POLITICA INTERNA
1 - Lo strano europeismo di Andrei
Gromiko
La visita in Italia del Ministro degli
Esteri sovietico ha rappresentato un fatto politico di scarsa importanza se si
fa riferimento ai colloqui avuti con i rappresentanti del Governo Italiano, e
proprio per questo motivo è parso chiaro che l'Italia costituiva per Gromiko
solo la base di appoggio per l'incontro con Paolo VI. Il carattere
ostentatamente diplomatico del viaggio, l'intermezzo turistico, l'educata e
compita accoglienza del PCI, i risultati esclusivamente economici degli incontri
«italiani» hanno fatto capire anche ai più disattenti che la mèta vera della
visita era il Vaticano.
Nessuna indiscrezione è trapelata sugli argomenti toccati dai due interlocutori,
né vi è stata da parte dei giornali un'indicazione sufficientemente orientativa
dei temi trattati. In effetti, i rapporti fra Chiesa e mondo comunista non sono
tali da poter essere evocati come la causa evidente e necessaria di un
avvenimento quale quello romano. Un motivo come quello del mancato viaggio di
Paolo VI in Polonia non può aver determinato Gromiko all'importante passo
diplomatico.
D'altra parte un'influenza del Papa sulla Cina non è sostenuta neppure dal più
acceso clericale, mentre è invece palese il contrario, dacché Mao-tse-tung non
ha neppure degnato di una risposta il noto messaggio pontificio.
Pertanto, non si vede come alcuni giornali abbiano potuto sostenere che oggetto
del colloquio sarebbe stata una mediazione pontificia per il Vietnam. Forse quei
giornali hanno pensato che il Vaticano avesse in Cina un corrispondente simile a
quel Lecanuet che esso utilizza in Francia per disturbare De Gaulle a maggior
gloria degli USA! Inoltre non può neppure pensarsi che Paolo VI abbia sfruttato
il colloquio per forzare i sovietici a disimpegnarsi nel Vietnam del Sud, poiché
non aveva nessun titolo per farlo, non poteva offrire nessuna contropartita né
la situazione era precipitata improvvisamente e a tal punto, a Saigon, da
rendere necessario l'improvviso incontro.
Bisogna allora cercare più in profondità per trovare la ragion d'essere del
colloquio. Il Vaticano sta tentando da vario tempo di predisporre le condizioni
per un «rientro» oltre la cortina di ferro. L'incontro fra Giovanni XXIII e
Agiubej, i tentativi per sbloccare il caso Midzenty, ed infine, su un piano
minore ma ugualmente significativo, il divieto delle mostre sulla Chiesa del
Silenzio organizzate da Padre Chianella, dimostrano il nuovo orientamento
pontificio.
Errerebbe comunque chi ritenesse che il Vaticano vuol accordarsi con il
comunismo, ed errerebbe non perché il Vaticano non osi tanto ma semplicemente
perché nell'Unione Sovietica il comunismo è stato accantonato dalle due
ideologie che ora si contendono il potere: il nazionalismo portato dai militari
e il radicalismo (o sinistrismo democratico) sostenuto dai tecnocrati, dai
burocrati e dalla cultura progressista ed occidentalista.
Ora, il Vaticano vuol effettuare verso l'Unione Sovietica lo stesso gioco a
favore dei radicali che ha svolto negli USA con John Kennedy nel 1960 e che si
appresta a ripetere con Bob Kennedy nel 1968.
L'interlocutore romano del Papa è stato Andrei Gromiko, uomo di fiducia dei
radicali sovietici e sostenitore ad oltranza, nel campo diplomatico, della linea
distensiva e di un accordo globale con gli Stati Uniti d'America. La sua
caratteristica è appunto la fiducia nell'ONU come strumento di colloquio, di
ammorbidimento e di passaggio dalla linea rivoluzionaria a quella distensiva.
Gromiko ha cercato a Roma di stabilire un contatto diretto con Paolo VI per
sollecitarne un'azione verso i Paesi dell'est europeo, e soprattutto verso la
Polonia, che possa garantire l'Unione Sovietica da rivolte, colpi di testa o
comunque dall'insorgere di tendenze centrifughe in quegli Stati.
Il mantenimento dell'impero sovietico nell'Europa orientale è stato infatti il
classico tallone d'Achille della politica dei radicali sovietici.
L'abbandono dello stalinismo provocò l'insurrezione ungherese, Potsdam, la
defezione dell'Albania, l'insorgere di gruppi nazionalisti rumeni e bulgari e
nel contempo esasperò il terrore da parte del regime di Ulbricht e di Gomulka di
essere abbandonati dalla madrepatria russa e di dover fare i conti storici con
la Germania.
A questi fenomeni si rispose con gli atti ben noti che vanno dalla repressione
di Budapest al muro di Berlino; ora, questa politica non è più sufficiente,
giacché l'uscita della Francia dal Patto atlantico e il conseguente aumento di
fiducia e di potenza verso la Germania ripropongono in termini nuovi la
situazione dell'Europa nord orientale.
Il Vaticano che negli anni passati aveva lasciato fare dichiarazioni
anti-tedesche al clero polacco sulla linea dell'Oder-Neisse ha ora preferito
rinunciare al viaggio del Papa pur di non smentire le dichiarazioni possibiliste
rilasciate recentemente sulla stessa questione dal medesimo clero.
Il fatto è che il rilancio della Germania è seguito con cura dalla Segreteria di
Stato, che non vuole pregiudicare le posizioni del Vaticano di fronte
all'opinione pubblica tedesca sul problema che in Germania è maggiormente
sentito.
Gromiko ha perciò cercato un punto di incontro per poter sbloccare la
situazione, chiedendo magari che il Vaticano, con la sua autorità, presti una
specie di garanzia per rassicurare i polacchi sul fatto che, comunque, i nuovi
passi della politica estera sovietica verso l'Europa, nei prossimi mesi non
comprometteranno necessariamente lo statu quo tra Polonia e Germania.
