POLITICA INTERNA
1 - Il sistema
democratico-occidentalista e i suoi partiti
I risultati delle elezioni amministrative del 12 giugno non solo non hanno
indebolito il centro-sinistra, ma lo hanno addirittura rafforzato, dimostrando
che oggi lo spazio del potere in Italia è interamente coperto dai partiti della
formula di governo. In altri termini l'affermazione di Moro secondo cui il
centro-sinistra è irreversibile si è dimostrata fondata.
Naturalmente, l'irreversibilità è definitiva (e pertanto il centro-sinistra non
ha alternative) esclusivamente finché si rimane nei quadro del sistema
democratico-parlamentare. Tra il sistema e la formula di centro-sinistra esiste
una parentela di grado primario che ha radici ideologiche e si concretizza in
una serie di atti di reciproco sostegno. Il sistema parlamentare fornisce la
premessa istituzionale (i partiti) e gli indirizzi ideologico-politici (il
pluralismo democratico, le tematiche del «mondo libero», l'occidentalismo)
mentre la formula di centrosinistra fornisce la maggioranza stabile solida al
raggiungimento della quale è sempre subordinata la sopravvivenza del sistema
democratico.
È evidente che tutti i partiti d'opposizione (di destra, di sinistra o di
centro) in tanto possono insidiare la stabilità del centro-sinistra in quanto
riescano a prospettare o nuove e fattibili maggioranze alternative a quella di
centrosinistra oppure nuove soluzioni istituzionali e politiche alternative a
quella del sistema democratico-occidentalista.
La prima strada è ormai sbarrata. Dieci anni di abili operazioni politiche hanno
via via eliminato la formula centrista (DC, PSDI, PRI e PLI) e quella di
centro-destra (Tambroni), mentre è chiaro che né i monocolori DC (es. Leone) né
la «convergenza parallela» (DC, PSDI, PLI, ante-apertura) possono aspirare alla
dignità di formule di governo data la loro passeggera strumentalità tattica.
D'altra parte la «nuova maggioranza» proposta dal PCI da vari anni non è niente
più di un espediente propagandistico e un traguardo ad usi elettoralistici.
La lotta contro il centrosinistra si può pertanto sviluppare unicamente come
lotta al sistema ma è proprio su questo piano che la politica dei partiti
d'opposizione non si è neppure posta poiché in essi, nella loro ideologia, nelle
loro tematiche è annidato, come un parassita, qualche «valore», qualche
principio del sistema, che costantemente rode e spezza la loro tensione
rivoluzionaria e come un efficientissimo equilibratore riporta al centro il loro
asse politico.
Il PCI accoglie infatti il costituzionalismo borghese, come dimostrano i fatti:
da Terracini «padre» della Costituzione italiana alle polemiche per conseguire
l'entrata in funzione della Corte Costituzionale, dall'unità antifascista ai
mancati tentativi insurrezionali fino ai tentativi di inserimento nei governi
democratici, dalle tesi di Togliatti secondo cui «il problema centrale della
nostra politica è precisamente quello di far avanzare insieme il rafforzamento
delle posizioni comuniste, l'unità delle forze democratiche e la causa del
progresso democratico» alle dichiarazioni di Longo durante l'ultimo Congresso
del PCUS con le quali veniva riaffermata la funzione di stimolo del PCI per la
sempre maggiore avanzata democraticistica in Italia.
Tutto ciò conferma che, per un preciso orientamento ideologico il quale data da
Livorno 1921, il PCI ha scelto una sua precisa «via nazionale al socialismo», la
quale corrisponde a un chiaro disegno riformistico: quello cioè di concepire il
partito comunista, fuori dalle posizioni rivoluzionarie, come l'ala marciante
delle «conquiste» democratiche in senso antinazionale, antiautoritario e
progressista. E pensare che la destra ha sempre ritenuto che questa fosse una
posizione tattica! (Ma è la stessa destra che ha sostenuto per anni
l'inesistenza del conflitto russo-cinese... et similia ...).
Ormai il PCI culturalmente significa Pasolini e la Betti, cioè la schiuma della
decadenza borghese; organizzativamente è esemplificato da "Paese Sera", cioè
dalle masse del suburbio, dal sottoproletariato anziché dal proletariato;
politicamente esso manifesta la mancanza di un orientamento fra le tentazioni
«radicali» e il dialogo con i cattolici. All'accoglimento delle avances
«radicali» si oppone la forza di conservazione della struttura gerarchizzata del
partito, che secondo i radicali dovrebbe essere sacrificata sull'altare del
costituendo «partito unico dei lavoratori».
Il dialogo con i cattolici aveva offerto invece un valido test per dimostrare la
reale vocazione rivoluzionaria o almeno innovatrice del PCI: l'appoggio alla
candidatura Fanfani durante le elezioni presidenziali del dicembre '66.
