ATTUALITÀ
1 - Germania: l'affermazione
dell'antioccidentalista N.P.D.
Il NPD (vedi n. 5 di "Corrispondenza Repubblicana") ha colto in occasione delle
recenti elezioni nell'Assia una notevole affermazione, essendo passato dal 2% al
9% dei voti e avendo così conquistato il diritto ad essere rappresentato nella
Dieta regionale di Wiesbaden, diritto che la democrazia tedesca non riconosce ai
gruppi politici che non raggiungono il 5% dei voti.
A questa affermazione il NPD è giunto attraverso due vie: una strutturazione
organizzativa seria, moderna ed efficiente; una posizione politica duramente ed
aprioristicamente antioccidentalista.
Sono le stesse vie attraverso le quali il NPD si è staccato dall'infinito numero
di gruppettini che in Germania, come in Italia, infestano un certo settore
politico.
Queste vie sono state imboccate dal NPD dopo che i suoi dirigenti avevano
rifiutato il discorso d'inserimento nel sistema e le posizioni ad esso connesse
(reducismo, frontismo di destra, patriottismo generico, moderatismo,
testimonianza teologica, intellettualismo), quando cioè essi avevano ripreso
l'idea vitale dell'iniziativa politica.
L'isolamento che altri avrebbero temuto è stato da essi inteso come il giusto
prezzo per partire su una base di autonomia ideologica, dottrinaria e politica.
Da qui la spinta all'elaborazione di una propria tematica politica non poggiante
sulle solite generiche stampelle della destra e da qui ancora l'esigenza di una
vera preparazione di quadri. Pochi sanno che questo giovane partito (appena 2
anni di vita) fa parlare sulle piazze tedesche nello stesso giorno oltre
cinquanta oratori.
Molti hanno sottovalutato, tra i fattori del successo elettorale, la lunga serie
di tesi antioccidentaliste: critica della bipartizione mondiale tra USA e URSS
operata a Yalta; apprezzamento per chi, come De Gaulle, non intende sottostarvi;
rifiuto della rappresentanza degli interessi tedeschi da parte degli USA;
«disposizione a trattative dirette con l'URSS, precedute o seguite dall'uscita
di Bonn dall'Alleanza Atlantica pur di conseguire l'unificazione tedesca» ("Il
Tempo" del 7-11-66).
[…] (1)
Di fronte al pericolo che la polemica interna alla Democrazia Cristiana tedesca
(CDU) si risolvesse in una crescente affermazione delle tesi di Strauss e
soprattutto nel timore che le posizioni filo-americane venissero ad
identificarsi con una corrente del partito, per giunta non sicuramente
maggioritaria, è probabile che gli USA abbiano inteso, buttando a mare Erhard,
di liquidare l'intera CDU, nella prospettiva di consentire l'ascesa al potere
dei socialdemocratici sostenuti dai liberali.
Vi è un precedente in materia: quando Kennedy lanciò la distensione e il
colloquio diretto con l'URSS, in Italia venne favorito dai gruppi di pressione
legati all'ambasciata americana l'avvento del centro-sinistra, concepito come
l'inserimento di una forza totalmente distensionista (i socialisti) nell'area
governativa.
Alcuni fatti sembrano indicarlo chiaramente, soprattutto lo svolgimento e
l'esito dei colloqui Johnson Erhard del 26 settembre. Dopo il caso dei generali
dimissionari, che aveva sensibilizzato l'opinione pubblica sulle stranezze delle
pagatissime forniture militari statunitensi, mentre già era in atto la pressione
USA per fare accettare dalla Germania una nuova suddivisione delle spese per la
difesa, mentre l'esempio degollista riproponeva il problema dell'accesso
all'armamento atomico, il vuoto politico di Erhard veniva brutalmente messo allo
scoperto da Johnson, il quale se non avesse voluto liquidare Erhard avrebbe
certamente trovato un trattamento più diplomatico, magari dilatorio.
Attualmente la CDU ha indicato Kiesinger, sotto l'influsso di Strauss. Ciò ha
determinato l'irrigidimento dei socialdemocratici e dei liberali, i quali
ovviamente per tutte le questioni connesse alla crisi dell'atlantismo e dei
rapporti con gli Stati Uniti perseguono una linea ancora più filoamericana di
Erhard. Questi due partiti hanno una sia pur minima maggioranza parlamentare,
per cui il disegno di Johnson ha molte possibilità di riuscita. Se si riuscisse
ad evitare questa nuova maggioranza, cosa che comunque costerebbe
l'accantonamento della linea Strauss, sarebbe già un miracolo.
2 - Elezioni USA: l'area moderata si ricompone
Appena conosciuti i risultati definitivi delle recenti elezioni il "New York
Times" è uscito con un titolo molto indicativo: «Liberal republicans seen gai…
[…] (2)
… battere il «mito Kennedy», evitando opportunamente di idealizzare,
fraintendendoli, i fini politici di Kennedy) e quindi lo stesso Bob Kennedy che,
del resto, non fa che proporre né più né meno la linea del fratello.
Sembra confermare questa ipotesi il fatto che le elezioni hanno registrato la
sconfitta di molti candidati appoggiati dai Kennedy nella California, Iowa,
Illinois e Oregon.
Si chiarisce quindi l'intento delle dichiarazioni che questi aveva fatto
pubblicare agli inizi di ottobre circa una sua rinunzia alla candidatura
presidenziale per il 1968, intento che era certamente quello di non «bruciarsi»
prima di un'indicazione positiva in queste elezioni.
