ATTUALITÀ
I sei aspetti della crisi nel Medio
Oriente:
1 - La questione palestinese e l'unità
panaraba
La furiosa campagna filo-sionista
sviluppata dagli organi di informazione italiani durante la crisi del Medio
Oriente ha fatto salire in superficie le vene sotterranee che li hanno, sempre
alimentati. Ora a ciascuno è chiara la profondità di certe influenze occulte.
Nella difesa di Israele tuttavia il giornalismo italiano ha mostrato la sua vera
dimensione, che è quella faccendiera del «giornalismo di guerra», tutto teso ad
ampliare, a diffondere, a sostenere e a puntellare le tesi politiche promananti
da un organo superiore. Di conseguenza si è trascurato il discorso politico
generale per addentrarsi nella boscaglia delle questioni particolari.
Era evidente lo scopo di far perdere all'opinione pubblica le tracce della
verità. È sintomatico al riguardo che la questione più dibattuta sia stata
quella del ritiro delle truppe dell'ONU ordinato da U Thant. Posta su questo
piano la propaganda filo-israeliana si è via via alimentata di notiziole,
fatterelli, questioni di terz'ordine, pieghe e sottopieghe della storia: cose
più pertinenti ad avvocati che a giornalisti. L'opinione pubblica, provinciale,
impiegatizia, piccolo borghese, ha risposto appieno essendo stata chiamata
proprio sul suo terreno.
In conseguenza di tale posizione della stampa italiana riteniamo opportuno
riprendere la questione palestinese nei suoi reali termini storici.
La Palestina nel 1917 era ormai da millenni un Paese arabo, abitato da un popolo
arabo, facente parte dell'Impero Ottomano. Alla fine della prima guerra mondiale
fu occupata dagli inglesi ai quali la famigerata pace di Versailles la concesse
come «mandato».
L'Inghilterra che aveva con Lawrence staccato gli arabi dalla Turchia, facendo
balenare dinanzi agli occhi della dinastia aschemita la creazione di una grande
monarchia islamica indipendente, si affrettò a tradire queste promesse con la
"Dichiarazione Balfour" del 2 novembre 1917, con la quale venne promessa agli
ebrei l'istituzione di un «National Home» in Palestina.
Nei trenta anni del «mandato» britannico l'azione filo sionista, evidentemente
favorita da ben qualificati gruppi di potere interni, pose le basi per la
realizzazione della promessa di Balfour. Nel 1918 infatti gli ebrei in Palestina
erano 50 mila, ossia il 7 per cento della popolazione della regione. Nel 1947
essi erano 650 mila cioè il 33 per cento della popolazione. Una analoga
trasformazione avvenne per la proprietà terriera. L'intento britannico era
d'altra parte, ben chiaro quando si pensi che nei primi anni del mandato l'Alto
Commissario di S.M. era un ebreo.
Alla fine della seconda guerra mondiale l'Inghilterra, passò la mano agli Stati
Uniti, nei quali i ben noti gruppi di pressione erano certamente più influenti
che nel Regno Unito. Infatti già l'11 maggio 1942 il Congresso Sionista mondiale
tenutosi a New York aveva deciso di trasformare la Palestina in uno Stato
ebraico e di scacciarne tutti gli abitanti arabi. Tale risoluzione fu fatta
propria e inserita nella piattaforma elettorale sia dal Presidente Roosevelt che
dal suo antagonista Dewey. Intanto, anche il Comitato esecutivo del Partito
Laburista inglese nel suo congresso del dicembre 1944 decideva d'appoggiare, la
mozione tendente a trasformare la Palestina in uno Stato ebraico.
Vinta la guerra, gli Stati Uniti trasferirono di peso la questione in seno al
loro braccio secolare, le Nazioni Unite, le quali puntualmente eseguirono le
direttive impartite ad esse e il 29 novembre 1947 votarono, con una maggioranza
di due terzi, in favore della spartizione.
Il 14 maggio 1948 il disegno sionista sviluppato dall'Inghilterra e dagli Stati
Uniti si concluse con la proclamazione dello Stato di Israele.
Negli anni che seguirono gli ebrei, forti delle armi e degli istruttori di
origine anglo-americana, riuscirono a contenere la reazione armata dei Paesi
arabi e con il provvidenziale « cessate il fuoco» ordinato dalle Nazioni Unite
giunsero a stabilire una situazione armistiziale.
Intanto, l'operazione era costata agli arabi ben 1 milione 130.000 profughi.
La questione palestinese sta dunque in questi termini, che in linea di diritto
danno indubbiamente ragione agli Arabi. Tuttavia la questione di diritto và
considerata in politica per quella che realmente vale cioè niente. Anzi,
richiamarsi al buon diritto equivale solo a chiamare in causa quell'ignobile
arnese che sono le Nazioni Unite.
Abbiamo voluto ripropone i reali termini della questione per due motivi ben
diversi da quelli del «buon diritto»:
1) per una smentita diretta delle tesi del giornalismo filo-sionista;
2) per chiarire il nesso che corre fra la questione palestinese e, l'unità
panarabo.
Non c'è dubbio che la prima sta alla seconda come mezzo a fine, vale a dire che
il processo di unificazione dei popoli arabi ha nel momento di lotta contro
Israele il migliore cemento. Ora, è evidente che intanto il mondo arabo sente la
spinta anti-israeliana in quanto dalla creazione di Israele è stato offeso ed ha
visto conculcare il suo diritto. La solidarietà fra gli arabi, premessa
all'unità si fonda sulla comune avversione allo Stato ebraico.
Per l'importanza che noi attribuiamo alla creazione di un grande centro
geopolitico arabo capace dì contribuire alla rottura della bipolarità
russo-americana, noi siamo contro Israele. Soltanto per questo, poiché circa il
ritorno degli ebrei dalla diaspora noi vorremmo che esso avvenisse presto e nel
modo più completò. Anzi a tale proposito, rileviamo come attualmente la
creazione dello Stato d'Israele abbia evidenziato il problema della presenza e
dell'influenza ebraica all'interno dei vari Paesi del mondo. Si deve forse
credere che Israele è stato concepito non come rifugio di perseguitati ma come
base di dominio del «popolo eletto» secondo il noto disegno messianico?