Allora si vide che tale appoggio, lasciato credere agli sprovveduti, in realtà
non ci fu, e proprio per il timore delle nuove soluzioni istituzionali
(repubblica presidenziale) che si attribuivano a Fanfani. Ci furono invece i
voti per il massimo avversario di Fanfani, per il più valido garante della
stabilità del sistema democratico-parlamentare, per il candidato ufficiale (dopo
Leone) dei dorotei: Giuseppe Saragat. Non intimorì i comunisti neppure la
certezza che l'elezione dell'attuale Presidente avrebbe seriamente influenzato
il processo di riunificazione socialista, vale a dire il distacco del PSI dal
PCI. La salvezza del sistema soprattutto!!!
Insomma quando la crisi dei rapporti intercomunisti mise il PCI nelle condizioni
di poter fare la «sua» politica, cadde l'alibi delle direttive opportunistiche
di Stalin e venne alla luce la sostanziale dimensione riformista e
para-democratica di quel partito. Oggi, rientrato Fanfani nei ranghi e senza
quindi dover più temere imbarazzanti sollecitazioni innovatrici da quella parte,
il PCI ha ripreso il tema del colloquio con i cattolici, nella giustificata
certezza che la Segreteria di Stato non avanzerà mai proposte di rotture del
sistema e nella speranza che essa sia invece disponibile per iniziative
pacifiste e anti-johnsoniane. Ma il cammino pacifista del Vaticano percorre
sentieri più sottili e non utilizzabili dal PCI, rimasto pertanto nelle
condizioni del postulante respinto.
Le ultime dichiarazioni di Longo, secondo le quali il PCI si appresterebbe a
farsi strumentalizzare anche dai PSDI, fornendogli la maggioranza di ricambio
nei casi in cui esso debba sostenere il braccio di ferro con la DC, indicano
inequivocabilmente la vocazione para-democratica del PCI, la sua indisponibilità
contro il sistema e quindi l'inefficacia della sua lotta al centrosinistra.
Trascurando il PSIUP la cui contestazione della formula di governo è più che mai
nel sistema, nonostante un anarcoide massimalismo, spostiamoci al centro per
esaminare la posizione del PLI. Questo partito è tutto nel sistema e limita
dichiaratamente la sua opposizione al centrosinistra alla semplice proposta di
una alternativa alla formula. Peraltro visto impossibile ormai un ritorno al
centrismo, nell'ultimo Congresso ha risfoderato i temi della «rivoluzione
liberale», quasi un passaporto per prendere contatto con i partiti di governo.
Tuttavia nessuno di essi ha interesse ad associarlo alle responsabilità di
governo. I socialisti in un primo tempo pareva che acconsentissero a ciò nella
prospettiva di schiacciare la DC entro la tenaglia laica PSI-PLI.
Successivamente hanno evidentemente ritenuto che la base non avrebbe capito
l'operazione e che il PSIUP avrebbe accusato Nenni addirittura di cedimento ai
liberali.
La DC invece contava, chiudendo ai liberali l'accesso al governo, di togliere ad
essi la fiducia della Confindustria e di vasti settori elettorali necessitati a
far sentire il loro peso in sede governativa. La DC doveva convincere insomma
quegli ambienti e quei gruppi che la battaglia per il moderatismo si combatteva
entro il centrosinistra e non fuori. Sembra che tale operazione sia pienamente
riuscita, come ha dimostrato, per citare un solo esempio, la posizione
andreottiana assunta da "il Tempo" nei giorni precedenti alle elezioni. La DC
non solo ha recuperato dal PLI gran parte dei voti che gli aveva precedentemente
dato ma ha addirittura sostituito il PLI nell'opera di corrosione del MSI.
Le elezioni hanno dimostrato a questo riguardo quanto sia profonda l'adesione al
sistema anche da parte del MSI. Tramite l'occidentalismo concepito come unico
modo di difesa dal comunismo, questo partito si è portato rapidamente su
posizioni filo-americane e quindi filo-democratiche (a Genova nel '60 era pronta
una solenne dichiarazione in tal senso).
Quando i giornali che, grazie a questa impostazione, formano ormai da anni
l'opinione degli elettori missini ("il Tempo", "lo Specchio", etc.) hanno
imperniato la campagna sul tema dell'insidia comunista alla DC per il primo
posto a Roma, l'elettorato missino si è letteralmente sbracato a favore della
stessa DC. Tuttavia questo è solo il risultato più clamoroso del processo di
«occidentalizzazione» che ha praticamente annullato ogni tensione rivoluzionaria
del MSI e lo ha ridotto ad un gruppo di mediocri arrivisti, di legalisti
clericali, di uomini d'ordine.
La parola d'ordine dei missini dopo le elezioni era ancora questa: «È ora di
decidersi per l'anticomunismo» ("la Piazza" del 19-6-66). E intanto, mentre i
missini aspettano che le Confindustria apprezzi questa dichiarata disponibilità
preferendoli alla DC, la FIAT costruisce auto nell'Unione Sovietica.
Nei limiti del sistema è beninteso anche "Nuova Repubblica", occidentalista fino
al midollo. E ben pochi hanno preso sul serio la volontà innovatrice di un
Pacciardi, per il quale non solo la «rivoluzione» dovrebbe consistere in una
riforma costituzionale, ma questa stessa riforma dovrebbe consistere a sua volta
in una modestissima operazione, addirittura nel ritoccare un'espressione della
Costituzione. Scriveva infatti Pacciardi nel numero 11-66 del suo periodico:
«per arrivare alla nuova repubblica il capo dello Stato deve essere eletto dal
Popolo. Cominciamo da qui. Contentiamoci del ritocco di un solo articolo
costituzionale. Il resto verrebbe da sé».