Johnson non esce sconfitto dalla consultazione, anzi la sua politica ha mostrato
di saper validamente affrontare sia falchi che colombe. Piuttosto, si prospetta
per Johnson un pericolo ancora maggiore, quello del logoramento del partito
democratico, più forte del previsto, che pone in termini ravvicinati l'esigenza
di un ricambio del potere.
Le posizioni personali di Johnson possono essere intaccate più oggi, dai
repubblicani di sinistra, che ieri, da Goldwater e da Bob Kennedy. Nella lotta
contro questi due ultimi, veri poli estremi della politica americana, Johnson
aveva avuto buon gioco a proporsi come il restauratore del moderatismo, battendo
prontamente Goldwater nel '64 e confinando Kennedy in una posizione di
estremista elettoralmente scomoda, come i recenti risultati hanno confermato. La
lotta determinatasi in Italia fra socialdemocratici e radicali nel 1964,
all'interno del campo socialista, e conclusasi con la vittoria di Saragat su
Lombardi è un valido parallelo di quella tra Johnson e Kennedy negli USA.
Riportata la politica americana in termini di amministrazione, Johnson ha ora di
fronte non più avversari e nemici, ma solo concorrenti. Sono questi però, i
Rockfeller, i Lindsay, i Romney, quelli che potranno destituire il padre della
patria moderata.
3 - Argentina: i sindacati scivolano nel governo
La depoliticizzazione dei sindacati argentini prosegue con grande impegno e con
grossi risultati da parte del governo e dei dirigenti collaborazionisti.
Nell'ultimo congresso nazionale della Confederaciòn General del Trabajo (CGT) il
capo della linea favorevole ad appoggiare il generale Ongania, Augusto Vandor, è
riuscito a conquistare il controllo della segreteria, da cui si erano
allontanati i peronisti collegati a Peron, e per questo chiamati «de pie junto a
Peron», guidati da José Alonso. La manovra ideata da Ongania, tesa a tagliare le
gambe dell'opposizione politica al sistema, e condotta dal Ministro
dell'economia Jorge Néstor Salimei è così giunta a risultati altamente
soddisfacenti per i governativi.
Il prezzo che essi pagano per questo acquisto è molto basso: innanzitutto
l'abrogazione, già effettuata, della legge che restringeva la libertà d'azione
dei sindacati. Il costo politico di questa abrogazione è stato minimo per
Ongania, il quale, assicuratosi l'appoggio dei sindacati, non ha più
evidentemente nessun buon motivo per restringerne le libertà. Non da oggi gli
eunuchi vengono posti a guardia dei ginecei!
Nel costo politico potrebbe a maggior ragione rientrare il ritiro dell'adesione
argentina alla costituzione di una forza militare interamericana, sempre
avversata dalla CGT. Va notato peraltro che questo ritiro viene giustificato con
considerazioni di carattere economico e non con un indirizzo politico
anti-yankee e anti-occidentalista. Beninteso, il giorno in cui la collaborazione
dei sindacati sarà bene assicurata Ongania potrà sempre dimostrare che le spese
per la partecipazione alla Forza Interamericana non sono poi tanto elevate e
quindi potrà decidere di chiedere l'accettazione dell'Argentina nell'organismo
ideato dagli USA.
Ancora una volta, oggi in Argentina come ieri in Francia, oggi con i sindacati
come ieri con i militari, si dimostra che ogni iniziativa rivoluzionaria che non
poggia su una strategia, su una tattica, e su un apparato organizzativo politico
quale è un partito, ma che si affida ai tentativi di infiltrazione, è destinata
a rompere il fronte dell'opposizione e a sostenere le forze del sistema. La
linea politica è sempre quella dell'alternativa al sistema, e della
contrapposizione frontale ad esso, la linea dell'infiltrazione è quella della
collaborazione con il sistema, in cambio oltretutto di modeste posizioni di
potere.
4 - Washington: Johnson di fronte alla crisi delle alleanze e dei rapporti
con l'URSS
L'immobilismo politico nel quale è a lungo rimasta la politica di Johnson e la
crisi di prospettive che ha colpito lo schieramento radicale hanno per lungo
tempo caratterizzato la politica americana.
Johnson è sembrato fino a ieri interessato a seguire una linea di empirismo
politico nella quale era preminente il dato militare e nazionalistico. Il fronte
radicale, prima divisosi (Humphrey - Bob Kennedy) è parso puntare poi, a seguito
dei sondaggi d'opinione, e anche con un certo scetticismo, su Kennedy per il
ritorno alla guida politica del Paese.
I fatti più recenti (appello di Johnson alla Russia per la ripresa del colloquio
distensivo - elezioni) hanno permesso di chiarire sia le prospettive di Johnson
sul piano della politica estera, sia l'indirizzo che il fronte radicale sembra,
per taluni segni, intenzionato a intraprendere, al di là dei Kennedy.
La nuova politica di Johnson
Il dato principale della nuova politica johnsoniana è, senza dubbio, quello di
un allargamento dell'orizzonte politico.
Ferma restando l'intenzione di un controllo militare della situazione nel
Vietnam e di un contenimento della Cina, le proposte di Johnson all'Unione
Sovietica hanno il senso di un decisivo, esplicito ritorno, con la ripresa della
distensione, ad un controllo a due della politica mondiale.
