IL MOMENTO POLITICO
1 - INTRODUZIONE ALLA CINA
Gli avvenimenti cinesi ci giungono attraverso il setaccio critico dei mezzi
d'informazione occidentalisti e filo-sovietici.
Entrambi, sia "Il Tempo", per esempio, sia "L'Unità", utilizzano quei fatti a
sostegno delle loro vecchie tesi: i giornali democratici cioè per dimostrare che
ad un tipo così violento di estremismo come quello cinese è giusto che si
opponga l'intransigenza johnsoniana ed occidentale, quelli comunisti per
sostenere la tesi sovietica secondo cui l'atteggiamento cinese compromette
l'unità del campo socialista, il cui massimo obiettivo rimane quello di
salvaguardare le possibilità di ripresa della coesistenza pacifica.
Nelle due tesi è implicita insieme la condanna della politica cinese e
l'esaltazione della politica distensionista. Le stesse tesi sono recepite in
Europa da una opinione pubblica alienata, a destra come a sinistra, dai suoi
valori naturali: europei, cioè, che non credono nell'Europa, borghesi con ansie
proletarie, comunisti costituzionalizzati, cattolici ecumenici.
È il tempo delle mezze luci, delle semi verità, degli abbracci equivoci,
dell'«american way of life».
La politica cinese è un colpo frontale contro questo mondo e in tal senso essa
deve intendersi derivata da una «concezione della vita» e da una dottrina
politica, poiché è soltanto in forza di una tale concezione che essa può opporsi
all'americanismo e alle posizioni ideologiche ad esso vicine, come il
kruscevismo.
Sotto questo profilo la politica cinese supera il piano dei rapporti
interstatali per raggiungere quello delle scelte di civiltà. In altri termini
essa è prima contro l'americanismo, poi contro gli USA.
La dottrina di Mao e il marxismo
La concezione della vita dei cinesi non è comunista, come invece sostengono per
ragioni polemiche gli occidentalisti e per necessità di principio i comunisti
europei. Essa poggia su 3 principi fondamentali, che sono la negazione precisa
di quelli marxisti:
1) il volontarismo, per cui la storia non è determinata dall'economia bensì è
creata dall'uomo;
2) il concetto di guerra, intesa come un valore assoluto anziché come un termine
dialettico, per cui l'uomo impone la sua concezione attraverso la lotta mentre
la verità si afferma con la vittoria;
3) il nazionalismo, vera base della dottrina maoista, inconciliabile con ogni
principio internazionalista.
Da queste premesse consegue in linea politica, rispettivamente:
a) il rifiuto delle deviazioni economicistiche, tecnocratiche o
intellettualistiche;
b) l'impostazione rivoluzionaria della lotta politica;
c) la costruzione di un potente Stato cinese (accentramento politico,
industrializzazione, potenziamento degli armamenti).
I rapporti fra il maoismo e il marxismo sono stati posti da esigenze tattiche e
hanno sempre mantenuto questo carattere. Essi consistono esattamente nella
strumentalizzazione del marxismo ai fini di una politica nazionalista e forse
razzista. Senza riandare alle pagine che Mao ha dedicato a tale argomento, è
sufficiente ricordare i tre punti in cui tale strumentalizzazione si è
concretizzata:
1) il marxismo ha fornito al nazionalismo cinese una base dottrinaria altamente
qualificata per la critica del colonialismo;
2) esso ha consentito alla Cina di inserirsi da Stato-guida nel sistema di
alleanze e nel quadro strategico delle rivoluzioni nazionali;
3) su un piano sociologico, considerata l'inesistenza del proletariato in Cina,
il marxismo è stato utilizzato per favorire l'approccio maoista alle masse
popolari e contadine, dopo la vittoria sui corrotti aristocratici «signori della
guerra» e dopo la rottura con i gruppi borghesi del Kuomitang.
Non possono neppure definirsi contaminazioni comuniste certe tendenze
apparentemente sospette: ad esempio il collettivismo delle Comuni e la
parificazione della donna all'uomo nella maggior parte dei campi. Il
collettivismo richiama infatti l'organizzazione economica del mandarinato in
Cina certamente non individualista, allo stesso modo che il Kolkoz staliniano si
rifaceva più che ai princìpi marxisti, a quelli dell'«artel» zarista.
La parificazione della donna è, poi, comune anche a sistemi politici non
marxisti.
La politica estera cinese e l'Europa
La Cina rappresenta oggi un elemento interessante e prezioso nei rapporti
internazionali ed è soprattutto in questo settore che essa va considerata
positivamente ai fini di una, politica europeista. La fine della distensione,
cioè dell'accordo diretto USA-URSS alle spalle dell'Europa e della Cina, la
crisi dell'assetto mondiale stabilito a Yalta, la contestazione dell'area del
dollaro nel Pacifico, la spinta alle tendenze revansciste giapponesi, la
reiezione degli USA su posizioni isolazioniste: ecco, grosso modo, il quadro
degli effetti che sono derivati e che possono derivare dall'azione cinese e che,
uniti a quelli complementari della politica gollista (crisi della NATO e del
Patto di Varsavia), aprono le porte ad una reale e autonoma ripresa europea.
È ben chiaro tuttavia, per quanto concerne la politica interna cinese, che i
pregevoli metodi rivoluzionari adottati dai maoisti anche in tale settore, non
possono essere utilizzati in Europa, stante la completa differenza del quadro
storico, culturale e sociale europeo.
Abbiamo motivo di temere peraltro che nessun movimento nazionaleuropeo riesca ad
inserirsi, neppure in politica internazionale, nei cunei aperti dall'azione di
Pechino. Eppure, specialmente con gli ultimi avvenimenti, le possibilità di
prendere iniziative sono notevolmente aumentate.
La paura di confondersi con i comunisti (che invece sono su posizioni
antirivoluzionarie e pacifiste), il peso di 20 anni di educazione
occidentalista, la mancanza di idee chiare sul comunismo e sull'americanismo,
sono però altrettante palle di piombo ai piedi di chi avverte l'opportunità d
sfruttare un «momento» rivoluzionario come quello procacciato dai cinesi.
I fatti di questi ultimi giorni in Cina devono essere spartiti nei due settori
della politica interna e di quella estera, che, seppure aventi influenze
reciproche, devono essere tenuti tuttavia ben distinti, in quanto un eventuale
accavallamento degli stessi comprometterebbe le possibilità di una corretta
analisi
Modificazioni nella politica interna
Su quanto va accadendo all'interno della Cina nel quadro della «grande
rivoluzione culturale» sono state formulate alcune ipotesi, che non ci sentiamo
di accogliere. È stato scritto che quei fatti sono la conseguenza della lotta
per il potere, oppure il riflesso della piega che ha preso la guerra nel Vietnam
o ancora il tentativo di ricreare nel popolo la tensione rivoluzionaria che si
starebbe allentando. È evidente che tali ipotesi sono basate su di attualità e
quindi vistosi, ma non per questo veri.
Per comprendere la storia della Cina Popolare dal '49 ad oggi e quindi per
cogliere il senso degli ultimi avvenimenti, occorre rifarsi all'analoga storia
dell'Unione Sovietica dal '17 al '29.
L'analogia è veramente sconcertante, anche per chi ha presente lo spirito
nazionalistico comune a Stalin e a Mao-Tse-Tung.
