ATTUALITÀ
1 - La bomba orbitale sovietica
La sera del 4 novembre scorso, in una
conferenza stampa tenuta al Dipartimento della Difesa americano, Mc Namara
annunciava, senza mostrare soverchia preoccupazione l'esistenza di un'arma
spaziale sovietica capace di entrare in orbita intorno al globo e sganciare, su
comando da terra, ordigni atomici sugli Stati Uniti.
Il FOBS (Frational Orbitai Bombink System), così viene chiamata dai tecnici
americani la bomba orbitale, consiste in una carica nucleare posta in un
satellite capace di raggiungere gli Stati Uniti, e qualsiasi altro punto della
Terra, dopo aver sorvolato il Polo Sud, cioè da una direzione dove attualmente
non esiste alcun sistema di intercettazione elettronica. Attualmente da tre
stazioni situate in Groenlandia, Alaska e Gran Bretagna, gli Stati Uniti
irradiano al disopra del territorio sovietico un vero e proprio schermo
elettromagnetico, grazie al quale sono subito informati su tutti i velivoli
spaziali che vengono lanciati dall'URSS. Supponendo ipoteticamente che
quest'ultima attacchi gli USA con missili balistici, grazie al loro sistema
d'allarme, gli americani lo saprebbero con circa 17 minuti di anticipo
dall'esplosione delle cariche nucleari sul loro territorio, e diciassette minuti
sono più che sufficienti per dare il via alla rappresaglia missilistica e per
distruggere con il sistema antimissile anche buona parte delle ogive attaccanti.
Utilizzando il FOBS contro gli USA su una frazione d'orbita che sorvoli l'India,
l'Oceano Indiano, il Polo Sud e l'America Latina i sovietici effettivamente
potrebbero eludere l'attuale sistema d'allarme statunitense; la bomba orbitale
passerebbe sotto l'attuale schermo elettromagnetico e verrebbe scoperta solo
dalle stazioni radar dei Caraibi a soli tre minuti dall'esplosione sul
territorio americano. Ma ben pochi sanno, che per i sovietici si tratterebbe di
un vantaggio irrilevante poiché, rispetto ai più recenti tipi di missili (capaci
di cadere a soli 500 metri dal punto prestabilito), il FOBS rappresenta
certamente una involuzione. Per quanti progressi abbiano potuto fare i Russi nel
controllo dei satelliti in volo, è infatti impossibile che, rientrando
nell'atmosfera, un satellite tocchi la superficie con una approssimazione
inferiore a quella delle dieci miglia, che rappresentano la distanza media alla
quale hanno ammarato i satelliti pilotati.
Inoltre perché l'attacco sia coronato da successo, esso deve portare alla totale
distruzione del potenziale nucleare avversario, vale a dire all'eliminazione di
numerose basi sotterranee di missili intercontinentali, e di aerei strategici,
senza contare gli aerei permanentemente in volo e i numerosi sommergibili
lanciamissili, sempre in crociera nel fondo di tutti gli oceani.
Mettere tutto questo armamento fuori combattimento con un attacco simultaneo,
evitando che il nemico possa porre in atto una sia pure limitata ritorsione, è
un'eventualità impossibile.
Comunque il vantaggio della sorpresa del FOBS verrà a cadere con le prime
settimane del 1968; cioè fra non più di due o tre mesi quando da nuove stazioni
situate su isole dell'Oceano Indiano, gli americani irradieranno sull'URSS un
altro schermo elettromagnetico di allarme che permetterà la scoperta dei FOBS
con un anticipo di circa 29 minuti e porrà la bomba orbitale (in volo tra i 150
e i 180 Km. di altezza) alla mercé del sistema antimissile.
Orbene si deve constatare che il nuovo sistema sovietico di bombe orbitali pur
alterando i fattori dell'attuale strategia americana, non rompe assolutamente
l'equilibrio politico della distensione e perciò non varia i rapporti di forze
che regolano la convivenza dei due blocchi e la loro reciproca superiorità sul
resto del mondo
Dovrebbe subito essere evidente a tutti il fatto che non esiste una causa di
attrito politico che possa far rompere questo equilibrio, ed inoltre è più che
comprensibile che a nessuno dei due contendenti, che oggi di comune accordo si
dividono il mondo, convenga in alcun modo spostare tale equilibrio, anzi più
questo rimane stabile e più vantaggi reciproci vengono a nascere.