La nuova politica appare incentrata nell'idea di una sintesi tra il nazional
progressismo johnsoniano e le tesi radicali sulla distensione e sul controllo
del sud-est asiatico nel quadro di un coordinamento della politica delle nazioni
asiatiche.
L'idea di costituire una base più solida al problema vietnamita viene a Johnson
per due motivi. Il primo è quello stesso dei radicali: il timore cioè che
l'Unione Sovietica possa, alla lunga, subire troppo pesantemente il ricatto
politico cinese e, di fronte ad un inasprirsi della situazione generale
nell'Asia sud orientale, subire completamente il «risucchio» della politica di
Mao. La politica di distensione verso l'Unione Sovietica, man mano che gli Stati
Uniti si troveranno a dover prendere atto del disgregamento dell'«ordine di
Yalta», risulterà sempre più indispensabile ed è sintomatico che questa volta la
distensione venga dall'America e non da un radicale come Kennedy.
L'altro motivo per cui Johnson ha sentito il bisogno di riaprire il colloquio
con i dirigenti di Mosca è senza dubbio dettato dalla grave ripercussione che
stava avendo nel Paese la guerra del Vietnam. Senza la distensione il conflitto
era chiaramente volto, agli occhi dell'elettorato, a mettere in pericolo la
pace; ora, con la copertura della ricerca di un dialogo con l'URSS, anche il
conflitto nel Vietnam assume una luce diversa: esso risulta circoscritto ad una
posizione anticinese, rimanendo con l'Unione Sovietica ampi motivi di pace.
Chi ha subito pesantemente gli effetti del nuovo dialogo è la Germania.
Quando nel 1961 il muro di Berlino dimostrava che la distensione si faceva al di
sopra del problema tedesco, John Kennedy tentò di salvare le apparenze con un
gesto tanto propagandistico quanto studiato («Ich bin ein Berliner...»). Oggi
che la distensione serve ancor più all'America, questa, sul problema tedesco, ha
dovuto gettare finalmente la maschera (rinuncia alla MLF, subordinazione del
problema tedesco alla strategia distensiva, progetto di neutralizzazione della
zona con controllo dell'ONU).
Vorremmo richiamare l'attenzione su una conseguenza, sfuggita a tutti, anche ai
recenti delusi di destra. Questi, momentaneamente schieratasi su posizione
anti-Johnson, hanno detto: «Goldwater non lo avrebbe fatto». È ritornata fuori
la tesi di ripiego degli occidentalisti: l'esistenza di una spaccatura
verticale.
Johnson non è certamente un radicale. La sua politica non ha le caratteristiche
neo-illuministiche del radicalismo, essa è un insieme di nazionalismo,
progressismo ed empirismo. A differenza dei radicali che concepiscono la
distensione in termini ideologici e di sintesi laicista che deve a sua volta
comprendere e risolvere tutti gli altri problemi, Johnson non prescinde da una
posizione nazionalistica e la distensione stessa è vista in termini di
convenienza politica.
In sostanza mentre per Kennedy la distensione era la premessa per una concezione
dell'ordine internazionale, per Johnson è una mossa tattica destinata a
risolvere stabilmente la crisi attuale. Per questi ed altri aspetti Johnson può
meglio essere definito come un socialdemocratico più che un radicale.
Egli, comunque, a detta di molti, ha fatto la politica di Goldwater, nel senso
cioè che, sul piano della politica estera, la sua azione è stata molto «a
destra».
E inoltre, c'è da domandarsi se lo stesso Goldwater avrebbe concesso alla
Germania l'armamento atomico e, di fronte al radicalizzarsi della situazione in
Asia, si sarebbe permesso il lusso di ignorare il discorso distensivo.
L'esperienza di Johnson dimostra i limiti di una politica «di destra» e quindi,
nei riguardi dell'Europa, l'inesistenza di una «buona politica americana» (è
difficile, ed oltretutto senza possibilità attuali, una politica più a destra di
quella di Johnson) e quindi di una spaccatura verticale. E su questo attendiamo
ulteriori conferme (repubblicani di sinistra).
Riguardo invece alle prospettive di successo interno della nuova linea
johnsoniana, esse dipendono dal comportamento della Russia. Per ora è
interessante constatare che proprio sul problema tedesco è stato possibile il
rilancio della distensione.
L'incontro di Manila
La "Dichiarazione per la pace e il progresso nell'Asia e nel Pacifico" e gli
"Obiettivi della pace", documenti conclusivi della conferenza di Manila,
dimostrano la volontà americana di rimanere e di controllare la situazione
asiatica.
A Manila gli Stati Uniti avrebbero voluto gettare le basi per il coordinamento
politico ed economico di tutte le nazioni al di fuori dell'influenza cinese.
Proprio a questo fine la conferenza era stata a lungo preparata e reclamizzata e
invece non è stato che un grosso comizio elettorale. Infatti a Manila si sono
dovute registrare assenze clamorose e la più significativa è senz'altro quella
del Giappone.
Il fallimento della conferenza di Manila mostra, tra l'altro, le difficoltà che
oggi si frappongono alla ripresa di una politica di tipo kennediano.