Nell'URSS si susseguirono: il cosiddetto comunismo di guerra fino al '21, la
Nuova Politica Economica (NEP) comportante l'abolizione del lavoro forzato, il
ritorno al commercio privato nelle campagne, nelle piccole industrie e
nell'edilizia e il ritorno alla moneta normale e al sistema della tassazione,
fino al '28, lo sterminio dei kulaki, la creazione dei kolkoz e dei sovcoz e
l'accentramento dei poteri nelle mani di Stalin trionfatore degli oppositori,
dal '28 in poi.
In Cina, saltata la fase del comunismo di guerra (sostituita da un periodo di
assestamento e di prima organizzazione) si ebbe chiara e limpida la NEP. Nel
febbraio 1957, Mao enunciò il principio della NEP cinese: l'edificazione del
socialismo (meglio dello statalismo) doveva procedere entro il quadro di
un'economia mista, in cui il settore statalista doveva espandersi pacificamente
per via di successive trasformazioni, assorbendo gradualmente il settore
privato, senza distruggerlo o sopprimerlo con violenza. Venne ripreso in
considerazione il proprietario privato al quale fu consentito di ricevere un
interesse sul capitale, di partecipare ai profitti e di percepire il salario
come impiegato dello Stato.
Era evidente l'intento maoista di avvantaggiare lo Stato dell'esperienza e della
capacità del ceto borghese. Con lo stesso discorso venne ammesso il diritto di
sciopero e venne riconosciuta la legittimità dell'esistenza di vari partiti non
comunisti.
Oggi, a distanza di 10 anni, la NEP cinese sta terminando.
Le necessità di politica estera in dipendenza del ruolo sempre maggiore assunto
dalla Cina nel contesto internazionale hanno portato ai passi decisivi verso
l'accentramento statalista. È da notare il fatto che tuttavia il processo in tal
senso è iniziato nel campo culturale e politico anziché in quello economico,
dove l'unica iniziativa considerevole è stata quella delle «guardie rosse»
contro i locatori di appartamenti.
Per il resto, con una procedura non certo marxista, si sono colpite innanzitutto
le «sovrastrutture»: gli intellettuali con tendenze pacifiste, i burocrati con
tentazioni tecnocratiche, i militari intenzionati ad anteporsi ai politici. Tre
classiche deviazioni antirivoluzionarie sono state colpite, insieme ovviamente
ai centri in cui esse prosperavano: le Università e le associazioni tollerate,
il partito, l'esercito.
Vedremo in seguito se sarà reimpostato anche il settore economico.
L'attuale momento politico Cina-USA
Intanto va notato che questi avvenimenti sono capitati in un momento di acuta
tensione politica fra la Cina e gli USA, al punto che alcuni frettolosi critici
hanno pensato ad un imminente scontro fra i due Paesi.
Evidentemente non si vuol tener conto del fatto che da vari anni ormai la
politica cinese cammina sul filo di rasoio del rischio calcolato. Non ci sembra
possibile che, dopo tanti anni di esperienza, oggi, d'improvviso -ferma restando
la enorme supremazia bellica, atomica e convenzionale, degli USA- la Cina
intenda mettere a repentaglio la sua sicurezza.
I suddetti critici ricordano che Mao definì gli USA «una tigre di carta» ma
dimenticano che nello stesso passo egli aggiunse «in senso militare, attuale,
essi sono tigri vive, tigri di ferro, vere e proprie tigri» ("Opere Scelte"
Pechino, 1961, pag. 99).
Si obietta, a tale proposito, che l'atteggiamento cinese, già intollerabile con
modeste risorse atomiche, spinge gli USA ad intervenire prima che diventi
incontrollabile con un sufficiente deterrente alle spalle. Ma se i cinesi
mantengono il loro duro atteggiamento rivoluzionario è evidente che si ritengono
fin da ora coperti, e non con le atomiche, da un attacco americano. La loro
copertura è l'URSS. In linea di massima è palese l'interesse sovietico ad
evitare una guerra Cina-USA il cui esito, ammesso che possa rimanere neutrale,
le sarebbe comunque fatale, in quanto la vincitrice uscirebbe dal conflitto non
logorata (come ritengono i superficiali) ma padrona del mondo.
L'ascesa degli USA nella II guerra mondiale la dice lunga al riguardo.
L'incastro delI'URSS
Tuttavia anche al di fuori di questo orientamento sovietico in linea generale,
la politica cinese ha condotto ad un meraviglioso incastro l'URSS spingendola a
rompere il processo distensivo che, secondo i cinesi, poteva svilupparsi in una
stabile alleanza fra sovietici ed americani ed in una possibile aggressione
comune ai danni della Cina. Utilizzando le lotte interne al Cremlino, che
oppongono i tecnocrati, i burocrati e gli intellettuali filo-USA (Brezhnev,
Kossighin, Suslov) ai militari ed ai nazionalisti (Malinovsky, Scelepin,
Yepiscev); sfruttando persino le tendenze centrifughe dei Paesi dell'Est europeo
per conseguire il troncamento della liberalizzazione sovietica; estremizzando la
situazione vietnamita fino al punto di farne l'insanabile punto di attrito fra
USA e URSS (vedi il recente rifiuto sovietico delle avances di Johnson per una
ripresa dei rapporti fra i due Paesi al di fuori del Vietnam); distruggendo il
fronte dei paesi non allineati, vera foglia di fico della distensione, la Cina
ha condotto in porto il suo capolavoro al punto che non è esagerato dire che la
politica interna ed estera sovietica si fa oggi a Pechino. Gli incidenti con la
rappresentanza diplomatica sovietica, le ossessionanti accuse di revisionismo e
la denuncia di accordi esistenti o inventati con gli USA sono l'aiuto che i
cinesi offrono ai gruppi militari sovietici, per consentire ad essi di prendere
il potere nell'URSS. Finora (vedi la riconferma di Kossighin dopo l'ultima crisi
sovietica) si sono visti i limiti dei militari, forse dopo i fatti di Pechino si
vedranno le loro capacità.
2 - VIETNAM: LA MACCHINA AMERICANA NELLA PALUDE
Due anni or sono gli Stati Uniti iniziarono i bombardamenti sul Vietnam del Nord
e motivarono questa nuova fase dell'«escalation» con il proposito di voler
distruggere solo la famosa «pista di Ho Ci-Min», attraverso la quale giungevano
gli aiuti ai guerriglieri vietcong.
Al momento attuale si può fare un bilancio della situazione statunitense nel
Vietnam esaminando gli avvenimenti tanto sotto il profilo militare quanto sotto
quello politico.
Gli effettivi americani oggi ammontano a poco più di 300.000 uomini e secondò
fonti molto attendibili dovrebbero raddoppiare nei prossimi 18 mesi sino a
raggiungere le 600.000 unità, quante cioè erano state previste dall'ex vice
presidente Nixon nel suo ultimo viaggio a Saigon.
Calcolando anche l'esercito sud-vietnamita, gli uomini sotto le armi sono più di
un milione su un territorio paragonabile a quello dell'Olanda e del Belgio.