2 - Ampiezza e limiti della politica
nasseriana
La dottrina panaraba di Nasser intende
promuovere l'unità dei Paesi di ugual lingua, di uguale razza, di uguale
religione (dottrina dei tre cerchi). Essa svela un disegno strategico non privo
di grandezza. Peraltro non sembra che l'azione politica con la quale si vuol
raggiungere tanto obiettivo sia adeguata ed efficace.
Nasser ha certamente subìto l'influenza politica anglosassone, così come alcuni
ambienti algerini e tunisini hanno sentito la cultura razionalista francese.
Della concezione politica inglese Nasser ha ereditato l'incapacità di concepire
guerre ideologiche. Tutto in politica deve essere limitato alla difesa degli
interessi concreti di un Paese. La natura mercantilistica dell'Impero britannico
ha lasciato il suo segno nella concezione di chi ha pur combattuto una vita per
sottrarsi a quel dominio. Per questo Nasser non va oltre un'azione politica
piccolo nazionalista assolutamente inadeguata a costituire quel grande centro
geopolitico che dovrebbe essere lo Stato panarabo. Pensare di ripetere negli
anni correnti una azione politica di tipo «piemontese», dove per l'appunto
l'Egitto dovrebbe rappresentare il Piemonte, gli altri Stati Arabi le regioni
italiane e Nasser Cavour significa per l'appunto non aver compreso i termini
della lotta politica contemporanea. È fatale che da una impostazione del genere
derivi una serie di conseguenze negative sul piano dei mezzi politici. La
continua insistenza presso le Nazioni Unite per tentar di vincere delle inutili
battaglie diplomatiche: il concepire la guerra nei termini dello scontro di
mezzi corazzati nel deserto, secondo tecniche ormai vecchie di venticinque anni
(Rommel) e oltretutto richiedenti un apparato militare di alta concentrazione ed
efficienza, che non è alla portata degli Stati arabi; il conseguente rifiuto
delle organizzazioni di guerriglieri e terroristi: tutto ciò spiega
gl'insuccessi del '56 e del '67 che appunto sono stati gravosi sul piano della
solidarietà dell'opinione pubblica mondiale e su quello degli scontri armati.
Se il nasserismo ha mostrato i suoi limiti per quanto concerne l'unità araba a
causa della posiziona piccolo nazionalista che gli è propria, a conseguenze
peggiori esso ha portato nel campo della politica internazionale.
La politica neutralista vide Nasser allineato; con Nehru e Tito nella ricerca
non di uno spazio politico fra i due blocchi ma soltanto di aiuti, surplus
agricoli americani e mezzi tecnici sovietici. In sostanza essa veniva a
costituire non un'alternativa ma una appendice a Yalta. Lo stesso continuo
richiamo alla solidarietà interafricana dimostra che la dottrina nasseriana non
va oltre l'anti-colonialismo ed è carente sul piano della costruzione di un
grande centro geopolitico. La solidarietà dei Paesi africani ha rigettato sempre
di più Nasser nell'ONU, tempio massimo del terzo mondo africano
occidentalizzato. In ultima analisi i Paesi africani sono un valido strumento
occidentalista per mantenere Nasser nei binari della legalità dell'ONU e di
Yalta.
L'incapacità di concepire la lotta politica in termini di civiltà ha come
immediata conseguenza il rifiuto della guerra rivoluzionaria ed è proprio a
causa di questo rifiuto che è saltato il gioco politico iniziato nel maggio
scorso e risoltosi nel triste modo che sappiamo. Nasser infatti chiuse lo
stretto di Tiran alle navi israeliane per provocare una crisi il cui fine non
era evidentemente la distruzione di Israele (che con la protezione degli Stati
Uniti nell'attuale condizione di strapotenza non era nemmeno concepibile), ma
per imporre la sua iniziativa agli Stati arabi moderati e occidentalisti
(Marocco - Tunisia - Arabia Saudita - Kuwait - Libia e Giordania) i quali in
effetti nei giorni precedenti al conflitto mandarono i loro rappresentanti a
Canossa. Vi era inoltre l'intenzione di ricondurre gli estremismi pro guerriglia
serpeggianti in Algeria, Siria ed Iraq nei limiti della tradizionale politica
egiziana. Beninteso nel disegno nasseriano il punto fisso era rappresentato dal
mantenimento del blocco di Aqaba o da altro equivalente vantaggio. Condizione
per conseguire tale risultato era l'acquiescenza di Israele al fatto compiuto,
in quanto essa nel disegno nasseriano si sarebbe dovuta trovare priva
dell'appoggio americano e di quello russo. Infatti Nasser di fronte agli Stati
Uniti minacciava l'apertura di un secondo Vietnam e di fronte all'Unione
Sovietica minacciava lo scivolamento su posizioni filo-cinesi. Il termine base
di questo gioco era, come si vede, la minaccia di Nasser di vietnamizzare il
Medio Oriente. In realtà, proprio per le dimensioni piccolo-nazionaliste della
sua politica, era proprio, Nasser l'ultimo a volere la guerra rivoluzionaria nel
mondo arabo. Tale reale disposizione non poteva sfuggire agli americani che
infatti «chiamavano» il bluff e costringevano Nasser prima alla sconfitta e poi
a mostrare la sua reale disposizione contraria alla guerriglia.
3 - Di nuovo Yalta: USA e URSS per lo status quo
Gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica si
sono trovati nel Medio Oriente di fronte ad una crisi particolarmente insidiosa
per la loro partnership mondiale. Si prospettava il salto di un'altra maglia
nella corazza fatta indossare al mondo con gli accordi di Yalta. A Budapest,
alla Cina, al Vietnam, a De Gaulle, a Castro si stava per aggiungere anche il
Medio Oriente, un'area particolarmente importante per la posizione geografica,
le ricchezze petrolifere e la vastità dei territori.
Gli Stati Uniti in particolare venivano a sostenere una posizione che
difficilmente poteva passare sotto la comoda etichetta dell'anticomunismo.