Il tentativo di Johnson, infatti, con la ripresa dei temi pacifisti e
progressisti, poteva riuscire ai tempi di Kennedy, quando Russia e America
controllavano l'intero spazio politico. Con la presenza della Cina (e l'arma
atomica fatta esplodere all'indomani della conferenza, ne è una pesante
dimostrazione) si è aperta per le nazioni asiatiche un nuovo spazio politico
totalmente al di fuori del controllo russo e americano. Per questo, tra l'altro,
il tema radicale del «Vietnam uguale Jugoslavia» non ha senso, perché appunto
l'unica «terza via» è ora, in Asia, quella cinese.
La situazione del Vietnam, peraltro, non è così buona come si tende a
presentarla.
I radicali, in Italia, parlano di un'imminente fine della guerra, ma unicamente
in funzione della politica interna italiana (far digerire l'atlantismo del
partito unificato).
Gli americani forse con l'intenzione di farci entrare i buoni uffici della
Russia.
Del resto l'ottimismo di Mc Namara non fa testo. Il tecnocrate americano già nel
'63 dichiarava che l'America avrebbe raggiunto la vittoria militare nel 1965 e
nello stesso anno affermava di aver «fermato la guerra».
Le autorità militari statunitensi della regione sono di ben altro avviso. Nguyen
Van Thieu ha dichiarato recentemente ai giornalisti che secondo le previsioni
del generale Westmoreland «occorrono per lo meno tre anni per ottenere
probabilmente una vittoria militare, e altri cinque per arrivare ad una vittoria
politica». Sono note, poi, le divergenze tra Mc Namara e il Pentagono, volendo,
quest'ultimo, un maggiore invio di truppe per il 1967 e sei mesi di permanenza
in più per i contingenti di combattimento. Senza contare la questione del
controllo da parte dei guerriglieri di intere regioni (la più importante quella
del delta del Mekong), questione del tutto irrisolta.
II controllo da parte della Cina della politica di Hanoi ci sembra
sufficientemente fermo e, stante i progressi sul piano militare, il meglio deve
ancora venire.
CINEMA
5 - Un falso ideologico: «Nè onore né
gloria », di Mark Robson
Era un film molto atteso. Ma, come spesso accade alle opere che nascono in un
clima di grande aspettativa e da cui molto ci si attende, costituisce una
cocente delusione.
Eppure le premesse erano ottime.
Il film avrebbe dovuto essere -usiamo il condizionale a ragion veduta- la
traduzione in linguaggio cinematografico del fortunato ed ormai giustamente
famoso romanzo di Jean Larteguy: "Les Centurions".
Il libro dello scrittore francese aveva reso la sfortunata epopea dei «paras» in
Indocina ed in Algeria; aveva descritto il loro «stile», fatto insieme d'umanità
e di durezza, di disciplinato e severo senso del dovere e d'ardente spirito
legionario; aveva infine spiegato perché (un perché che si chiama tradimento)
soldati così valorosi avessero potuto trovarsi alla fine dalla parte
soccombente.
Di tutto questo, nel film «d'avventure» del regista americano rimane ben poco.
Troviamo invece, accanto a qualche spunto contraddittoriamente ed
involontariamente felice, un generico quanto confuso pacifismo, intriso oltre
tutto da una buona dose di ipocrisia che, specialmente nel finale, determina, e
rovinosamente, la caduta del livello artistico dell'opera.
Il difetto di base del film, il suo peccato originale, sta nell'esserne stata
affidata la realizzazione ad un regista hollywoodiano e per di più dai
precedenti chiaramente «radicaleggianti», cioè, in poche parole, alla persona
meno idonea per farlo.
Sarebbe stato ben strano infatti che un americano riuscisse a spiegarci per
quali motivi gli Stati Uniti, tradendo la propria «alleata» europea, ne abbiano
determinato la sconfitta di fronte ai «vietminh» indocinesi prima ed ai «fellagha»
algerini poi... e parimenti che un radicale riuscisse a renderci il «mal
sottile», funestamente corrosivo, di cui erano pervase le caste ed i politicanti
francesi, e, soprattutto, riuscisse ad entrare, con la sua mentalità malata di
intellettualismo, nel personaggio, tutto ardore e generosità, del «centurione»
colonnello Raspeguy, il protagonista del film come del romanzo.
Il regista sembra anzi aver fatto ogni sforzo per attenuare la carica sia
politica che umana di questo personaggio, togliendo al suo agire ogni
motivazione ideale e riducendone la figura ad un puro fenomeno di vitalismo, ad
un uomo cioè che combatte per il gusto di combattere, perché lottare è per lui
una necessità fisica, come il bere e il mangiare, perché, insomma, è costruito
così: una efficientissima macchina da guerra, una forza della natura, magari non
del tutto priva di una sua umanità, ma nulla di più.
Ad ogni buon conto, Robson, nel timore che la figura di Raspeguy, pur nella sua
mutila rappresentazione, potesse suscitare eccessive simpatie negli spettatori
e, soprattutto, sembrare in qualche modo rappresentativa di un «certo stile di
vita e tipo di uomo» che, invece, per definizione corrente, deve risultare
sempre sgradito, ha pensato bene di sminuirla e diluirla, attraverso quella di
due suoi ufficiali.
Troviamo così, secondo il trito «clichè» antifascista di «uomini e no», da un
lato il «Para SS», pura brutalità, sanguinario e sadica la sua parte, che punta
diritto allo scopo senza il minimo riguardo ai mezzi per conseguirlo, pronto
alla rappresaglia ed alla violenza gratuita. Il tradizionale «vilain» insomma.
