FNCRSI
Il tipo di analisi politica che da qualche
tempo andiamo conducendo è risultato ostico ad alcuni lettori che se ne sono
lamentati e ci hanno rappresentato chi la necessità di esprimerci con più
semplicità chi l'opportunità di abbandonare quel tipo di analisi per un discorso
più generale, e cioè non politico. Ringraziamo tutti per la possibilità che ci
offrono
di conoscere desideri di chi ci ascolta e, nei limiti del consentibile, di
tenerne conto.
Ai primi rispondiamo che aborriamo le fumisterie e gli orpelli e siamo
ammiratori della semplicità. Esistono tuttavia due limiti. Il primo è lo stile
di chi scrive, che può essere integrato con la buona volontà, non sostituito.
L'altro è dato dalla natura stessa degli argomenti affrontati; infatti è molto
difficile volgarizzare e portare nelle linee essenziali al livello di quei
lettori che possono essere meno provveduti problemi e tesi che spesso sono aridi
e non consentono soccorsi dalla fantasia. Faremo tuttavia del nostro meglio per
essere semplici e chiari.
Coi secondi non siamo d'accordo. La nostra presenza negli anni '70 ha un suo
significato, che è politico, ci piaccia o no. È chiaro che a monte di quella
presenza ci sono contenuti culturali ed attestamenti ideologici. Essi
rappresentano dei presupposti, non sono una linea politica. Fermarsi al
dibattito ideologico o culturale, significa ancora una volta fermarsi sugli
alibi che hanno reso vani 5 lustri di lotta e giustificare le scelte politiche,
sostanzialmente qualunquiste o reazionarie, del Movimento Sociale Italiano.
Delle quali scelte la nostra sola presenza fisica si pone come negazione e
superamento. È perciò irrinunciabile il compito di misurare politicamente le
realtà degli anni '70 e proporre scelte in autonomia di giudizio e di fini.
Questa nostra volontà non è estremismo, come qualcuno ha voluto definirla; è la
conseguenza logica della scelta che quotidianamente compiamo nel riconfermarci
Combattenti della Repubblica Sociale, in coerenza con il nostro passato.
Ciò posto cerchiamo di schiarire, se ci sono, le nebulosità con lo schematizzare
al massimo la situazione politica interna.
Il quadro del sistema partitico italiano è oggi caratterizzato da due egemonie:
una al governo, la DC, l'altra all'opposizione, il PCI, le quali hanno
satellizzato i cosiddetti minori che assolvono alla funzione di scomporre le
contraddizioni e gli attriti, che assorbono nel proprio interno. Sul piano
internazionale, la gestione del potere ricuce le solidarietà USA-URSS e, sul
piano interno italiano la proiezione di quella situazione porta i due egemoni DC
e PCI a scambi ed accordi di vertice.
Nessuno dei due e una forza omogenea. La prima è tenuta insieme dal patto
confessionale, il secondo da una robusta burocrazia di partito (apparato) e
dalla moda.
La DC sa quello che vuole. Nel momento politico che stiamo vivendo si propone di
ottenere un suo uomo alla presidenza della Repubblica e la vanificazione (oppure
limiti sostanziali) per la legge sul divorzio (vedi FNCRSI n. 8 del '71). Essa
inoltre cerca di evitare lo scontro frontale con i cattolici di destra dei quali
aborre le smanie per il referendum ritenendolo, nella più rosea delle ipotesi,
la fine dell'unanimismo verso la subordinazione agli interessi spirituali e
temporali del papato e quindi uno scossone al regime concordatario ben più
dannoso del vulnus rappresentato dal divorzio dei radicali.
Anche il PCI sa quello che vuole. Sa che la DC è immobilizzata e si propone di
impedire il formarsi di qualsiasi schieramento che abbia la capacità di
sbloccarla e quindi di togliere a lui, PCI, il potere contrattuale con il quale
arriva a condizionare il Centrosinistra, come si è visto recentemente a
proposito delle votazioni e dichiarazioni per l'art. 10 della legge
universitaria, in discussione alla Camera. Si delinea, ci sembra, un preciso
disegno cha va oltre la presidenza ed il divorzio e punta alle scadenze
successive, sulle quali l'apparato potrebbe fare affidamento per riassorbire la
protesta antifanfaniana della sinistra extraparlamentare. Anche il PCI osteggia
il referendum, nel timore che esso possa portare a modifiche delle forze che
condizionano lo schieramento politico, e quindi alla perdita di posizioni
contrattuali verso la DC e di potere sui satellizzati.
È così che anche l'atteggiamento del partito progressista per definizione (ma a
parole) si ricombacia con quello di governo e della moderazione conservatrice.
