POLITICA INTERNA
1 - Alto Adige, a chi giova il
terrorismo?
La questione altoatesina sta consentendo
alla sinistra radicale europea di riproporre i vecchi temi contro il cosiddetto
«revanscismo» tedesco. Si tenta apertamente, in sostanza, di far cadere il
popolo tedesco in un complesso di colpa dinanzi all'accusa di nazismo, per
fiaccarne la volontà di ripresa politica. L'accusa, infatti, che è mossa
particolarmente dalla sinistra italiana in occasione degli attentati, è rivolta
solo pretestuosamente a sostenere l'italianità dell'Alto Adige.
In verità coloro che, da "la Stampa" al "l'Unità", da "l'Avanti" ad "Epoca", da
Taviani alle massime Autorità del Paese, con relazioni; scritti o telegrammi
definiscono nazisti i terroristi, hanno evidentemente uno scopo che non è niente
affatto quello della conservazione dell'Alto Adige all'Italia. Non si vede
infatti in che modo un'accusa del genere potrebbe influire sui terroristi nel
senso di ridurli a più miti ragioni. Né tantomeno essa potrebbe giovare in sede
internazionale a sostegno delle tesi italiane, in quanto è ben chiaro che l'Alto
Adige appartiene all'Italia per ragioni che assolutamente prescindono
dall'orientamento nazista o meno dei terroristi.
È quindi evidente che l'accusa di nazismo si colloca nel vasto repertorio delle
tesi antigermaniche, patrimonio comune delle sinistre più o meno radicali di
ogni Paese.
* La vera posizione del nazismo
Sotto un profilo storico ed ideologico si deve ancora dire che furono invece
proprio i nazisti a stabilire in modo inequivocabile il carattere di italianità
di quella terra. Come ricorda il prof. Mario Toscano, insospettabile in
proposito in quanto ebreo, in un saggio pubblicato sulla "Nuova Antologia" nel
luglio 1960, fu Hitler che il 7 maggio 1938, al termine della sua visita
ufficiale a Roma, nel brindisi di risposta a quello di Mussolini, dichiarò
solennemente: «È mia incrollabile volontà ed è anche mio testamento politico al
popolo tedesco che consideri intangibile per sempre la frontiera delle Alpi
eretta tra noi dalla natura. Sono certo che per Roma e per la Germania ne
risulterà un avvenire glorioso e prospero».
A tale dichiarazione si era giunti dopo che la questione era stata dibattuta per
via. diplomatica fra Ciano e Goering e si era concordemente accettato il
principio che «l'Alto Adige è terra geograficamente italiana e poiché non si può
cambiare posto ai monti o corso ai fiumi, bisogna che si spostino gli uomini».
Il brindisi di Hitler era stato preceduto da una dichiarazione al Reichstag
fatta il 18 marzo nella quale lo stesso Cancelliere tedesco aveva dichiarato
che: «La frontiera del Brennero è sacra e tutti i tedeschi devono averlo
compreso (...) in particolare va considerato che lo spartiacque è inequivoco e
chiarissimo. L'aspra salita di Steinach e la ripida discesa sull'altro versante
italiano dimostrano chiaramente la linea di demarcazione fra l'Italia e la
Germania».
Onesta presa di posizione ebbe come noto il seguito degli accordi
Hitler-Mussolini del 1939, in base ai quali gli altoatesini ebbero la facoltà di
optare per la Germania, vedendosi naturalmente liquidati in modo equo tutti i
loro averi in Alto Adige oppure di rinunciare e per sempre ad essere considerati
tedeschi. Il sistema dell'opzione rispondeva a criteri di giustizia e di civiltà
e aveva già dato buona prova in occasione dell'analoga contesa greco-turca per
l'Asia Minore.
Sempre secondo il Toscano la posizione di Hitler non era improvvisa e
rispondente a necessità tattiche. Già nel 1926 nel "Mein Kampf" egli aveva
definito il problema giungendo alle stesse conclusioni in base alle quali
avrebbe poi stipulato l'accordo del '39 e nella stessa opera identificava in
falsi nazionalisti coloro che pretendevano la restituzione dell'Alto Adige.
Egli infatti scriveva, come riferisce il Toscano (riprendendo da "La mia
battaglia", pagine 347-352 - edizione Bompiani, Milano 1938): «Debbo, a questo
proposito, pensare ad un cavallo di battaglia che in questi anni l'ebreo cavalcò
con straordinaria abilità: l'Alto Adige... Il motivo per cui negli ultimi anni
certi circoli fecero della questione del "Tirolo" il cardine dei rapporti
italo-tedeschi, è molto chiara. Gli ebrei e i legittimisti asburgici hanno
grande interesse ad ostacolare una politica tedesca di alleanze che possa
condurre un giorno al ristabilimento di una libera patria tedesca. Non esito a
dichiarare che, ora che i dadi sono gettati, ritengo impossibile recuperare
l'Alto Adige per mezzo di una guerra. Non solo ma sono convinto
dell'impossibilità di infiammare per questo problema l'entusiasmo nazionale del
popolo tedesco. Credo invece che se un giorno dovremo versare il sangue tedesco
sarebbe delittuoso versarlo per duecentomila tedeschi quando sette milioni di
essi languono sotto il dominio straniero».
* I radicali contro la Germania
Anche nella situazione attuale ci sembra logico che eventuali gruppi
nazionalisti (non diciamo neppure nazisti) in Germania non potrebbero non tener
conto di una impostazione analoga. Alla fine della seconda guerra mondiale
vennero tolte alla Germania là Slesia, la Pomerania orientale, la Masuria e il
territorio intorno a Koenisberg; il Paese venne diviso in due e intere
popolazioni furono costrette ad andare profughe. Le vessazioni ignobili di
Versailles si ripeterono, senza neppure questa volta un trattato di pace. Non si
applicò il piano Morgenthau inteso a rendere la Germania terra di pastori, per
l'evidente impossibilità di dar vita ad un progetto così incivile.
Tuttavia la mano fu ugualmente pesante ed oggi che la storia porta di nuovo la
Germania sulla cresta dell'onda i rapinatori di ieri vogliono forzatamente
mantenere lo statu quo.