È interessante notare che il contingente francese nel 1953, che operava su un
territorio quattro volte più vasto (comprendeva anche il Tonchino, il Laos e la
Cambogia), non ha mai oltrepassato gli 80.000 uomini appoggiati da 360.000
autoctoni. In più gli americani dispongono dell'aiuto aereo-navale della VII
Flotta e delle basi del Pacifico.
Nonostante questo immenso spiegamento di forze, si può largamente dubitare
dell'annientamento dei vietcong a causa, più che altro, del carattere
particolare di questa guerra.
Il nemico è dappertutto e in nessuna parte, imprendibile, onnipresente,
invisibile. Di fronte a una situazione non abituale alle tradizioni
dell'esercito americano, più consone ai bombardamenti al fosforo di Amburgo,
Brema e Dresda, il Pentagono ha deciso di intensificare le distruzioni nel Nord
Vietnam, ispirandosi al superato concetto che una guerra viene vinta per quanto
più potenziale bellico nemico si riesce a distruggere.
Lo stato maggiore statunitense sa fin troppo bene che sta combattendo contro un
nemico che, seguendo le note teorie di Mao Tse-tung sulla «guerra
rivoluzionaria», non punta sulla conquista del territorio ma sulla conquista
della popolazione, che non affida le sorti della guerra al fattore «macchina» ma
al fattore «uomo». Proprio nel mese di gennaio, Hsiao Hoa, direttore del
dipartimento politico generale dell'esercito cinese, in un suo rapporto affermò
testualmente: «Il risultato della guerra viene deciso dall'uomo e dalla
politica... la vittoria è impossibile senza la politica, senza il fattore
"uomo". La vittoria è impossibile se si segue la teoria secondo cui sono le armi
a decidere».
Di fronte a un nemico che pone l'uomo e non la macchina come fattore decisivo e
che non considera il militare un semplice tecnico «schiaccia-bottoni», gli Stati
Uniti, costretti sotto un certo aspetto dalla spirale degli avvenimenti di cui
loro stessi sono causa, tendono ad allargare sempre più il conflitto nella
speranza di una uscita che si fa sempre più improbabile.
Ne sono controprova le dichiarazioni del generale Nguyen Van Thieu del 3
settembre secondo cui gli americani debbono invadere il Vietnam del Nord «per
porre fine alla guerra», lasciando capire che a tale proposito sono già stati
elaborati dei piani dall'alto comando statunitense.
Tutto questo accade anche se si è sempre più convinti da ogni parte che, come ha
detto De Gaulle in Cambogia, «nessuna soluzione militare è possibile» a meno che
non si pensi alla soluzione di dover mantenere per altri 5 anni un contingente
americano di 750.000 uomini nel Vietnam del Sud prima di sconfiggere i vietcong
e poi lasciare a tempo indefinito un contingente di 250.000 uomini per far
rispettare l'autorità del governo di Saigon, come risulta da un rapporto segreto
rivelato dal comandante dei marines, generale Wallace M. Greene in un incontro
privato con un gruppo di giornalisti.
D'altra parte gli americani rispondono con le armi che posseggono essendo
impensabile che possano condurre una guerra ideologica basata sul chewing-gum,
il latte concentrato e la civiltà del dollaro affiancata dai miti democratici
della «prosperity» e dell'«affluent society».
L'aspetto politico
Questo per quanto riguarda il profilo militare. Gli aspetti di quello politico
sono ancor più negativi.
La «politica delle alleanze» johnsoniana si è rivelata un fallimento: la Francia
è uscita dalla NATO e ha dato lo sfratto alle basi militari che si trovavano sul
suo territorio.
Come se ciò non bastasse, De Gaulle a Pnom Penh si è rivolto agli Stati Uniti
dicendo: «La vostra guerra è senza speranza e senza giustificazione». Ha usato
cioè le medesime motivazioni degli americani che avevano maggiormente insistito
presso di lui perché fosse riconosciuto all'Algeria il diritto
all'autodeterminazione.
Senza dubbio è stata questa l'ultima palata di terra che ha affossato per sempre
la cosiddetta «solidarietà occidentale».
La Casa Bianca lo temeva, ma a niente sono valse le «spontanee» manifestazioni
di Gibuti e il pericolo di attentati in Cambogia contro De Gaulle che hanno
lasciato facilmente intravedere l'azione affannosa e incontrollata della CIA, il
servizio segreto spionistico americano.
L'alleanza con l'Inghilterra, in preda ad una endemica crisi economica e
influenzata dalle sempre presenti spinte pacifistiche, si è rivelata per lo meno
insicura come è insicura l'alleanza con il Giappone dove Hiroshima e Nagasaki
non sono solo dei ricordi o delle ferite sentimentali e dove l'organizzazione
nazionalista "Soka Gakkai", che gode della protezione del Principe Ereditario,
ha raggiunto i tredici milioni di militanti influenzando sempre più
profondamente le scelte politiche estere giapponesi.
Gli incerti rapporti amichevoli con l'India sono diventati ogni giorno più
equivoci dopo il viaggio e le dichiarazioni che Indira Gandhi ha fatto a Mosca
il 16 luglio.
Anche l'Indonesia, benché ormai in mano ai militari filo-americani, non presenta
una situazione chiara dato che Sukarno sembra ben lontano dall'aver abbandonato
la partita, come dimostra il suo discorso del 16 agosto a cui si è visto
necessario rispondere con le solite manifestazioni «spontanee» degli studenti
del KAMI e del KAPPI ormai scopertamente orchestrate dalla CIA.
Manca qui lo spazio per approfondire gli errori grossolani della politica
johnsoniana che hanno portato ad un inasprimento delle posizioni cinesi con
l'ascesa di Lin Piao e con la sempre crescente influenza dei militari (Scelepin)
in Russia.
Il bilancio, sia militare che politico, è quindi negativo e appare sempre più
evidente che gli Stati Uniti sono entrati in un vicolo cieco di cui non si
riesce a capire se vedano le esatte dimensioni e se siano pronti a sopportarne
tutte le conseguenze.
3 - CHI È MAC NAMARA?
La linea della «soluzione militare» della guerra nel Vietnam, che sembra essere
stata definitivamente intrapresa da Johnson, ha suscitato negli ambienti
occidentalisti europei un rilancio di solidarietà, mentre hanno ripreso fiato i
sostenitori della «spaccatura verticale», la cui esaltazione dell'ambiente
militare americano è giunta recentemente a presentare i soldati USA nel Vietnam
come i «difensori dell'Impero» e «dell'onore, del prestigio e della dignità
degli Stati Uniti» e quindi... dell'occidente.
E poiché recentemente in Italia molta gente si è data un gran daffare intorno ad
alcune iniziative di carattere militare, rientrate poi con un giro di
centottanta gradi da parte di un generale che da paladino dell'estrema destra
pare abbia fornito le notizie scandalistiche che i giornali di sinistra
("L'Astrolabio", "Paese Sera", "Vie Nuove") hanno pubblicato a suo tempo,
mostrando ancora una volta l'inesistenza di prospettive politiche di certi
ambienti, ci sembra importante mostrare la natura tecnocratica di chi detiene il
potere su tutta la struttura militare americana, essendo il gruppo militare
americano uno dei miti dei gruppi occidentalisti.