I partiti minori sono fuori da ogni possibilità di iniziativa autonoma, sia
quelli al governo che quelli all'opposizione; quando fingono di non saperlo
riescono a provocare la ilarità dei commentatori meno sprovveduti, come succede
da un verso per il MSI e dall'altro per il PRI.
Unica conseguenza di tutto ciò l'immobilismo più totale, tanto è vero che le
cosiddette riforme qualificanti del centrosinistra -per le quali sono successe
cose turche fino all'autunno- una, quella tributaria, è stata rinviata al 1973;
un'altra, quella della casa, non si sa dove abiti e non si è vista l'apertura di
un cantiere; la terza, quella del divorzio bisogna rifarla perché non piace a
Sua Santità. Fatto quest'ultimo sul quale sono tutti d'accordo, comunisti,
democristiani, missisti, socialisti e intermedi, con la sola eccezione di Loris
Fortuna e di Antonio Baslini i quali però seguitano a predicare che
l'antifascismo sarebbe una cosa seria.
Poste drammaticamente di fronte alla propria decrepitezza, le forze del sistema
avvertono la propria impotenza politica e si esprimono nel centro-sinistra
dominato dalle componenti moderate, centrosinistra che si regge sull'accordo per
la semplice e pura gestione del potere, non avendo la possibilità di trarre
dalla collaborazione di governo la volontà politica necessaria per risolvere
almeno i più urgenti problemi della società italiana. Come si tenta la più
piccola sortita è la crisi.
Nella impossibilità di esprimere alcunché di autentico, il sistema rispolvera il
mito stantio dell'antifascismo e rilancia con rinnovato vigore la caccia alle
streghe, sfogandosi a tacciare di fascismo le proprie contraddizioni, mediante
deformazioni, le più disinvolte ed allegre, della realtà.
Vogliamo mettere in luce, anche a titolo esemplificativo, quella più rozza e
grossolana. In Italia il partito della reazione codina o sanfedista e della
conservazione bottegaia è stato sempre piuttosto robusto. Per i particolari si
può consultare il Cilibrizzi per il periodo dal 1870 al 1910. La nuova
democrazia, restaurata su quella vecchia, non poteva non avere una propria
grossa ala coperta dal potere della reazione codina o sanfedista e da quello
della conservazione bottegaia, sia per gli interessi ispirati dai
vincitori-liberatori, sia per i contenuti culturali ed ideologici che avevano
permeato cospicue forze dell'antifascismo resistenziale, sia per il contributo
finanziario condizionante alla guerriglia partigiana da parte di resistenti
reazionari e bottegai, sia per la parte che vi svolsero la Chiesa e il clero.
Oggi quelle forze spingono in maniera piuttosto pesante a difesa dei propri
interessi politici e materiali e lo fanno nel modo che è stato loro proprio da
sempre. La restante parte del sistema strilla contro il fascismo e sfodera i
motivi dell'antica solidarietà ciellenista perché tutti stiano nello stazzo
moderato, buoni e tranquilli. Come se le manifestazioni antifasciste fossero
capaci di elidere il partito della reazione codifico sanfedista che, fatto fuori
il MSI, si attesterà altrove, o a risolvere i problemi aperti dalla crescita
civile della nostra società.
Chiudiamo questa nota con l'accennare alla nostra posizione sul referendum per
l'abrogazione del divorzio. Non è in ballo, intanto, l'istituto del referendum
al quale guardiamo con favore perché consente una iniziativa politica che
scavalca la decrepitezza degli schemi di partito. Respingiamo d'altra parte il
ricatto della guerra di religione alla quale guerra non crediamo per lo
scadimento cui è pervenuta la religione cattolica e per la indifferenza dei
cosiddetti credenti, dominati dai mass media ed unicamente preoccupati di
saziarsi delle soddisfazioni loro offerte dalla società opulenta e sempre più
permissiva. Né può avere fondamento il timore di farsi intruppare con coloro che
dicono di condividere le preoccupazioni per il potere di Paolo VI, infatti
abbiamo già reclamato da tempo la denunzia del Concordato e del Trattato del
Laterano, non rispondenti alla situazione politica Italiana.
Abbiamo sempre avversato il vuoto nostalgismo sentimentale che condanniamo come
responsabile della situazione di babele fra di noi. Si tratta allora di separare
le proprie responsabilità da quelle che ricadono su quanti predicano
l'intangibilità del regime concordatario perché fatto da Mussolini e seguitano a
dare sostegno e collaborazione a forze politiche che condizionarono il regime
alle proprie esigenze e cooperarono alla sua caduta in maniera determinante.
Quelle forze oggi rappresentano gli stessi interessi di allora, sempre in
contrasto con gli interessi della politica italiana. Per questo avversiamo il
referendum per l'abrogazione della legge che ha introdotto il divorzio.