Dall'altro un capitano, impersonato da Alain Delon, sensibile ed umanitario,
guarda caso raffinato, intellettuale e con una singolare concezione della
disciplina militare e del dovere, tormentato da dubbi sempre più angosciosi che,
naturalmente, risolve alla fine «democraticamente» con le clamorose dimissioni
ritrovando così, come suggerisce con bolso simbolismo il finale del film, la via
della luce.
In definitiva il maggior pregio dell'opera di Robson, oltre all'ottima
interpretazione di Anthony Quinn, veramente esemplare nella parte del focoso
colonnello Raspeguy, è costituito dalle molte scene altamente spettacolari,
minuziosamente curate, che però, in ultima analisi, rivelano, unitamente all'uso
del technicolor, gli intenti di cassetta con cui il film è stato prodotto.
Un genere dunque essenzialmente d'evasione, da vedere come un qualsiasi film
d'avventure, ma con l'occhio attento alla distorsione pacifista che l'autore,
fedele alla propria estrazione politica, ha operato rispetto al capolavoro di
Larteguy, falsificandolo così sostanzialmente.
SAGGISTICA
6 - Spagna trent'anni dopo: dalla
Falange all'Opus Dei (3° capitolo)
Con l'entrata delle truppe nazionaliste a Madrid la mattina del 28 marzo 1939 la
guerra di Spagna era praticamente finita. Franco ne dava l'annuncio ufficiale il
1° aprile. Lo stesso giorno il suo governo veniva riconosciuto dagli Stati Uniti
come unico governo legittimo. In quell'occasione Roosevelt si pentì di non aver
aiutato a suo tempo la Repubblica con maggior decisione. Il riconoscimento da
parte dell'Inghilterra e della Francia era già intervenuto in precedenza, fin
dal 27 febbraio, quando l'esito della battaglia di Catalogna aveva annunciato
chiaramente la prossima vittoria del generalissimo.
La Falange spagnola appariva ora come la trionfatrice e l'arbitra dei destini
del Paese. Ma essa non aveva più in comune con la Falange, per cui erano morti
José Antonio e i suoi, se non il nome. Era il nuovo partito unico, svuotato di
ogni contenuto ideologico, privato di quella temperatura spirituale e morale che
era il tratto più incisivo della prima Falange.
Sei mesi dopo la fine della guerra civile l'invasione tedesca della Polonia dava
inizio al secondo conflitto mondiale.
L'atteggiamento di Franco nel corso di questo può aiutarci ad illuminare non
solo la visuale politica dalla quale il capo dello Stato spagnolo guardava gli
avvenimenti mondiali, ma il significato stesso che egli dava alla sua vittoria.
Il mancato intervento a fianco della Germania e dell'Italia -se giudicato a
posteriori- costituisce un omaggio indiscusso alla sua prudenza di politico e di
militare, grazie alla quale risparmiò al suo Paese i lutti che si abbatterono
sulle due nazioni «amiche» e che si sarebbero aggiunti a quelli sofferti durante
la guerra civile. Ma esso rivela soprattutto la carenza di autentiche idealità
del regime franchista e con esso della nuova Falange, per cui sfuggiva ad essi
il senso profondo della II guerra mondiale, che era lo scontro frontale tra due
concezioni della vita, tra due civiltà; era la rivolta dell'Europa tradizionale,
con la sua concezione metafisica dell'uomo e della realtà, contro l'immanentismo
democratico dei bisogni economici, incarnato nell'America rooseveltiana e nei
suoi alleati europei: l'Inghilterra, traviata dalla Riforma e dall'egoismo
mercantilistico, e la Francia, stanca erede dell'illuminismo e rinnegatrice dei
propri valori cristiani, per i quali erano vissuti ed erano morti S. Luigi e
Giovanna d'Arco. Non erano questi gli stessi ideali per cui erano accorsi nei
reggimenti franchisti i volontari spagnoli?
Ma Franco era soltanto un rispettabile borghese, amante dell'ordine e della
legalità, ed i suoi orizzonti non andavano al di là di un patriottismo
conservatore, che lo induceva a non far scendere in campo i suoi uomini se non
con l'assicurazione precisa di ingrandimenti territoriali a basso prezzo!
Inoltre, in caso di disfatta, tutta la situazione interna spagnola sarebbe
rimasta nuovamente sconvolta, con possibile danno di quella destra economica
conservatrice che, a conti fatti, era la principale beneficiaria della vittoria
franchista.
Il solo aspetto del conflitto che la mentalità del Caudillo riusciva ad
afferrare -con il tipico errore di prospettiva degli uomini di destra- era
l'anti-bolscevismo, che ne rappresentava, invece, soltanto un aspetto parziale.
Come egli non aveva compreso nel 1936 che il vero nemico del popolo spagnolo non
era il comunismo, ma l'anima laicista e radicale di quella squallida repubblica,
così non comprese nel 1940 che il vero nemico dei popoli europei non era il
bolscevismo staliniano, ma il democratismo occidentale, di cui il comunismo non
era e non è che una filiazione spuria, che a tratti riesce -come nella Russia di
Stalin e oggi nella Cina di Mao Tse-tung- a sfuggire alle lusinghe della sua
matrice borghese.
Così l'unico contributo attivo dato dalla Spagna all'Asse fu l'invio di una
divisione di volontari falangisti sul fronte russo.