Tutte le armi sono buone a tal fine: l'accusa di revanscismo, la cattura negli
schemi atlantici, l'opera di «educazione» democratica. Per questo il coro della
sinistra, e particolarmente in Italia, si leva alto cogliendo il pretesto
dell'Alto Adige per una campagna propagandistica che ha come obiettivo ben
definito la Germania.
* La strategia dei radicali tedeschi
D'altra parte, esiste un pendant all'interno della stessa Germania all'azione
del radicalismo internazionale. Quando leggiamo sullo "Spiegel", settimanale di
sinistra; sulla "Die Zeit", pubblicazione dello stesso indirizzo; tesi di
appoggio al terrorismo, quando soprattutto vediamo che la ripresentazione della
questione altoatesina è stata fatta dai socialisti austriaci con a capo il
dottor Kreisky, allora dobbiamo pensare che la sinistra tedesca e austriaca ha
un preciso interesse a sollevare quella questione e ad alimentarla. Diciamo anzi
che ha due interessi:
1) quello di spostare l'obiettivo del nazionalismo tedesco dalla questione dell'OderNeisse
e dei confini orientali a quella altoatesina;
2) quello di seminare zizzania fra due popoli europei per danneggiare
preventivamente e alla radice ogni possibile spirito di solidarietà europea.
Circa quest'ultimo punto è appena del 27 settembre la smentita del dottor Wenzel
Iaksch, pubblicata sulla "Die Welt", con la quale sono respinte sdegnosamente le
accuse di sostegno ai terroristi rivolte da "la Voce Repubblicana" (del radicale
La Malfa) allo stesso dr. Iaksch presidente della Fondazione per la Pace
Europea. Né va dimenticata la recente denuncia del "Sud-deutsche Zeitung" il
quale ha scritto che: «Kreisky e altre personalità austriache hanno tentato di
riversare sui tedeschi la responsabilità del terrorismo».
I termini della questione altoatesina devono essere mantenuti nei loro limiti,
ponendo chiaro il fatto che l'Alto Adige resta italiano e i provvedimenti che
possono essere presi a suo riguardo rimangono di carattere puramente interno.
Soprattutto la questione dovrà ripulirsi di tutte le scorie, degli equivoci, dei
sottintesi, dei giochi occulti che si sono intrecciati alla sua ombra.
Se necessario la difesa dell'italianità della zona va fatta con tutti i mezzi
più drastici: ritorno all'opzione, dichiarazione dello stato d'assedio (o zona
di guerra che dir si voglia), rappresaglia contro l'Austria. Entro questi limiti
la tutela degli interessi italiani sarebbe effettivamente assicurata. Fuori di
questi limiti, cioè con le accuse alla Germana, o con il ricorso all'ONU (in
questo caso più incompetente che mai) gli interessi italiani verrebbero
compromessi, a tutto vantaggio di quelli dei nemici della Germania, cioè dei
circoli radicali antieuropei e dei Paesi dell'Est beneficiari della rapina
bellica. Politica ferma si è detto e non per la suggestione di atteggiamenti
autoritari. La controprova è data dal fatto che tutte le strade impostate sul
cedimento o sulle concessioni hanno provocato la riapertura del problema.
* Le responsabilità del regime democratico
Prima fra queste è stato l'accordo De Gasperi-Gruber del 5 settembre 1946 in cui
si son poste le basi:
a) della regione autonoma Trentino-Alto Adige, il cui statuto speciale venne in
parte approvato il 2-2-48;
b) della revisione del regime delle opzioni di cittadinanza, quale risultava
dagli accordi Hitler Mussolini del 1939.
Da queste due premesse, che chiaramente esorbitavano dall'area della tutela
delle minoranze sono scaturite le conseguenze che conosciamo. In seguito, in
alcune circostanze, necessità di aritmetica parlamentare fecero crescere oltre
misura il prezzo dei voti del SVP, con contropartite del tutto negative per gli
interessi italiani. Quando nel 1960 Kreisky decise di risollevare la questione,
pensò subito all'ONU come alla sede più adatta per la sua azione e basò le sue
argomentazioni sulla tesi che le concessioni degasperiane implicitamente
denunciavano la scarsa convinzione dell'Italia a considerare l'Alto Adige come
suo territorio. Dichiaratasi l'ONU incompetente e formulata tuttavia dalla
stessa un invito a tenere conversazioni fra i due Paesi, non si sa bene a quale
titolo, il governo italiano istituì pedissequamente e subito la Commissione dei
19 per studiare gli argomenti da proporre nelle riunioni con gli austriaci. Le
conclusioni della commissione si intendevano atti interni del governo, finché
nel 1964 cadde anche questa posizione e le stesse conclusioni vennero
considerate quasi come base di una trattativa. In sostanza dalle conversazioni
si era passati alle trattative. Con queste premesse il sistema democratico,
generatore palese dell'attuale stato di tensione, osa speculare sul sentimento
patriottico degli italiani per insinuare disegni ben più vasti di politica
internazionale.
POLITICA ESTERA
2 - Belgrado: la via jugoslava al neocapitalismo
Il caso Mihajlov, giunto alla sua
conclusione con la condanna dello scrittore, nacque nel clima susseguente alla
destituzione di Rankovic e di Stefanovic -rispettivamente vice presidente della
Repubblica Jugoslava e Capo della polizia politica (UDBA)- e all'epurazione dei
dogmatici nei vari rami della pubblica amministrazione e del partito.
Mihajlov valutò esattamente la portata delle innovazioni, al contrario di quanto
sostiene la stampa di destra impegnata a mostrare ancora presente nel regime
jugoslavo la carica stalinista che tanto impressiona una certa opinione
pubblica.
Da questo deriva il sostegno di tale stampa alle posizioni di Mihajlov, il quale
è peraltro un perfetto democratico di sinistra di pura marca radicale. Il suo
errore è stato quello di non considerare la cosiddetta «vischiosità» del regime
titino, regime che gettate alle ortiche le posizioni ideologiche e postosi sul
piano dell'empirismo economicistico, vuole però condurre esso stesso
l'operazione intesa a liquidare ogni struttura statalistica e ad avviare la
nazione verso le mete della socialdemocrazia, all'interno, e dell'occidentalismo
all'esterno.
Le modificazioni si devono fare nel suo ambito, non con critiche ed iniziative
autonome, suscettibili di corrodere le posizioni di potere della classe
dirigente.