Invece per i prigionieri del sistema non solo non viene il resto ma non c'è
neppure l'inizio di ciò che essi prospettano.
POLITICA ESTERA
2 - De Gaulle, l'Unione Sovietica e il Patto di Varsavia
Il fatto che l'affannoso intervento dei
dirigenti sovietici alla Conferenza del Patto di Varsavia sia avvenuto a pochi
giorni di distanza dai colloqui De Gaulle-Breznev è certamente una coincidenza;
tuttavia esso non è privo di un significato simbolico.
I grossi strappi rumeni alle maglie della solidarietà fra i Paesi dell'Est sono
stati resi possibili infatti grazie all'azione di disimpegno svolta da De Gaulle
verso la «solidarietà» occidentale, vera maschera della supremazia, anzi del
«protettorato» americano sull'Europa.
La stampa occidentalista di tutte le parrocchie (missina, liberale,
democristiana, socialdemocratica, repubblicana e socialista) si scatenò a suo
tempo contro l'azione degollista avversa all'integrazione politica dei Paesi del
MEC e contro la secessione francese dalla NATO.
La politica del generale verso il MEC aveva una sua profonda validità, tesa
com'era a impedire il controllo che gli Stati Uniti avevano tentato di stabilire
sul Mercato stesso, prima con il Kennedy Round e poi con l'integrazione dei sei
Paesi.
Dopo questa necessaria premessa veniva la picconata all'assetto stabilito dai
vincitori a Yalta, cioè al sistema dei blocchi, ostili apparentemente ma
sostanzialmente solidali nel voler mantenere lo statu quo imposto con la IIª
Guerra Mondiale.
Le trombe dell'anticomunismo squillarono alte, ed erano le stesse trombe che
avevano accompagnato dolcemente l'idillio distensionista Kennedy-Kruscev. De
Gaulle venne addirittura sospettato di essere un agente comunista da ambienti
americani ispirati alla CIA e quindi evidentemente abituati a far politica
attraverso gli «agenti».
Improvvisamente giunsero le prime voci sulla «ribellione» rumena contro
l'organizzazione militare imposta dall'Unione Sovietica, estremamente
imbarazzanti per la sullodata stampa.
A proposito dell'atteggiamento della Romania si è ora arrivati a parlare e a
scrivere di «degollismo danubiano», a seguito del violento scontro che la
delegazione rumena ha sostenuto con quella sovietica il 6 e il 7 luglio scorso
alla Conferenza di Bucarest.
I risultati sperati non sono stati raggiunti, a causa del duro irrigidimento
sovietico, che evidentemente pesa sulla Romania ancora in modo diretto, a
differenza di quello USA che si esprime invece attraverso i Paesi dollarizzati
(Italia e Inghilterra) o ricattati (Germania Occ.) oppure gruppi e personaggi
politici interni alla Francia (Mitterand, Lecaunet, Tixier-Vignancourt).
Sembra addirittura che i sovietici si siano appellati ad uno stato di necessità
ed alla opportunità di rafforzare la solidarietà fra i paesi comunisti per
l'aggravarsi della situazione nel Vietnam.
Il diversivo dei «volontari» deciso dalla Conferenza di Bucarest fa degnamente
il paio con la richiesta di intervento dei Paesi europei a fianco degli USA,
fatta da Rusk all'ultima sessione della NATO.
Questo singolare parallelismo antieuropeo dell'URSS e degli USA si è steso anche
all'accoglienza da parte sovietica e americana delle proposte degolliste sulla
Germania.
In particolare la risposta sovietica è risultata fortemente influenzata dalla
Polonia e dal regime di Pankow, per i quali, come scriveva l'insospettabile "il
Messaggero", «vale più la garanzia della NATO» (con la Germania sotto gli USA)
che il sistema di indipendenza europea proposto da De Gaulle. Ma sulla politica
dell'URSS verso l'Europa e sulle coincidenze con quella americana faremo il
punto in un prossimo articolo.
Il meccanismo di Yalta, nonostante i rattoppi e i puntelli, scricchiola da tutte
le parti. Il risultato di questo va attribuito integralmente alla politica
degollista.
Per i frettolosi critici del nostro apprezzamento degollista intendiamo
precisare che esso vale esclusivamente verso l'azione europeista dì De Gaulle.
Conosciamo benissimo l'origine massone della carriera del generale, i suoi
rapporti con Leon Blum, i suoi legami con la banca Rothschild. I nomi dei membri
del Governo formato da De Gaulle dopo l'ultimo rimpasto sono una impressionante
conferma di ciò.
Abbiamo presenti altresì i limiti della concezione nazionalista del degollismo.
Tuttavia riteniamo che tutto ciò non giustifichi le destre francesi messesi al
servizio e al soldo della CIA.
Il pregio di De Gaulle sta essenzialmente nella sua azione di rottura, cioè in
quella negazione della supremazia americana in Europa, da cui soltanto può
aprirsi uno spazio per la nostra politica.