All'origine dell'impegno antiarabo degli USA è evidente infatti il filo-sionismo
che troppo robusti gruppi di pressioni alimentano in quel paese. Ciò avviene
anche a discapito dei reali interessi statunitensi: clamoroso fu ad esempio il
mancato finanziamento della diga di Assuan che, arricchendo l'agricoltura
egiziana, implicitamente sarebbe venuta a danneggiare Israele. Da tale
filo-sionismo era derivata quella contrapposizione agli interessi arabi che
aveva in sostanza fatto sorgere la «questione» del Medio Oriente, con i
possibili sviluppi anti-Yalta che si sono poi realmente avuti.
L'Unione Sovietica dopo la fine della linea Nehru-Nasser-Tito si era vista
offrire la possibilità di espansione e di influenza verso il mondo arabo e
certamente tale prospettiva espansionista non sarebbe passata invano per Stalin.
I radicali che hanno ora il potere nell'Unione Sovietica hanno da tempo
rinunciato ad una linea aggressiva, espansionista o, a maggior ragione,
rivoluzionaria.
Si dimostra sempre più valida l'ipotesi sulla quale il radicalismo rooseveltiano
concepì l'alleanza con l'URSS (…) e sulla quale venne stabilita la divisione del
mondo di Yalta, che infatti fu un accordo ideologico più che politico.
L'ipotesi era appunto quella della progressiva radicalizzazione della Russia,
della quale abbiamo in continuo sott'occhio gli episodi: il reinserimento del
profitto nell'economia (Liberman), la pianificazione tecnocratica, il socialismo
cibernetico, il mondialismo ONU, la cultura razionalista e progressista, il
costume americanizzante. Il concreto dato politico, oltre a questi indirizzi,
con il quale gli Stati Uniti hanno assicurato l'agganciamento della politica
sovietica a quella statunitense, è Yalta e il suo mantenimento.
In ciò rientra l'insieme delle comuni iniziative prese per tutelare i rispettivi
campi di influenza e quelle volte ad impedire nell'un campo e nell'altro
estremismi sovvertitori. Rientrano nel primo caso i patti diktat, quello
atlantico e quello di Varsavia, fino al progettato trattato di non
proliferazione nucleare; tra ì secondi si deve annoverare il mancato intervento
USA in Ungheria e la analoga ritirata sovietica a Cuba. Vi è poi quel tentativo
di accordo globale che fu la distensione o coesistenza competitiva.
Nella crisi palestinese l'Unione Sovietica ha mantenuto il suo impegno, prima
tenendo il posto filo-arabo che altrimenti sarebbe andato alla Cina, poi
rifiutandosi di vietnamizzare il Medio Oriente quando a ciò sarebbe bastato
l'invio di poche migliaia di volontari, infine deponendo la questione in seno
all'ONU per far accettare agli Arabi, prima lasciati sconfiggere, una soluzione
di compromesso pacifista e moderata.
L'Unione Sovietica ha preferito il mantenimento dello status quo rispetto agli
Americani piuttosto che il petrolio medio-orientale.
Tuttavia, mentre la posizione filo-israeliana non genererà una seria opposizione
anti-sionista negli Stati Uniti, l'ulteriore atteggiamento distensionista
radicale filo-americano dell'URSS potrà provocare la reazione dei gruppi
militari e la reimpostazione dei rapporti di forza fra radicali e nazionalisti
sovietici.
Forse questa è solo una speranza essendo chiaro l'aspetto conservatore anziché
rivoluzionario della politica dell'esercito sovietico ma è una ipotesi da non
sottovalutare. Intanto a Glassboro, Johnson e Kossighin, anziché prendere la
guerra fredda, come qualche giornalista borghese aveva frettolosamente
pronosticato, hanno ripreso l'idea di un componimento globale delle questioni.
Rimane il fatto che è sfuggito ad entrambi un reale potere di contrattazione.
Come nel Vietnam, l'Unione Sovietica non può imporre la pace ad Hanoi senza
perdere ogni influenza su quel paese, così nel Medio Oriente essa non può
giocarsi gli interessi arabi sull'altare della solidarietà di Yalta. Se infatti
Podgorni ha potuto probabilmente far digerire a Nasser gli accordi di Glassboro,
la stessa cosa non gli è forse riuscita con Atassi.
Non crediamo comunque che Nasser rinunci a ristabilire il suo prestigio e questa
volta lo può fare giocando la parte del moderato (come avevano previsto esperti
ambienti politici inglesi) di fronte agli estremismi filo-cinesi.
Naturalmente chiederà un congruo prezzo che soddisfi gli estremisti più che lui.
È questo che rende difficile la pace: cioè è il pericolo della linea filo-cinese
e del suo naturale strumento: la guerriglia.
Non ci sembra che la manovra impostata sull'equivoca figura di Hussein possa
portare a reali risultati. Hussein e la sua inglesizzante Legione Araba sono
stati utili per abbandonare Gerusalemme dopo una simbolica resistenza in una
città che avrebbe consentito venti mesi e non venti ore di conflitto. Hussein è
stato valido per spezzare il fronte dei paesi arabi e per accettare la pace e la
mediazione USA. Però Hussein non può, nonostante la sua volontà occidentalista,
riuscire ad eliminare il problema palestinese dando vita ad uno Stato
confederato tra l'Israele e la Giordania, poiché ciò equivarrebbe al passaggio
aperto nelle file israeliane.
Gerusalemme internazionalizzata è il massimo che Hussein può proporre agli arabi
senza perdere la faccia.
4 - De Gaulle: all'incontro a quattro mancano i due di Yalta
La crisi del Medio Oriente ha avuto una
vera e propria funzione di «cartina di tornasole». Di fronte ad essa sul piano
delle politiche interne e di quella internazionale si è mostrata la vera
sostanza di uomini e di partiti. Anche De Gaulle non è sfuggito a questa prova
della verità. La sua linea politica ha mostrato i limiti derivanti da una falsa
contrapposizione a Yalta. De Gaulle infatti rifiuta quell'accordo non sulla base
di motivazioni ideologiche ma unicamente per il carattere «ristretto» che esso
ha avuto, per cui la sua linea è volta a allargare quell'accordo con
l'inserimento della Francia e magari dell'Inghilterra.