Un uomo molto potente
Il tecnocrate McNamara è certamente una delle figure più potenti del «mondo
occidentale». Oltre ai poteri sull'ambiente militare, inerenti alla sua carica,
egli amministra una somma pari a 60 mila milioni di dollari, con tutte le
conseguenze che una somma del genere può avere sull'economia generale della
nazione americana e in particolare sul trasporto supersonico, le riserve di
petrolio, i prezzi dell'alluminio e le decine di altri settori interessati agli
«enormi contratti» con l'industria, la cui negoziazione passa direttamente per
le mani del ministro della difesa.
La sua potenza è in continua ascesa. Il passaggio dall'amministrazione Kennedy a
Johnson non lo ha minimamente turbato, anzi, recentemente il Presidente ha detto
di lui: «È il miglior ministro della difesa che la nazione abbia mai avuto».
Molti ritengono che con le prossime elezioni McNamara ambirebbe alla carica di
Segretario di Stato o addirittura a quella di Presidente. Una cosa comunque è
certa: le "fortune" del cosiddetto mondo occidentale stanno, per buona parte,
nelle mani di Robert McNamara.
Qualche cenno biografico
È nato a San Francisco nel 1916 da Robert James, direttore delle vendite di un
magazzino all'ingrosso della città.
All'Università di California studiò filosofia ed economia, seguì quindi ad
Harward un corso di tecnica amministrativa.
Dopo aver lavorato un anno presso una ditta di San Francisco, ritornò ad Harward
nel 1940 per insegnare tre anni alla scuola di tecnica aziendale.
Il periodo trascorso ad Harward a contatto con l'ambiente radicale
dell'università fu molto importante per la sua formazione. Si distinse per la
particolare competenza tecnica.
Ad Harward conosce Charles Bates Thornton che guida le ricerche di un gruppo di
giovani ufficiali dell'aviazione sul perfezionamento dei piani di rifornimento e
produzione per i fronti di guerra. Quest'incontro è destinato a introdurre
McNamara nell'ambiente militare e a fargli operare il passaggio dalla tecnica
amministrativa alle forze armate.
Partecipa come insegnante ad un corso per l'elaborazione di un sistema di
«controllo statistico» da introdurre nell'aviazione.
Come consulente civile, poiché viene classificato inabile ai servizio per la
vista, è mandato durante la guerra in Inghilterra per installare il sistema
studiato ad Harward. Al ritorno lavora con Thornton al Pentagono.
Il gruppo Thornton ci offre uno dei tipici esempi dell'elite tecnocratica.
Questo gruppo di esperti della tecnica statistica, postosi al servizio delle
forze armate, terminata la guerra offrirà i suoi servigi all'industria. Per il
tecnico è infatti del tutto simile operare nell'ambiente militare o industriale,
elaborare un piano di ammortamento finanziario o i sistemi di reclutamento,
dirigere una società per azioni o il ministero della difesa.
Con McNamara, come vedremo, questa concezione eminentemente tecnocratica della
guida militare del Paese diverrà definitivamente dominante.
Alla fine della guerra i dieci ufficiali del gruppo Thornton inviarono un
prospetto ai venti più importanti industriali del Paese per proporre
l'inserimento nei campo produttivo dei metodi statistici esperimentati nelle
forze armate. Thornton si impiegò nell'industria Litton, McNamara con 12 mila
dollari alla Ford. Alla Ford i suoi metodi riscuotono un notevole successo ed in
breve compie una brillante carriera: in nove anni è vicepresidente e poi
direttore generale, quindi nel 1960 è presidente.
È a questo punto che inizia la carriera politica di McNamara. La sua attività
negli affari si confonde con l'attività politica.
Frequenta assiduamente gli ambienti radicali del partito democratico e le loro
organizzazioni minori, diviene membro della "League of Women Voters".
Insieme a George Romney, allora presidente della American Motors, studia la
politica fiscale ed elabora un progetto per facilitare l'entrata di questi sulla
scena politica.
Poi, insieme ad Hatcher, presidente dell'università del Michigan, Paul McCracken,
professore di economia e Neil Staebler, un affarista che sarà poi deputato del
Michigan per il partito democratico, partecipa ad alcuni convegni politici.
La sua adattabilità «tecnocratica» gli permette di passare da Harward agli
uffici militari, da Ford all'attività politica con lo stesso spirito, gli stessi
compiti.
Alla Ford ha accumulato un notevole patrimonio. È arrivato a guadagnare più di
300 milioni di lire, con valori mobiliari di 5 milioni di dollari ed un
incontrollabile patrimonio immobiliare. Ancora oggi percepisce dividendi e
provvigioni.
Il 1° gennaio 1961 abbandona la Ford e raggiunge l'amministrazione Kennedy quale
ministro della difesa. Qualcuno gli contesta un «passato repubblicano». Egli
risponde che è «un repubblicano che ha votato spesso per il partito democratico,
quanto basta per garantire la qualifica di indipendente». È la solita
«copertura» dei tecnocrati. In effetti nel 1958 era stato un attivo sostenitore
del candidato democratico per il Senato Philip A. Hart, iscritto all'ADA e uno
dei tre «liberali al cento per cento» del Senato, mentre nel 1940 ad Harward
aveva votato per Roosevelt; ma la sua «base» tecnocratica gli permetterà di
servire il radicale Kennedy e il «socialdemocratico» Johnson.
Il potere tecnocratico sostituisce il potere militare al Pentagono
All'inizio dell'anno "Il Borghese" pubblicava una serie di articoli tendente a
dimostrare la preminenza del potere militare nel mondo (sullo stesso piano
venivano posti De Gaulle, Nasser, i militari argentini e quelli USA...).
L'inchiesta poneva il gruppo militare americano come il più potente del mondo.
Se l'affermazione risulta sensata ad un livello di «deterrent», certamente su di
un piano politico può essere considerata solo una «boutade». Lo stesso
articolista per sostenere la sua tesi ricorreva al... dottor Stranamore.
Il potere politico dei generali americani attualmente è zero, e nulla può far
pensare ad un futuro cambiamento delle posizioni di potere tra gruppi militari e
potere civile.
Dal 1947 ad oggi, da quando cioè è stato creato il ministero della difesa,
questo è un feudo indiscusso dei gruppi economici del Paese e infatti hanno
ricoperto l'incarico sempre managers di ditte commerciali o bancarie (tranne dal
'49 al '50 L. Johnson, un avvocato di Washington e dal '50 al '51 G. Marshall,
l'unico ufficiale di carriera a divenire ministro).
Eccone lo sconcertante elenco:
1947-49 James V. Forrestal dirigente della Read & Company
1951-53 Robert A. Lovett dirigente della ditta F.lli Brown, Harriman & Company
19*53-57 Charles E. Wilson ex presidente della General Motors
1957-59 Neil H. McElroy presidente della Procter & Gamble Company
1959-61 Thomas S. Gater, Jr. ex banchiere di Filadelfia, ora presidente del
Trust Morgan-Guaranty di New York.
Questa è la realtà del potere dei militari in America.
Il caso del generale Eisenhover, presidente degli Stati Uniti, non può essere
citato certamente, come prova del potere dei militari, ma semmai come
controprova della incapacità da parte dei militari di imporre una politica di
sostanziale differenziazione dagli altri gruppi politici.