È sintomatico infatti che Gromiko, durante i colloqui con i governanti italiani,
abbia battuto insistentemente soltanto sul tasto delle questioni europee. Il
vecchio progetto di una conferenza paneuropea è stato da lui ripreso con intenti
nuovi. Innanzitutto c'è la novità dell'esclusione degli USA, non richiesta anni
fa alla prima presentazione del progetto. È segno che l'Unione Sovietica
comincia ad uscire dallo spirito «distensivo» della spartizione del mondo a metà
con gli USA. Inoltre, i motivi che hanno portato Gromiko a ripresentare il
progetto sono tali da far pensare che si voglia in qualche modo, da parte
sovietica, prendere atto della risorta potenza tedesca, magari con la riserva
mentale di quietarne lo spirito rivendicazionista con concessioni formali.
In tal senso a Paolo VI potrebbe essere stato rivolto un invito ad intervenire
con spirito conciliatore anche presso i cattolici tedeschi per facilitare
l'adozione di un modus vivendi, sostanzialmente e cristianamente fatto caricare
sulle spalle della riunificazione tedesca.
Vedremo dagli sviluppi della situazione l'esito dell'incontro; tuttavia rimane
chiaro che le nuove possibilità che si sono aperte per una politica europeista,
con la quale già deve fare i conti l'Unione Sovietica, nascono dall'iniziativa
del generale de Gaulle e, in particolare, dall'aspetto di essa che ha colpito
alla radice lo statu quo europeo fissato a Yalta e ribadito con le pesanti
catene del Patto Atlantico, e della ideologia occidentalista, del Patto di
Varsavia e della satellizzazione sovietica dei Paesi dell'Est europeo.
2 - La riunificazione sindacale e il centrosinistra
La riunificazione sindacale fra la CISL,
la CGIL e la UIL sta entrando nella fase dei contatti volti a concordare le
modalità, le procedure e l'agenda dei temi da trattare.
Al momento, le posizioni delle tre confederazioni sono le seguenti: la CISL ha
affermato la sua disponibilità all'incontro mediante una lettera inviata da
Storti alle altre segreterie confederali, alla quale è stata allegata la mozione
approvata all'unanimità dal consiglio generale della CISL.
In essa vengono posti come base pregiudiziale al colloquio:
1) «l'accettazione dei princìpi della libertà e del metodo democratico per gli
individui e per i gruppi di ogni concezione ideologica»;
2) «l'autonomia dei sindacati rispetto allo Stato, al governo, ai partiti e al
padronato».
Da queste premesse si può ben vedere che la prospettiva della CISL è quella di
condurre tutto il movimento sindacale italiano entro il sistema democratico
parlamentare.
In termini di politica attuale ciò comporta l'appoggio incondizionato al
centrosinistra e nello stesso tempo il tentativo di dare allo stesso
centrosinistra un contenuto non ideologico ed essenzialmente sindacalista.
La prospettiva cislina nasce da un incrocio fra la concezione laburista dei
rapporti fra il sindacato e lo Stato e quella radicale-roosveltiana.
Dal laburismo essa prende l'ideologia del «Welfare State», del benessere come
unico fine dello Stato, del sindacato come centro motore della vita statuale;
dal radicalismo essa trae l'idea che il sindacato non debba inquadrarsi nello
Stato o collegarsi con il governo attraverso appositi istituti (corporativismo)
bensì che esso debba collaborare al processo di democratizzazione dello Stato,
sostenendo le forze che perseguono tale scopo. Fu in base a questa concezione
che i sindacati americani si unificarono nel periodo aureo del «new deal» di
Roosevelt e, come AFL-CIO, rappresentarono la cinghia di trasmissione della
volontà dell'esecutivo nel mondo del lavoro. Fu per la stessa ragione che nel
'60 gli stessi sindacati appoggiarono il radicale Kennedy contro Nixon e nel '64
si batterono contro Goldwater, che oltretutto voleva mutare i loro sistemi di
finanziamento.
È per la medesima ragione che oggi in Italia la CISL si preoccupa, attraverso la
riunificazione, di portare innanzi tutto al centrosinistra l'appoggio compatto
dei sindacati, nella prospettiva di sostenere poi, all'interno di esso, i gruppi
più democraticisti e più filo-radicali.
La CGIL, dalla quale è partita l'iniziativa riunificatrice, ha puntualizzato con
alcuni articoli di Novella la sua posizione, che è di piena accettazione delle
due pregiudiziali poste dalla CISL.
La ragione che ha spinto il sindacato social-comunista a proporre la
riunificazione consiste tutta nell'esigenza di ostacolare la formazione del
cosiddetto «sindacato socialista», che si effettuerebbe sicuramente dopo la
riunificazione tra il PSI e il PSDI e che comporterebbe l'uscita dei socialisti
dalla CGIL.
L'iniziativa comunista segna un'importante modificazione dell'atteggiamento del
PSI verso il centrosinistra e la riunificazione socialista.
In un primo momento, i comunisti avevano fissato la loro posizione su una linea
di intransigenza, ritenendo, come dichiarò Amendola, di poter «schiacciare
elettoralmente i socialisti autonomisti». La vocazione al potere del PSI è stata
però evidentemente più forte del previsto, e comunque, in grado di contenere la
secessione del PSIUP e il conseguente isolamento degli autonomisti nella CGIL.
Non solo, ma ora sono proprio i socialisti a volere la rottura, anche in quegli
organismi nei quali finora avevano coltivato la pianticella della solidarietà di
classe.
A questo punto non è rimasto al PCI che tentare il grande diversivo della
riunificazione sindacale, unica alternativa alla temuta nascita del «sindacato
socialista». Manovra già tentata in sede politica con l'analogo progetto
amendoliano del «partito unico dei lavoratori» che doveva andare dal PCI alla
sinistra democristiana.
Nell'un progetto come nell'altro è chiara la strumentalizzazione del PCI operata
dai radicali, interessati ad estremizzare il centrosinistra e a toglierlo dalla
«palude dorotea». In particolare, attraverso la riunificazione sindacale i
radicali si propongono di annullare l'influenza del PSDI, impedendo ad esso di
rafforzare con il «sindacato socialista» le sue posizioni moderate nel campo
sindacale e in quello governativo.