Da ciò nasce la pretesa di rovesciare Yalta facendo perno sull'opposizione agli
Stati Uniti, quale Paese più forte, e sull'offerta di alleanze bilanciane agli
altri Stati più deboli: URSS, Germania, Inghilterra. Finora è apparso chiaro che
nessuno di questi Stati ha un reale interesse antiamericano. Soltanto Adenauer
dette vita ad una «entente cordiale» con la Francia che tuttavia aveva funzioni
di stimolo per gli Stati Uniti anziché dì alternativa.
In particolare, l'Unione Sovietica ha detto chiaramente che i suoi interlocutori
rimangono gli Stati Uniti, che sono i veri garanti per il mantenimento dello
status quo.
L'ultima sconfitta degollista è stato il mancato incontro a quattro proposto dal
Generale, che l'Unione Sovietica e Stati Uniti hanno sostituito con l'incontro
di Glassboro. Di conseguenza De Gaulle è ora fuori della partita del Medio
Oriente: non accettato dai pacifisti che si apprestano a stabilire i termini del
compromesso, lontano dai filo-cinesi che si apprestano a trasformare la guerra
in guerriglia, surrogato dal Vaticano per i tentativi di accordi parziali
(internazionalizzazione di Gerusalemme).
5 - Italia: come la crisi del Medio Oriente ha assestato il centrosinistra
La posizione filo-israeliana più netta, al
di fuori delle destre, è stata presa nello schieramento politico italiano dal
Partito Socialista Unificato e in particolare da Nenni. Al di là delle fin
troppo facili congetture sui canali che convogliano certe acque filo-israeliane,
si deve impostare la questione sul piano di un discorso politico.
Il socialismo nenniano cercava da anni di trovare il passaporto adatto per
entrare nell'area occidentalista. Di fronte alla base, abituata per anni al
linguaggio frontista, era ovviamente difficile sostenere l'occidente impegnato
nella guerra del Vietnam. Anzi proprio su ciò contavano i comunisti per mettere
in imbarazzo la direzione del Partito Socialista Italiano mediante
manifestazioni unitarie pacifiste.
L'occasione del conflitto palestinese ha offerto a Nenni là possibilità di
appoggiare la posizione americana ed anzi di proporsi come un oltranzista
rispetto alla stessa. Con il passaporto degli ebrei uccisi dai nazisti egli si è
trovato nel pieno della cittadella occidentale e con lui l'intera base.
Il Partito Comunista ha ripetuto fedelmente la posizione sovietica e questa
volta lo ha fatto non soltanto perché esso è ad est più che a sinistra, ma per
la sua definiva posizione riformista anticinese e antirivoluzionaria. La tesi
del Partito Comunista Italiano è stata infatti quella di rimettere tutto all'ONU
e all'incontro fra i due grandi, fermo restando il diritto di Israele
all'esistenza e ad una valida tutela.
Verso l'ONU ha finito per convergere anche Fanfani al quale le necessità di
polemica antisocialdemocratica e antimorotea, oltre alla occasione della difesa
di interessi petroliferi italiani, avevano suggerito una linea di equidistanza.
Nel campo radicale propriamente detto le dimissioni di Benedetti da
"l'Espresso", a differenza di quelle di altri collaboratori ebrei del
settimanale, hanno mostrato che il dissenso andava oltre la questione
palestinese ed era radicato in una diversa interpretazione del centrosinistra:
occidentalista e socialdemocratizzante quella di Benedetti, kennediana quella di
Scalfari.
A destra va innanzitutto registrata l'offerta personale di Pacciardi a militare
concretamente con gli israeliani; ma sappiamo che il nostro non è nuovo ad
imprese guerresche nell'aerea mediterranea.
Il Movimento Sociale è stato anch'esso su posizioni oltranziste filo-Israele in
parte per il calcolo elettoralesco di evitare in futuro l'accusa di
antisemitismo e in parte per quell'atteggiamento super-occidentalista è
ultra-atlantista che lo qualifica ormai da vari anni. Vale la pena di notare che
il beneficiario dell'atlantismo sarà questa volta proprio il Partito Socialista,
proprio il centrosinistra e per giunta nella sua versione moderata. Ma per un
partito che non fa più neppure combattimenti di retroguardia le prospettive
politiche non contano, Ritenendo peraltro difficile l'accettazione della
posizione fìlo-israeliana da parte della base, Michelini è ricorso al consueto
machiavello dell'appello nostalgico. A sostegno delle tesi del Segretario è
infatti apparsa sul "Secolo" un articolo di Vittorio Mussolini che avallava con
tanto nome l'indirizzo micheliniano. Dopo il caso di Svetlana Stalin sappiamo
bene la differenza che passa tra padri e figli, ne d'altra parte avevamo mai
pensato di poter accettare il jazz perché lo suona Romano Mussolini.
Una nota a parte meritano le pubblicazioni della destra liberal-fascista: "Il
Tempo", "«Il Borghese", "Roma", "Lo Specchio", ecc.
Si tratta di liberali e di borghesi per il quali il fascismo è la punta armata
della borghesia è per i quali l'occidente e il mondo libero sono la costruzione
politica ideale. Poggiando su una concezione classista conducono una battaglia
di retroguardia rispetto alle nuove classi borghesi che si esprimono
politicamente nel radicalismo e perciò da questo sono di continuo sconfitti:
così in Italia il centrosinistra ha superato il centrismo, così in America
Johnson ha sconfitto Goldwater. Le loro prospettive di una ripresa politica sono
vincolate al riaprirsi della guerra fredda e di una conseguente necessità di un
comunismo da contrastare e da abbattere. Eppure ad essi dovrebbe essere ben
chiaro che l'occidente non ha mai espresso neppure con Mac Carty, una posizione
di aggressività anticomunista, ma al massimo di difesa dal comunismo. Dovrebbe
apparire chiaro ad essi che l'Unione Sovietica è ormai la vera partner
dell'occidente su una dimensione ideologica e politica. Pertanto
l'estremizzazione della politica americana può oggi avvenire soltanto contro il
nazionalismo cinese e comporta non già la veste goldwateriana ma quella
socialdemocratica e moderata, cioè johnsoniana dell'accodo USA-URSS.
Circa il Medio Oriènte si dimostra quindi non valida la loro tesi della
necessità di un'impennata militarista occidentale contro gli arabi e l'Unione
Sovietica. Eppure è una vecchia maniera degli scrittori di questa parte di voler
insegnare la politica agli «ingenui» americani.