Del resto è opinione diffusa che il controllo sul gruppo militare sia negli USA
particolarmente pesante da parte degli organi legislativi ed esecutivi. Scrive
sull'argomento, pur tra diverse contraddizioni, Meynaud in un saggio sulla
tecnocrazia:
«Poche costituzioni scritte hanno preso tanta precauzione per garantire il
controllo della politica militare quanto quella degli Stati Uniti. Ecco la parte
essenziale di queste disposizioni, formalmente sempre in vigore. Il Congresso
che ha la facoltà di decisione per quanto riguarda il bilancio militare e quella
di interrogare direttamente i capi di Stato Maggiore responsabili, ha assoluto
potere di legiferare in questo campo: esso determina proporzioni e natura delle
forze armate, autorizza il reclutamento obbligatorio delle persone e la
requisizione dei beni per le necessità della difesa, stabilisce le regole che
presiedono alla condotta delle operazioni militari, ecc.. Se il presidente è
abilitato a nominare gli ufficiali di grado gerarchico più elevato, lo può fare
soltanto dopo aver sentito il parere o ottenuto il consenso del Senato. Il
presidente peraltro dispone di ampie prerogative: in particolare di quelle di
comandante in capo. Un elemento simbolico esprime perfettamente questa
subordinazione alle autorità civili: l'obbligo da parte di tutti i membri di
prestare loro giuramento di fedeltà. Un sistema così fatto intende concedere
poco spazio alla tecnocrazia militare» (Meynaud, "La tecnocrazia", Bari 1966).
Quindi non solo subordinazione al potere civile e quindi tecnocratico civile, ma
anche contenimento della tecnocrazia di origine militare. Ci sarebbe da
aggiungere a questo proposito, come considerazione di fondo, l'aspetto
paratecnocratico assunto ormai dai militari nel mondo moderno e il carattere
eminentemente conservatore della loro politica, ma queste considerazioni ci
porterebbero fuori dal presente argomento.
Oggi negli Stati Uniti, se una tendenza è in atto, è quella della riduzione del
potere dei militari. McNamara è l'uomo che ha accelerato questa tendenza
soffocando e diminuendo le posizioni dei militari.
Il gruppo militare non ha saputo controbattere nulla. Incapace di esprimere una
linea politica si è sottomesso di malavoglia al potere tecnocratico. Negli
ultimi quattro anni le dimissioni dalle forze armate si sono quadruplicate. Al
Congresso è stato recentemente affermato: «Il peso dell'influenza e del giudizio
dei militari è diminuito enormemente sotto McNamara».
L'influenza della tecnocrazia direttoriale sili militari si esercita attraverso
vari canali i cui principali sono la specializzazione e l'impegno finanziario
per le attrezzature elettroniche.
In questi anni il Ministro della difesa ha rilevato la direzione del programma
di difesa dalle mani dei servizi armati e li ha concentrati in una vasta
burocrazia civile che opera sotto il suo diretto controllo. Sono sorte nuove
agenzie del ministero della difesa: "Systems Analysis", "Contract Administration",
"Contract Audit", "Defence Attaché System", ecc., nelle quali risulta enorme il
potere di chi elabora i programmi delle macchine elettroniche.
McNamara è oggi il «direttore di un'enorme organizzazione», egli tiene in mano
non solo l'organizzazione logistico-amministrativa del ministero della difesa,
ma la strategia e la tattica delle forze armate.
Il 16 settembre 1965 McNamara annunciava un programma per la sostituzione di 75
mila militari con 60 mila civili in posti di non combattimento. Come si vede
procede anche da un mero punto di vista numerico lo svuotamento di potere dei
militari.
Il mito dell'efficienza
La base su cui si fonda il potere tecnocratico è il mito dell'efficienza. Le
dottrine tecnocratiche hanno sempre cercato di dimostrare l'indipendenza dei
managers e dei tecnici dal potere del business man, del capitalista. I fatti
hanno sempre ridimensionato queste affermazioni ideologiche, il potere del
capitale non essendo mai venuto meno o diminuito, mentre è continua l'interrotta
la corsa verso la concentrazione della ricchezza e l'aumento del potere dei
trusts e delle grandi concentrazioni di capitale. Il fatto è che quando anche la
tecnocrazia, raramente, ha sbandierato lealmente un programma di riforme, la sua
posizione per definizione apolitica l'ha portata sempre a ricadere nelle mani
del capitalismo e delle soluzioni capitalistiche.
In questo modo anche il mito dell'efficienza deve essere conseguentemente
ridimensionato. Il tecnico, anche se ha dalla sua parte la forza della
competenza, deve inserirsi in una società organizzata, in un sistema produttivo
già operante, in una divisione della società già posta, in un rapporto, insomma,
di gruppi di potere che lui non ha facoltà di cambiare perché lui non ha per
natura un peso politico. In questo modo egli non potrà mai diminuire la forza
politica dei grandi gruppi economici e quindi le sue scelte saranno sempre in
funzione del modellò di sviluppo stabilito da questi.
Anche McNamara non sfugge a questa ferrea logica, e le sue decisioni non mancano
di essere in funzione degli interessi di questo o quel gruppo economico.
Un esempio di questo, tipo lo si può avere osservando il caso del piano TFX.
Il progetto prevede, tra l'altro, la creazione di un unico modello di aeroplano
con caratteristiche comuni, capace di essere usato sia dall'Aviazione che dalla
Marina, invece di un differente aereo per ogni servizio.
Nel 1963 la sottocommissione permanente di indagine del Senato, con a capo il
democratico John McClellan, condusse un'indagine dalla quale risultarono i
favoritismi che si erano verificati nei riguardi della General Dynamics
Corporation sulla Boeing Company. L'inchiesta non portava però a delle
conclusioni.
Ulteriori indagini giornalistiche comunque dimostrarono chiaramente come
nonostante il parere di 235 esperti della Marina e dell'Aviazione, che avevano
preferito il progetto della Boeing, McNamara avesse aggiudicato l'appalto alla
General Dynamics.
Seguirono a breve distanza le dimissioni di alcuni funzionari bancari e del
ministero della difesa.
Il costo del progetto intanto saliva per stessa ammissione del ministero dai 2,8
milioni di dollari previsti a 4,6, mentre si ritiene da diverse parti che oggi
sia a livelli ancor più elevati. Anche le caratteristiche del progetto subivano
delle modifiche da quelle iniziali: il peso sembra essere di 5 o 7 tons più del
previsto, mentre pare che il modello risulti gradito all'Aviazione, ma non alla
Marina. Ed è una storia che deve ancora finire...
Il 10 luglio 1966 McNamara annunciava di aver chiuso o ridotto, negli ultimi
cinque anni, 862 basi militari, con un risparmio di 1,4 bilioni di dollari
l'anno. A queste «brillanti» iniziative fa riscontro però una situazione
generale ben diversa. Quando McNamara prese l'incarico nel 1961 la spesa del
bilancio militare era di 44,7 bilioni di dollari, oggi essa è di 58,3. E sono
previsti ulteriori aumenti. Nonostante questo incremento della spesa militare,
gli Stati Uniti non solo non sono venuti a capo della guerra nel Vietnam, ma
hanno visto crescere sempre più le difficoltà. Analizzando la situazione
militare del Vietnam, ci si rende conto dei limiti dell'efficienza di McNamara.