Sondaggi popolari
sul Presidente della Repubblica
Abbiamo potuto seguire i risultati di due
inchieste popolari promosse recentemente. In ambedue è piuttosto alta la
percentuale dei votanti per Almirante. Ciò è indicativo di come l'opinione
pubblica vede la funzione del MSI e del suo capo. Secondo moltissimi Almirante è
il tipo capace di portare all'ordine e di far funzionare QUESTA democrazia. Ed è
la verità, per le capacità non certo da sottovalutare del nostro. Ma questo è
tutto. L'immagine che il MSI da al paese è lo specchio fedele della sua realtà.
Realtà che trova consensi in tutto lo schieramento parlamentare. Infatti, mentre
il MSI imposta tutta la sua battaglia elettorale in vista del rilancio di un
centrismo vecchia maniera, si può osservare con facilità, grondante da tutti i
muri, il nome di Almirante. Accompagnato tanto da esaltanti parole quanto da
invettive. Ma chi conosce le leggi della propaganda sa che gli apprezzamenti
contano poco. Fatto si è che in Italia pochi conoscono il nome di Saragat, ma
tutti conoscono quello di Almirante. È lecito quindi aspettarsi cose
interessanti dal futuro. Il parlamento italiano è un teatro dell'arte con
personaggi intercambiabili. I burattinai ed i registi sono per ora sempre
quelli.
È in svolgimento anche una duplice operazione tendente a polarizzare
l'attenzione della destra. Il rilancio del partito liberale su posizioni
laiche-partito d'azione (vedi operazioni parlamentari anti MSI) e non è da
escludersi che il recente raduno nazionale antifascista sia stato utilizzato per
questo gioco. Parallelamente si nota un agitarsi della destra DC che muove
critiche al governo ed agli uomini governativi, con le stesse tematiche usate
dagli ambienti missisti. Prova sufficiente della intercambiabilità dei
personaggi e della strumentalizzazione delle tesi politiche per scopi
esclusivamente elettorali.
Considerazioni sul IV novembre
A oltre mezzo secolo di distanza, potendo
contare su una esperienza nazionale che abbraccia diversi sistemi politici e
regimi disparati, dobbiamo dire che l'intuizione degli interventisti, dei
sindacalisti rivoluzionari, di Corridoni e di Mussolini, era esatta. L'unico
modo per svecchiare il clima morale e sociale d'Italia era la guerra. O meglio,
una guerra vittoriosa, la cui vittoria fosse sofferta e sentita nella sua
interezza. Accontentiamo i pacifisti ad oltranza dichiarando subito che il
problema non era di fare la guerra o non farla, ma di farla da attori piuttosto
che subirla, tirativici per i capelli. Il destino dell'Italia essendo quello di
entrare, volente o nolente, in qualsiasi conflitto sul vecchio Continente.
Che fosse necessario un evento grandioso e traumatizzante per trasformare un
coacervo di individui in nazione, è indubbio. Imperava allora in Italia il
manierismo positivista, tanto superficiale quanto vile. Di questa sostanziale
mancanza di responsabilità civile erano rappresentanti sia il movimento
cattolico che quello socialista. Il primo, come oggi, bigotto e revanchista, il
secondo in mano ad un pugno di arruffoni che, al vertice, pontificavano e
tromboneggiavano con quei loro cappelli alla cow boy, sulla pelle dei salariati
che, allora come oggi, pur tra esplosioni di ira e veementi frasi massimaliste
finivano con l'adeguarsi alla linea possibilista di chi menava a proprio vanto
rivoluzionario il presentarsi al Re in giacchetta. Ogni tentativo di inserimento
degli italiani come tali nell'alveo della politica mondiale era fallito più che
altro per l'opposizione interna che aveva usato tutti i mezzi pur di tarpare le
ali ad un Crispi. Va detto peraltro che gli italiani, come popolo e come massa,
erano e sono poco inclini a partecipare alla vita collettiva. In tale
situazione, solo un uomo, nel suo sofferto isolamento, gridava al deserto,
cercando di far capire ai partiti che si disputavano, come oggi, poltrone,
poltroncine e strapuntini, che la via della verità e della grandezza era
altrove, che si trattava di ricominciare daccapo. Era Alfredo Oriani. Crispi ed
Oriani morirono portando in petto la loro delusione: il primo, più vecchio di
una generazione, avrebbe voluto che l'Italia tenesse vivi e dirigesse alla sua
grandezza gli spiriti di quella rivoluzione dalla quale era uscito; l'altro,
figlio della generazione successiva, aveva intuito che solo una rivoluzione
nuova poteva rigenerare l'Italia. Dopo di lui, a smuovere le acque stagnanti ed
a sensibilizzare gli animi più svegli, sorsero il movimento nazionalista
corradiniano; il Futurismo -manifestazione brillante, esasperata, vivacissima
della stanchezza della parte migliore degli italiani per tutto ciò che era
formula vuota, strada segnata, esotismo, volgarità, snobismo, imparaticcio- e il
socialismo nazionale di Mussolini e Corridoni. Quest'ultimo partiva da una
profonda partecipazione alla vita del partito socialista, dalla constatazione
della sua nullità ai veri problemi posti dalle esigenze reali del proletariato
italiano, la cui situazione era veramente disastrosa, soprattutto ai Sud, ove i
metodi di governo di un Giolitti sono tuttora tristemente famosi.