Finora i socialdemocratici hanno reagito temporeggiando, preoccupati di non
mettere in imbarazzo i socialisti con un loro netto rifiuto. Così hanno recitato
le classiche due parti in commedia: Viglianesi da una parte ha proclamato: «non
capisco perché ci si stupisce quando diciamo di volere il sindacato socialista.
Quando insieme con la forza politica del partito unificato vi sarà anche una
grande forza sindacale socialista, i partiti e i sindacati integralisti e
totalitari dovranno fare i conti con noi». Dall'altra parte il comitato
direttivo provinciale della UIL di Milano ha comunicato: «La UIL conferma la
posizione sempre unitariamente presa di opposizione a sindacati di partito ...».
Sostanzialmente la UIL è contraria alla riunificazione per le ragioni di
politica governativa filo-dorotea e moderata che si conoscono.
Attendiamo lo sviluppo degli avvenimenti che comunque già hanno fornito
un'ennesima riprova della funzione parapolitica e paragovernativa dei sindacati
italiani.
3 - I radicali all'assalto della Magistratura
Si è tenuto a Roma tra il 23 e il 25
aprile il terzo Convegno Nazionale dei Comitati d'Azione per la Giustizia. È
stata una nuova occasione per evidenziare le linee dell'offensiva intrapresa
dalla sinistra radicale per la conquista del potere giudiziario.
Dei tre Poteri dello Stato l'unico a non essere ancora dominato dai padroni
dell'attuale regime era quello giudiziario. Per gran parte aggiogati al proprio
carro i cattolici, la sinistra laicista dilaga oggi quasi incontrastata nel
Parlamento e nel Governo, nelle banche e negli enti pubblici, nell'editoria e
nella stampa, nel teatro e nel cinema. Restava fuori la Magistratura, come
dimostrano i processi clamorosi degli ultimi anni (Ippolito, Aliotta, ecc.).
Come intaccare quest'ultima resistenza che, sfuggendo al controllo, metteva
bastoni fra le ruote a politici e tecnocrati? Accusandola -come infatti va
facendo una campagna di stampa bene architettata- di «spirito retrivo», di
«formalismo giuridico», di «ancoramento alla lettera della legge», di «scarsa
sensibilità alle esigenze sociali ed economiche di una società in evoluzione» e
di «mancato adeguamento allo spirito democratico della Costituzione». È così che
si crea nella pubblica opinione una crisi di sfiducia verso la Giustizia e i
suoi Organi.
Fuori di questo disegno a largo raggio, non si possono comprendere né i dissidi
interni fra Magistrati, alimentati allo scopo preciso di fiaccarne la resistenza
e di screditarne il prestigio, né la montatura artificiosa di episodi
insignificanti, tipo "la Zanzara".
Prova di questa manovra sono le proposte di riforma avanzate dalle correnti di
sinistra dell'Associazione Magistrati (Terzo potere e Magistratura democratica)
e di cui è palese il significato politico:
1) modifica della composizione del Consiglio Superiore della Magistratura
aumentando il numero dei membri di estrazione parlamentare, così da assicurare
ad essi la maggioranza;
2) inclusione, nei Consigli Giudiziari delle Corti di Appello, di membri
designati dai Consigli provinciali e regionali;
3) inserimento nella Corte di Cassazione di elementi estranei alla Magistratura;
4) trasformazione del Pretore in Giudice di pace elettivo e fornito del potere
di decidere «secondo equità»;
5) riduzione del Pubblico Ministero a ruolo di Funzionario posto alle strette
dipendenze del Potere esecutivo o del Parlamento.
L'obiettivo è chiaro: politicizzare la Magistratura rendendola sensibile alle
pressioni dei centri di potere politico ed economico che controllano il Paese.
Non per nulla al Convegno dei giorni scorsi all'EUR, un'oratrice ha additato al
Governo l'esempio di Roosevelt, che quando nel '30 lanciò la sua politica del
«new deal», trovò nella Corte Suprema «una resistenza che fu spezzata solo con
la minaccia di allargarne la base, mutandone la composizione, in modo da
renderla più rispondente ai bisogni del pubblico». Non più, quindi, il giudice
che, applicando la legge, tutela i diritti di tutti e di ognuno contro ogni
turbativa, ma il giudice che, interpretando le esigenze della evoluzione
politico-economica, serve i «grandi interessi sociali», cioè si fa strumento dei
gruppi di potere.
A portare avanti queste idee sono uomini come Berruti, devoto erede del
progressismo torinese di Peretti-Griva, ex-Presidente dell'Associazione
Magistrati, dimessosi a seguito dell'ondata di protesta sollevata per la sua
infelice presa di posizione contro il PM del processo a "la Zanzara", o come
Bianchi d'Espinosa, noto radicale già distintosi all'epoca dell'epurazione.
Cosa si oppone a questa massiccia offensiva? Da un lato, l'Unione Magistrati,
che raggruppa soprattutto Consiglieri di Cassazione, appare legata a concezioni
conservatrici e, disorientata dalla violenza dell'assalto e non ben conscia del
senso storico dell'attuale crisi, si attesta su una rigida linea di difesa
passiva, non avendo -a causa della sua eredità culturale essenzialmente liberale
ed ottocentesca- altra arma a disposizione che l'ossequio formale al diritto
positivo. Essa non possiede l'elasticità necessaria per parare i colpi della
sinistra laica che, prendendo di mira gli autentici limiti dello Stato borghese
e risorgimentale, colgono facilmente nel segno.
Dall'altra parte c'è l'ala cattolico-moderata dell'Associazione Magistrati che,
impacciata dagli equivoci e dalle involuzioni dell'attuale direzione DC, viene
sospinta sempre più verso mere posizioni rivendicazionistiche, non disponendo di
alcuna tesi di alternativa sul piano della riforma delle strutture.
Affidata a siffatti difensori, l'indipendenza del magistrato italiano ha gli
anni contati.
POLITICA ESTERA
4 - De Gaulle, Lecanuet e Diderot
Negli ultimi tempi l'opposizione a De
Gaulle ha cercato di strutturarsi in maniera organica ma, stando agli ultimi
avvenimenti, senza alcun risultato positivo.