Scrive a questo proposito il "Washington Star" del 24 aprile:
«Un uomo estremamente razionale, crede che tutti i problemi possano essere
risolti grazie ad una giudiziosa applicazione della ragione e dell'ingegnosità.
Il fatto che il Vietnam non si sia arreso alle nostre migliori truppe, ai nostri
uomini più intelligenti, lo ha umiliato e reso perplesso».
McNamara infatti aveva preparato le sue schede ed aveva chiesto consiglio
all'elettronica e i computers gli avevano predetto la vittoria entro il 1965. A
lui erano sfuggiti completamente i termini profondi della guerra vietnamita, una
guerra nella quale i guerriglieri vietcong portano sulle spalle fino a cento
chili e percorrono in bicicletta il sentiero di Ho Chi Min, una guerra che è
destinata a mettere in crisi tutto il sistema di alleanze degli Stati Uniti.
Quando il tecnico fa politica
Il "New York Times" del 18 febbraio 1963 usciva con un titolo chiaramente
indicativo: «Replacing machines with minds». I metodi dell'amministrazione
McNamara, con un largo uso dei computers, avevano scandalizzato finanche il
quotidiano radicale.
La possibilità di comprendere gli avvenimenti politici presuppone infatti una
profonda capacità di concepire le grandi forze storico-ideologiche che agiscono
nella scena del mondo. Questa capacità, questo profondo senso degli uomini e
della storia implica dei processi mentali super-logici, per i quali a nulla vale
la razionalità e la capacità tecnica se non sono condotte da una profonda,
innata, capacità di intuizione. Questa forza spirituale manca agli uomini della
tecnica.
Gli errori politici di McNamara sono svariati
Oltre al modo errato di condurre la guerra nel Vietnam che ha portato l'America
al vicolo cieco della «vittoria militare», cioè al più ampio impegno americano,
dove proprio la Cina voleva che si giungesse, la «politica» di McNamara ha
favorito la crisi della NATO.
Fino al 1961 la NATO era stata una sorta di blocco chiuso. Gli Stati Uniti
avevano potuto mantenere un indiscusso controllo sull'organismo grazie al
concetto strategico della «rappresaglia massiccia» che implicava infatti una
posizione statunitense, almeno formalmente, di totale impegno militare nei
riguardi dell'Unione Sovietica.
Quando nel 1961 alla convenzione democratica di Atlantic City a proposito della
nuova linea strategica della «risposta elastica» egli introdusse il concetto di
«pausa» nella eventuale risposta ad un attacco dell'URSS, formulando la nuova
teoria in sintonia con la tendenza distensiva, McNamara non si pose affatto il
problema della logica richiesta da parte delle nazioni europee di influire sul
controllo del deterrente nucleare. Se vi era una pausa ed era quindi eliminato
il meccanismo della rappresaglia immediata, ciò voleva significare che vi era il
posto per una trattativa di carattere politico e ciò implicava la possibilità da
parte delle nazioni europee di esercitare un ruolo indipendente.
Quindi il concetto di «pausa», mentre era una logica esigenza della politica
distensiva, portava come conseguenza la crisi della NATO, dell'organismo
militare nato per la supremazia politica degli USA nel continente.
McNamara cercò di fermare la tendenza disgregativa. Nel 1962 faceva un appello
alle nazioni europee della NATO per spingerle ad aumentare il loro armamento
convenzionale, come per dire «a noi le atomiche a voi il carro armato». Ma la
proposta sembrò «non realistica» finanche al ministro della difesa inglese. Nel
1963 e nel 1964 poi, l'amministrazione americana cambiò sistema e si impegnò per
una forza multilaterale con navi armate di missili a testata nucleare. Anche
questo progetto era destinato a fallire per la troppo evidente posizione di
preminenza statunitense.
L'attuale crisi della NATO nasce da questi fatti.
La reazione che si produsse nel gennaio dei 1963 nei circoli politici americani,
dopo la famosa conferenza stampa di De Gaulle, dette l'idea di qualcosa di
improvvisato e di sorpreso. I computers del ministro della difesa,
evidentemente, non avevano previsto la complessità della politica europea.
SAGGISTICA
4 - SPAGNA: DALLA FALANGE ALL'OPUS DEI - 30 ANNI DOPO
Alle elezioni del 16 febbraio 1936, le ultime prima del pronunciamento militare
di luglio, la Falange non aveva ottenuto in parlamento nessun seggio; i
comunisti, che in precedenza ne avevano uno solo, riuscirono a conquistarne 14
su 467. La Falange non contava più di 8.000 iscritti e il PC spagnolo arrivava
appena a 12.000. Tuttavia la Falange fu messa fuori legge, le sue sedi chiuse, i
suoi capi arrestati. Ciononostante fin dai primi giorni della rivolta
nazionalista le formazioni falangiste sono a fianco dei soldati, delle guardie
civili, dei «requetés» nelle caserme assediate e sulle sierre. Esse giocheranno
un ruolo di primo piano nel corso di tutta la guerra civile. Dall'altra parte,
il 5° reggimento, organizzato dal partito comunista, si rivelò fin dalle prime
settimane come l'unico reparto efficiente al servizio della Repubblica.
È certo che la «Repubblica dei professori» -come la chiamavano con disprezzo gli
anarchici- non sarebbe sopravvissuta per tre anni senza l'appassionato appoggio
dei comunisti.
Così i due partiti che avevano meno rilievo sul piano parlamentare e minore
influenza sulla politica governativa e sull'opinione pubblica furono quelli che
dettero alle due parti in lotta un contenuto ideologico ed una fede politica per
cui combattere.
I ventisei gabinetti che si succedettero dalla proclamazione della Repubblica,
nell'aprile 1931, al luglio del 1936, furono tutti retti da coalizioni guidate
da radicali. Un primo periodo, dall'aprile 1931 al novembre del '33, vide il
governo di Manuel Azaria, di tendenze più progressiste, al quale, oltre che i
radicali, collaboravano i progressisti di Alcalà Zamora ed i socialisti di Largo
Caballero e di Iudalecio Prieto e che era appoggiato esternamente dai sindacati
di sinistra e dagli anarchici. Una coalizione analoga si riprodusse, sempre
sotto la guida di Azaria, dopo le elezioni del febbraio '36.
Il biennio novembre 1933 - dicembre 1935 fu invece caratterizzato da un governo
più moderato di centro-destra, guidato dai radicali di Lerroux ed apppoggiato
dalla CEDA (Confederación Espanõla Derechas Autonomas) che raggruppava le
correnti cattoliche liberal-conservatrici e che fu aspramente combattuto sia
dalle destre monarchiche e tradizionaliste sia dalle sinistre.
Se si possono comprendere certe tendenze reazionarie del governo Lerroux, assai
meno comprensibile appare ad un osservatore non preparato la timidezza
riformistica dei governi progressisti di Azaria. A parte qualche intervento
legislativo spicciolo nella disciplina dei contratti collettivi e dei minimi
salariali, unica questione di fondo che i governi progressisti cercavano di
affrontare fu quella agraria, ma anche qui, malgrado l'opposizione delle destre
economiche si dimostrasse assai debole, ci si limitò ad una riforma parziale
circoscritta ad alcune regioni del Sud e del Sud-Ovest e che, per i larghi
indennizzi assicurati ai proprietari -data la disastrosa situazione delle
finanze repubblicane- ebbe scarse possibilità di realizzazione. Nessun
intervento statale fu tentato in campo industriale ed il settore creditizio
restò il più sacro tabù dei governi repubblicani, anche negli anni roventi della
guerra civile.