Di fronte a tutte le guerre del Risorgimento, che furono sequenze di scaramucce,
la Prima Guerra Mondiale fu un fatto immenso, che mise alla prova il carattere e
la tenacia di tutta la nazione. Nessuno escluso. E per la prima volta, dopo
infiniti rovesci e concessioni ancor più umilianti perché ottenute come
elemosina per vittorie altrui, il popolo italiano vinse una guerra. Come un
corpo che riacquisti tutte le forze dopo lunga malattia, la psicologia italiana
cambiò. Il popolo italiano cominciò ad avere fiducia in sé stesso. Nel momento
in cui si espandeva sul mondo la potenza americana, e la Russia trovava nel
comunismo la forza ideologica per realizzare un sogno di conquista millenario,
cominciava a formarsi la coscienza unitaria della nazione italiana. E la guerra
aveva dimostrato inequivocabilmente a tutti che chi opera nel mondo sono gli
uomini e che per operare bisogna raggiungere un fine concreto in modo energico,
diretto, efficiente, esclusivo. La storia politica del nostro Risorgimento è un
coacervo di proposte e di riferimenti culturali. Oltre al fatto che la nostra
cultura aveva fin dai tempi più antichi sviscerato tutti i problemi politici,
v'era l'altro che ciascuna delle nostre città rappresentava non solo una entità
di valore storico mondiale, ma anche una somma sterminata di esperienze
politiche le più svariate. Di democrazia e di tirannide, di monarchia e di
oligarchia, di regime comunale e di dominio signorile, di feudalità laica ed
ecclesiastica, di sistema rappresentativo e di stato unitario e di altro ancora,
per cui questi ricordi uscivano dalle profondità del passato e si presentavano
alle menti dei patrioti come problemi e proposte, come particolarismo o come
generalizzazioni. All'ingrosso possiamo riassumere il tutto in una destra
Gioberti e Cavour ed in una sinistra Mazzini e Garibaldi, tenute insieme dalla
monarchia.
A compimento dell'unità, per l'influsso delle potenze interessate all'unità
italiana e per asservimento ideologico della classe dirigente, i partiti
politici italiani si modellarono su analogie apparenti e di dialettica con
partiti di altri paesi. L'indolenza spirituale degli uomini politici italiani
riprese di peso come accade tutt'oggi, la dialettica di partiti stranieri ed
importò un liberalismo ed una democrazia massonici, un socialismo ed un
riformismo che non avevano legami con una tradizione italiana. Veniva cosi
tradito l'aspetto più originale del Risorgimento e l'essenza stessa del pensiero
mazziniano il cui significato universale fu fatto proprio dal Fascismo
Repubblicano. Con la prima Grande Guerra, nella lotta di tutti contro un comune
nemico, sorse la coscienza unitaria italiana. A questa coscienza, formatasi nel
crogiuolo della trincea al di sopra delle classi, nella visione di un unico
destino come uomini e come partecipi di una comunità ben precisa, la nazione, si
affiancava il senso di potenza e l'ottimismo di chi sa di esser capace di
superare grandi prove. Questa spinta e questo orgoglio trovarono espressione
politica nel Fascismo, movimento politico prettamente italiano, e la forza
riunificatrice in Mussolini il cui genio tipicamente italiano trascende la
contingenza del momento politico per tracciare una ideologia di carattere
universale, l'unica, a nostro avviso, nella quale possano riconoscersi ed unirsi
tutti gli europei. Vogliamo inoltre sottolineare che durante la guerra emersero
e presero coscienza di sé quegli uomini che formarono i supporti della vita
culturale e sociale fascista.
Arditi, volontari fiumani, squadristi, volontari in Africa e Spagna, volontari
nella II Guerra Mondiale e combattenti nella Milizia, Militi della RSI. Uomini
di una tale razza emergono nei momenti fondamentali della vita di un popolo. Ne
sono l'espressione fisica della potenza. Presero a riconoscersi come arditi.