La clemenza della condanna conferma che essa non vuole essere altro che
un'azione disciplinare diretta a frenare velleitarismi personali ed a conservare
al regime il pieno controllo della situazione interna jugoslava, senza
pregiudicare il raggiungimento di quegli obiettivi che Tito e i suoi nuovi amici
si sono prefissi e che trasparirono in occasione del caso Rankovic.
Allora, fin dal primo momento gli osservatori politici, anche i meno accorti,
compresero che le ragioni vere dell'allontanamento di Rankovic non potevano
essere quelle contenute nelle accuse rivoltegli al quarto plenum del CC della
Lega dei Comunisti Jugoslavi; di avere cioè tentato l'ascesa al potere ai danni
di Tito servendosi della polizia segreta.
Non che l'accusa di controllare la polizia e, attraverso questa, indirettamente,
l'intera amministrazione statale, non avesse fondamento. Ne è prova la rimozione
degli uomini a lui devoti dai posti chiave del Ministero degli interni e di
quello degli esteri.
Ma che attraverso questi mezzi Rankovic mirasse a impadronirsi del potere appare
per lo meno un'ipotesi superficiale, se si pensa alla popolarità che circonda il
Maresciallo ed al fatto che Rankovic era chiamato di sicuro a raccoglierne la
successione.
Se Tito si è indotto a liberarsi del suo antico compagno di lotta inferendo un
duro colpo al prestigio del partito e del regime di fronte al suo stesso popolo
ed all'opinione pubblica internazionale, bisogna pensare che la posta in gioco
fosse, d'importanza vitale e che la tensione interna fosse giunta a tal punto da
non poter più essere sostenuta senza mettere in pericolo l'intero indirizzo
politico che il Maresciallo intende dare al Paese per l'avvenire.
Le riforme economiche del 1965 hanno segnato una svolta decisiva nel processo
revisionistico del socialismo jugoslavo. Il decentramento amministrativo e
bancario, l'introduzione dei princìpi liberistici nella gestione delle aziende,
il conseguente adattamento dei prezzi alle regole della domanda e della offerta,
la liquidazione delle industrie «protette» incapaci di adeguarsi alle leggi del
profitto ed il ritiro alle cooperative agricole delle sovvenzioni statali (che
rappresentavano i 4/5 del loro reddito): tutto ciò ha significato l'abbandono
dei postulati teorici su cui si fondava il collettivismo socialista ed ha
significato altresì un decadimento dell'impostazione politica dei problemi a
favore di una impostazione nettamente economicistica è tecnocratica.
La grave crisi che è seguita alla riforma economica -con la svalutazione del
dinaro (da 750 a 1.250 unità per un dollaro), l'aumento del costo della vita, il
sostanziale blocco dei salari, la crescente disoccupazione, il disagio delle
regioni economicamente più depresse, dove non sono mancati scioperi e disordini,
spesso conclusisi in modo sanguinoso per il pesante intervento della forza
pubblica invitata a sedarli e a circoscriverli- potrà anche trovare una
soluzione prima che si concluda li piano quinquennale 1966-70.
A questo proposito gli attuali dirigenti, e primo fra essi il direttore della
Narodna Banka, Nicola Milianic, prevedono un protrarsi della crisi fino al 1967,
anno in cui dovrebbe avere inizio la fase ascendente della parabola che dovrebbe
condurre ad un aumento dello standard di vita, rispetto al 1965, compreso fra
l'8,5 per cento e il 9,5 per cento.
Ma al termine di questo processo gli indirizzi statalisti della Jugoslavia
saranno cancellati, relegati nelle vetrine dei musei accanto ai cimeli dei
vecchi re e dei visir turchi. La nuova cultura ufficiale li considererà niente
di più che una fase del processo di edificazione di una società «progredita»,
senza fideismi e senza miti. Su questa strada sembra decisamente avviato il
Maresciallo Tito. La riforma del sistema bancario appena introdotta, consentirà
da ora in poi al capitale privato di determinare le proprie scelte in campo
finanziario indipendentemente dalle direttive degli organismi politici e della
stessa Banca Nazionale. Per fondare una banca sarà sufficiente la collaborazione
finanziaria di almeno 25 ditte commerciali, che dovranno assumersi in proprio il
rischio della gestione senza sperare nell'aiuto dello Stato. Un altro recente
provvedimento di notevole importanza riguarda la disponibilità, da parte delle
imprese private, delle divise estere ottenute attraverso l'esportazione, senza
più doverne rendere conto agli organi statali.
È evidente Io scopo di queste misure: inserire la Jugoslavia nel circuito
finanziario mondiale, cioè nel grande gioco del neocapitalismo internazionale.
Una politica del genere incontra tutto il favore degli strati borghesi della
popolazione, soprattutto dei commercianti dei tecnocrati.
Nel nuovo clima liberista la borghesia slovena e croata si trova nettamente
avvantaggiata per la maggiore solidità della struttura industriale delle due
repubbliche settentrionali -che consente loro di superare la crisi a tutto
scapito delle regioni più arretrate, come la Macedonia, il Montenegro e la
stessa Serbia- nonché per la contiguità geografica con i Paesi dell'Europa
occidentale.
Era a questo nuovo corso che Rankovic resisteva, difendendo, con la sua rigida
coscienza accentratrice di serbo, la funzione del partito unico come guida
ideologica e politica del Paese, da cui dovevano discendere tutte le scelte sul
piano economico e sociale.
Tito ha dovuto esautorarlo pubblicamente, accusandolo di metodi staliniani, per
averne ragione.
Si ingannerebbe, tuttavia, chi volesse vedere nelle iniziative jugoslave un
fenomeno analogo a quello della emancipazione romena da Mosca ed al suo
avvicinamento all'Europa.
Il filo occidentalismo di Belgrado, ispirandosi a istanze più economiche che
politiche, si inserisce perfettamente nel quadro della politica americana
diretta ad un incremento dei redditi e dei consumi nei Paesi in via di sviluppo
e ad una sua conseguente penetrazione economica nei Paesi stessi, una volta
acquisiti -come avverrà inevitabilmente per la Jugoslavia con il nuovo regime
finanziario- all'area del dollaro. Le tendenze centrifughe degli sloveni e dei
croati e le rinnovate rivalità tra gruppi etnici indicano tra l'altro come
manchi all'attuale clima politico jugoslavo quell'affermazione di dignità e di
autonomia nazionale che sono caratteristiche della politica romena, la quale ben
può dirsi «europea», in quanto tende, attraverso l'entente con la Francia, a
ridurre in Europa il peso delle influenze russa ed americana. Ed è sintomatico a
questo riguardo come Bucarest accompagni ad una politica estera di disimpegno
dal blocco sovietico una politica interna rigidamente autoritaria sul piano
economico, quasi ad affermare la volontà dello Stato di controllare la vita
economica del Paese salvaguardandola da ogni occulta ingerenza straniera.