I radicali e la Repubblica
In realtà gli uomini che ressero la Repubblica* gli Azaria, i Lerroux, i Portela
Valladorès, i Martinez Barrio, i Casares Quiroga, altro non erano che
intellettuali neo-illuministi, provenienti dalla borghesia colta delle grandi
città e strettamente legati agli ambienti economici e finanziari della borghesia
internazionale.
La maggior parte del capitale investito nelle miniere e nelle industrie spagnole
era capitale straniero. La rete telefonica spagnola era di proprietà di una
compagnia americana. La società inglese del Rio Tinto possedeva i maggiori
giacimenti di pirite e la società del Tarsis, con sede a Glasgow, i grandi
giacimenti andalusi di rame. La compagnia Armstrong controllava un terzo della
produzione del sughero. I francesi avevano in mano le miniere d'argento di
Penarroja e quelle di rame di San Plato; i belgi buona parte della produzione
del legname, il settore ferroviario e tranviario, nonché le miniere delle
Asturie. Una società canadese controllava l'elettricità della regione catalana.
Non per nulla i modelli ideali cui questi uomini si ispiravano erano la
democrazia inglese (nel 1935 la Gran Bretagna assorbiva da sola il 50% delle
esportazioni spagnole e destinava alla Spagna il 17% delle sue), ma soprattutto
la Francia laicista di Leon Blum e l'America di Roosevelt. Essi rinnegavano il
passato del proprio paese («metteremo un lucchetto alla tomba del Cid» -
dicevano) e intimamente disprezzavano il popolo che si erano trovati a governare
come una massa di ignoranti, fanatici, indisciplinati e superstiziosi.
L'unico contatto che essi avevano con la realtà spagnola era la forzata
alleanza, con le masse marxiste ed anarchiche, che essi non comprendevano e da
cui non erano compresi, forti soprattutto nelle zone industriali (Catalogna,
Asturia, Valenza) e tra il misero proletariato agricolo dell'Andalusia. Ma era
un contatto privo di ogni calore umano, una gelida e ipocrita complicità cui
sottostavano soltanto perché rappresentava il malfermo piedistallo del loro
potere. Di fronte all'intellettuale, illanguidito nelle biblioteche francesi ed
a stento abbronzato una volta l'anno dal sole di Biarritz, il proletario
spagnolo amava e stimava assai più nel suo cuore il giovane aristocratico con
cui aveva militato nelle guerre marocchine: ascetico nei gusti, arrogante nei
modi, generoso con gli amici, con i nemici spietato, spagnolo insomma, dalla
testa ai piedi.
Più che nei dirigenti sindacali di estrema sinistra era naturale, dunque, che
questa classe dirigente trovasse i suoi più sicuri collaboratori in quella
parte, invero piuttosto esigua, della casta militare e burocratica che fin
dall'800 era stata affiliata alle logge massoniche (non è un mistero che quasi
tutti gli ufficiali superiori e gli alti funzionari che rimasero fedeli alla
Repubblica nel 1936 erano massoni), come del resto lo era la maggior parte degli
esponenti politici del regime.
Invero una delle costanti dei governi radicali prima del '36 fu la politica di «appeasement»
verso la casta militare. Nelle sommosse anarchiche e separatiste nelle Asturie,
in Andalusia, in Catalogna, fra il '32 e il '34, i governi repubblicani non
esitarono a dar via libera ai generali nelle repressioni, erigendosi a gelosi
garanti dell'ordine e della legalità, contro le violenze di piazza, salvo poi ad
avvalersi di queste per allontanare dai posti-chiave dell'esercito e della
marina gli ufficiali più pericolosi. Essi volevano mostrarsi alla borghesia
conservatrice come l'unico baluardo valido, appunto per la loro elasticità ed il
loro progressismo, contro gli estremisti di sinistra, così da non perderne
interamente l'appoggio e potersene servire ad ogni occasione -come in effetti si
servirono finché fu possibile- per controbilanciare la pressione delle masse
«sovversive». Anello di congiunzione erano quegli strati borghesi legati alla
massoneria o comunque permeati dal pensiero laicista.
La politica antireligiosa
Coerenti alla loro matrice filosofica, l'unico campo in cui i radicali spagnoli
misero tutto il loro impegno e mantennero ancor più di quanto avessero promesso
fu nella lotta contro la Chiesa e contro la religione cattolica.
L'art. 3 della Costituzione, promulgata il 9 dicembre 1931, dichiarava: «Lo
Stato spagnolo non ha nessuna religione ufficiale» e Manuel Azaria, all'atto di
assumere la prima volta la carica di presidente del consiglio, dichiarò con
soddisfazione: «La Spagna ha cessato di essere cattolica».
A modello della nuova carta costituzionale era stata presa la costituzione di
Weimar, senza alcuna elaborazione dottrinaria e giuridica che ne adattasse i
princìpi non solo ai caratteri peculiari della società civile spagnola, ma anche
alle più recenti esperienze politiche degli altri paesi. Tale era l'astrattezza
formale della nuova carta che lo stesso Lerroux ebbe a dire più tardi che ne era
derivata «una repubblica spagnola che tutto era meno che spagnola».
Come conseguenza del dichiarato agnosticismo di Stato e dell'ateismo dichiarato
dei principali dirigenti politici, fu abolita l'istruzione religiosa, furono
negate le congrue ai parroci (benché queste rappresentassero una forma di
indennizzo per l'espropriazione dei beni ecclesiastici del 1873), fu introdotto
il divorzio, furono soppressi alcuni ordini religiosi e tutti furono sottoposti
sotto un rigoroso controllo di polizia; furono vietate le processioni e le
funzioni religiose senza uno speciale permesso dell'autorità governativa, ecc.
Se questi erano gli insegnamenti che giungevano dal vertice del regime, di che
stupirsi se sempre più spesso folle di anarchici si davano ad incendiare chiese
e ad uccidere preti? È troppo noto, del resto, come durante la guerra civile
l'ostilità della Repubblica verso la Chiesa divenne, tranne che nelle province
basche, aperta persecuzione.
Fu proprio sul terreno della violenza che il gioco radicale, consistente nello
strumentalizzare le masse socialiste ed anarchiche per imporsi ai conservatori
senza nel contempo perderli completamente, fallì.
Estranei per atteggiamento mentale alla psicologia del loro popolo, i professori
del '31 non tennero nel conto dovuto di operare sul corpo vivo della Spagna, un
paese che non ama i compromessi e le mezze tinte, dove i confini tra il si e il
no sono netti e precisi come il filo di una lama, spietati come, l'ombra delle
sierre sugli altopiani nei meriggi d'estate, un paese dove ciascuno ha il dovere
in ogni istante di sapere da che parte si trova della barricata.