Cominciarono formando piccoli gruppi spontanei, espressione schietta del valore
italiano; individualista, geniale, balzano, tanto adatto ai colpi di mano
attuati da pochi quanto poco incline alla disciplina di un grande esercito. Essi
ricompravano il privilegio di una disciplina più sciolta ed indipendente con
l'onore di partecipare solo alle imprese rischiose, votati tutti alla morte, pur
che bella e rischiosa. Essi sentirono in sé la necessità di differenziarsi dal
resto dell'esercito, in nome dell'onore ed al di sopra del dovere, offrendosi
non solo come olocausto alla vittoria, ma come esempio alla nazione. I valori
politici di cui erano portatori dovevano necessariamente pervadere di sé
l'Italia fascista anche se per i più degli italiani questi risultassero pura
retorica. La saggistica antifascista post-bellica ha attribuito questo modo di
pensare e di sentire all'influsso di D'Annunzio e l'ha chiamato dannunzianesimo.
Nulla di più falso. D'Annunzio fu uno di loro e ne fu un capo non tanto per il
suo essere un grande poeta, quanto per essere un creatore politico, degno erede
dei nostri grandi signori del Rinascimento. (Vedasi la reggenza del Carnaro).
Infatti il dovere della disciplina, il rispetto della parola data, il culto
dell'energia e delle virtù virili, la scelta degli uomini sul fondamento del
loro coraggio e dell'atteggiamento davanti alla vita, il rifiuto della cultura
libresca e generica senza impegno globale di tutto l'uomo, sono la sostanza
delle virtù civiche e delle forme più alte di civiltà storica. Il coraggio, la
resistenza, l'energia, lo spirito di sacrificio, la lealtà, sono qualità innate.
Si perpetuano col sangue e nel sangue come espressione di nobiltà; ecco il
nostro razzismo. Uomini così in Italia ce ne sono sempre stati; una minoranza
temuta ed avversata nascostamente da una maggioranza di vili, di opportunisti o
soltanto di indifferenti. Ma appunto per ciò testimoni del più puro spirito
guerriero, perché vissuto interamente in un mondo sostanzialmente ostile. Ed è
stato chiaramente visibile l'odio della plebaglia sia nel 19-20, sia nel 44-48
sfogarsi contro questi uomini, una volta resi inermi ed indifesi. Bastava
infatti che fossero stati volontari, anche se non avevano avuto alcuna carica
politica, perché si tentasse di eliminarli. Ed una vera decimazione ci fu. Sia
per gli intrinseci pericoli che in guerra corre un uomo siffatto, sia per gli
assassinii, tutti poi legalizzati da questa democrazia, durante e dopo la
guerra. Ma, mentre l'uomo libero degli ideologi democratici, essere astratto la
cui libertà altro non è che una limitata litania di diritti, avanza verso la
morte per malattia munito di tutte le autorizzazioni che si possono avere e
tuttavia è triste ed angosciato perché ha l'impressione di non avere vissuto, il
legionario (anche se con meno diritti perché in parte li ha liberamente
rifiutati per il diritto fondamentale di essere se stesso) avanza verso la morte
con la sensazione che la sua breve vita non gli è stata sottratta, ma prolunga
uno slancio che sente in sé e tende oscuramente ad un avvenire da cui riceve un
senso.
Uomini così in Italia ce ne sono sempre stati. L'accusa più comune contro di
loro è di aver fatto la guerra invece di costruire in patria, mentre è ben vero
che solo vincendo assieme, solo conquistando assieme, proprio nel senso di
autodominio che da il comandare ad altri popoli, nasce quel senso di fusione
nazionale che spinge poi a costruire insieme per il bene di tutti. Sono andati a
morire mentre i loro giudici gozzovigliavano. Morendo hanno fatto arricchire sia
il plutocrate sia il proletario che ha ricavato sicuri salari lavorando nelle
fabbriche di mezzi bellici. Sono tornati feriti, mutilati, poveri, e gli
arricchiti si sono divertiti a torturarli e hanno loro mostrato ghignando le
condizioni in cui l'odio del gregge aveva ridotto la loro famiglia. Essi hanno
ricevuto i colpi senza vacillare ed hanno meritato il disprezzo di coloro che
vogliono trafficare e il rispetto di coloro che vogliono servire. La coscienza
di avere agito da uomini è infine per essi più importante delle imperfezioni
della città che hanno servita. «Tu sei colui che la folla vede in te» gridano al
legionario i dottori del Marxismo. «lo sono colui che io vedo in me, risponde
egli, e non riconosco il popolo per mio giudice».