Del resto sin dalla fine della guerra civile e mentre si stava profilando lo
scoppio del secondo conflitto mondiale, il vittorioso Franco si era rivolto alla
Gran Bretagna per ottenere un prestito per la ricostruzione, come consigliavano
i solidi rapporti fra le banche spagnole e la finanza inglese, rimasti
inalterati durante la guerra civile. Pochi mesi dopo l'Intelligence Service
disponeva in Spagna di una rete di spionaggio che controllava tutta la penisola,
tenendo in iscacco gli agenti tedeschi.
L'attendismo di Franco fino al 1942
Tuttavia nei primi anni di guerra la politica di Madrid fu, almeno
nell'apparenza, favorevole all'Asse. È noto che Franco concesse alle squadre
d'assalto della marina italiana ed ai sommergibili tedeschi l'uso dei porti
spagnoli come basi di appoggio, sia pure con le cautele dovute per non
comprometterlo sul piano diplomatico. In realtà i nazionalisti sentivano verso
l'Italia e la Germania un debito di gratitudine e Franco -bisogna riconoscerlo-
era uomo d'onore. Così permise anche ad una società tedesca la gestione delle
miniere di ferro delle Asturie, né avrebbe potuto fare diversamente, dato che i
tedeschi vi si erano già insediati nel 1936. Tale concessione controbilanciava,
almeno in parte, i pesanti interessi inglesi sulle miniere di argento, di
piombo, di rame.
Ma a chi guardi al di là di queste apparenze, che gli stessi governi italiano e
tedesco erano costretti ad ingigantire davanti alle rispettive opinioni
pubbliche, non sfugge che l'atteggiamento della Spagna franchista, sul terreno
degli apporti concreti alla dinamica degli eventi, passò da una tolleranza
forzata delle iniziative più o meno clandestine degli italo-tedeschi sul suolo
iberico, fino ad uno sganciamento progressivo da Roma e da Berlino, mano a mano
che le vicende militari prendevano per queste ultime una piega sfavorevole.
Se le campagne di Polonia e di Francia e l'entrata in guerra dell'Italia
indussero Franco a passare dalla neutralità alla «non belligeranza» e ad
occupare militarmente la zona internazionale di Tangeri (14 giugno 1940), tutto
il seguito della sua politica non fu altro che uno sforzo tenace per tenersi ad
ogni costo fuori della lotta. Il protrarsi della battaglia d'Inghilterra e lo
sfumare di una rapida vittoria tedesca alimentarono la sua prudenza. Gli
insuccessi italiani in Africa e in Grecia lo resero addirittura irremovibile.
Ben pochi conoscono, invece, quale apporto la Spagna avrebbe potuto recare e
quanto il rifiuto del generalissimo abbia pesato sul seguito del conflitto.
Nell'estate del 1940 la presa di Gibilterra e l'occupazione dell'Africa
settentrionale francese si ponevano come una necessità inderogabile, sia per
precludere alla flotta inglese l'accesso al Mediterraneo da occidente, sia per
impedire all'avversario di servirsi in un domani del Nord-Africa francese come
base d'attacco contro la Libia e la penisola italiana. Dal Marocco alle Canarie
si sarebbe potuto muovere -secondo i piani dell'Alto Comando germanico- su Dakar
per minacciare gli Stati Uniti con attacchi aerei. Il realizzarsi di queste
iniziative ossessionava Churchill e il Pentagono. La difesa di Gibilterra era
inadeguata a sostenere un attacco combinato ispano-tedesco e più volte il
governatore della rocca, sir Oliver Liddel, implorò l'ambasciatore inglese a
Madrid di «procurargli tre mesi di pace per migliorarla». È probabile che il
candido baronetto non sapesse di avere a Madrid un alleato ben più potente.
L'«amico dell'Asse»
L'«Operazione Felix» fu organizzata in tutti i particolari: materiale pesante
d'artiglieria raggiunse le posizioni spagnole che dominavano lo stretto; un
corpo di spedizione tedesco si addestrava in Francia, tenendosi pronto a
partire. Il 23 ottobre 1940 Franco e Hitler si incontrarono a Hendaye. Fu
fissata la data del 10 gennaio 1941 come giorno dell'attacco. Ma in nove ore di
colloquio Franco riuscì ad eludere ogni impegno preciso. Poneva innanzi
difficoltà annonarie, nel caso gli fossero precluse le importazioni di cereali
dal continente americano; temeva per i piccoli possedimenti spagnoli nell'Africa
equatoriale esposti a contromisure britanniche; chiedeva compensi territoriali
in Marocco e in Algeria di tale ampiezza che avrebbero offeso irrimediabilmente
l'orgoglio francese e che quindi sapeva bene Hitler gli avrebbe negato. A
Hendaye si erano incontrati due uomini, dei quali l'uno concepiva la politica in
termini di civiltà, l'altro nei limiti gretti del più vieto nazionalismo
ottocentesco e borghese.
In seguito Franco riuscì a differire la data stabilita, rifiutandosi poi di
fissarne una nuova. Il tempo stringeva. Finalmente il 12 febbraio 1941,
nell'incontro di Bordighera, Mussolini fece su Franco un ultimo tentativo per
indurlo almeno a consentire il passaggio del contingente tedesco sul territorio
spagnolo. Il Caudillo uscì anche questa volta dal colloquio senza aver promesso
nulla. Egli aveva procurato agli inglesi i tre mesi di cui avevano bisogno!