A monte di questa linea c'è un disegno grossolano e ritardatario: l'apertura di
uno stabile contatto fra il sionismo e la destra. Non è un caso che sia stata
rispolverata la visita di Herzl a Vittorio Emanuele III nel lontano 1904, che
poi è anche l'anno in cui quel Re inaugura la Sinagoga di Roma.
Provino pure i buoni borghesi a proporre queste alleanze. Giovannini difenda
pure Benedetti: un giorno si accorgeranno che la naturale dimensione politica
del sionismo è il radicalismo e solo esso. Per ora ci interessa che non
seguitino a deviare oltre un'opinione pubblica che non è la loro e che
nell'ultima guerra non stava certamente dalla parte del «mondo libero».
6 - Il petrolio rende possibile la guerra rivoluzionaria
Le difficoltà di trovare una soluzione
alla crisi del Medio Oriente sono la grande nota positiva del conflitto, da un
punto di vista rivoluzionario e anti-Yalta.
Al contrario si può dire che l'apertura stessa del conflitto e a maggior ragione
le difficoltà per un suo componimento e per l'arginamento della guerriglia danno
la misura della sconfitta subita dai partners di Yalta.
Il vantato successo USA è in realtà una grossa falla nel sistema di dominio
mondiale statunitense: si è aperta un'altra area di contestazione del potere
americano.
Un'area enorme nella quale l'odio anti-yankee può assumere aspetti di guerra
guerreggiata.
Per la Russia vi è stata una perdita di prestigio presso chi evidentemente non
ne conosceva il carattere conservatore. Anche questa perdita si assomma sul
conto di Yalta.
Al momento il vero enigma del Medio Oriente è rappresentato dalla disponibilità
alla guerriglia di Boumedienne e di Atassi. Tutto lascia credere che qualcosa di
nuovo va maturando.
Durante il seminario sul socialismo nel Mondo arabo tenutosi ad Algeri dal 22 al
28 maggio scorso Boumedienne ha sostenuto una interpretazione del socialismo
straordinariamente vicina a quella cinese, cioè nazionalista, scendendo fino
all'esaltazione della carica rivoluzionaria delle masse rurali. Larga eco hanno
avuto le posizioni filo-guerriglia enunciate in due punti:
1) evitare la realizzazione di una supremazia militare su Israele che è
difficile da raggiungere e che provoca il rinvio sine die della battaglia
decisiva;
2) evitare l'accumulazione e l'acquisto massiccio, di armi che pregiudica le
economie dei diversi Paesi ed esalta solo la funzione dell'esercito
tradizionale.
Al contrario di quanto sostiene il Generale Dayan il Medio Oriente è un'area
favorevolissima alla guerriglia. Laddove il consenso e la solidarietà popolare
non mancano e dove il petrolio sostituisce vantaggiosamente la giungla ci sono
le condizioni per imporre una volontà politica Per chi, distratto dalla prosa
dei vari Ricciardetto, avesse dimenticato alcuni dati sarà bene ricordare che
nel '66 il 28,7% del petrolio grezzo mondiale è stato estratto nel Medio
Oriente, dove per la prima volta è stata anche superata la produzione
nord-americana. Dal sabotaggio su vasta, scala rimarrebbero duramente colpiti,
oltre all'Europa che ne produce l'1,1% e ne raffina il 30%, anche gli Stati
Uniti che ne consumano il 40% e ne producono il 27,7%.
POLITICA INTERNA
7 - Nota sulla situazione politica universitaria
Purtroppo per un difetto di impaginazione e "rifilatura" della pagina, non
possiamo riportare il testo di questo articolo… Con la speranza di trovare altra
copia di questo numero di "Corrispondenza Repubblicana" o che qualche lettore ci
invii fotocopia dell'articolo in questione dandoci la possibilità di integrare
la parte mancante, ci scusiamo con i lettori.
POLITICA ESTERA
8 - Il protettorato USA sugli Stati dell'America Latina (1ª parte)
Le condizioni dell'America Latina
nell'immediato dopoguerra mostrano come anche sul piano strettamente economico i
tentativi indipendentistici fossero miseramente falliti.
Infatti i trusts statunitensi operanti nel continente sudamericano avevano
escogitato varie tecniche per mantenere il controllo delle strutture economiche
dei vari Paesi.
Le deboli autorità locali concedevano, date le condizioni dei Paesi al termine
della guerra in seguito alla situazione del mercato mondiale, concessioni di
sfruttamento delle risorse a condizioni molto favorevoli. In questo modo le
compagnie americane si trovavano a poter possedere ingenti partecipazioni
dirette. Ad esempio il noto trust United Fruit Co. nel 1959 arriverà a possedere
circa un milione di ettari e più di duemila chilometri di strade ferrate
nell'area caraibica. Contemporaneamente si assiste all'intensificarsi della
colonizzazione tecnologica, del controllo dei commerci grazie al monopolio dei
noli e dei trasporti.
Esempio sconcertante di questa situazione fu la reazione che incontrò il governo
Arbenz nel suo tentativo di nazionalizzare le concessioni locali in mano ai
trusts nordamericani: l' United Fruit Co. detronizzò il governatore nel giro di
pochi giorni.
In questa situazione tutto ciò che i governi avevano tentato sul piano delle
nazionalizzazioni si scontra necessariamente con un rapporto di potere tra
capitale USA e capitale locale a tutto favore degli Stati Uniti. Nel Messico,
alla fine della guerra, delle 400 maggiori Imprese 233 erano controllate dagli
Stati Uniti che finanziavano in forma diretta il 36% dei grandi investimenti. Se
si tiene presente inoltre il collegamento esistente nelle imprese miste tra
capitale locale e trusts finanziari statunitensi (Morgan, Du Pont, Rockefeller,
First National) il condizionamento economico risulta pressochè totale. Ci sono
infine da registrare i casi nei quelli il capitale USA non rifugge
dall'attaccare frontalmente le imprese pubbliche locali da cui è ostacolato
(Brasile). Per non parlare poi delle forme di auto-nazionalizzazione,
particolarmente nel settore petrolifero, con le quali non soltanto le compagnie
americane non perdevano il controllo del capitale (49 per cento ufficiale, più
forti tangenti con le partecipazioni indirette), ma venivano, a beneficiare
anche di aiuti e speciali trattamenti fiscali accordati a questi nuovi
complessi.