Il degollismo ha valore anche per il fatto che esso ha costituito un esempio, ha
dimostrato cioè la possibilità di come si possa effettivamente svolgere una
politica di indipendenza dagli USA senza restare succubi dell'Unione Sovietica.
La molla psicologica ricattatoria sulla quale si fonda l'occidentalismo rischia
così di scaricarsi.
3 - Cos'è il NPD?
Nei giorni 17, 18 e 19 giugno si è svolto
a Karlsruhe, alla presenza di mille e quattrocento delegati in rappresentanza
dei quarantamila iscritti al partito, il congresso del National Partei
Deutschland.
Nato dalla fusione tra il "Deutsches Block", il "Konservative Partei", e il "Sozialistische
Reichspartei", l'NPD rappresenta oggi l'unica, importante forza organizzata
dell'estrema destra tedesca.
Nelle recenti elezioni amministrative di marzo il partito ha ottenuto
lusinghieri successi. In numerosi e importanti centri della Baviera si è
affermato come il terzo partito dopo democristiani e socialdemocratici,
superando i liberali; a Norimberga ha ottenuto circa il 10 per cento dei voti, a
Bayreuth il 15 per cento, ad Amburgo «città tradizionalmente di sinistra» il 4
per cento. Se le elezioni fossero state politiche anziché amministrative il
partito avrebbe ottenuto una rappresentanza di una ventina di deputati al
Parlamento di Bonn.
Come è riuscito l'NPD ad avere un successo del genere?
Per due ragioni sopratutto: una organizzativa ed una politica.
Organizzativamente il partito si è sforzato di superare le divisioni che
caratterizzavano l'ambiente nazionalista tedesco e, nello stesso tempo, di
evitare le tendenze reducistiche e da «associazione d'arma».
Sul piano politico oltre a superare il nostalgismo e l'estremismo infantile,
base necessaria per una qualsiasi iniziativa politica, l'NPD non solo ha evitato
il pantano delle «pensioni di guerra» e degli indennizzi ai profughi, ma ha
ampliato gli orizzonti della propria battaglia politica sia per ciò che riguarda
il problema europeo, sia per lo svolgersi di una lotta che superi il mero
anticomunismo. Uno degli slogans dell'organizzazione è: «Amerikaner Heim gehen»
(fuori gli americani) e sono note le posizioni non occidentaliste per ciò che
riguarda la guerra nel Vietnam e i suoi possibili sviluppi.
Il partito è guidato da dirigenti seri e realisti: il settore
economico-finanziario è controllato dal presidente Fritz Thielen un piccolo
industriale di Brema, ma la vera «anima» dell'organizzazione è rappresentata dal
barone Adolf von Thadden, prussiano; il quale dirige il giornale del partito che
stampa 45 mila copie, mentre figurano tra i dirigenti alcune chiare personalità
come l'ex rettore dell'università di Konisberg Bernard von Griinberg.
La stampa di destra italiana ha ignorato e continua ad ignorare l'NPD. Giornali
che dedicarono, a suo tempo, un interesse spropositato per uomini e gruppi di
nessun seguito quali Mosley, Colin Jordan e Amaudruz, con le loro inesistenti
organizzazioni, tacciono completamente sull'argomento. Evidentemente da fastidio
all'estrema destra italiana, completamente aggiogata al più bolso
occidentalismo, far rilevare come si possa ottenere un successo politico proprio
su posizioni antioccidentaliste.
Da parte loro i giornali radicali hanno dedicato, in questi ultimi mesi, ampi
servizi giornalistici sul Nazional Partei Deutschland.
Sono apparsi servizi perfettamente uguali nei titoli, nel contenuto,
nell'impaginazione, su "Paris Match" e su "Epoca", pieni di fotomontaggi,
vecchie fotografie di altri gruppi, immagini fornite dalle agenzie di propaganda
americane specializzate nel presentare fotografie con giovani biondi e
svastiche. Tutto ciò rientra nell'attuale campagna di propaganda antitedesca
svolta dai gruppi radicali in vista della possibilità della Germania di svolgere
un ruolo militare più ampio nella NATO, e di mettere, quindi, in pericolo una
eventuale ripresa della distensione.
Ma non si tratta solo di questo. Sicuramente l'NPD comincia ad essere una
importante forza politica che potrebbe esercitare un ruolo interessante,
considerando l'attuale vuoto politico del governo di Bonn.
In uno degli ultimi numeri "l'Espresso", commentando il fatto che duemila
dimostranti si erano dati convegno a Karlsruhe per protestare contro il
congresso dell'NPD, affermava testualmente: «... significa che l'NPD non è più
un movimento irrisorio che può essere ignorato come lo era una volta, ma una
forza politica vera e propria che deve essere presa sul serio e che comincia a
preoccupare gli avversari».
Anche la stampa tedesca si era interessata del partito nazionale tedesco. Il
"Die Welt" ha scritto: «Sottovalutare la minaccia dell'NPD sarebbe un errore che
domani potrebbe costare caro»; e lo "Spiegel": «È forse cominciato un altro
viaggio nella notte?».
