BERTO RICCI
2 Febbraio 1941 - 2 Febbraio 2012
Nell'anniversario della morte in guerra
di Berto Ricci, mi permetto di diffondere un mio vecchio articolo sul Nostro.
Berto Ricci e
"l'Universale"
«Avremmo voluto rispettare il desiderio dello
scrittore fiorentino Berto Ricci il quale in un suo Avviso del gennaio 1932
scrisse: «Non son di nostro gusto gli anniversari, nè i grandi nè i piccoli ma
...» la grave situazione italiana e la ricerca di punti di riferimento teorici
sicuri per costruire il futuro su solide basi dottrinali ci spingono a violarne
il volere, per cercare nel suo pensiero spunti importanti, un esempio di stile
da additare ai più giovani, oltre che a ricordarlo nella ricorrenza della
scomparsa.
Egli influenzò sensibilmente i giovani dell'epoca, in special modo Indro
Montanelli, Romano Bilenchi e Vasco Pratolini, per i quali i suoi attesissimi
"Avvisi", pubblicati sull'Universale, erano «come una rivelazione destinata a
trasformare il mondo». La sua importanza è riconosciuta anche da Benedetto Croce
il quale nei "Quaderni della Critica" sottrae all'assoluto giudizio negativo sul
Fascismo solo quei giovani fascisti alla Ricci cui «deve rendersi giustizia».
Il suo anticonformismo piaceva -come confermò Paolo Spriano- anche ai fuorusciti
comunisti, tipo Ruggero Greco. I quali s'interessarono al professore fascista
fiorentino che aveva voglia di rivoluzione, di scandalizzare i moderati
scrivendo che la Russia «con la rivoluzione dei comunisti ha fatto bene a se
stessa» ed elogiava gli italiani che col Fascismo avendo dato una mazzata al
liberalismo e a tutti i socialismi trasformisti, «non possono sentirsi più
vicini a Londra parlamentare e conservatrice, che a Mosca comunista... L'antiroma
c'è, ma non è a Mosca. Contro Roma, città dell'anima, sta Chicago, capitale del
maiale» e considerava il fascismo "borghese" come antifascismo bello e buono. Ma
non si deve confonderlo con un bolscevico travestito, o un fascista di sinistra.
Ricci sostenne che il Fascismo avesse bisogno sia di una fase di "destra", che
identificò nella conquista dell'Impero, sia di una di "sinistra", in cui
prevalesse la spinta sociale. Il nemico numero uno, come scrisse nel 1939, «fu e
resta il centro, cioè la mediocrità accomodante... Il centro è compromesso, noi
siamo per l'affermazione simultanea degli estremi, nella loro totalità». Egli
era un convinto mussoliniano; esaltava la rivoluzione fascista come «premessa
necessaria dell'Impero romano che realizzerà la Monarchia di Dante e il Concilio
di Mazzini».
Berto Ricci, all'anagrafe Roberto, nacque a Firenze il 21 maggio 1905 ed
eroicamente morì da tenente delle Camicie Nere, 26° Reggimento Artiglieria, III
Gruppo, 9ª Batteria, verso le nove del 2 febbraio 1941 a Bir Gendula, nel Gebel
cirenaico, mentre cercava di far riparare i suoi uomini dal fuoco micidiale di
due aerei Spitfire inglesi. Alla maniera degli antichi eroi -secondo il suo
amico Paolo Cesarini- «fu fulminato con il volto severo verso il cielo» mentre
in piedi gridava: «A terra, a terra!»
Dopo un'iniziale militanza anarchica, nel 1930, fu conquistato dalla fede nel
Fascismo, restando pervaso per tutta la feconda vita dall'entusiasmo del
neofito. A Mussolini e al Fascismo Ricci arrivò collaborando al "Selvaggio", di
cui non accettava l'antimodernismo reazionario, e frequentando l'ambiente di
Strapaese. " Toscanaccio" tra "toscanacci" non poteva che apprezzare il fascismo
rude, popolare e intransigente delle "squadre" che sognavano la "seconda
ondata".