Il leader della SFIO Guy Mollet, anche in passato noto per i suoi atteggiamenti
personalistici, prendendo occasione dalla mozione di censura contro la politica
di De Gaulle, ha cercato di assumere un posto di primo piano nell'opposizione al
regime.
Il risultato è stato disastroso: le sue mosse e i suoi intrighi hanno finito per
indignare e dividere tutto lo schieramento antigollista, tanto che la mozione di
censura ha raccolto appena 137 voti.
Allo stato attuale delle cose, i democristiani di Lecanuet nutrono diffidenza,
se non peggio, verso i socialisti; la Federazione della sinistra socialista è
dilaniata da lotte interne; i comunisti, che per ragioni di politica estera
hanno votato contro la mozione di censura, sono sfuggiti alla manovra di
agganciamento e di strumentalizzazione del radicale Mitterand.
Tutto questo è la controprova che il virus del parlamentarismo e del regime
assembleare, che ha portato la IV Repubblica ad una scomparsa senza gloria,
continua a mietere facilmente le sue vittime.
Ma come se questo non bastasse, il caso de "La religieuse" è venuto ancor più a
dividere le file dell'opposizione, solo che questa volta l'iniziativa è stata
presa dal regime.
Infatti il film "La religieuse", che è tratto dal romanzo "La monaca" di Diderot
e che descrive aspetti scabrosi della vita delle monache di clausura, è stato
vietato e persino proibito all'esportazione dal Ministero per l'Informazione,
Bourges. È interessante notare che il film in questione era già stato approvato
dalla commissione di censura.
Se le cause di questo divieto non sono state comprese dagli organi di stampa e
dai commentatori politici, tuttavia gli effetti non si sono fatti attendere.
Appena il film è stato vietato, gli schieramenti politici, che credevano di aver
trovato nell'antigollismo il loro comun denominatore, hanno preso posizioni
completamente opposte.
Da una parte Lecanuet, che cerca di presentarsi come l'interprete dei cattolici
francesi e la cui forza elettorale è data dal sostegno dei parroci di campagna,
non ha potuto schierarsi contro questo provvedimento, ed è venuto perciò a
condividere, di fatto, le posizioni di un ministro gollista. Di conseguenza
questo ha portato ad un dissidio con i socialisti, i radicali e i comunisti i
quali, dall'altra parte, hanno iniziato una violenta polemica per ottenere che
il film venga proiettato.
Naturalmente il governo, anziché smorzare, ha alimentato questa polemica, che
sta facendo il suo gioco. Infatti la televisione francese, organo statale, ha
persino organizzato un dibattito tra l'Arcivescovo coadiutore di Parigi,
monsignor Veuillot, conosciuto per i suoi atteggiamenti progressisti in
Concilio, e tre rappresentanti della stampa.
Come era da aspettarsi, monsignor Veuillot ha difeso il veto governativo, dando
così il via anche ad un contrasto tra cattolici tradizionalisti e progressisti
che erano rappresentati al dibattito dal giornalista Montaron, direttore di
"Témoignage Chrétien" e noto portavoce di tutte le posizioni ultramoderniste.
Dal quadro d'insieme, appare ben chiaro che l'opposizione al regime gollista, in
mancanza di posizioni politiche che non si risolvano in qualcosa di meramente
negativo, è ben lontana dal trovare una sua organicità. Questo stato di cose
deve imputarsi essenzialmente all'insufficienza politica dell'opposizione, che
per Contrastare il Generale non ha trovato di meglio che abbracciare le tesi
politiche filoamericane.
5 - Johnson, la sinistra americana e le elezioni per la Camera dei
Rappresentanti
Le recenti manifestazioni antiamericane
nel Vietnam del Sud, unitamente alla pubblicazione delle cifre sul costo della
guerra (il programma di spese per il 1966 prevede una cifra pari a quella del
costo dell'intera guerra di Corea), e alle sempre maggiori difficoltà di
carattere militare che hanno costretto McNamara, con il bombardamento di Hanoi,
a far scattare un altro punto dell'«escalation», stanno avendo gravi
ripercussioni all'interno degli Stati Uniti.
Se da una parte le spese per la guerra, agendo come incentivi economici,
permettono di incrementare la domanda globale, tuttavia i tagli operati al
programma per la «Grande Società», onde evitare l'eccessivo indebitamento della
spesa pubblica, offrono all'opposizione della linea johnsoniana efficaci ragioni
di critica.
Inoltre, tra gli americani, va diffondendosi sempre più l'idea di dover
abbandonare la guerra in Indocina, perché essa non risulta più popolare presso
gli stessi sud vietnamiti, e per frenare ciò non valgono i metodi della CIA
intesi a rilanciare l'anticomunismo, mentre la stessa «Operazione Indonesia» e
le recenti locali manifestazioni anticinesi non riescono a convincere l'opinione
pubblica.
Tutto ciò ha le sue ripercussioni politiche.
Mentre infatti va sempre più ampliandosi il fronte dell'opposizione specialmente
nell'ambito della Università di Harvard (vedi le recenti prese di posizione di
Fairbank, direttore del centro di ricerche per l'Asia Orientale, e dei
professori Schwarz e Lindbeck), nelle associazioni progressiste cristiane (es.
la Southern Christian Leadership Conference) e da parte di varie personalità
assai influenti presso l'opinione pubblica (A. Schlesinger Jr., Lippman, etc) si
cerca di organizzare il malcontento in vista delle prossime elezioni per il
rinnovo parziale della Camera dei Rappresentanti.
Come si vede il fior fiore del radicalismo americana va orientandosi decisamente
verso l'appoggio delle tesi di politica estera sulle quali Bob Kennedy conta per
isolare Humphrey.
Lo sviluppo di questa situazione ha recentemente raggiunto la sua più alta
espressione all'annuale riunione della American for Democrat Action,
l'organizzazione che riunisce le correnti «progressiste» all'interno del Partito
Democratico.