Il fatto che il pentagono inizi la costruzione di un sistema anti-FOBS fa
prevedere che Mc Namara sapesse già da tempo la notizia della costruzione
nell'URSS della bomba orbitale. Si potrebbe pensare quasi che sia stata una
confidenza conviviale al banchetto tra Kossighin e Jhonson nell'incontro di
Glassboro. Comunque la notizia era trapelata già da molto tempo prima: lo
dimostra il fatto che il senatore Henry Jakson, democratico dello Stato di
Washington, ha dichiarato ai giornalisti di aver saputo del nuovo ordigno
nucleare sovietico prima che il ministro della Difesa facesse la sua conferenza
stampa.
Da tutto ciò è palese che la notizia della messa a punto di un'arma nucleare
orbitale sovietica era già nota agli americani molto tempo prima delle
dichiarazioni di Mc Namara.
Ma allora ci si domanda: qual'è lo scopo politico dei russi per mettere a punto
un ordigno così terrorizzante e nello stesso tempo così militarmente inefficace?
Perché tanta pubblicità se sono così scarsi gli effetti del FOBS? Ed ancora,
perché Mc Namara ha dato l'annuncio dell'esistenza di un ordigno orbitale russo
il giorno 4 novembre 1967, mentre è noto che la notizia della messa a punto del
FOBS era giunta al Dipartimento di Stato già da molto tempo prima?
Ai diversi quesiti che ci poniamo è evidente che vi è una sola risposta.
Sicuramente la messa in scena della farsa del FOBS è conveniente sia
politicamente che militarmente ad entrambe le potenze. Infatti i tecnocrati al
governo dell'URSS hanno voluto, in occasione dello storico anniversario della
rivoluzione russa, dare un contentino alla classe militare, la quale fa sempre
più pressione per ottenere maggiori possibilità di «escalation». Ma nello stesso
tempo fissare un nuovo obiettivo nel tentativo di raggiungere gli Stati Uniti
sul piano tecnologico e militare.
Per gli Stati Uniti invece la notizia della presenza e della pseudo-minaccia del
FOBS ha contribuito a far nascere una particolare situazione di caos e di
terrore, sfruttando la quale tenteranno di far accettare un vecchio piano già in
mente ai supervisori della politica americana.
Cioè l'ulteriore installazione di basi e sistemi antimissilistici in Europa, con
la scusa di costituire una difesa più avanzata per la protezione dell'occidente
dal pericolo comunista. Tutto ciò sarebbe una spudorata truffa, in quanto la
creazione di una linea difensiva più avanzata eserciterebbe una maggiore
pressione politica sui paesi della NATO che si vedrebbero costretti a comperare
ingente materiale elettronico dagli USA per la costruzione di un sistema
anti-FOBS in Europa, che certamente sarebbe comandato e controllato dai centri
spaziali e militari del Pentagono. Tutto ciò con il pieno appoggio
dell'industria missilistica e metallurgica americana che sicuramente riceverebbe
l'appalto in Europa di tale progetto.
L'annunzio fatto da Mc Namara ha acceso tutte le destre europee ed in
particolare quelle nostrane, le quali si sono precipitate ad affermare che con
il FOBS è finita la distensione e che quello che era ritenuto dagli avversari
lamento di prefiche, non era altro che l'esatta visione di un futuro nel quale
l'URSS avrebbe avuto la supremazia militare sugli USA.
Questi ambienti di destra non comprendono o non vogliono comprendere che la
distensione continua e continuerà per un bel pezzo, e che noi europei,
accettando uno schermo missilistico protettivo, pagato di tasca nostra,
arricchiremo l'industria elettronica americana, e diventeremo la difesa avanzata
degli USA pur non potendo disporre dell'uso di questi missili antimissile.