Rinunciando ai molti vantaggi che il suo prestigio intellettuale e i suoi legami
con il Partito potevano procurargli restò militante tra i militanti, mantenendo
la famiglia con il modesto stipendio di insegnante di matematica nei Regi
Istituti Tecnici Industriali Statali di Prato e "V.E. III" di Palermo, perchè‚
come scrisse Diano Brocchi «si rifiutò di campare della sua arte di scrittore
per paura che il mestiere riuscisse ad influire su ciò che andava scrivendo in
giornali e riviste del Regime».
Anche per Ricci si potrebbero ripetere le parole dette da Leonardo da Vinci dopo
la morte di un altro giovane eroe: «Mai cieco ferro al mondo troncò più grande
speranza". Infatti, il giovane polemista fiorentino fu una delle più promettenti
speranze della generazione venuta all'impegno dopo la tempesta della Iª Guerra
Mondiale. Essi aspirarono ad essere degni dei fratelli maggiori o dei padri che
l'avevano combattuta e vinta, morendo se la Patria ne avesse avuto bisogno, o
partecipando alla edificazione dello Stato fascista con l'impegno intellettuale,
di cui rivendicarono una larga autonomia. Egli chiese ai giovani intellettuali
di misurarsi con tre storici problemi della società italiana: questione
religiosa, formazione di una nuova classe dirigente e riforma del costume.
Berto Ricci appartenne ad una covata d'intellettuali militanti, fascisti eretici
e puri, come ad esempio Carlo Roddòlo, Guido Pallotta e Niccolò Giani, che
raccolti attorno alle riviste giovanili, "L'Italiano", "Selvaggio", "Cantiere",
"Vent'anni", "Bargello", portarono una ventata di giovinezza e di
anticonformismo nel Fascismo, ormai diventato Regime e sempre più preda del
gerarchismo, i cui malefici frutti si vedranno il 25 Luglio 1943.
La sua passione più viva e profonda fu forse l'attività letteraria. Ma l'impegno
giornalistico, unito all'insegnamento, seriamente esercitato per tutta la vita,
ci lasciano di lui poche opere: "Poesie" e "Corona Ferrea", due raccolte di
versi pubblicate rispettivamente nel 1930 e nel 1933; intramezzate da "lo
Scrittore Italiano", edito nel 1931, e della contemporanea traduzione del
"Vicario di Wakelfield" di O. Goldsmith. "Il Meglio del Petrarca", un'antologia
del 1928, fu la sua prima opera. Colto umanista tradusse Ovidio e Shakespeare.
Nei numerosi articoli sulle espressioni della letteratura europea contemporanea
fu avvantaggiato dal conoscere il francese, il tedesco, il portoghese e
l'inglese.
Nel libro "Lo Scrittore italiano", oltre ad una serie di considerazioni
sull'arte e sugli scrittori, volle fornire un modello, umano e politico oltre
che artistico, agli intellettuali fascisti o italiani, termini considerati da
Ricci come due sinonimi.
L'importanza di Ricci è dovuta, principalmente, alla pubblicazione
dell'Universale, che ebbe come "padre spirituale" Ottone Rosai. Il bimensile, un
«fascicolo di 30 pagine, scritto col fuoco, alla carducciana e non con lo stile
alla leopardevole»; fu fondato «con la volontà di agire sulla storia italiana».
Il periodico, segui Rosai. Il poeta stampò il foglio credendo «che attraverso i
suoi errori, le sue contraddizioni, l'Universale espresse con le sue idee, anzi
con la sua esistenza, una verità fondamentale: la necessità per gli artisti e
per gli scrittori italiani, di partecipare alla vita italiana» senza «isolette
oceaniche e paradisi artificiali» volendo «portare un contributo alla storia in
atto». La rivista, che ebbe vita breve e difficile, uscì dal 3 gennaio 1931 al
25 agosto 1935.