L'ora dell'estrema sinistra
Il gioco radicale per la conquista del potere è fatto in tutti i paesi di
sfumature, di compromessi non dichiarati, di equilibri sottili, di alleanze tra
correnti e controcorrenti all'interno dei partiti, di concessioni accordate oggi
e revocate domani. Tutto ciò non funzionò in terra di Spagna e l'equilibrio si
ruppe sul sagrato delle chiese incendiate, gettando in poche settimane i
radicali spagnoli in braccio all'estrema sinistra. Quell'estrema sinistra che
essi volevano manovrare e di cui divennero gli spauriti strumenti.
La politica antireligiosa offese milioni di spagnoli. La violenza mistica degli
anarchici, questo fenomeno tipicamente spagnolo (solo in questo paese gli
anarchici svolsero un ruolo di portata politica), trovò riscontro nella fiera
reazione dei monarchici tradizionalisti, altro fenomeno caratteristico della
storia iberica. Quando il 18 luglio 1936 i generali Franco, Queipo de Llano,
Mola, Goded insorsero contro il governo, dai villaggi della Navarra, della
Castiglia, del Leon masse di contadini accorsero nelle file dei «requetés», le
antiche milizie dei Re, e si posero agli ordini dei generali ribelli. La
Falange, che contava alcune migliaia di iscritti, i cui capi erano rinchiusi
nelle prigioni, e che fino all'ultimo aveva rifiutato la propria adesione alla
congiura dei militari, se questi non si fossero impegnati per un'energica
rivoluzione sociale, aveva in campo alla fine di luglio 60.000 uomini,
asserragliati nelle caserme di Madrid, di Toledo, di Oviedo, di Barcellona o
allineati sulla Sierra de Guadarrama o in Estremadura, accanto ai regolari e ai
legionari del Tercio.
Dall'altra parte gli operai di Madrid, di Bilbao, della Catalogna e delle
Asturie, i contadini nomadi dell'Andalusia imbracciavano le armi, pronti a
difendere l'onore della Repubblica e le speranze che in essa avevano riposto.
Fra i miliziani i reparti comunisti si distinsero subito per combattività e per
disciplina. Di fronte alle responsabilità della guerra il controllo effettivo
della Repubblica scivolò gradatamente dalle mani dei radicali a quelle dei
socialisti di sinistra, dei comunisti.
Il ruolo dei comunisti
Formalmente il governo continuò ad essere composto in un primo momento di
repubblicani progressisti e di radicali, più tardi anche di socialisti. I
comunisti non volevano correre il rischio che una loro partecipazione diretta al
governo potesse allarmare l'Inghilterra di Eden e gli altri Stati borghesi che,
come la Francia, avevano promesso aiuti alla Repubblica. Ma l'influenza dei
comunisti nella politica di Madrid e nella condotta della guerra si fece sempre
più incisiva, specie quando dall'ottobre 1936, cominciarono a giungere nei porti
repubblicani gli aiuti sovietici, costituiti da armi, aerei, carri armati,
nonché dà piloti e istruttori dell'armata rossa.
L'atteggiamento di Mosca, tuttavia, nei riguardi della crisi spagnola fu quanto
mai ambiguo e dominato soprattutto da considerazioni di politica estera. In
quell'epoca Stalin stava per dare inizio all'interno ad una nuova purga di
elementi trotzkisti; nella politica estera, nel mentre cercava l'amicizia delle
democrazie occidentali francese e britannica, non voleva inimicarsi la nuova
Germania hitleriana, verso cui aveva già mostrato le sue simpatie.
L'orientamento nazionalistico della sua politica, d'altronde, faceva sì che la
Spagna, così lontana dai confini russi, non costituisse di certo oggetto delle
sue mire.
Non così era per i bolscevichi in esilio i quali intravedevano la possibilità di
giocare nuovamente a Madrid la partita che avevano perduto in patria,
trasformando la Spagna nella seconda potenza bolscevica e facendone la base
della loro politica mondiale in antitesi con l'indirizzo staliniano.
Se Stalin, dopo molte esitazioni -dettate dal timore di spaventare Londra e
Parigi e insieme di fare cosa sgradita a Hitler, che già aveva iniziato ad
aiutare i nazionalisti- si indusse alla fine a disporre attraverso il Comintern
l'invio di aiuti alla repubblica borghese di Azaria e di Girai, lo fece per
rintuzzare le accuse che già i seguaci di Trotzkij gli muovevano di essere il
«liquidatore e traditore della rivoluzione spagnola, istigatore di Hitler e di
Mussolini» e per impedire agli stessi trotzkisti di impadronirsi delle
organizzazioni comuniste spagnole facendo leva sulle brigate internazionali,
che, per la loro composizione, in cui confluivano socialisti di diverse
nazionalità e di diverse origini ideologiche, erano il terreno ideale per la
loro propaganda. È singolare che tra gli uomini che Stalin inviò in Spagna a
rappresentarlo nell'agosto 1936 fossero per lo più ebrei e di sospette tendenze
trotzkiste, come l'ambasciatore Rosemberg, il console generale a Barcellona
Antonóv Ovscenko, Kolkov, Straszeskij ed altri. Furono quasi tutti liquidati
come revisionisti o prima ancora che si concludesse l'avventura spagnola o negli
anni che seguirono il secondo conflitto mondiale. Nel 1949 nell'Unione Sovietica
bastava il fatto di aver collaborato politicamente o militarmente con la
repubblica spagnola per essere processati come sospetti di attività
«anti-partito».
L'azione di Togliatti
L'uomo di punta di Stalin in Spagna fu probabilmente Palmiro Togliatti, il più
abile fra i comunisti spagnoli e stranieri sul suolo iberico. È a lui che devono
essere state affidate le fila della politica sovietica nei riguardi della Spagna
repubblicana.
Questa politica fu diretta in un primo periodo a fare del PC spagnolo l'arbitro
della situazione interna, ispirando la politica governativa dei premiers
socialisti Caballero e Negrin. Strumenti di questo disegno furono la direzione
centralizzata dell'esèrcito -sottratto ai capi miliziani e sottoposto ad una
rigida disciplina che non lesinava la pena capitale ai comandanti e la
decimazione ai reparti che si sottraevano al fuoco- e lìeliminazione
dell'opposizione anarchica e del POUM (Partito Obrero de Unificaciòn Marxista),
di ispirazione trotzkista, nelle tragiche giornate barcellonesi del maggio 1937.
In una seconda fase, negli ultimi mesi di vita della Repubblica e dopo il ritiro
delle brigate internazionali, si ha l'impressione che la politica di Togliatti,
nonostante la volontà dei comandanti comunisti di resistere ad oltranza, fosse
quella di liquidare al più presto l'affare spagnolo, spingendo il governo Negrin
a rompere con i militari massoni e gettando nel caos i resti delle annate
repubblicane. Così facendo, Togliatti, mentre faceva apparire i comunisti come
gli ultimi eroi della Repubblica, ne affrettava l'agonia, rendendo un servizio
prezioso a Stalin, ormai legato a Hitler dal patto Ribbentrop.
Nell'ottobre 1936, a garanzia degli aiuti che avrebbe prestato, Mosca si era
fatta consegnare dal governo di Madrid le riserve auree della Banca di Spagna.
Il carico giunse ad Odessa il 6 novembre e poco tempo dopo veniva annunciata la
scoperta di nuovi giacimenti d'oro negli Urali. L'URSS era stata preferita
all'Inghilterra e alla Francia come la più sicura amica della Repubblica
Spagnola.
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