Ben diverso è il quadro offerto da Belgrado, la cui politica estera sembra
ispirarsi, sempre più, nel solito quadro dell'indirizzo terzaforzista, agli
interessi americani, ed in particolare dei gruppi radicali. A nessuno è sfuggito
il fatto che il primo ministro indiano Indira Gandhi, prima di formulare il suo
invito a Mosca per la convocazione della conferenza di Ginevra sul Vietnam,
abbia avuto contatti a Brioni con il Presidente jugoslavo, conclusisi in
perfetto accordo. Ora la richiesta di convocare la conferenza di Ginevra per
risolvere la crisi vietnamita costituisce uno dei tanti lanci propagandistici di
Washington, cui Johnson si induce su pressione della sinistra radicale.
Come non collegare allora la politica economica di Tito, osannante alla libertà
di mercato, alla sua politica estera fiancheggiatrice degli indirizzi americani?
Si può avanzare a questo punto l'ipotesi che anche in tema di politica
internazionale Rankovic non condividesse più -alla luce della nuova situazione
europea delineatasi negli ultimi mesi- l'atteggiamento del Maresciallo ed
esigesse un superamento di quella politica del «terzo mondo», in auge all'epoca
della conferenza di Bandung, cui il vecchio capo jugoslavo è ostinatamente
affezionato, a dispetto dei tempi e degli uomini che ne furono protagonisti e
che, se non sono scomparsi dalle scene, l'hanno da tempo abbandonata.
GLI UOMINI E I GIORNI
*Di nuovo con la distensione
Con la ripresa dei lavori all'ONU, in un'atmosfera accortamente preparata dalla
minaccia di dimissioni di U Thant e dal noto messaggio pontificio, si sono
prospettate possibilità di ripresa della distensione, anche questa volta a danno
della Cina e dell'Europa. Infatti si intenderebbe rimuovere l'ostacolo
costituito dalla guerra del Vietnam facendo ricadere tutto il peso di un accordo
sulla Germania. Il complesso «mercanteggiamento» come ammette anche "il Corriere
della Sera" del 24 settembre 1966 consiste in questo: «se l'America abbandona in
modo definitivo il progetto di associare Bonn ai programmi di difesa atomica
della NATO, l'URSS potrebbe non solo concludere il trattato di pace contro la
proliferazione atomica ma altresì esaminare le prospettive di un negoziato per
il Vietnam».
* Spagna - Franco prepara la consegna definitiva ai moderati, clericali e
borghesi dell'Opus Dei
Nella scorsa estate un'ulteriore spinta verso l'indirizzo moderato si è avuta
con alcuni provvedimenti intesi a colpire le correnti di reale alternativa al
franchismo e all'Opus Dei. In particolare la direzione provinciale del Movimento
ha deciso la chiusura del circolo "José Antonio" di Madrid, sede della corrente
più estremista della Falange. Il consiglio nazionale dei circoli "José Antonio"
aveva infatti approvato una dichiarazione che attaccava duramente la politica
del governo, accusandolo di essere al servizio «dei gruppi di pressione
capitalista». La dichiarazione negava l'obbligo di obbedire alla gerarchia del
Movimento (di indirizzo paragovernativo), in quanto essa «aveva accettato
l'abbandono della sovranità dello Stato nelle mani di una Chiesa senza vertebre;
la politica neocapitalistica e tecnocratica dell'Opus Dei; le manovre di una
oligarchia politico-religiosa senza più contenuti ideologici; il pericolo dei
giochi bellici degli Stati Uniti e la complicità nella quale la Spagna si trova
a poco a poco implicata».
* La Romania prosegue su ogni piano nello sganciamento dal legame imposto a
Yalta
Dopo che la conferenza di Bucarest ha imposto il contenimento del processo di «de-russificazione»
in atto in Romania a livello politico ed economico, si è trasferito lo stesso
indirizzo sul piano ideologico e di costume. Un significativo episodio si è
avuto nell'anniversario della festa nazionale allorché le forze armate sono
sfilate non più col fregio della stella rossa copiata dal modello sovietico sui
berretti, ma con un nuovo simbolo (uno scudo circondato da due foglie d'alloro).
* Convegno distensionista e radicale a Firenze fra i paesi dell'area russa ed
americana
Si è tenuto a Firenze, nel mese di settembre, un convegno di economisti promosso
dal CESES, avente per tema: «Il sistema dei prezzi nell'Est europeo».
Partecipavano delegazioni di tutti i Paesi interessati: URSS, Polonia,
Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Jugoslavia e Bulgaria. Il tema trattato nel
convegno già indica nella sua formulazione l'intento degli organizzatori. Le
basi per una ripresa della distensione sono infatti secondo autorevoli gruppi
radicali legate ad un mutamento sostanziale dell'economia dei Paesi dell'Est.
Non è un mistero che furono gli economisti polacchi di formazione radicale a
puntare le carte, per l'introduzione della loro dottrina nei Paesi dell'area
sovietica, su sostanziali modificazioni della struttura economica in senso
tecnocratico e neocapitalista. Il significato del convegno può essere riassunto
in quel passo del messaggio inviato dal ministro Pieraccini in cui si sostiene
che è stato superato il momento della «incomunicabilità». Le relazioni dei
convegnisti sono risultate concordi nel sostenere che il cosiddetto campo
socialista si avvia fatalmente in economia alla formazione di prezzi sempre più
vicini al livello di impresa. Reinserimento del profitto, del valore, del
mercato, del salario, questo è stato l'oggetto di «dotte e illuminanti»
conferenze. Va notato con rammarico che gli ungheresi sono stati all'avanguardia
nel convegno: segno certo che l'orientamento prevalente ormai nel Paese, dopo il
fallimento della rivoluzione nel '56, è quello di spostare l'iniziativa di
sganciamento dall'Unione Sovietica dal campo politico e quindi europeista a
quello economicistico e quindi radicale e filo-occidentale.