Il peronismo
Nel panorama dei tentativi indipendentistici a base nazionalista del sudamerica,
l'unico movimento che si distinguerà nella formulazione di una linea politica
valida è il peronismo.
Ricordando gli avvenimenti che erano culminati nell'insurrezione militare che lo
aveva spodestato, Peron, nel corso di una intervista, ha affermato che la sua
caduta fu determinata dall'opposizione alle direttive dell'ambasciata USA.
A questo proposito occorre dire che l'anti-americanismo di Peron aveva avuto un
peso minore di altri elementi che dovevano catalizzare contro il capo argentino
una congiura di dimensioni vastissime: questi elementi furono il contenuto
ideologico dello Stato giustizialista e la solidità della sua struttura.
In effetti gli Stati Uniti di fronte all'Argentina di Peron si erano trovati
innanzi a qualcosa di diverso dalle varie oligarchie politiche e militari
facilmente corrotte dal dollaro.
A capo di un Paese ricco ed economicamente forte, con la forza di una pace
sociale raggiunta grazie a soluzioni di carattere corporativo che avevano
conquistato le masse lavoratrici (i sindacati sono tutt'oggi una solida base a
tendenza peronista), con una politica che sembrava superare il piccolo
nazionalismo di cui Roosevelt si era servito per la sua politica di «buon
vicinato», il peronismo rappresentò il più serio tentativo di contestazione in
termini politici ed economici e soprattutto ideologici del protettorato
statunitense sull'America Latina. Sfortunatamente si collocò in un periodo
storico chiuso che non offriva il minimo spiraglio ad un anti-americanismo
autonomo.
Quello peronista era il modello dell'America Latina, modello che avrebbe potuto
risolvere stabilmente il problema della instabilità delle strutture politiche
del continente.
Nello Stato giustizialista gli Stati Uniti non videro solo un nazionalismo
desideroso di porsi un'economia indipendente, ma scorsero il pericolo di
un'America Latina con strutture politiche solide, con valori ideologici
difficilmente attaccabili, con istituti e valori, che si adattavano
perfettamente all'uomo sudamericano (si pensi invece ai continui fallimenti dei
movimenti laicisti-radicali che riescono a mantenersi per mezzo di regimi
polizieschi e che non riescono mai a raggiungere la stabilità).
Per scalzare il peronismo gli Stati Uniti agirono attraverso due veicoli,
particolarmente pronti a prestarsi ai giochi politici di Washington: gerarchie
militari e gerarchie cattoliche. L'azione del Vaticano fu veramente la più
disgustosa. Nessun motivo di ordine morale e religioso poteva spingere, la S.
Sede a condannare il regime peronista: semplicemente il desiderio di rendere un
buon servizio agli Stati Uniti. Il colpo alle spalle di Peron, è bene rilevarlo,
rientra nel quadro della politica pacelliana-montiniana di appoggio agli Stati
Uniti nella seconda guerra mondiale e della «crociata anticomunista» fatta nei
quadri del «mondo libero».
Su temi come quello della lotta al peronismo, il cattolicesimo americano si
incammina sulla strada della intesa con il radicalismo americano. E ciò mette in
evidenza come fu proprio l'occidentalismo di Pio XII a spianare la strada al
periodo d'oro dei successori.
In quanto alle gerarchie militari è inutile qui ribadire il carattere massonico
e quindi corruttibile di queste nell'America Latina. I nomi dei fomentatori
della rivolta ce ne danno un'idea: dal contrammiraglio Samuel Calderon nei primi
moti del 16 giugno, a Isaac Royas nei giorni decisivi.
Perduto il potere politico, il peronismo ha visto cadere anche la testa
politica.
Oggi è rimasta la sola organizzazione sindacale. Dal '55 ad oggi il peronismo ha
sempre avuto i sindacati argentini in mano, ma la linea sindacalista si è
dimostrata sterile ed incapace di porre il movimento sul piano della lotta per
la conquista del potere.
Il gesto più clamoroso, dopo anni di stillicidio sindacalista ed elettoralista è
stato, per i suoi possibili sviluppi politici, il famoso telegramma del capo
della federazione sindacale del movimento a Mao Tse-tung. Un'apertura politica
di questo genere avrebbe permesso al peronismo un collegamento politico e
rivoluzionario che avrebbe tagliato fuori e superato a sinistra il castrismo,
senza porsi su una posizione comunista. L'incapacità di portare avanti una linea
in questo senso, l'unica linea rivoluzionaria oggi possibile in America Latina,
mostra però i limiti dell'attuale classe politica peronista.
Un periodo di transizione
Insieme a Peron cadono nell'America Latina diverse dittature personali che
avevano goduto in passato l'appoggio degli Stati Uniti.
Nei secondi anni '50 ci si trova nell'area sudamericana di fronte a numerosi
mutamenti.
È difficile costruire una trama unica degli sviluppi latino americani senza
cadere in uno schematismo superficiale e insufficiente. Comunque la linea di
fondo degli avvenimenti la si può isolare abbastanza chiaramente.
L'America Latina compie lenti, ma sensibili progressi economici che producono
dei mutamenti sociologici. Un ceto medio borghese si forma oltre che in
Argentina, Brasile, Messico, anche in Cile, Venezuela, Uruguay e Bolivia. Il
problema del gruppo di potere più forte non si pone più nei termini degli anni
tra le due guerre, nei quali per la inesistenza o la incapacità delle borghesie
locali i gruppi militari o dei grossi proprietari terrieri detenevano
oligarchicamente o personalmente il potere. La soluzione militarista, quindi
comincia a presentarsi come soluzione provvisoria del potere. Pur non essendo
eliminabile nella realtà sudamericana a causa delle situazioni di squilibrio
dovute a numerosissimi motivi (demografici, economici e sociali), essa lascia il
posto al potere dei civili.