Il professore e i suoi ragazzi pensavano, secondo Montanelli che: «il fascismo,
da quella mezza burla che era stato sino ad allora, poteva trasformarsi in una
rivoluzione vera solo se riusciva a costruire un nuovo tipo d'italiano: quello
per il quale Ricci -più che a fornire idee- badò a fornire un esempio a chi gli
stava intorno, e ci riuscì». Collaborarono al bimensile, tra gli altri, Roberto
Pavese, detto il filosofo, Indro Montanelli, Romano Bilenchi, che fu il più
vicino collaboratore di Ricci e che lo sostituì nella direzione del periodico
dal giugno all'agosto 1935, Ottone Rosai, Edgardo Sulis, Dino Garrone, Diano
Brocchi e Camillo Pellizzi. Da questa covata, fu compiuto l'estremo tentativo di
una minoranza di giovani intellettuali d'inserirsi, incidendovi, nella vita
italiana. Lo scrittore fu aiutato, come giudicò Montanelli, dalla «sua prosa
polemica così asciutta e tagliente, e cosi in contrasto con lo stile del tempo»
che «la letteratura giornalistica italiana non ne ha mai avuta di tanto
stringente, dura e, qua e là, spavalda».
Farinacci dalle pagine del cremonese "Regime Fascista" accusò Ricci di
"bolscevismo" a causa di due "Avvisi" del febbraio 1932 in cui si lamentava
«l'ozio di una parte della classe ricca, sia borghese che aristocratica» alla
quale ultima «qualche chiappafumo s'impunta a assegnarle in teoria prerogative
da medioevo». Inoltre, i suddetti ceti venivano imputati di «criminosa
diserzione» nella difficile situazione economica del periodo e ammoniti che: «La
proprietà inviolabile non è affatto un principio dello Stato fascista, che ha
dimostrato di saper colpire anche la proprietà in nome della Patria. La
proprietà inviolabile è un dogma liberale non fascista, inglese e non romano: da
noi proprietario è depositario e non altro... [la storia italiana ] è storia di
spogliazioni compiute dallo Stato per il popolo».
In un "Avviso" dell'ottobre 1932, si dichiarò «non entusiasta» del concetto di
Corporazione Proprietaria, esposto da Ugo Spirito durante il Convegno di
Ferrara.
Nel gennaio 1933, il professore e i suoi sottoscrissero un "Manifesto Realista"
in cui definirono il «marxismo incompatibile con la natura umana e soprattutto
con la natura italiana», e teorizzarono che «Il tramonto inarrestabile del
sistema liberale esige da una parte l'eticità dell'economia, dall'altra la
graduale partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende e la fine
d'ogni proletariato. Ritengono che la società futura avrà a fondarsi sul dovere
del lavoro e sul diritto del produttore alla proprietà nei limiti utili allo
Stato; e che il diritto di proprietà e quello d'eredità siano buoni in quanto
servono allo Stato, nocivi in quanto non concordano coi suoi fini; che
l'iniziativa individuale sia da favorirsi oppure da limitarsi e reprimersi
secondo lo stesso criterio».
La rivista fu intransigente contro i tentativi di reinserimento nella vita
politica compiuti dai vecchi sovversivi dell'Italia prefascista. Per
l'opposizione d'Alessandro Pavolini, in quel periodo "federale" di Firenze,
Ricci avrà la tessera del P.N.F. solo nel febbraio del 1934, dopo tre anni di
successi de "l'Universale".
Allo scoppio del conflitto italo-etiopico, Ricci, che aveva definito la guerra "
madre della civiltà " e teorizzato che " non c'è rivoluzione fascista senza
impero ", lasciò la moglie, la figlioletta di appena due anni e l'insegnamento,
per combattere, col grado di scelto, nella I Divisione delle Camicie Nere.
"L'Universale" diede «dodici combattenti per l'Impero; un caduto, medaglia
d'argento Roddolo, un mutilato, medaglia di bronzo Cesarini».