CINEMA
3 - "America Paese di Dio", di Sansone e Chroscki
Che cos'è l'America? Qual'è il volto, lo
stile, la più intima essenza del cosiddetto Stato guida dell'Occidente; quali i
«miti» che vorrebbe imporre al mondo? Quale sarebbe in definitiva il destino
degli occidentalisti, se questa volontà dovesse prevalere?
"America Paese di Dio" è una risposta da sinistra a questi interrogativi, una
risposta limitata e carente, proprio per l'impostazione sostanzialmente
progressista dei registi.
La diagnosi risulta in conclusione nebulosa, conformista, inconcludente.
Il film è la descrizione di una società attraverso i suoi miti ufficiali, un
caleidoscopio ricchissimo d'immagini, rapide e sconcertanti, che ci dà degli USA
un quadro tuttavia solo a tratti criticamente valido, stante gli intenti degli
autori, Che restano ancorati alle loro ideologie di sinistra, intrise di
generico umanitarismo ed egualitarismo.
È la presentazione di una medaglia e del suo rovescio: ricchezza e povertà,
organizzazione di massa ed individualismo, pragmatica sicurezza di sé e
tormentosa incertezza, materialismo spinto alle estreme conseguenze ed ansiosa
ricerca di divinità.
Un mondo in crisi, i cui «valori», costituenti il fondamento della sua
presuntuosa. «certezza», sono ormai non solo discussi, ma ostentatamente
disprezzati, da angoli visuali spesso diversi ed anche contraddittori, con
atteggiamenti vari, consci od inconsci, ma comunque respinti.
Qual'è il mito dell'americanismo; è la fede dogmatica nel concreto,
nell'empirico, nel pragmatico, nel successo, nel guadagno, nel progresso
materiale, nell'organizzazione di massa.
Su ciò si fonda il costume americano, quel costume che quel «popolo eletto da
Dio» vorrebbe, messianicamente, esportare nel mondo, quale componente-base di
una nuova civiltà.
È questo il «motore», la «religione» dell'America. Ma funziona? Le immagini del
film ci dicono di no, e proprio nel momento dei suoi più esaltanti successi.
Il film inizia appunto a Cap Kennedy, da dove gli «spaceman», i pionieri dello
spazio, simbolo autentico della civiltà della meccanizzazione, si apprestano a
diffondere il «verbo» nell'universo. Ma avranno qualcosa da dire? Vediamo le
allucinanti città a prova di bacillo, dove tutto è previsto, tutto è calcolato
e... assolutamente igienico; i «Residence Center» del deserto -aria
condizionata, piscine ed aereo per recarsi in ufficio- le fantasmagoriche ville
holliwoodiane; le poderose industrie in cui macchine guidano altre macchine; i
battelli per pescare seduti comodamente in poltrona, cullati dal ritmo dei «juke
box», con accanto un salsicciotto fumante e l'immancabile coca-cola; i
surrealisti «solari» dove ci si può «rosolare» con sistemi assolutamente
scientifici; gli scintillanti templi del consumo: i supermarket, dove comprare è
quasi un atto di fede, e così una dopo l'altra, ci passano davanti agli occhi le
«realizzazioni» della Civiltà del Benessere.
Produrre, produrre, produrre e poi consumare, consumare, consumare e poi ancora
produrre, per raggiungere così appunto, il «Benessere», cioè la loro civiltà.
Eppure anche questo meccanismo presenta nel suo stesso ordine, considerevoli
scompensi.
Sulle strade che portano nell'Appalacchia, la zona più depressa degli Stati
Uniti, abitata da 15 milioni di bianchi reietti, cartelli ammoniscono severi,
facendosi largo tra le insegne pubblicitarie: «Segui la via di Dio»; per coloro
che quella via non hanno saputo seguire non vi è ricchezza, per gli «sconfitti,
che non hanno saputo meritare il segno tangibile della grazia di Dio» c'è la
miseria, a loro spetta soltanto di abitare negli squallidi «slooms» del
sottoproletariato, di nutrirsi alla meglio nelle mense popolari. E ciò è giusto,
perché essi sono «le pecorelle smarrite nei bassifondi del peccato».
«La vergogna di essere poveri è marchio di colpa e di condanna per 50 milioni di
americani non baciati dal sole del successo»; o si è qualcuno o si è meno di
nulla!
Per chi il successo l'ha avuto, uomini o cose, ma che non riesce più a tenere il
ritmo, c'è pure un amaro destino: cimiteri di ferraglie per le macchine, e città
per i pensionati, razionali, confortevoli, umanitarie perché la morale sia
salva: «uomini e macchine buttati in pasto alla ruggine e all'isolamento, perchè
la società non sa come utilizzarli». Ed anche questo è giusto.
«La macchina degli interessi economici segue la sua logica senza curarsi degli
uomini».
La ribellione assume forme diversissime, attive o passive, consapevoli o meno,
revisioniste o nichiliste, tutte però limitate ad aspetti isolati, personali,
individualistici, non politici.
Il caleidoscopio delle immagini ci mostra così la furia devastatrice degli
«angeli dell'inferno» che, a cavallo delle loro rombanti moto, si avventano con
impeto selvaggio contro tutto ciò che è rispettabile, contro tutto ciò che
rappresenta l'americano medio, contro ogni manifestazione della civiltà del
benessere, ... la gioventù «beat» che colpisce, sia pure in maniera più blanda,
gli stessi bersagli, ... lo schivarsi sdegnoso degli ultimi anabattisti, ... i
«Testimoni di Geova» che, organizzandosi ricadono nell'ingranaggio, ... i negri
con le loro sette, le organizzazioni paramilitari, il ritorno ai riti
ancestrali, le violenze incontrollate, ... i fanatici che seguono istericamente
le concioni di predicatori improvvisati, ... i pallidi intellettuali di Berkeley
e Harward che cercano di sfuggire al livellamento cercando una più ampia
uguaglianza, ... ed ancora ... agitati mentali che cercano un rifugio nella
spiritualità dei culti dell'oriente, ... irrequieti che trovano la via verso lo
spirito negli allucinogeni, ... ed ancora altri che, più semplicemente, errano
nomadi alla ricerca di una felicità che non possono trovare.