Gli Stati Uniti appoggiano le modificazioni che avvengono all'insegna della
democrazia e della libertà favoriscono lo stabilirsi dei governi civili (Frondizi,
Quadros, Valencia, Prado), impostano la politica della "Alleanza per il
progresso", favoriscono la creazione di industrie a capitale misto cercando di
adattare le proprie strutture economiche in Sudamerica alla ricerca di una
integrazione economica locale.
L'esperimento che sul piano politico definisce bene questo indirizzo è la
democrazia cristiana di Frey; il modello economico e l'ALALC elaborato dal CEPAL
(la commissione dell'ONU per l'America Latina).
Ma su questo sviluppo si innestano le vicende del castrismo.
La rivoluzione di Castro
La rivoluzione cubana, all'inizio, si inserisce nel quadro di questi mutamenti,
Fidel Castro ha una formazione politica e culturale di tipo populista.
All'inizio delle sue esperienze politiche e praticamente fino alla conquista del
potere ignora, sostanzialmente, il marxismo. Il programma politico del movimento
da lui diretto non ha un'impostazione classista, ma si rivolge ad una larga
massa popolare («contadini, lavoratori, disoccupati, insegnante intellettuali,
piccoli proprietari ed altri settori del Paese»), crede fermamente nei mezzi
legali e nel Parlamento, perlomeno fino al colpo di Stato di Batista, né sul
piano della politica estera si pone il problema di una contestazione della
supremazia americana («non avevo capito del tutto la relazione esistente tra il
fenomeno dell'imperialismo e la situazione di Cuba»). Per sua stessa ammissione
Fidel Castro è all'inizio fortemente influenzato da atteggiamenti, idee,
educazione piccolo-borghesi.
In piena lotta rivoluzionaria, al processo per l'attacco di Moncada, il suo
linguaggio non è marxista, ma propugna riforme di carattere economico, con
obiettivi di tipo democratico-borghese («libertà di stampa, ritorno alla
costituzione del 1940»).
Infatti la componente più vera del castrismo è un filone nazional-popolare che è
caratteristico dei movimenti indipendentistici sudamericani.
Una volta giunto al potere, l'influenza di Che Guevara che pur non essendo un
marxista ne usa i termini, l'aggancio internazionale con l'Unione Sovietica e un
annacquato collettivismo economico che però non assume un atteggiamento di
classe, ma popolare, gli fanno assumere una coloritura marxista e comunista. Mai
come nel caso del fidelismo l'ideologia comunista assume un così chiaro aspetto
sovrastrutturale, di strumentalizzazione mancando sostanzialmente
nell'esperienza di Castro qualsiasi elemento fondamentale del comunismo,
dall'internazionalismo al partito politico della classe operaia, ad una
impostazione veramente collettivista.
Anche le vicende che portano Cuba a rompere con gli Stati Uniti hanno assai più
l'impronta nazionalistica che non quella comunista. Castro rompe con gli USA
perché questi si dimostrano ostili ad alcune nazionalizzazioni operate dal suo
regime e questo nonostante le «speranze» di Castro di mantenere buoni rapporti e
di avere «la comprensione del popolo americano».
Su questa linea, a livello internazionale, Castro si rivolge verso la Russia nei
termini di una «nazione amica», cerca l'appoggio sul piano commerciale, e cioè
nei termini nazionalisti e para-borghesi.
Durante la crisi di Cuba si dimostrano i limiti dell'appoggio sovietico; finché
si tratta di fare un «miglior prezzo dello zucchero» o di fornire «attrezzature
industriali» la Russia si fa avanti, al momento di dare un sostanziale appoggio
rivoluzionario la «nazione amica» fa marcia indietro, preferisce non rompere con
gli Stati Uniti. Certi fatti hanno le loro conseguenze sul piano della
propaganda rivoluzionaria.
Dopo il 1962 la posizione del castrismo in America Latina comincia a diminuire.
Deluso dall'atteggiamento sovietico, ma pesantemente condizionato dalla «nazione
amica» Castro arriverà a dichiarare, nel '64, di essere disposto a porre fine
all'assistenza di Cuba ai movimenti rivoluzionari in altri Paesi, come base per
un possibile negoziato con gli Stati Uniti e darà vita ad una pesante polemica
con la Cina nel '66.
I fatti più recenti sembrano però modificare il quadro attendista nel quale si
era mosso Castro dal '62. Soggetto prima alla strategia coesistenziale dell'URSS
con aperte critiche all'oltranzismo cinese, dopo aver dimostrato una marcata
insofferenza per questo tipo di condizionamento, Fidel Castro, dopo aver
riaperto in sede di conferenza tricontinentale il colloquio con i movimenti
rivoluzionari dell'America Latina, dell'Africa e dell'Asia è giunto recentemente
a condannare a viso aperto la condotta rinunciataria dei partiti comunisti
legati a Mosca con un contemporaneo rilancio dell'appello rivoluzionario.
Nello stesso tempo tutto il movimento rivoluzionario comincia a riprendersi: nel
Venezuela guidato da Dougla Bravo espulso dal Partito Comunista Venezuelano alla
fine del 1965, mentre tra poco la nuova strategia dell'OLAS (Organizzazione
Latino-americana di solidarietà) dovrebbe aprire nuovi fronti insurrezionali.
La ripresa di un discorso rivoluzionario castrista e soprattutto l'aggancio
internazionalista che finalmente sembra farsi strada nella mente dei capi locali
apre la possibilità di un superamento del piccolo nazionalismo che aveva
caratterizzato la politica di Castro tra Washington e Mosca. Che Guevara nel suo
recente discorso ha detto: «L'imperialismo è un sistema mondiale e lo si deve
abbattere in un grande scontro mondiale». Nella misura in cui il movimento
rivoluzionario sudamericano saprà emanciparsi da certe forme di riformismo
paramarxista, da certi contatti a livello afrasiatico destinati a ricondurlo nel
legalismo onusiano, dal piccolo nazionalismo, per accettare la guida
rivoluzionaria della Cina, aumenterà il peso della contestazione statunitense e
la robustezza del discorso rivoluzionario.