Nel corso della riunione è parso evidente lo stato di inferiorità politica e
numerica della corrente governativa che fa capo ad Humphrey. La politica di
Johnson è stata attaccata oltre che da Bob Kennedy anche dal noto professore di
Harvard John Galbraith che, tra l'altro, ha chiesto la sospensione dei
bombardamenti nel Vietnam del Nord. Naturalmente, ciò che Humphrey perde nei
ristretti circoli d'elite, può benissimo riacquistarlo centuplicato come favore
popolare, qualificandosi su posizioni moderate.
I primi risultati della lotta in corso si dovrebbero veder presto. Entro poche
settimane, infatti, cominceranno le primarie democratiche in alcuni Stati, come
il Wisconsin e il Tennessee, e a questo proposito, Kennedy, fidando sulla
risorsa dell'attivismo sta piazzando alcuni suoi amici che trovano, tra l'altro,
l'appoggio degli ultimi rappresentanti della "Nuova Frontiera" ancora rimasti al
governo.
Ma i progetti di Bob Kennedy vanno oltre. I suoi recenti viaggi nell'America
Latina e i prossimi nell'Africa Meridionale daranno alla sua figura, con un
lancio propagandistico presso i paesi del Terzo Mondo, la luce necessaria per
riprendere il tema della "Nuova Frontiera".
Comunque seppure divisi e in urto, i radicali si apprestano a riprendere il
potere, più forti che mai. In realtà degli USA i radicali hanno modellato a loro
immagine e somiglianza anche il centro moderato e possono vantarsi di non avere
nessun consistente nemico ideologico.
Il johnsonismo rappresenta infatti una risposta empirica e momentanea alla crisi
del Sud-Est asiatico ed alla lunga contraddizione in cui si dibatte il
«nazional-progressismo» di Johnson.
La sinistra americana conta sulla distensione, sull'incontro tra radicali e
cattolici, su di una revisione del sistema di alleanze degli Stati Uniti.
Johnson offre un'alternativa che, per esser tale, dovrebbe arrivare fino alla
guerra con la Cina.
Le chiare difficoltà per il «socialdemocratico» Johnson di affrontare un'impresa
del genere, in un momento in cui vengono poste in crisi le sue alleanze e si
prospetta una scalata dei militari al potere nell'URSS, sono i limiti evidenti
della politica moderata negli USA, limiti che purtroppo ma fatalmente,
porteranno verso la ripresa della strategia distensiva, considerando anche gli
effetti sulla politica internazionale di taluni importantissimi elementi
(Vaticano).
6 - Gli USA esportano l'inflazione in Europa
Alcune iniziative del governo federale e
recenti prese di posizioni di autorevoli organi di stampa statunitensi mettono
in evidenza l'allarme che si va diffondendo negli USA per alcuni chiari sintomi
di carattere inflazionistico.
Secondo alcuni dati, forniti dal Dipartimento di Stato, i prezzi di taluni beni
di largo consumo avrebbero subito un aumento troppo sostenuto. Dal febbraio '65
al febbraio '66 i prezzi dei generi alimentari hanno subito un incremento medio
del 6,1 per cento, ed alcuni di largo impiego (carne, pesce, pollame) del 16,3.
Altri beni e servizi hanno subito notevoli aumenti, da quello delle auto (5 %) a
quello dei trasporti (3,7).
Nello stesso tempo l'andamento del mercato si è fatto meno regolare per
l'apparizione di taluni fattori particolari: l'aumento del tasso di sconto,
nello scorso dicembre, la rinuncia del Dipartimento del Tesoro a continuare la
politica del deficit-spending, ed inoltre il prossimo aumento della domanda
globale a causa delle uscite di bilancio per il piano di assistenza medica e per
l'aumento dell'impegno militare nel Vietnam. Tutto ciò, in definitiva, potrebbe
accelerare il processo inflazionistico, in relazione anche alla diminuzione
della disoccupazione, recentemente raggiunta. Johnson ha già proposto ai
sindacati, a questo proposito, di limitare le richieste di aumenti al 3,2%.
Il "Time", commentando i sintomi d'inflazione, ha invitato il governo a
«prendere misure decise per arrestarla».
Lo "US News and World Report" ha dedicato gran parte di un suo ultimo numero
alla pubblicazione degli atti di una tavola rotonda sulle prospettive di
investimento in fase di inflazione.
Dopo sei anni di ininterrotto «boom», l'economia americana potrebbe riscoprire
il suo vecchio e nuovo nemico.
Per adesso il meccanismo monetario internazionale permette di «esportare» in
Europa la svalutazione che il dollaro subisce a causa degli aumenti di prezzo.
Ci troviamo di fronte, infatti, ad una moneta che, pur perdendo il suo potere di
acquisto, a causa di un sistema finanziario internazionale addomesticato, riesce
a mantenere intatto il suo valore di scambio. Grazie al suo titolo di moneta
internazionale di scambio il dollaro continua a mantenere salda la sua posizione
di preminenza rispetto alle monete europee, eppure, su di un piano concreto, il
suo valore reale diminuisce, Una crisi improvvisa, l'accelerarsi ad esempio del
suddetto fenomeno inflazionistico, ed ecco che le riserve monetarie in dollari
dei paesi europei si vedrebbero ridotte a «carta straccia» molto più di quanto
non lo siano già adesso.
CRONACHE DEL SISTEMA
7 - La «nazionalizzazione» dei medici
La prova di forza tra medici e INAM è il
chiaro indice del grave disagio oggi esistente nel campo sanitario. Scaduti gli
accordi esistenti, forti delle promesse governative e dell'ente mutualistico
stesso, i medici italiani convenzionati con l'INAM attendevano, con i nuovi
accordi, nuovi regolamenti che facilitassero la loro professione, i rapporti con
l'ente mutualistico e con i pazienti. Invece, nulla. Il governo ha poi rifiutato
categoricamente tutto ciò che era stato programmato. Da parte sua, l'INAM,
accampando la scusa delle spese dell'assistenza sanitaria sempre in aumento e
delle difficoltà di sostenerle, ha proposto di sostituire il pagamento delle
prestazioni per visita con una quota capitaria annuale per ogni assistito.