È una protesta vasta, che serpeggia contorta in vari strati sociali, che assume,
come si è detto, le forme più diverse e contraddittorie, che hanno però in
comune la condanna sia pure monca e disarticolata di una società sostanzialmente
collettivista, massificata, priva di valori superiori.
Una società strutturata all'insegna dei comfort, che ha creduto di poter
sostituire Dio con un televisore od un frigorifero, veri e propri totem del
«Paese di Dio» dove l'uomo, orgoglioso dei suoi strepitosi successi, ormai privo
del rapporto con il divino, si riduce ad un buffo pupazzo mosso da fili e
sostenuto e gonfiato dall'aria della sua presunzione.
Come abbiamo già detto, il film, con la forza delle sue immagini e con le stesse
spontanee contraddizioni del commento, è andato talora oltre le intenzioni degli
autori, che la loro tesi, in linea con la loro estrazione. radicale è diversa:
per essi la società americana è si da condannare nella sua forma presente, ma,
in quanto affetta da un processo in fondo soltanto superficialmente degenerativo
ed involutivo, è pur sempre e facilmente emendabile, purché ritorni alle sue
vere origini: una maggiore «partecipatory democracy» (democrazia di
partecipazione), un pizzico di integrazionismi in più, una più equa
redistribuzione dei redditi, ed ecco gli ingredienti necessari e sufficienti per
rimettere le cose a posto e ... ridare così nuovamente alla loro cara America il
faro della civiltà e del vero progresso. Sotto questo profilo si spiega la
condanna del razzismo proposta dai registi, come d'altra parte risulta chiara la
debolezza della loro denuncia, contenuta nei limiti delle dottrine radicali,
È evidente che questa posizione degli autori del film deve essere respinta, in
quanto il punto attuale a cui è giunto l'americanismo è il frutto proprio di
quelle premesse che essi vorrebbero estese nella forma più ampia. La mentalità
come la struttura economica americana, è basata sul consumatismo, che è
derivazione diretta del fondamentale principio democratico calvinista secondo
cui il guadagno è l'unico segno tangibile della grazia di Dio. L'«ascesi
capitalista» ha questo marchio e i suoi frutti lo mantengono inalterato.
SAGGISTICA
4 - Spagna trent'anni dopo: dalla Falange all'Opus Dei
Nella primavera del 1937 la Spagna era
spaccata in due, dai Pirenei alla Sierra Nevada. La linea del fronte
attraversava la valle dell'Ebro e i monti di Temei; tagliava poi la Castiglia
Nuova e l'Andalusia fino al mare: a nord ovest i nazionalisti, a sud-est e lungo
la costa cantabrica i repubblicani.
Dopo la difesa di Madrid e l'insuccesso dell'offensiva nazionalista su
Guadalajara, il conflitto aveva assunto chiaramente i caratteri di una lunga
guerra di logoramento. Ciò imponeva, e al tempo stesso agevolava, estremizzando
i contrasti, il consolidamento politico all'interno dei due campi avversari. La
primavera del 1937 fu a questo riguardo decisiva.
Le discordie in campo repubblicano si conclusero con la conquista dell'egemonia
da parte dei comunisti. Non meno drammatici furono gli avvenimenti che divisero
il campo nazionalista. Il primo elemento di forza su cui avevano fatto leva i
generali rivoltosi fu l'esercito. La debolezza dei governi che avevano guidato
il Paese dall'inizio del secolo XIX avevano trasformato l'esercito in un fattore
determinante della vita civile spagnola. Il pronunciamento militare era così
diventato una carta abituale nel gioco politico.
* L'esercito e la massoneria
La forza dell'esercito consisteva, nel 1936 come nel passato, nei valori
tradizionali del soldato spagnolo, che fondevano i quadri e la truppa in unità
compatte, fedeli e di elevata capacità combattiva. Ciò non impedì talvolta ai
militari di porre questa forza, rappresentata dalla fedeltà ai valori
tradizionali, ali servizio di partiti o di concezioni con cui essi non avrebbero
dovuto avere nulla in comune. Già nel 1934 essi avevano finito per appoggiare i
liberali contro i monarchici carlisti. Non bisogna dimenticare che anche in
Spagna, come altrove in Europa, la prima metà del secolo scorso fu l'epoca d'oro
della massoneria, la cui influenza si faceva sentire anche negli alti comandi
militari.
Uomini d'ordine, l'errore tipico che i militari compiono sul terreno politico è
quello di ritenere che qualsiasi ordine meriti di essere difeso, senza curarsi
di ciò che sta dietro ad esso e delle implicazioni politiche ed ideologiche del
regime che essi contribuiscono ad instaurare. Quando si inducono a ribellarsi al
potere legittimo è solo perchè questo si è dimostrato impotente ad assicurare
l'ordine e la legalità. È questo il limite che porta così spesso i militari ad
allinearsi sulle stesse posizioni della borghesia conservatrice.
* Francisco Franco, borghese conservatore
Il modo in cui Franco riuscì ad imporsi agli altri capi militari nei primi mesi
della guerra civile, senza che alcuno lo avesse investito di questa autorità,
indica la straordinaria abilità di questo giovane generale, accorto, paziente,
deciso.
Privo di autentiche qualità geniali, sia sul piano militare che su quello
politico, Francisco Franco aveva la rara dote di saper attendere e di saper
afferrare il momento propizio senza mai porre avventure. Egli sapeva fare in
modo che gli eventi maturassero creando condizioni favorevoli alle sue capacità
personali di capo ed evitando invece quelle situazioni che era ben conscio di
non saper dominare. Buon tattico, ma mediocre stratega, evitò che le campagne si
risolvessero in scontri decisivi, preferendo frantumare la lotta in battaglie
isolate che non impegnavano a fondo le sue forze e che, del resto, si guardava
bene dal dirigere personalmente.
Più volte Hitler e Mussolini gli rimproverarono di menar le cose troppo per le
lunghe, affermando che con gli aiuti che essi gli avevano inviato avrebbe potuto
concludere la guerra in pochi mesi. Ma Franco preferiva logorare l'avversario di
cui conosceva l'intrinseca debolezza, ed esaurirne nelle estenuanti battaglie
sui fronti aragonesi il potenziale bellico di cui esso disponeva grazie agli
aiuti militari stranieri.