Molti di costoro, oggi, se hanno conservato la fierezza del carattere, hanno
modificato invece, secondo una logica evoluzione di pensiero collegata
all'invecchiamento, le posizioni politiche. Sono per una politica conservatrice
e sostanzialmente reazionaria perché dalla loro esperienza, che reputano
negativa per quanto riguarda il popolo italiano, pensano che in Italia ci sia
ben poco da fare. Ci permettiamo di non essere dello stesso avviso. Nulla è
impossibile e la lotta per le nostre idee è valida in quanto tale. Anche se non
porta ad immediati e concreti risultati, serve a schiarire l'orizzonte. Eppoi
non comprendiamo per quale ragione si debba rinunciare al proprio essere più
profondo per un tatticismo suicida.
La violenza serve al partiti
L'attuale regime è basato sulla violenza
interna. Tutto ciò che il governo realizza, lo è grazie al metodo violento,
della minaccia e del ricatto. Nulla è chiaro e preciso negli intendimenti
governativi. Le categorie interessate ad una trasformazione ne vengono a
conoscenza attraverso una serie di manovre articolate e minaccianti, che servono
a far capire l'antifona anche ai più sprovveduti, ed inducendoli ad accettare
per paura del peggio. La serie di incriminazioni a catena che leggiamo da anni
sui giornali è a questo riguardo ampiamente esplicativa. Peraltro la violenza è
una necessità dal basso. Nulla può ottenere un dipendente se non protesta
violentemente, e non si impone in qualche modo con scioperi, ricatti,
distruzioni varie al patrimonio nazionale. Questa società per sopravvivere ha
bisogno di distruggere tutti i supporti articolati. Infatti il denominatore
comune di essa è il disimpegno civile. E questo lo otteniamo solo eliminando le
strutture portanti. È chiaro, ad esempio, che una scuola costantemente in
agitazione violenta senza alcuna reale via d'uscita, le cui poche attrezzature
vengono ritmicamente distrutte, può insegnare ben poco. Ed è quello che si
vuole.
La struttura stessa della società permissiva, acutamente studiata dal Marcuse,
incita alla violenza più irosa. Nulla infatti eccita più la aggressività di una
arrendevolezza che non è comprensione e volontà di collaborazione ma solo e
chiaramente volontà di sopraffazione e beffa. Così il delinquente che si vede
rimesso in libertà senza aver scontato la pena meritata viene frustrato anche da
questo rifiuto. Si trova di fronte una società che gli nega ogni valore, anche
negativo, e reagisce con maggior violenza e volontà di nuocere per affermare la
sua presenza. Ad una analisi sociologica appare che in Italia esistono elementi
che giustificano un tale modo di gestione del potere (alto numero di anziani,
prevalenza delle femmine, femminilizzazione del maschio, masse veramente
incolte), per cui chi comanda non si rivolge mai a uomini capaci di ragionare
virilmente e freddamente, e di prendere delle precise decisioni; perciò usa le
tecniche di pressione psicologica, di deformazione emozionale dei fatti, di
alienazione. Ma oltre a questo dato di fatto, c'è una volontà politica che fa di
tutto perché le cose restino così, ed anzi si peggiorino. L'esempio migliore
viene dalla scuola. Tutto ciò che si fa nella scuola tende ad un progressivo
abbassamento del livello culturale. Qui non si vuole difendere la cultura in sé
o il puro e semplice faticare nell'apprendimento di notizie; ma il risvolto
sociale della cultura impartita dalla scuola è una migliore comprensione
reciproca. La comprensione è comunicazione e linguaggio. La comunicazione è
legata alle possibilità di recezione. Del significato in politica internazionale
della crisi dell'istruzione in Italia abbiamo già parlato. Resta l'aspetto
civile. Per spiegarci con qualche esempio, l'eliminazione dell'obbligo del
latino, matrice del nostro linguaggio ed educatore al ragionamento logico, è
voluta affinché più difficile divenga la comprensione delle esigenze altrui,
quindi questa si allarghi ad un concetto di collettività. Il latino non solo
facilita il processo ideativo secondo logica, ma educa anche ad una concezione
nobile della vita. Ergo, eliminazione del latino significa anche ulteriore
spinta di una tendenza innata nell'italiano: quella dell'ingaglioffimento. Ma la
carenza di preparazione culturale eccita anche la tendenza verso l'ignoranza
presuntuosa ed arrogante. Chiunque, non erudito sulla evoluzione del pensiero,
prenderà per geniali intuizioni qualsiasi bislacca idea gli venga in testa. È la
classica situazione della Democrazia; tutti parlano e si esibiscono quali geni
incompresi, mentre pochissimi comandano.
Il partito delle riforme
Il PSI si qualifica «partito delle
riforme». Cioè la funzione di questo movimento politico sarebbe quella di
promuovere riforme. Mentre gli altri partiti avrebbero quello di gestire
staticamente la vita economica italiana. Già un partito politico che restringe
la sua presenza storica a questa sola attività, mostra chiaramente di essere
emarginato nella sostanza dal fluire della storia.