Praticamente, lo stipendio. I medici, invece di miglioramenti, si sono trovati
di fronte a questa nuova situazione ed hanno indetto uno sciopero di protesta,
come se lo sciopero, arma proletaria e funzionante solo in quel senso, avesse
possibilità di riuscita per una categoria non proletaria. Sciopero che,
facilitando e sgravando, seppur di poco l'INAM, è certamente nocivo ad ammalati,
farmacisti, collaboratori scientifici e ditte farmaceutiche.
Le proposte dell'INAM sono motivate dal fatto che il costo dell'assistenza
verrebbe ridotto se i medici, pagati a quota capitaria, prescrivessero meno
medicine, facessero, cioè, meno ricette. Ma ciò è vero? È vero che il costo
dell'assistenza farmaceutica è eccessivo?
Vediamo: l'INAM percepisce per ciascuno dei suoi 15 milioni di assistiti,
considerando uno stipendio medio di 70.000 lire/mese, L. 200 al giorno, in più
gestisce la riscossione dell'ente per le Case ai lavoratori, con un introito di
L. 700 al mese.
Va notato che di questi assistiti, solo una minima parte sono clienti abituali
del medico. Moltissimi, lavoratori nella pienezza della gioventù e della salute,
non debbono ricorrere alla sua assistenza, che pur pagano profumatamente. Per
non parlare degli assistiti che si fan curare da medici non convenzionati e che
per non perdere tempo nelle sale d'attesa superaffollate, si comprano da sé le
medicine. Per ciò che riguarda analisi cliniche e radiologiche, pochi sono gli
specialisti convenzionati, e pochi, rispetto alla massa degli assistiti, sono
coloro che utilizzano tale tipo di assistenza.
Dal canto suo, l'INAM paga medici e farmacisti con mesi di ritardo, ottenendo
così forti risparmi, con minacce e pressioni continue invita i medici a
prescrivere il meno possibile, ed è arrivata a istituire concorsi a premio per
medici che prescrivono meno medicine. Si verifica così l'assurdo che un ente
pagato per assistere i malati, premia i medici che non fanno il loro dovere.
Inoltre l'INAM usufruisce di uno sconto del 20% il cui carico è suddiviso tra
farmacisti e ditte farmaceutiche e cerca in tutti i modi di non pagare ricette
incerte o mal redatte, costringendo gli ordini dei farmacisti di ogni provincia
ad istituire un Ufficio Tariffazione per il conteggio delle ricette.
Le prestazioni specialistiche e chirurgiche sono pagate pochissimo dall'ente
mutualistico, molto meno della metà dell'onorario medio e ciò è causa di
malumore che si riversa per lo più sul paziente. L'assistenza mutuata è oggi
molto incompleta e ben poco soddisfacente perché il punto di partenza non è mai
l'interesse della popolazione ma solo l'interesse privato dell'ente
assistenziale.
D'altro canto non è nemmeno vero che il rimborso a quota capitaria generalizzato
in tutt'Italia, rappresenti un risparmio perché se ora il medico, non volendo
incorrere nelle sanzioni dell'INAM, si attiene ad un minimo di prescrizione e
soprattutto prescrive farmaci poco costosi, domani, non più controllato nelle
ricette, potrà prescrivere tutte le medicine che riterrà opportuno.
Come potrà anche disinteressarsi dei pazienti, con evidente miglioramento delle
condizioni economiche dell'INAM, ma anche con aumentato disagio per la
popolazione. L'esempio inglese è drammatico in questo senso. Pochi infatti sanno
che il disagio è fortissimo in Inghilterra e che l'Ordine dei medici inglesi ha
nelle sue casseforti 23.000 dimissioni firmate da altrettanti medici, da usarsi
come e quando ciò si renda opportuno. Il che vorrebbe dire stroncare
completamente ogni rapporto deontologico con la popolazione. In Inghilterra,
oggi, chi vuole farsi visitare, deve pagare. Così succederà anche in Italia,
dopodiché, oltre a pagare obbligatoriamente la Mutua, saremo costretti a pagarci
tutta l'assistenza. (Ma in buona parte lo facciamo anche oggi).
Se invece guardiamo l'ente parastatale all'interno, ci accorgiamo che questo
stato di tensione è chiaramente provocato dalla crisi delle istituzioni e dalla
progressiva burocratizzazione della vita sociale e dello Stato. È simbolo della
incapacità dell'attuale classe dirigente democratico-socialista ad affrontare i
problemi della libertà nei rapporti tra il cittadino e lo Stato.
Tutto ciò come logica derivazione di quella linea di pensiero
pseudo-umanitaristico, dalla quale han preso corpo le idee radical-sociali
responsabili del progressivo annullarsi dei rapporti umani in una serie di fogli
burocratici.
Infatti il costo di gestione dell'INAM è altissimo. Già il numero di impiegati è
di molto superiore al fabbisogno, con stipendi molto più alti rispetto a quelli
degli enti statali. Superaffollamento generato dal fatto che questo regime,
nell'ambiente burocratico non produttivo, trova il suo migliore sostegno ed in
esso cerca di organizzare i posti di lavoro per le nuove generazioni.
Ma mentre piange miseria, l'INAM stabilisce un concorso per «3.000» nuovi posti.
Gli alti funzionari dell'ente, oltre a percepire ingenti stipendi ricevono per
ogni riunione importante o per partecipare a commissioni di esame, gettoni di
presenza che toccano e superano il milione. Non esiste risparmio in seno ai
singoli uffici. Le eccedenze sugli stanziamenti preventivati all'inizio di ogni
gestione annuale vengono divise e distribuite, mai risparmiate per la gestione
seguente.
Dei molti enti mutualistici esistenti oggi in Italia, tutti, eccetto l'INAM,
sono in attivo. Enti come l'INPS, che cura i tubercolotici, e l'INAIL, che cura
gli infortunati sul lavoro, hanno spese logicamente molto inferiori agli
incassi, il che permette l'alto stipendio degli impiegati INPS (al quale, nelle
loro istanze sindacali, chiedono di adeguarsi i dipendenti degli altri enti) ed
i ben noti intrallazzi.