Ma un'altra considerazione, oltre a quella di risparmiare i suoi reparti (a
differenza dei repubblicani, i nazionalisti non erano ricorsi alla coscrizione
obbligatoria), deve aver ispirato la tattica temporeggiatrice di Francisco
Franco: la consapevolezza che il prolungamento della guerra rafforzava la sua
posizione di «generalissimo» delle armate nazionaliste e gli dava modo di
indebolire le opposizione interne.
Ogni settimana che passava aumentava il prestigio del «Caudillo» e la sua sfera
di potere, mentre riduceva lo spazio degli organismi rivali. Se la guerra si
fosse conclusa troppo rapidamente, egli si sarebbe trovato di fronte ai suoi
colleghi su un piede di quasi parità ed avrebbe avuto a che fare con due
organizzazioni; i Requetés e la Falange, nel pieno del loro vigore.
L'obiettivo di Franco nel primo anno di guerra fu quello di liquidare questi due
movimenti, privandoli della loro carica rivoluzionaria e trasformandoli in
docili e innocui strumenti del suo regime. Intanto l'importante era vincere, e a
tal fine era doppiamente vantaggioso tenere subito saldamente in pugno tutte le
forze del campo nazionalista.
* Franco liquida i carlisti
Nell'inverno 1936-37 i carlisti commisero un errore fatale, offrendo a Franco
l'occasione per colpirli. Per colmare i vuoti aperti nelle file dei Requetés
dagli ufficiali caduti in combattimento, i carlisti decisero di istituire
un'accademia militare. Ma non informarono il Caudillo del loro progetto. Fai
Conde, capo e organizzatore del partito, ricevette l'ordine di lasciare la
Spagna entro quarantotto ore sotto l'accusa di aver tentato un colpo di stato.
Franco avrebbe voluto farlo fucilare, ma ebbe timore delle ripercussioni sul
morale dei 30.000 Requetés impegnati sul fronte. I carlisti dovettero obbedire e
fu un colpo dal quale non si ripresero più.
Più difficile si presentava il problema della Falange. Essa era scesa nella
lotta con un programma preciso, cui intendeva restare fedele. Quando, durante la
campagna elettorale che precedette la consultazione del febbraio 1936, si
prospettò la possibilità di una adesione della Falange al Fronte Nazionale, che
raggruppava la destra, dai monarchici ai cattolici di Gil Robles, José Antonio
de Rivera, il giovane capo della Falange, condizionò l'alleanza all'accoglimento
di due precise richieste:
1) una riforma del credito, comprendente la nazionalizzazione delle banche;
2) una riforma agraria da attuarsi in senso rivoluzionario, lasciando in seconda
linea la questione dei risarcimenti.
Queste tesi -com'era naturale- non trovarono alcun consenso e la Falange si
presentò sola alle elezioni, patetico Don Chisciotte fra i due grandi blocchi.
La forza elettorale dei falangisti era inconsistente e le destre non avevano
alcun bisogno dei loro voti. Ebbero però bisogno, sei mesi dopo, dei 60.000
volontari da schierare sui campi di battaglia.
* La posizione politica della Falange
La Falange aveva anche rifiutato di prender parte alla cospirazione dei
militari. Dal 14 marzo del 1936 la maggior parte dei suoi capi erano rinchiusi
nelle prigioni repubblicane, gli altri comunicavano tra loro clandestinamente.
Il 24 giugno, José Antonio dal carcere di Alicante riuscì ad inviare una
circolare clandestina ai dirigenti locali in cui raccomandava di non aderire
agli inviti di collaborazione rivolti loro dai militari e di non lasciarsi
strumentalizzare per fini che non erano quelli del Movimento.
Se la Falange -ammoniva- partecipasse ad una impresa incompleta e prematura, in
veste di comparsa o di semplice truppa ausiliaria, ne deriverebbe, anche in caso
di trionfo, la sua sconfitta e la sua estinzione. La Falange -continuava- voleva
la creazione di uno Stato nazional-sindacalista in conformità con i 27 punti del
suo programma e non «la restaurazione di una mediocrità borghese conservatrice»,
per la quale ora si voleva sfruttare il suo intervento. Per i conservatori le
formazioni falangiste non sarebbero state altro che una specie di forza
d'assalto, una milizia giovanile da far sfilare il giorno della vittoria davanti
ai «fantasmones» impadronitisi del potere.
Se questa era la netta posizione assunta da José Antonio, non ci si può stupire
che in seguito, in occasione di uno scambio di prigionieri, ci fosse in campo
nazionalista chi si oppose a inserire nella lista il suo nome.
Ma le severe disposizioni impartite da José Antonio de Rivera si mostrarono
inapplicabili di fronte all'incalzare degli avvenimenti. Davanti al sangue che
scorreva per le strade, i dirigenti locali, isolati gli uni dagli altri e
separati dalla direzione centrale, si lasciarono prendere la mano dalle esigenze
dell'azione: scesero in campo rinunciando a condizionare il loro appoggio a
garanzie precise o credendo che queste fossero già state concordate al vertice
dell'organizzazione. A nulla servì quanto sancito con tanta decisione nel punto
27: «Sarà nostro ardente impegno di sostenere la lotta per la vittoria solamente
con le forze sottoposte alla nostra disciplina. Non scenderemo a patteggiamenti;
solamente nella fase conclusiva per la conquista dello Stato, la direzione farà
trattative per una necessaria collaborazione. Ma in questa dovrà essere sempre
assicurato il nostro predominio».
Gimenez Caballero, il teorico falangista, aveva detto qualche anno prima che in
José Antonio si raccoglievano quasi tutte le possibilità di vittoria. Il suo
augurio di amico era che egli ne sapesse fare uso con successo.
José Antonio fu fucilato nel carcere di Alicante il 20 novembre 1936. I
repubblicani avevano liberato Franco del rivale più pericoloso.
Gli successe come capo provvisorio della Falange Manuel Hedilla, un meccanico di
Santander. La sua posizione era fra le più difficili. In pochi mesi il Movimento
aveva decuplicato i suoi effettivi. Se ciò aumentava il suo contributo sul piano
militare, determinava anche uno stemperamento ideologico fra le file dei nuovi
iscritti ed un conseguente indebolimento politico di tutto l'organismo,
aggravato dalla perdita dei quadri dirigenti, caduti in combattimento,
imprigionati, giustiziati.