Resosi conto di non poter battere la Gran Bretagna nel Mediterraneo, Hitler,
successivamente al 12 febbraio, prese in considerazione l'apertura del secondo
fronte, attaccando l'Unione Sovietica! Franco, soddisfatto della sua vittoria
diplomatica, poteva continuare ad osservare gli eventi.
Dopo lo sbarco nel Nord-Africa
Lo sbarco anglo-americano a Casablanca nel novembre 1942, che segue di pochi
giorni l'inizio della ritirata di Rommel da El Alamein e coincide con
l'accerchiamento di von Paulus a Stalingrado, segnò un netto cambiamento di
direttive nella politica di Madrid.
Alla freddezza verso l'Asse si accompagnò una servile condiscendenza alle
richieste anglo-americane. Anche Serrano Suner, che pur aveva aiutato il
generalissimo nella liquidazione della vecchia Falange, appariva troppo
compromesso; fu allontanato dal governo. La Division Azul fu ritirata dal fronte
russo. Italiani e tedeschi vennero sloggiati dai punti d'appoggio segreti lungo
le coste spagnole. Si rendeva la vita difficile agli agenti dei servizi di
informazione dell'Asse. La polizia spagnola collaborava con l'organizzazione
spionistica americana e con l'IS. I contatti diretti tra Franco e il governo
britannico si fecero particolarmente intensi, come dimostra l'abbondante
carteggio pubblicato in parte negli anni scorsi.
I meriti di Franco verso gli «alleati» non riuscirono tuttavia ad evitargli, a
guerra finita, l'isolamento politico cui fu condannato, come ultimo Paese
formalmente fascista. (Serviranno un decennio più tardi come referenze per
l'ingresso della Spagna alle Nazioni Unite). A Londra il governo era passato ai
laburisti e l'influenza dell'Inghilterra sulla politica internazionale era
decisamente diminuita rispetto a qualche anno prima. Quanto a Washington,
Roosevelt si era indotto nel 1942 a dimenticare gli stretti legami che lo
avevano unito alla Repubblica ed a chiedere a Franco, per il tramite della
diplomazia inglese, la sua condiscendente passività, solo perché in quel momento
ne aveva bisogno. Una volta liquidata la Germania, la Spagna franchista non
serviva più ed a Truman non costò nulla riprendere verso Madrid un atteggiamento
ufficialmente ostile. Anzi esso poteva far salire in futuro il prezzo di un
eventuale gesto magnanimo di riavvicinamento.
Così nel marzo del 1946 Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia con una
dichiarazione solenne mettevano al bando il regime di Franco dalla vita politica
internazionale e ritiravano da Madrid i rispettivi ambasciatori.
La Spagna in quarantena
Isolato all'esterno, a Franco non restava che appoggiare il suo potere sui due
sostegni interni del regime, costituiti dal partito unificato e dalle gerarchie
ecclesiastiche spagnole.
Per tenere insieme il primo egli si orientò, con la consueta cautela, verso
l'elemento monarchico. Nel giugno 1946 promulgò la legge per la successione, la
quale prevedeva la restaurazione della monarchia, rinviandola «a quando le
circostanze esterne ed interne lo permetteranno». (Ciò confermava quanto poco
contassero ormai i vecchi falangisti e le loro istanze repubblicane). Si ebbe in
tal modo la singolare figura giuridica di uno Stato monarchico che non solo non
aveva Re, ma non era neppure un regno.
La legge di successione non era in fondo che un mezzo per richiamare sulla
persona del Caudillo l'interesse dei vari pretendenti al trono, sollecitati così
ad accattivarsene la benevolenza, e ancor più per assicurarsi in tempi di
tempesta l'appoggio dei benpensanti, i quali, lungi dall'avere una concezione
sacrale della regalità, restano convinti che una monarchia, con l'apparato
folcloristico che la circonda, offra una garanzia più sicura di una repubblica
contro il disordine sovversivo. Ben più valido aiuto il regime poteva ricevere
dall'ambiente ecclesiastico. E tutta la preoccupazione di Franco in quegli
ultimi anni fu di non perderne la benevola protezione. Con una serie di
provvedimenti legislativi il governo nazionalista, già negli anni della guerra
civile, aveva reintegrato la Chiesa nei suoi diritti, conculcati dai governi
repubblicani. Ciò non avrebbe dovuto essere altro che un atto di doverosa
giustizia, ma il generale Franco -che prima del pronunciamento non aveva mai
dato particolari segni di pietà religiosa- ne fece moneta di scambio.
Centellinando i provvedimenti di anno in anno fino al Concordato con la S. Sede
dell'agosto 1953, egli intese conservare sempre nelle mani in quegli anni
difficili materia di scambio, dosando nel tempo quelle concessioni che in nessun
caso avrebbe potuto rifiutare.
Malgrado ciò, l'orientamento verso la Chiesa rappresenta l'aspetto più positivo
di tutta la politica franchista, assai più che per le convinzioni dell'uomo, per
la tradizione cattolica del Paese, che non consentiva, dopo gli eccessi della
guerra civile, una politica diversa, e per l'impronta dignitosamente virile che
Pio XII sapeva dare ai rapporti tra la Chiesa e lo Stato.
Il ravvicinamento USA
L'isolamento politico in cui era caduta la Spagna non doveva durare a lungo.