La situazione in cui si trova la Germania ventuno anni dopo la fine della
guerra, il continuo ricatto economico (l'economia tedesca è fortemente legata
alle sorti dell'economia americana), politico e militare (le vicende della FML)
operato dagli Stati Uniti, le ampie possibilità che si aprono per la crisi del
«Patto di Varsavia» di una «soluzione all'est» del problema tedesco, sono fatti
che il nullismo politico di Erhard non può ignorare indefinitamente.
Di fronte alle nuove situazioni in cui la politica tedesca si potrebbe presto
trovare è molto positivo che sorga in Germania un importante gruppo politico su
posizioni non occidentaliste.
4 - Argentina: i due aspetti del «golpe»
Non sappiamo su quale bandiera abbia
giurato il generale Ongania nell'insediarsi alla Presidenza dell'Argentina, ma
data la posizione politica dell'uomo e la natura militare del «golpe» potremmo
legittimamente immaginare che si sia trattato della bandiera statunitense...
Lo strumento militare ancora una volta ha servito i classici interessi delle
compagnie commerciali USA, con l'efficienza e con la rapidità che lo distingue,
almeno nei paesi dell'area sottosviluppata e di quella limitrofa.
Tuttavia, nell'ultimo colpo di Stato argentino appaiono due elementi di grande
interesse, che suscitano in noi opposte reazioni, Il primo, che ci preoccupa
sensibilmente, è costituito dalla parte assunta dai sindacati nella questione.
Controllati integralmente dai peronisti, essi nonostante la loro forza (basta
dire che negli ultimi mesi hanno vinto 7 elezioni parziali sulle 8 svoltesi)
hanno sempre recitato una parte passiva in tutti i sommovimenti politici
avvenuti dopo Peron. Nell'ultimo caso invece, pur rimanendo inerti durante le
operazioni del colpo di Stato, hanno poi partecipato attivamente, in ispecie con
l'estremista Vandor, alle cerimonie per l'insediamento dei nuovi governanti.
Da questi fatti ci sembra di capire che il processo di spoliticizzazione dei
sindacati, già da tempo in atto, sta giungendo al suo epilogo. Si promuove in
sostanza un peronismo senza Peron ovvero il distacco della politica dal
sindacalismo, che verrebbe incanalato nel tranquillo binario del
rivendicazionismo economico.
I sindacalisti, come sempre e ovunque, incapaci di cogliere la dimensione
politica dei problemi, sono disponibili per questa operazione.
Il secondo elemento introduce invece un giudizio positivo verso il colpo. Esso
consiste nella espulsione del «radicale» Illia dalle Casa Rosada.
Illia, venuto al potere nel clima kennedyano di rilancio del radicalismo a
livello mondiale, aveva stabilito negli ultimi tempi un solido collegamento con
Frei, il Presidente democristiano del Cile.
Entrambi si proponevano, sotto l'occhio compiaciuto della Segreteria di Stato,
di «educare» alla democrazia i rispettivi Stati e di tenerli inseriti
nell'Occidente, evitando però l'estremizzazione della lotta politica, con
l'eliminazione dei peronisti e dei comunisti senza il ricorso ai militari.
La conferenza mondiale dei partiti democristiani tenutasi lo scorso mese a Lima
doveva evidenziare l'impegno vaticano a tal fine.
L'ambizioso disegno ha subito un duro colpo e di nuovo l'«Occidente» si è
riaffidato ai militari, anche se, per non dispiacere al Vaticano, gli Stati
Uniti, come ovviamente il Cile e altri Stati influenzati dal clero, non hanno
ancora riconosciuto il nuovo Presidente.
Questa sconfitta del moderatismo, che sub specie radicale e democristiana, stava
costruendo il suo «sistema» va giudicata positivamente, anche se vincitori sono
stati i militari filo-americani.
L'importante è che la lotta politica in Argentina come in tutto il Sud America
rimanga nei termini dello scontro fra estremismi, poiché in tal caso si farà
spazio prima o poi per l'estremismo nazionalista ed anti-yankee.
5 - Bob Kennedy dal Sud Africa al Vaticano per profittare delle difficoltà di
Johnson
Il recente viaggio di Bob Kennedy in
Sudafrica e l'accentuarsi delle difficoltà economico-politiche negli Stati
Uniti, hanno riproposto all'attenzione mondiale le possibilità di sopravvivenza
del johnsonismo e le prospettive di ricambio offerte dalla sinistra radicale.
Il viaggio di Kennedy in Sudafrica, non è sfuggito a nessuno, ha avuto un
carattere decisamente propagandistico.
Venuto nel momento del riacutizzarsi del problema razziale (Meredith, incidenti
nel Sud) sembra aver voluto anticipatamente sfruttare, in vista delle prossime
scadenze elettorali, gli effetti politici di un ripetersi dei clamorosi
incidenti di Los Angeles dello scorso anno.