L'Italia ha un disperato bisogno di riforme. Deve essere tutta riformata. Ma
nella visione d'insieme di una rigenerazione degli Italiani. Ecco perché a parte
i furti attuati a man salva dai suoi dirigenti, il PSI, definendosi «partito
delle riforme» non è qualificato a farlo. Ed in realtà, la funzione che viene
delegata al PSI dalle forze al potere è quella di eludere ogni istanza del
paese. Si tratta in sostanza di cianciare a vuoto, di proporre soluzioni
mirabolanti, e di frenare poi ogni volontà realizzatrice. Ciò serve al PCI il
quale può attestarsi, a parole, su posizioni di critica, mentre nella realtà
svolge la funzione di partner governativo e stabilizza il sistema il quale vive
in quanto è STASI. La stabilità del sistema si basa proprio sul vellicare il
piacere del disimpegno politico e sul promettere un futuro di poca fatica e di
grandi guadagni burocratizzando gradualmente grandi masse di lavoratori. Il
governo che una qualche riforma seria mettesse gli uomini giusti al posto giusto
innescherebbe un processo a catena tendente in primis alla eliminazione delle
superfetazioni politiche e quindi alla caduta di questo sistema. Tutte le forze
politiche rappresentate alla camera, sono concordi nel ritardare al massimo
l'avvento di questo giorno.
Dunque, ammazziamo Almirante!
Ci avete inviato indignatissime lettere
per il fatto che Almirante ha risposto all'appuntamento antifascista dell'8
settembre. Tradimento, infamia, tralignamento, ecc.! Taluno, addirittura, non
disdegnerebbe di assistere al funerale del Segretario del MSI.
Ammazzare Almirante? Ma nemmeno per sogno. A chi gioverebbe? E poi, francamente,
non si possono mica far fuori tutti gli antifascisti.
Ma ragioniamo e, almeno una volta tanto, pacatamente. Voi, ad esempio, fareste
bene a smetterla di fare i cani a tre zampe: una nel MSI, una con noi ed una
probabilmente in qualche strana conventicola golpista. Vi disprezziamo
sinceramente e non solo per un così lungo equivoco, ma soprattutto per le
distorsioni ideologiche di cui siete portatori e succubi. Mentre riteniamo che
Almirante, recandosi all'appuntamento antifascista (Porta S. Paolo, Sinagoga,
ecc.) abbia compiuto un gesto moralmente coerente, politicamente intelligente ed
elettoralisticamente producente. Non facciamo ora la sua apologia, come non ne
faremmo poi il panegirico. Sono generi questi che non ci attirano. Ad essi
preferiamo l'inventiva, l'ironia, la satira e, perché no, la poesia. Ci avete
dunque scritto inutilmente, così come inutili furono i carmi -peraltro
armoniosissimi- di Catullo volti a convincere Clodia perché lo cornificasse
pure, ma con più discrezione. Il problema è appunto questo: vi sentite troppo
palesemente cornificati e tentate di sfogarvi in qualche modo. Fateci perciò la
cortesia di tenervi i vostri «ornamenti» e dimenticate il nostro indirizzo.
Almirante ha dimostrato in mille maniere di non essere fascista. Dunque che
pretendete ancora da lui? Non vi ricordate quando si vantò di aver aiutato non
so quale ebreo durante la RSI e di esserne stato ripagato abbondantemente a
guerra finita? Non vi ricordate quando sostenne che, se Mussolini fosse vivo,
difficilmente gli avrebbe affidato la presidenza onoraria del suo partito? Del
resto voi stessi, nelle vostre lettere parlate di successi di destra di forze
sane di destra giovane e di altre corbellerie che non potranno mai riguardare i
fascisti. I fatti parlano chiaro, Almirante antifascista raccatta voti da tutte
le parti.
Ma veniamo alla storia che, non per nulla, può essere maestra di vita. Quale è
stato e quale è ancora lo scopo perseguito dal MSI, oltre a quello di obbedire
ciecamente alla DC? Crearsi uno spazio politico a destra del sistema
antifascista con i voti dei fascisti che di destra non sono. Ora che lo spazio
(non troppo, non illudetevi, solo quanto ne consente chi indirizza e
sovvenziona) si è cominciato ad intravedere ed è tale che può essere mantenuto e
consolidato anche a prescindere dai voti fascisti, perchè mai, vi domandiamo, il
segretario del MSI, dovrebbe mettersi a fare il fascista? Le federazioni
missiste non solo hanno ricevuto la nota circolare con la quale si aboliscono i
saluti romani, si gettano nella pattumiera i gagliardetti e si vieta l'antica
liturgia -già abbondantemente scaduta nel grottesco per la risaputa cialtroneria
dell'ambiente- ma vengono costantemente orientate verso una sempre più netta
sterzata a destra che non può, ovviamente, non comportare il rigetto di ogni
principio fascista.