(continua)
SINDACALISMO
9 - Eletto a Roma il consiglio provinciale del SINAPS - Sindacato
Propagandisti Scientifici
Durante l'assemblea provinciale del 26
maggio 1967 è stato eletto il Consiglio Provinciale SINAPS nelle persone di:
Giorgio Vitali - Presidente
Roberto Bucci - Tesoriere
Adolfo Putignano - Segretario
Mario Transi - Consigliere
Sandro Ferrari - Consigliere
Il Consiglio curerà essenzialmente i problemi sindacali dei collaboratori
scientifici dell'industria farmaceutica, mentre gli organi direttivi nazionali
seguiranno e interverranno in tutto ciò che concerne il riconoscimento della
personalità giuridica e dell'albo professionale della categoria.
COSTUME
* Manifesto rivelatore
In questi ultimi tempi è apparso sui muri d'Italia un manifesto del Partito
Comunista, che illustra chiaramente l'aspetto ideologico della «via italiana al
socialismo». Il manifesto espone una «teen ager».
Nella mente degli ideatori, probabilmente le giovane truccatissima, con
sigaretta e l'aria assorta di chi esprime la protesta beat, avrebbe dovuto
esercitare un richiamo fra le giovani generazioni o almeno mostrare la modernità
del PCI.
In realtà il manifesto con la dicitura «Sono giovane: divento comunista» mostra
soltanto che questo partito, che una volta si definiva rivoluzionario, è oggi
sul piano della concorrenza alle grandi case discografiche. Si contendono i
giovani per convogliarli ciascuno al proprio dancing o alla propria «sezione».
Quando si associa l'idea di comunista con quella di ballerino-contorsionista si
dimostra che la carica rivoluzionaria è da tempo esaurita, la forza delle idee è
esausta e invece di proporre ai giovani di cambiare il mondo in cui vivono, si
dice loro che la rivoluzione ed il ballo frenetico sono sinonimi, si dimostra
come questa civiltà è quella che i comunisti italiani hanno sempre voluto, per
la quale hanno lottato a suo tempo, e oltre alla quale non sanno né vogliono
andare.
* America di gomma
Ultimo prodotto della civiltà dei consumi e del disordine fisiologico ad essa
legato, è comparsa prepotente a menar strage di cuori la Party-Poli.
Si tratta di un manichino femminile al naturale in gomma, che si gonfia e fa
alcuni movimenti. Vista da lontano, mollemente abbandonata su una poltrona,
Party Doli non ha nulla da invidiare alle più languide bellezze holliwoodiane.
Dai puritani giornali statunitensi si apprende che Party Doli viene utilizzata
durante le feste da ballo come partner di ballerini solitari. Si aggiunge in
sordina che la nostra bambola ha già provocato gravi fenomeni psichici,
squilibri, feticismo, vortici di sentimenti.
Per ben valutare come facilmente sì possano instaurare dei processi psichici
allucinanti, invitiamo i nostri lettori ad immaginare le situazioni paradossali
in cui può trovarsi sentimentalmente implicato un uomo medio americano,
sradicato dal mondo reale da mille immagini, assalito nell'intelletto da
infinite sollecitazioni propinate dalla propaganda di mercato, esasperato dalla
estrema durezza e competitività di ogni attività lavorativa moderna, straziato
dal freudismo, abituato alla freddezza della donna americana, quando venga a
convivere con un essere di gomma dalla conturbante bellezza.
ATTIVITÀ DEL CENTRO POLITICO AUTONOMIA EUROPEA
* Manifesto sulla crisi del Medio
Oriente
Nei giorni scorsi sono state distribuite a Roma, a cura del Centro, della
"Caravella" e di "Nazione Europa", copie del volantino di cui riproduciamo di
seguito il testo:
NO AL PREDOMINIO RUSSO AMERICANO NEL MONDO
Il conflitto nel Medio Oriente dimostra che:
- alla riunificazione del mondo arabo si oppone la presenza dello stato di
Israele, creato dall'ONU contro i millenari diritti arabi;
- USA e URSS, interessati a mantenere la spartizione nel mondo stabilita a
Yalta, sono i massimi oppositori dell'unità panaraba, della Grande Asia
Orientale, della libertà dell'America Latina e dell'autonomia europea;
- come gli USA non intervennero in Ungheria nel 1956 per l'indipendenza del
popolo europeo, così l'URSS non è intervenuta nel Medio Oriente durante la lotta
rivoluzionaria del popolo arabo;
- ora il minacciato intervento sovietico vuole soltanto far accettare agli Stati
arabi, prima lasciati sconfiggere, la presenza di Israele, negazione dell'unità
panaraba.
Viva l'unità araba! Viva l'autonomia europea!
* Dibattito sul tema «Lo Spirito di Yalta nella crisi del Medio Oriente»
Il giorno 13 giugno si è svolto un dibattito al "circolo dei Selvatici" in Roma:
«Lo spirito di Yalta nella crisi del Medio Oriente». Lucci Chiarissi e Vulpitta
per "l'Orologio" e Giraldi per "il Centro" hanno svolto le relazioni
introduttive.
* Programmazione di conferenze-dibattiti in sede di campeggio
Nel quadro del campeggio organizzato dalla FNCRSI a Capistello dal 6 al 13
agosto il Centro curerà la puntualizzazione della propria tematica politica.
Sono state programmate le 7 conferenze-dibattiti seguenti:
Domenica 6 agosto - L'uomo tradizionale nel mondo moderno.
Lunedì 7 agosto - Le condizioni della lotta politica nell'attuale momento
storico: la strategia del radicalismo e dell'occidentalismo verso l'URSS, la
Chiesa e i regimi e i movimenti di destra.
Martedì 8 agosto - Le condizioni della lotta politica nell'attuale momento
storico: le caratteristiche ideologiche e politiche dell'opposizione al
radicalismo e all'occidentalismo in America Latina, in Asia, nel Medio Oriente,
in Europa e nella Chiesa.
Mercoledì 9 agosto - Il carattere della nostra opposizione al radicalismo e lo
spazio politico della stessa.
Giovedì 10 agosto - La connessione in Italia fra centrosinistra, opposizione
costituzionalizzata, sistema democratico parlamentare e occidentalismo.
Venerdì 11 - Gruppi sociali in Italia e loro permeabilità al nostro programma
politico.
Sabato 12 agosto - Obiettivi politici immediati, linee d'azione e strumenti
organizzativi del nostro Centro. |