimi da Dante Alighieri a Giuseppe Garibaldi, e in ore supreme negli umilissimi dai combattenti dell'Assedio a quelli del Carso e di Fiume: si che nel corso di poche generazioni essa italianità princìpi ad agire simultaneamente come fatalità e come volontà, come energia innata e come confessata fede. Chiedono che si sviluppi e si estenda in Italia un imperialismo popolare non incorporato in associazioni, ma emanante dal Fascismo quale sua conseguenza immediata, e dal Fascismo trasfuso a tutta la patria come coscienza d'una missione universale. Detto imperialismo non può significare rinunzia al compimento dell'unità geografica e oblio delle terre italiane rimaste in mano serba, inglese o francese, ma solo condanna di chi non veda oltre quelle, e cerchi di polarizzare su quelle l'attenzione e la passione dei giovani.
Per il problema economico e sociale, i sottoscritti riconoscono come portata dai tempi e sintomo certo di profonda trasformazione la necessità di una limitazione qualitativa e quantitativa del diritto di proprietà, e d'una subordinazione ferrea ed equa degli interessi privati all'interesse dello Stato. Credono che ciò non voglia dire avviarsi a un marxismo incompatibile con la natura umana e soprattutto con la natura italiana, ma solo trasferire nell'ordine economico il concetto di politicità dell'individuo come esposto sopra; e che il tramonto inarrestabile del sistema liberale esiga da una parte l'eticità dell'economia, dall'altra la graduale partecipazione dei lavoratori alle aziende e la fine d'ogni proletariato. Ritengono che la società futura avrà a fondarsi sul dovere del lavoro e sul diritto del produttore alla proprietà nei limiti utili allo Stato; e che il diritto di proprietà e quello d'eredità siano buoni in quanto servano allo Stato, nocivi in quanto non concordino coi suoi fini; che l'iniziativa individuale sia da favorirsi oppure da limitarsi e reprimersi secondo lo stesso criterio. Additano al disprezzo degl'Italiani e all'attenzione dei legislatori della Rivoluzione quella classe di ricchi oziosi che sta assente dalla lotta economica, e che potendo dar vita alle aziende, lavoro ai lavoratori, ricchezza alla nazione, preferisce godersi le rendite o sfruttare con metodi primitivi
I possessi lasciando al Governo tutto il peso delle bonifiche e dei lavori pubblici, e dimostrandosi indegna dei beni così malamente amministrati. E ravvisano nel corporativismo fascista il principio del nuovo ordine, suscettibile d'imprevisti sviluppi e d'impensabili risultati; giudicando che sia errore deplorevole quanto comune il prendere per punti d'arrivo di esso corporativismo quelli che ne sono invece i primi passi necessari, quali l'iscrizione generale ai sindacati, le otto ore lavorative, l'assicurazione obbligatoria, la magistratura del lavoro. Infine, tengono per fatto importante e forse capitale lo scadimento del dualismo vecchio tra campagne e città sia nell'ordine economico che in quello sociale e morale, e il convergere della civiltà, umanità ed economia rustica e della civiltà, umanità ed economia cittadina verso un unico tipo.

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