Voi ben sapete come il contenuto fascista nelle mozioni e nei discorsi dei
responsabili missisti si sono via via rarefatti tanto da dar luogo ad
affermazioni chiaramente antifasciste. Questo fenomeno, pur evidentissimo sotto
il povero Michelini, si sta ora accentuando per l'azione determinante svolta
dall'ultimo cospicuo gruppo di massoni, approdati al MSI, non certamente per
fare la rivoluzione fascista. Per noi tutto ciò era scontato.
In sostanza, si è trattato di operare una scelta: rimanere fascisti e continuare
a soffrire persecuzioni, umiliazioni, impopolarità e fame o passare
all'antifascismo per godere del successo, della tranquillità e della vita
comoda. Il MSI ha saputo scegliere e, bisogna darne merito soprattutto ad
Almirante, con gradualità e tempismo, la controrivoluzione. E per questo
vorreste ammazzarlo? Proprio voi che, in privato, avevate già fatto e da lungo
tempo le medesime scelte? Dovreste anzi augurare lunga vita a quest'uomo al
quale avete riservato l'ingrato compito di scegliere pubblicamente e
irrevocabilmente anche per tutti voi. Quindi state tranquilli perché ormai
nemmeno più i comunisti -i soli che, di tanto in tanto, vi rinnovano la patente
di fascisti- vi potranno più rimproverare i vostri «cattivi» trascorsi.
Infatti Almirante subito dopo l'8 settembre ("Secolo", 17/9/71) risponde ai
comunisti che non vollero presentarsi a Tribuna politica: il sottoscritto, quale
segretario del MSI, ha reso di recente omaggio, nella ricorrenza dell'8
settembre, ai Caduti dell'altra parte, ai Caduti di Porta San Paolo in Roma; e
non già perché il sottoscritto abbia qualche cosa da farsi perdonare, o perché
sul partito che il sottoscritto ha l'onore di dirigere gravino responsabilità
storiche... Sarebbe dunque andato a rendere omaggio ai Caduti. Noi, ad esempio,
solo qualche anno fa, in occasione della inaugurazione della tomba-ossario di
Susegana (Treviso) trovammo il cimitero esternamente circondato e internamente
occupato da reparti in armi palesemente presenti non già per rendere omaggio ai
nostri Caduti, ma, se di caso, per arrestarne le madri, le spose, le sorelle e
le figlie, che con noi, fierissimamente, si erano recati ad onorarne la
sepoltura. Poi, al Ponte della Priula, luogo in cui il genitore di uno dei
nostri giovanissimi massacrati aveva meritato la medaglia d'argento al V.M.
quale ardito nella I guerra mondiale, le nostre donne, i nostri bambini, i
nostri vecchi, furono «caricati» da quei reparti in armi, sol perché tentarono
di affacciarsi, forse per versarvi una lacrima, sulle acque del Piave che
accolsero i corpi dei loro giovani congiunti maciullati (a guerra finita) dalle
ruote di autocarri partigiani.
E allora? Allora, signori missisti di dentro e di fuori dal MSI, sappiate che
noi ci inchineremo dinanzi a certi Caduti solo se, per i successivi 25 anni a
partire da oggi, verranno esaltati il valore e il sacrificio dei Caduti e dei
Dispersi, le sofferenze delle vedove, degli orfani, dei Mutilati e degli
invalidi e dei Combattenti tutti dell'unica resistenza moralmente e storicamente
accettabile: la resistenza della RSI contro tutti gli eserciti del mondo. Solo
allora, per noi, i Caduti saranno caduti per renderci tutti migliori. I Caduti,
comunque, al di sopra di ogni meschina speculazione, ci pongono ben altri
imperativi, che non sono di vendetta ma di giustizia, di coerenza e di fedeltà.
Quanti fra gli scampati sapranno tenere ancora accesa la fiaccola della fede a
dispetto del vento delle subdole pacificazioni e delle intemperie del
deviazionismo missista? Noi crediamo che saranno molti. La coerenza e la fedeltà
costituirono sempre le qualità più nobili dei nostri Combattenti, giacché essi
scesero in campo non già per il successo, ma per la giustizia e l'onore, che
sono i cardini di ogni bene intesa norma morale. Ad essi e ai giovani che li
seguono, giunga il nostro cameratesco saluto e l'invito ad una sempre più tenace
fedeltà alla Causa, poiché tutte le rivoluzioni, tutti i sommovimenti storici
più decisivi e totali hanno potuto aver luogo solo per l'opera silenziosa e
umile di valorose minoranze dotate di un più forte e profondo sentire i concetti
e le idee morali. Per la rivoluzione di Mussolini non per la controrivoluzione
di Almirante.
|