Numerosi fattori avevano mutato dopo il 1948 la situazione internazionale,
inducendo i dirigenti statunitensi a rivedere le proprie posizioni.
La tensione della guerra fredda, la perdita del monopolio atomico, il conflitto
coreano e la rivalutazione delle armi convenzionali, il fallimento della CED
(Comunità Europea di Difesa) e la conseguente difficoltà di un riarmo
tedesco-occidentale, le incertezze della situazione politica francese e italiana
mettevano in nuova luce agli occhi dei militari del Pentagono il valore
strategico della penisola iberica. Protetta dalla barriera naturale dei Pirenei,
governata da un regime autoritario e con una solida tradizione militare, la
Spagna rappresenta…
[…] (3)
… combattuta in nome della democrazia, e con la quale gli Stati Uniti si
sostituirono alla Spagna nelle Filippine, a Portorico e nella stessa Cuba, ma
soprattutto per la insanabile contraddizione tra lo spirito spagnolo e la
concezione americana della vita e per l'istintiva avversione di ogni autentico
spagnolo per tutto ciò che la mentalità yankee rappresenta.
Ma il generalissimo aveva già dimostrato in passato di saper passare sopra a
molte cose. E chi gliene fu profondamente grata fu la parte progressista di
quella borghesia finanziaria e imprenditoriale spagnola che, avida di
raggiungere il livello della borghesia occidentale europea sulla via del
benessere, vedeva nell'afflusso di capitale americano e nella ripresa
capitalista che ne sarebbe seguita la sola prospettiva per poter realizzare le
sue aspirazioni sociali ed economiche. Il neo-capitalismo entrava a bandiere
spiegate nella Spagna «nazionalista» ed il regime poteva conquistarsi le
simpatie di quei ceti borghesi che gli erano rimasti estranei dalla fine della
Repubblica, e della nuova borghesia che si veniva formando.
(continua)
GLI UOMINI E I GIORNI
Le ragioni dell'Occidente...
L'America si innalza ai nostri occhi con tutte le forze che le sono persicue,
quelle cioè che ci danno garanzia di efficiente leadership dell'Occidente...
quali che siano i dissensi tra i due grandi schieramenti partitici, l'America
non cambierà strada, non defletterà dalla lotta per il mondo libero... Spetta
ora agli europei (e che diremo dei francesi?) puntare con coerenza ed energia
sulla carta russo americana... Ora più che mai Johnson deve poter parlare a nome
dell'Occidente...
(dall'articolo di fondo de "Il Messaggero" 11-11-66)
... e quelle della Francia
Tra i nostri contemporanei vi sono molti i quali hanno architettato che il
nostro Paese rinunciasse alla propria indipendenza sotto la copertura di questo
o quell'agglomerato internazionale. Così alcuni, esaltandosi al sogno
dell'Internazionale, vorrebbero porre il nostro Paese, come si sono posti essi
stessi, sotto il comando di Mosca.
[…] (4)
Maoismo, marxismo e razzismo
Una nuova muraglia è stata eretta in Cina, più alta e invalicabile della famosa
barriera. Essa ha il compito di separare dai cinesi tutti gli stranieri presenti
nel territorio, di isolarli, addirittura di respingerli. Nessuno può stringere
amicizia con loro, siano essi europei, africani o asiatici.
(Lamberti Sorrentino sul n° 45/66 del sett. "Tempo")
Accanto all'adorazione delirante per il capo ho visto svilupparsi il razzismo,
che non risparmia neppure gli altri popoli asiatici.
(Salvatore Pellegrino sul n° 834/66 di "Epoca")
Lo studio del marxismo leninismo deve essere limitato per il 99 per cento alla
lettura delle opere del presidente Mao perché esse superano di gran numero, per
qualità, quelle di Marx, Engels, Lenin e Stalin.
(dal discorso tenuto dal maresciallo Lin Piao agli allievi dell'Accademia
Militare di Pekino il 18 ottobre 1966)
Oltre a imporre il libro di Mao, si è mutato in Cina il simbolo del socialismo,
cioè la falce e il martello, cui nel corso della rivoluzione delle Guardie
Rosse, si è aggiunto un elemento nuovo e marxisticamente blasfemo: il fucile.
Quel fucile ne dice di più su Mao di qualsiasi esegesi marxista. Carlo Marx
voleva la pace, Mao Tse-tung vuole la guerra; Carlo Marx si proponeva di
raggiungere quella pace a mezzo della lotta di classe, Mao Tse-tung proclama di
voler le guerre popolari...
(Lamberti Sorrentino su "Il resto del Carlino" del 27 ottobre 1966)
Raccomandazioni occidentaliste
Anche se comporta dei rischi, il dialogo con l'Est dovrà essere proseguito.
Questa è stata un'altra delle conclusioni alle quali è pervenuta la «tavola
rotonda" di Amburgo i cui partecipanti hanno raccomandato alla Germania di
contribuire alla distensione accettando di rinunciare ai territori polacchi
oltre la linea Oder-Neisse, alla dottrina Hallstein discriminatoria nei
confronti dei paesi che riconoscono il regime di Pakow e all'arma atomica...
(Maurizio Montefoschi su "Il Messaggero" del 30 ottobre 1966)
[…] (5)
(1) pag. 3 non stampata;
(2) pag. 5 non stampata;
(3) pag. 20 non stampata;
(4) pag. 22 non stampata;
(5) pag. 24 non stampata. |