Questo denaro, guadagnato dai suddetti enti parastatali, viene capitalizzato in
palazzi ed altre imprese produttive. La richiesta di colmare il deficit
dell'INAM con i fondi attivi delle altre Mutue è logicamente caduta nel vuoto,
mentre questo deficit, saldato dallo Stato, ci fa pagare praticamente due volte
l'assistenza INAM. Quindi, il progetto della quota capitaria non tende a
migliorare le condizioni economiche dell'INAM e tantomeno quelle sanitarie della
popolazione italiana, bensì, a piegare una categoria professionale, un intero e
molto ampio settore della vita nazionale. In questi casi infatti il Governo è
sempre alleato degli enti, nell'esclusivo interesse dei gruppi burocratici, e
mai della Nazione che dice di rappresentare. Una altissima aliquota della
industria farmaceutica nazionale, già fonte di ricchezza per l'Italia, è stata
venduta a capitale americano. Una grande industria punta alla assunzione
nell'IRI e quindi al monopolio. La situazione negli ospedali è tristissima,
soprattutto ora che sono stati dati in gestione ad amministrazioni politiche.
Così, mentre che gli enti mutualistici sono in realtà, con la loro pesantissima
e lentissima organizzazione, un pleonasmo, un surplus, una sovrastruttura
dispendiosissima nei rapporti tra malato, medico e società produttrice del
farmaco, le amministrazioni politiche hanno invaso un campo che non è
assolutamente di competenza di nessuno dei burocrati che le rappresentano.
Così la salute nazionale, già precaria a causa dell'altissimo (e segreto)
aumento delle malattie veneree e per colpa del disservizio ospedaliero, sarà
completamente alla mercé delle fluttuazioni dei dirigenti politici posti alla
testa degli enti parastatali.
8 - Università: un «eroe per la democrazia»
La morte dello studente Paolo Rossi è
stata provocata, come risulta accertata dall'esame necroscopico, a causa della
caduta della vittima da un muretto alto circa 4 metri. La scazzottatura che
aveva preceduto l'incidente mortale non aveva influito che assai indirettamente
su di essa. Insomma il Rossi morì per le ferite riportate nella caduta provocata
essenzialmente dalla sua malaugurata disattenzione e solo per essa.
Ebbene, la disgrazia ha avuto uno sfruttamento, clamoroso quanto inadeguato. La
sinistra radicale, sparsa nei vari partiti dalla DC al PCI, utilizzando il
solito apparato comunista, ha colto al volo l'episodio per imporre una volta per
tutte la sua egemonia nel campo universitario, così come aveva approfittato
dell'episodio de "la Zanzara" per «sfondare» nel settore giudiziario.
Va detto, per la verità, che in questa azione la sinistra radicale si giova di
una adesione giovanile larga e massiccia, assolutamente inimmaginabile solo
qualche anno fa. La politica DC della scuola, il dominio culturale della
sinistra laicista, l'assenza di serie alternative di destra, hanno arato il
terreno per i radicali. A ciò si deve aggiungere l'abile utilizzazione di quelle
Facoltà (vedi Architettura) dove un corpo insegnante impegnato a sinistra (Zevi
e c.) e soprattutto padrone del campo professionistico (commissioni di esami,
ispettorati del Genio Civile, studi per progettazioni, ecc.) si è appellato, con
successo, all'istinto arrivistico della maggior parte degli studenti.
Al di fuori di queste notazioni, ci preme tuttavia mettere in risalto una
vecchia e sempre utile tecnica propagandistica usata dai radicali. A corto di
eroi, essi li hanno sempre inventati con l'abile e spregiudicato uso della
stampa, della televisione e del cinema.
I persuasori, occulti e palesi, hanno fatto diventare eroe un Kennedy per una
modesta azione bellica nel Pacifico, hanno creato l'epopea delle «quattro
giornate di Napoli» nonostante che l'episodio, di modestissime e ridicole
proporzioni, si fosse concluso in modo incruento, ed infine eccoli far diventare
«eroe della democrazia» (come scritto su un cartello) uno studente morto cadendo
da un muretto.
Di questo passo, per noi che non crediamo affatto nei valori della democrazia,
si renderà necessario, fra qualche tempo, fare aperta ed esplicita dichiarazione
di fede antidemocratica, altrimenti, morendo di asfissia per annegamento, di
incidente automobilistico o magari di avvelenamento da funghi -in coincidenza
con manifestazioni di sinistra-, rischieremo di essere inclusi lestamente nella
schiera degli «eroi della democrazia».
9 - La Messa «urlata»
A Roma, per iniziativa dei Padri
Filippini, il 27 aprile ultimo scorso, è stata celebrata una messa «urlata». Tre
complessi yé-yé hanno accompagnato la celebrazione del rito sacro, con loro
strumenti e con i loro vestiti da balera.
Non ci sdegnamo per questo, poiché non ci piace essere più papisti del Papa.
Inoltre siamo sempre favorevoli ai processi di estremizzazione che, se non
altro, sollecitano la reazione delle parti sane degli organismi malati.
Vogliamo soltanto sottolineare che queste sono solo le prime manifestazioni di
un indirizzo che troverà la Chiesa di Roma a lottare in stretta concorrenza con
le chiese protestanti. Queste ultime sono per ora in chiaro vantaggio, dacché
consentono anche il ballo nei luoghi di culto (vedi foto su "Il Tempo" del 27
u.s.).
L'aspetto modernista, progressista, democraticista della Chiesa si è ora solo
cominciato a mostrare, ma darà sicuramente frutti copiosi, lungo una linea che
iniziata da Giovanni XXIII viene proseguita dall'attuale Pontefice (e non solo
nel campo politico, come credevamo). Riteniamo proprio che sia stato un felice
vaticinio quello del Vescovo progressista che in una delle ultime sedute
conciliari previde un Concilio ogni 10 anni «per tenersi aggiornati ai tempi».