* Franco contro la Falange
In questo quadro si muove la manovra politica di Franco. La capacità dei
comandanti e l'eroismo dei soldati non bastavano da soli, occorreva dare al
fronte nazionale un contenuto ideologico, un programma per la direzione del
futuro Stato. Consigliato dal cognato, Serrano Sufier, ex-dirigente della CEDA
ed ora ardente «camicia nuova», Franco fece suoi molti dei 27 punti del
manifesto della Falange, ponendo accuratamente in ombra tutto ciò che potesse
suonare allarme alle classi conservatrici (nazionalizzazione del credito e delle
aziende di interesse pubblico, eliminazione dei grandi monopoli industriali,
riforma fondiaria, ecc.).
Con il decreto di unificazione, emesso a Salamanca il 19 aprile 1937, la Falange
e i Requetés venivano riuniti in una sola unità politica, che assumeva il nome
alquanto eclettico di «Falange Espanda Tradicionalista y de la JONS» (le antiche
squadra di offensiva nazional-sindacalista fondate da Ledesma Ramos e da Onésimo
Redondo). Per non lasciar fuori nessuno, venivano fatti confluire nel nuovo
partito unico anche i volontari cattolici e repubblicani di destra provenienti
dalla Renovaciòn Espanola e dalla Acciòn Popular. Di li a qualche mese i ranghi
vennero ulteriormente allargati, facendovi entrare d'ufficio i funzionari
governativi e gli ufficiali delle forze armate. Il decreto di Salamanca
significava per Franco assicurarsi non solo il controllo ideologico e politico
di tutte le forze del fronte nazionale, ma significava soprattutto la
neutralizzazione della vecchia Falange, privata di ogni dinamica interiore. Nei
mesi successivi Franco consoliderà il suo trionfo, fino alla formazione del
primo gabinetto nel gennaio 1938. Nel nuovo governo le «camicie vecchie» avranno
un solo esponente, Fernandez Cuesta, ministro dell'agricoltura.
La Falange reagì al decreto di unificazione. Nei giorni che precedettero
immediatamente la sua emanazione, reparti di falangisti si concentrarono intorno
a Salamanca, sede del quartier generale di Franco. Si verificarono disordini, un
falangista rimase ucciso, è da pensare che il Generalissimo, di fronte alla
minaccia, abbia affrettato la pubblicazione del provvedimento per mettere i suoi
avversari dinanzi al fatto compiuto.
La Falange era l'unica in campo nazionalista ad aver compreso il significato
europeo del conflitto spagnolo. Ma i governi di Roma e di Berlino non mossero un
dito per salvarla. Avranno occasione di ricordarsene nel 1940.
All'azione tempestiva di Franco le camicie azzurre non cedettero. Nei giorni
successivi al 19 aprile, Hedilla si presentò al quartier generale per porre a
Franco le condizioni per l'appoggio della Falange al nuovo partito unico. Fu
arrestato e con lui furono arrestati, fra il 24 e il 25 aprile, altri venti
falangisti. Deferiti al Tribunale di guerra, Manuel Hedilla e altri tre
dirigenti del movimento vennero condannati a morte, i rimanenti a pene
detentive. In seguito la pena capitale fu commutata nel carcere a vita. Alcuni
riuscirono a fuggire; furono ricatturati e fucilati.
Nell'ottobre 1936 José Antonio aveva dichiarato a un giornalista inglese del
"News Chronicle", durante un'intervista in cui aveva ricordato il programma
rivoluzionario della Falange: «L'unica cosa che so è che se la rivolta di Franco
dovesse servire unicamente alla reazione, la mia Falange ed io ci ritireremmo e,
per quanto mi riguarda, probabilmente tornerei in questo carcere, o in un altro
nel giro di pochi mesi».
Le sue più tristi previsioni si erano avverate nella persona del suo successore.
Ai superstiti che si riunivano ora nella casa di Pilar Primo de Rivera, sorella
di José Antonio, non restava altro che contare i nomi dei compagni che
continuavano a morire sui fronti nelle armate di Franco.
Nessun partito, né da una parte né dall'altra della trincea, perse nella guerra
civile tanti capi quanti ne perse la vecchia Falange. Si calcola che il 60%
degli iscritti di prima della guerra siano caduti nel conflitto. Il punto 26 del
loro programma diceva: «La vita è milizia; essa deve essere vissuta con un
servizio irreprensibile e con un ardente spirito di sacrificio». Questi uomini
seppero vivere le idee in cui credevano.
«Voglia Iddio che la loro ardente ingenuità non sia mai impiegata in altro
servizio che non sia quello della grande Spagna sognata dalla Falange» (dal
testamento di José Antonio redatto nella prigione di Alicante il 18-11-1936).
LE VOCI DEL SISTEMA
* Florilegio occidentalista
Il centrista
«C'è da fare la considerazione che vi è un momento in cui ciascuno deve
rientrare fra i propri, e i propri, per i russi, non si sa ancora se saranno i
compagni comunisti di Pekino o i popoli occidentali, con i quali intendono
vivere in pacifica convivenza». .
"il Messaggero" del 4 settembre 1966
Il socialdemocratico
«La nazione americana non accetterà mai una sconfitta disonorevole ed il governo
di Hanoi va criticato per l'errata valutazione della posizione americana».
dichiarazioni dell'on. Cattani del PSDI
Il radicale
«Anche se Johnson non fosse succeduto a Kennedy, De Gaulle avrebbe cercato in
tutti i modi di affermare in polemica nei confronti di Washington l'indipendenza
della Francia e di mettere in tal modo in pericolo l'unità dell'Occidente».
"l'Espresso" del 4 settembre 1966
Il missino
«Bisogna contribuire a riannodare i legami della solidarietà europea, concependo
l'Europa occidentale come legata per necessità di vita al grande continente
americano».
dal documento politico della DN del MSI 8 luglio 1966
Il comunista
«Ci riteniamo in fin dei conti maggiormente tutelati dal Patto Atlantico che
dalla politica nazionalistica europea promossa da De Gaulle».
dichiarazioni del ministro della difesa polacco in occasione della riunione dei
Paesi del Patto di Varsavia a Bucarest.
* La vera sostanza dell'occidentalismo
«La NATO fu costituita per "contenere" la
Russia, ma anche per "contenere" la Germania».
Ricciardetto su "Epoca" del 25-9-66
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