Gli "Avvisi" piacquero molto al Duce che invitò la covata dello scrittore
fiorentino, "antidealista ed antigentiliana" a portare una ventata di aria
frizzante di gioventù tra le polverose stanze de "Il Popolo d'Italia". Gli alti
papaveri del Regime fecero naufragare l'iniziativa. Lo stesso Mussolini, che
apprezzava il fiorentino considerandolo quasi il prototipo dell'italiano nuovo
nato dal Fascismo, approvò l'iniziativa di affidargli un giornale, ma il
progetto sfumò nei meandri del Minculpop, in quel periodo impegnato nella
ricerca di eretici o infiltrati nelle riviste giovanili. La ritrosia di Ricci,
cui pesava chiedere le cose più di una volta, e la vincita di un concorso alla
cattedra di matematica a Palermo fecero naufragare definitivamente il progetto
della "Tribuna dell'Universale".
Il trasferimento in Sicilia, accettato a malincuore dal giovane reduce, non
interruppe la sua partecipazione alla vita politica e culturale attraverso le
stoccate pubblicate sulla rivista di Giuseppe Bottai "Critica Fascista" ed ad
articoli sul giornale mussoliniano "Il Popolo d'Italia". Dal 30 gennaio al 15
settembre 1937, Ricci insegnò matematica presso il Regio Istituto Tecnico
Industriale "Vittorio Emanuele III" di Palermo. Critico severo delle
degenerazioni cattoliche della religione di Cristo, la cui decadenza «impone
ormai... di risorgere o morire», e del lento procedere verso la costruzione
dello Stato Nazionale del Lavoro, Ricci diede del Fascismo un'interpretazione
che si rifaceva a tratti a Mazzini, criticando la scelta monarchica del 1922.
Nell'importante lettera circolare ai collaboratori del 3 aprile 1938 scritta per
annunciare la rinascita del periodico, affermò che «Bisogna preparare la libertà
fascista», e che il Fascismo, dopo aver dato agli italiani il senso dello Stato,
doveva educare il popolo alla vera libertà e alla partecipazione alla vita
pubblica ed espresse il suo «rispetto e simpatia alla Nazione tedesca e alla
rivoluzione nazionalsocialista; avversione assoluta all'ideologia razzista e
specialmente a qualunque sua infiltrazione in Italia».
Allo scoppio della II Guerra Mondiale riuscì, dopo «aver scocciato mezza Italia»
e aver scritto «venti lettere per farsi richiamare e venti ... per farsi
trasferire ... ad una destinazione più guerriera da un accampamento a pochi
chilometri da casa» a farsi mandare sul fronte marmarico, dove cadde mentre
combatteva, da volontario in camicia nera, gli «inglesi di fuori», pensando di
risolvere a guerra finita i conti con «gli inglesi di dentro».
Per Ricci, come scrisse in una lettera del 14 gennaio 1941 al pittore e
scrittore Nino Bertocchi, la vittoria doveva essere «davvero imperiale e innanzi
tutto morale e civile». In tal modo smentendo le tesi di Ruggero Zangrandi e di
Romano Bilenchi, con cui aveva già chiuso da tempo, che per sminuire i loro
voltafaccia post bellici parleranno poi del gesto del volontario Ricci in
termini di «consapevole suicidio» o di un Ricci che sopravvissuto sarebbe
diventato comunista. Il quale nel suo ultimo incontro con Montanelli disse che
il problema di una sua conversione per lui non si poneva in quanto: «Sono già
convertito -ricordando la sua giovanile militanza anarchica- non posso
riconvertirmi per la seconda volta. Sarebbe una arlecchinata».
Confusa fra tante appare la sua tomba nel sacrario dei caduti d'Oltremare di
Bari, l'iscrizione "(Ro)Berto Ricci" e la data della sua morte. Vergognosamente
l'amministrazione comunale di Firenze cancellò, nel 1948, una via a lui
dedicata.
Giovanni Bartolone
Bagheria, 18 febbraio 1998
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