Aggiornamento e colloquio, come dire dall'assoluto al particolare, da Dio agli
uomini. E particolarmente ignobile è il facile e corrivo adeguamento clericale
alle mode e ai gusti imposti, specialmente alle masse giovanili, con le tecniche
del consumatismo. Anche la rivolta giovanile è stata industrializzata, mettendo
al servizio del sistema la propensione del giovane a spendere. Ed eccolo,
allora, il giovane, titillato, esaltato, accarezzato, blandito ed infine
spremuto dello stipendio, del salario o dell'argent de poche in cambio della
giacca a lustrini, del disco, del giornaletto «giovane», ecc. ecc.
E la Chiesa con episodi come quello della Messa urlata si presta a questo gioco
contribuendo alla esaltazione del giovane consumatista.
La società opulenta, lo spirito del neocapitalismo sono stati ben serviti e si
apprestano ad esserlo meglio. Non è forse lontano il giorno in cui, magari in
omaggio all'efficientismo e all'igienismo, l'Ostia consacrata verrà venduta al
supermercato in eleganti recipienti di cellophan.
CINEMA
10 - "Africa Addio" di Jacopetti e Prosperi
«Sarebbe piaciuto a Goebbels» ha
intitolato la sua recensione del film "l'Unità". Non è invece piaciuto
sicuramente al democristiano on. prof. Salvatore Foderaro, ex sottosegretario
ora relegato alla più modesta presidenza dell'Istituto Italiano per l'Africa, se
in questi giorni, accodandosi al coro dei progressisti di tutte le tinte, ha
ritenuto di rivolgere un'interrogazione al Governo per conoscere «quali
provvedimenti intenda adottare relativamente all'inopportunità che continui a
circolare nelle sale cinematografiche italiane il film "Africa Addio" che si
sofferma con fazioso compiacimento su alcuni aspetti del tutto transitori... del
trapasso di potere dalle autorità colonialiste alle autorità locali. Che...
fornisce all'opinione pubblica una visione completamente falsata di un evento di
incalcolabile portata storica... che suscita le proteste unanimi dei numerosi
studenti africani che frequentano le nostre scuole e le nostre università e che
un uguale senso di disapprovazione ha suscitato negli ambienti delle
rappresentative diplomatiche dei paesi africani accreditati presso il
Quirinale».
Questo, nelle sue linee fondamentali, il testo dell'interrogazione dell'ex
sottosegretario democristiano, che, come accennato, si aggiunge con voce
autorevole al coro unanime della stampa impegnata a sinistra, unita in un
multicolore abbraccio che va dalla già menzionata "l'Unità", a "l'Espresso",
all'ufficiosa "la Stampa", per finire al pornografico e «zanzarista» "ABC",
arrivato ad invocare, con improvviso ed imprevedibile slancio moralistico,
l'intervento della Magistratura per via di alcune scene giudicate, oltre che
razziste, scabrose. Se non è dunque piaciuto all'on. Foderaro, agli «impegnati»
e, per più comprensibili motivi ai suddetti negretti, "Africa Addio" è però
piaciuto, e molto, agli spettatori italiani che continuano ad affollare i
cinematografi di prima visione, dove il film viene proiettato ormai da molto
tempo. Ed appunto questo successo spiega lo scoppio d'incontrollato furore che
in tutta una gamma di toni, dalla calunnia all'insulto più gratuito, dalle
minacce al tentativo di linciaggio non solo morale, ha accompagnato, fin
dall'inizio, le vicende dell'opera di Jacopetti e Prosperi.
Ma cos'è, quale grave colpa ha "Africa Addio", da meritarsi tante e tanto
autorevoli riprovazioni? Nel dare un romantico e rammaricato addio, eternandone
il momento del trapasso, ad un'Africa ormai scomparsa, quella, per intenderci,
di Livingstone, di Stanley, di Bottego e del Duca d'Aosta, Jacopetti, ci ha reso
il mutamento ed il nuovo volto di quel Continente, che è ben diverso da quello
voluto dall'Italia ufficiale e dal progressismo internazionale in genere. È la
rivelazione, per molti imprevista o sgradita, di un'Africa che, per usare il
titolo di un'opera dello scrittore anticolonialista René Dumont, «nasce male» ed
è presumibilmente destinata a finire anche peggio, facile preda del
«neo-colonialismo» americano, pronto a tutto prendersi e a nulla dare.
Da ciò lo scandalo e, se vogliamo, il più immediato e semplice significato
politico del film, che è venuto a guastare, con la malagrazia della verità, il
quadretto idillico, tutto latte e miele, che i vassalli nostrani
dell'imperialismo del dollaro avevano divisato di mostrarci e sperato di
imporci. Cioè una scena posta, su uno sfondo di «bianchi» cattivi ma debellati e
ricca di distinti signori dalla pelle scura -personaggi politici, scrittori,
professori e studenti- sempre pronti a discettare sul progresso e sugli
immancabili ed inalienabili diritti dell'uomo ed a rispondere con garbo alle
domande degli ossequiosi inviati speciali della RAI. È vero invece che in Africa
il neocapitalismo per cacciare gli europei ha riscoperto e valorizzato gli
stregoni, che il potere politico nei giovani Paesi è in mano a basse figure di
arrivisti, a ex autisti o cuochi o fattorini postali, dei quali la CIA dispone
come vuole per fare e disfare rivoluzioni.
Per questo, la polemica di Jacopetti è particolarmente valida laddove dà vita ad
una nobile e sdegnata reazione contro la menzogna e contro il ritorno della
bestia trionfante nei luoghi in cui regnò l'ordine dell'uomo civile.
Delle tante e tante immagini, attraverso cui il film si esprime avvalendosi
della stupenda fotografia di Climati e Nievo, ricorderemo l'insensato massacro
degli animali dei parchi, l'impetuoso assalto dei mercenari sulla strada di
Boende, lo «sterminio» delle colonialiste arance ed uova sudafricane e, in
particolare, per la sua grazia, la corsa in mare a passo di danza delle
fanciulle bianche che, con la immediatamente successiva sequenza di negre
ancheggianti, evidenzia una nota di spontaneo ed ovvio razzismo presente nel
film, però più estetico che politico.
Si tratta dunque di un'opera da vedere e, considerate le suaccennate manovre
«democratiche» in corso, il più presto possibile.
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