Ma lo scopo principale del viaggio era direttamente a beneficio della persona di
Bob Kennedy. La visita rientra, infatti, nella particolare campagna
propagandistica svolta dal senatore democratico nei riguardi dell'elettorato dì
colore che nelle prossime elezioni dovrebbe avere un peso quanto mai importante
nel determinare sia la guida del Paese, sia i rapporti di potere all'interno
dello stesso Partito Democratico. L'applicazione della legge sui diritti civili,
infatti, farà affluire nuovo elettorato di colore che, dopo Goldwater, si
riverserà certamente verso il Partito Democratico ed avrà, nello stesso tempo,
un peso abbastanza determinante alla Convenzione del 1968.
Il viaggio ha sapientemente offerto, anche con studiata moderatezza, il
repertorio propagandistico di Kennedy destinato a colpire l'opinione pubblica
mondiale e quella americana in particolare: i discorsi infiammati farciti di
idealismo progressista, la visita al leader negro locale presentato come un
duro, tenace combattente della libertà, i contatti con l'«"Unione Nazionale
degli studenti sudafricani" per colpire l'ambiente giovanile della «nuova
sinistra» negli USA.
Il viaggio di Kennedy ha avuto poi un'altra tappa: Roma e la visita a Paolo VI.
Qual'è il senso di questo incontro? Che cosa avrà detto il Papa al fratello
dell'ex presidente degli Stati Uniti.
Kennedy avrà sicuramente affermato la sua intenzione di far di tutto per portare
l'America a riprendere il discorso distensivo e a riproporre i termini della
politici estera che già erano stati del fratello, ed avrà offerto ogni sforzo
per un rilancio del ponte tra radicali e cattolici che il Vaticano attualmente
ricerca e che fu il senso profondo della presidenza Kennedy, ponte interrottosi
con l'amministrazione Johnson.
Paolo VI, come già più volte ha esplicitamente dichiarato, avrà certamente fatto
capire di vedere molto positivamente la possibile ripresa di una politica
americana di tipo kennedyano sulla quale porre il discorso ecumenico, il
pacifismo e il «dialogo con il mondo moderno».
L'attuale disegno montiniano di rilancio del prestigio e dell'influenza
temporale della Chiesa a livello mondiale trova possibilità di affermazione solo
in un determinato contesto politico internazionale. Per ottenere questo il
Vaticano è entrato personalmente sulla scena politica. Finita la distensione,
mentre andava precipitando la situazione nel sud-est asiatico Paolo VI volava in
India per rilanciare il terzo mondo; una volta manifestatosi il johnsonismo in
senso moderato, il Papa andava all'ONU per riconoscere a questo organismo una
autorità e dignità senza limiti e per esaltare la politica di Kennedy in modo da
ridimensionare il johnsonismo; nei momenti più gravi della crisi asiatica ancora
una volta l'intervento del Papa era in presa diretta (le lettere ai capi di
Stato); mentre l'Unione Sovietica si trovava costretta a tenere sospeso il
discorso distensivo, il Papa riceveva Gromiko e approfondiva i rapporti con i
paesi dell'est europeo più importanti per una ripresa distensiva (Polonia,
Jugoslavia).
È un disegno politico fine, elaborato in profondità che va dalla
socialdemocrazia (Saragat) all'opposizione atlantista verso De Gaulle (Lecaunet),
volto sempre in un senso preciso, quello della distensione, in termini cioè del
tutto simili a quelli della sinistra radicale.
Ecco come si saldano la politica del Vaticano e la campagna elettorale di Bob
Kennedy, ecco perché la visita di questi è destinata certamente ad avere più
ampi sviluppi futuri.
Tutto ciò mentre Johnson vede accentuarsi le difficoltà politiche ed economiche.
Alle preoccupazioni sul carattere inflazionistico dello sviluppo economico dei
primi mesi dell'anno, confermate dall'eccessivo aumento del reddito annuo (10
per cento) e dalla diminuzione dei profitti (con il probabile effetto della
riduzione dei costi di lavoro), si è aggiunta, nel mese di maggio, l'allarmante
notizia della notevole diminuzione delle vendite delle auto (da un tasso annuo
di 9 milioni a qualcosa meno di 8 milioni) e del ribasso del 7 per cento dei
profitti della General Motors nel primo trimestre del '66.
Le difficoltà dell'importante settore automobilistico, infatti, testimoniano
della crisi di alcuni settori dell'economia americana mentre si fanno sempre più
evidenti, sul piano economico, i riflessi negativi dello sforzo americano di
mantenere la politica di difesa dell'area di influenza. La bilancia dei
pagamenti continua a rimanere passiva e gli attuali impegni non ne fanno
prevedere un mutamento di direzione. Si notano altri sintomi peggiorativi, come
ad esempio la diminuzione delle scorte di grano per gli aiuti all'India.
Wall Street ne risente.
L'indice Dow Jones che si pensava dovesse giungere alla fatidica «quota 1000» ha
registrato invece, negli ultimi tempi, notevoli cali (in poche settimane quasi
30 punti), mentre si è ricorsi al sistema di modificarne il meccanismo per
renderlo meno sensibile e, quindi, meno allarmante.
Le difficoltà politiche di Johnson sono ancora più gravi.
I recenti bombardamenti di Hanoi più che rappresentare un atto di fermezza e di
decisione politica, sembrano confermare la politica dell'incertezza del
Presidente. Ciò che gli Stati Uniti conquistano sul piano militare -e i
risultati di queste operazioni sono sempre notevolmente limitati- lo perdono sul
piano politico.
L'influenza che l'aggravarsi della situazione nel Vietnam ha sulla politica
interna sovietica, e sui rapporti di potere all'interno dell'URSS potrebbe
costituire, a lungo termine, una dura sorpresa per gli Stati Uniti.
Per adesso gli effetti si fanno sentire all'interno del Paese.
Proporzionalmente all'aumento delle difficoltà militari e dei gradi
dell'escalation, diminuisce la popolarità di Johnson. In bilico tra «falchi» e
«colombe», la politica del Presidente non riesce ad assumere una chiara linea di
svolgimento.
Anche la recentissima missione esplorativa di Rusk si è risolta in un completo
fallimento. Il tentativo di impegnare politicamente il Giappone si è risolto in
un nulla di fatto. Anzi, nel comunicato conclusivo dei colloqui, Shjna ha
esplicitamente affermato: «il Giappone ha intenzione di sviluppare le proprie
relazioni con i paesi comunisti, compresa la Cina ...». Le indecisioni, gli
errori, le contraddizioni, il «vuoto politico» di Johnson pesano notevolmente
nei riguardi dell'elettorato.
All'inizio del '64 il 79 per cento degli americani si dichiarava soddisfatto
della politica del presidente. All'inizio del '66 era il 61 per cento, oggi
siamo al 46 per cento.
Già alcuni giornali occidentali si mostrano poco convinti di una sua possibile
rielezione nel 1968 (ultimamente "the Observer").
La politica estesa di bilanciamento di Johnson non può certamente durare fino al
1972. Quale chiarimento può attualmente offrire il Presidente americano?
II logoramento del johnsonismo procede di pari passo con l'innalzarsi della
popolarità di Bob Kennedy. Da una inchiesta condotta da un giornale dell'Iowa,
il "Des Moines Register and Tribune" si apprende che la maggioranza degli
abitanti di questo Stato preferirebbe, se ci fossero oggi le elezioni
presidenziali, Robert Kennedy o il governatore del Michigan George Romsey a
Johnson. Da un analogo sondaggio compiuto in California le preferenze per
Kennedy risultano del 50 per cento, quelle per Johnson di appena il 26 per
cento.
Ancora un anno e mezzo di indecisioni, ripensamenti, difficoltà economiche,
mezze decisioni di Johnson e di pressioni dei gruppi radicali (anche il "New
York Times" è definitivamente passato, dopo gli ultimi avvenimenti, tra i
critici della politica estera di Johnson) e Kennedy sarà pronto per affrontare
Johnson alla Convenzione democratica.
Questo scontro a lunga distanza diviene ogni giorno più vicino: è destinato a
divenire il tema di fondo della situazione interna americana.
RECENSIONE
6 - "Per un milione di morti" di Tameichi Hara - ed. Longanesi
«Gli uomini sconfitti non dovrebbero
parlare delle loro battaglie» dice un antico detto orientale riportato
dall'autore nel prologo dell'opera.
A questa saggia norma Hara, samurai e valoroso comandante in mare nell'ultimo
conflitto, ha ritenuto però di derogare per dare al mondo una testimonianza di
parte giapponese sulle grandi battaglie aereonavali combattute nel Pacifico e
soprattutto per onorare l'eroico e misconosciuto sacrificio dei 131
cacciatorpediniere nipponici inabissatisi con i propri equipaggi dal 7 dicembre
1941 al 15 agosto 1945, quando i due criminali attacchi atomici su Hiroshima e
Nagasaki spinsero l'Imperatore Hirohito a por fine, con la resa, ad una guerra
costata al Giappone appunto un milione di morti.
Un nobile intento ha quindi ispirato e guidato l'autore, cui però la personale
posizione di protagonista sconfitto fa da remora fino a determinare, unitamente
ad una visione politica spesso contraddittoria, i limiti del libro.
Infatti, accanto a pagine esaltanti ed a volte toccanti per il patriottismo e
gli alti ideali che le ispirano, ve ne sono altre piene di recriminazioni ed
accuse verso i Capi, che rasentano la meschinità e che la delusione per una
vittoria mancata ed indubbiamente fortemente voluta spiega ma non giustifica.
Le vicende della marina imperiale nipponica vengono narrate attraverso quelle
personali dell'autore e dal suo particolare angolo visuale di combattente, dal
duro tirocinio di allievo ufficiale alla severissima accademia navale di Sasebo,
al suo affondamento nell'ultima disperata sortita ed alla tristezza della resa e
del primo dopoguerra.
Prima di entrare nel vivo della descrizione delle grandi azioni navali, Hara
cerca di spiegare le ragioni de! conflitto.
Veniamo così a conoscenza:
* del mai sopito spirito di rivincita che animò il Giappone fin dal 1853 quando
il Commodoro Perry impose per la prima volta con la minaccia dei suoi cannoni il
protettorato USA su quel popolo;
* dell'umiliante diktat delle grandi potenze marinare (l'America principalmente)
con gli accordi sul disarmo del 1921 a Washington, ribadito poi nel '27 a
Ginevra e nel '30 a Londra, che costrinsero tra l'altro il Giappone a demolire
alcune delle sue più belle navi;
* di come da allora (pag. 40) gli USA cominciassero ad essere considerati,
politicamente ed in ogni tema tattico-strategico, il «potenziale nemico»;
* del boicottaggio da parte degli stessi americani, dopo la formazione della
Lega delle Nazioni sotto la loro guida;
* dell'embargo voluto da Roosevelt nel 1941 («evidente... tentativo di
strangolamento», W. Churchill, "Memorie") che, mettendo il Giappone
nell'alternativa di un nuovo protettorato o della guerra, determinò, dopo un
tentativo di accomodamento in extremis reso vano dall'intransigenza
rooseveltiana, lo scoppio del conflitto, giudicato però inaspettatamente
dall'autore evitabile, con uh salto logico inspiegabile e non spiegato, ma
comune al processo evolutivo o meglio involutivo di molti uomini di destra,
caduti, e non solo in Asia, nelle spire del cosiddetto occidentalismo.
La posizione occidentalista comporta infatti principalmente l'accettazione della
supremazia americana come di un dato di fatto legittimo o addirittura
provvidenziale, grazie al quale si sarebbe resa possibile la salvezza
dell'«Occidente» dal comunismo, nel dopoguerra, e dal fascismo, con la guerra.
L'occidentalismo opera quindi su due fronti: verso gli ambienti centristi,
moderati, democratici, borghesi e piccolo-borghesi, rispetto ai quali esso offre
la doppia garanzia anticomunista e antifascista e verso gli ambienti di destra
ai quali offre la garanzia anticomunista, recuperandoli poi per tal via alle
posizioni democratiche.
Ecco così spiegati i salti logici e le contraddizioni di Hara, il cui
filo-americanismo attuale -acquisito appunto attraverso l'occidentalismo- si
riverbera anche sull'esame della passata politica statunitense verso il
Giappone.
Hara passa poi ad una minuta e sempre critica disanima delle numerosissime ed
importanti battaglie cui ha personalmente partecipato (Midway, Salomone,
Okinawa, ecc..) che, anche per ragioni di spazio, possiamo solo citare;
descrizione, come si è detto, minuziosa, nella quale però l'autore usa ed abusa
di un dialogo evidentemente costruito a posteriori, denunciando così un altro
limite, questa volta estetico, dell'opera che resta comunque ricca di notazioni
interessanti ed inedite.
Apprendiamo infatti:
* che la torpediniera PT-109, comandata da J. F. Kennedy, futuro presidente USA,
venne banalmente speronata il 2-8-43 nello stesso di Kalombangara dal caccia
(della squadra di Hara) Amagiri (pag. 282);
* che le truppe d'occupazione alleate negarono la pensione a tutti gli ufficiali
e chiusero loro le porte ad ogni incarico pubblico (pag. 282);
* che i piloti americani avevano l'abitudine di mitragliare i naufraghi (pag.
448);
* e, in una delle più belle pagine, la quale raggiunge i vertici della
commozione e della poesia e quasi riscatta il libro dai molti difetti, che i
marinai giapponesi delle navi affondate accompagnavano la loro lenta agonia in
mare con il «Canto del Guerriero»:
Se andrò in mare
che il mio cadavere torni spinto dall'onde,
se ai monti mi chiamerà il dovere
che il verde suolo sia il mio mantello di morte
così, per l'onore dell'Imperatore,
che io non muoia in pace nel letto di casa
* e che ognuno di essi, prima di sprofondare stremato per sempre nei flutti,
lanciava un ultimo grido: Tenno, heika, Banzai! Lunga vita all'Imperatore!
LE VOCI DEL SISTEMA
Socialdemocrazia e feudi
«Ancora Vasteras è feudo dei Vallemberg, la famiglia che controlla metà delle
fortune industriali della Svezia. Jacob e Markus Vallemberg sono gli eredi di un
patrimonio sterminato e dirigono una cinquantina di società. Acciaio,
farmaceutici, banche, tessili, navi, cuscinetti a sfere, fonti di energia,
ristoranti, cellulosa sono nelle loro mani, da tre generazioni, insieme
all'esistenza di migliaia di persone ...».
da un articolo apparso su "il Messaggero" del 18-6-66 in occasione della visita
di Saragat in Svezia.
L'occidentalismo di estrema destra
«Il Movimento Sociale Italiano non può non tener conto che l'America sta oggi
pagando questi errori con il sangue dei propri figli in difesa dell'Occidente
...».
dichiarazioni di Arturo Michelini, segretario del MSI, a un convegno di partito
del febbraio 1966.
L'occidentalista centrista ed agricolo
«Italiani, ... ricordiamo che nel Vietnam i soldati americani muoiono anche per
noi ...».
da un manifesto della "Coltivatori Diretti" del dicembre 1965.
Dalla Carta Atlantica all'«ultima carta»
«Ma è certo che Ky è l'ultima carta che l'Occidente ha in mano per strappare il
Vietnam al comunismo ...».
da un soffietto di Piero Buscaroli su "Il Borghese" del 9-6-1966.
|