Non potremo infatti usare questo sistema di intercettazione, basato sulla
distruzione mediante carica atomica del vettore avversario, dato che il
controllo delle cariche atomiche rimarrebbe sempre agli americani. Da queste
constatazioni ribadiamo fermamente che il trattato di non proliferazione, che
gli USA cercano di imporci, se firmato decreterà definitivamente la
sottomissione dell'Europa agli USA sia sul piano tecnologico che principalmente
sul piano strategico e militare. Questo trattato capestro ci condurrà ad essere
allineati ai paesi sottosviluppati, e l'utile idiozia delle destre, sfruttando
la psicosi del periodo russo, farà si che parte dell'opinione pubblica europea
abbracci e proclami sua unica difesa quell'America che l'ha eliminata
politicamente durante la guerra e l'ha sottomessa ai suoi giochi militari e
mercantilistici mediante il patto di Yalta. Dal canto loro le due superpotenze
mondiali si avvantaggerebbero notevolmente di questo trattato in quanto, con il
pretesto di arrestare la corsa agli armamenti, rimarrebbero le uniche nazioni a
proseguire questa corsa. L'antimissile USA ne è una prova, la bomba orbitale
dell'Unione Sovietica ne è la risposta, a cui seguirà fra poco quella americana
dell'anti-FOBS.
Respingere il trattato sulla non proliferazione è il minimo che l'Europa possa
fare; liberarsi di ogni tutela americana è un conseguente atto rivoluzionario
che si deve coronare con un armamento nucleare proprio, quindi privo di ogni
controllo, in modo da renderla capace di affrontare qualsiasi minaccia da parte
dell'Unione Sovietica.
POLITICA INTERNA
2 - Le regioni: l'attacco radicale allo
Stato
Dopo la discussione per la revisione del
Concordato con la Santa Sede, il Parlamento è stato teatro della battaglia tra
la maggioranza e l'opposizione di destra per l'approvazione del disegno di legge
che prevede le elezioni regionali per il 1969.
Tutta la compagine dei partiti di centro-sinistra è stata più unita che mai in
questa occasione. Ad essa è stato dato il massimo appoggio anche dall'estrema
sinistra. Questo fatto ha causato l'insorgere di tutta la stampa moderata di
destra, la quale vi ha riconosciuto, col massimo disappunto, una nuova manovra
dei comunisti, lanciati sulla via del paventato «Fronte Popolare», grazie all'acquiscenza
e all'incoscienza della Democrazia Cristiana.
A leggere le terrorizzate pagine di questa stampa, sembrerebbe evidente che
anche in questa occasione il partito comunista abbia tentato di strumentalizzare
le forze della coalizione di maggioranza, costrette a subire simili iniziative
per la loro solita incapacità politica. Ma anche in questa occasione non si è
voluta vedere la verità, o per malafede o per cronica incapacità di guardare il
fondo delle cose. E le cose stanno tutte all'opposto. Sono infatti i comunisti
gli strumentalizzati della situazione, sono stati loro a subire questa nuova
iniziativa, ad accettarla per coerenza con la posizione assunta da Togliatti nel
1946, e ad estremizzarla, come loro costume, per voler essere sempre i più a
sinistra. Sono stati i comunisti i catturati a tale iniziativa, proprio dai
gruppi di governo, sotto la spinta e la sollecitazione di quelle forze
«radicali», ormai ampiamente diffuse e operanti in ogni partito di
centro-sinistra. Anche questa volta il più attivo «regionalista», colui che ha
retto i fili della discussione, colui che, dando un colpo al cerchio e uno alla
botte, cerca di spingere il centro-sinistra su una certa strada, badando bene
nel contempo di non alterare il precario equilibrio con cui questo strumento si
regge, è stato proprio il «magnifico» Ugo La Malfa.
Il partito comunista non solo non ha tentato alcuna manovra «frontista», ma anzi
con l'apporto decisivo dei suoi voti ha permesso l'approvazione del disegno di
legge e ha salvato il governo da una più che probabile crisi. L'unico vero atto
rivoluzionario a questo punto sarebbe stato il votare contro la legge
elettorale, presentando a sua volta una proposta, schierandosi alla opposizione
insieme alle destre, come del resto è già stato fatto altre volte. Agendo così
si sarebbe potuto portare la crisi nell'ambito del governo e sfasciare la
coalizione di maggioranza; la vicinanza delle elezioni avrebbe certamente
acutizzato la crisi.
Ma anche questa volta la vocazione rivoluzionaria non si è fatta sentire, come
non lo si è mai fatta sentire in passato, potendosi al riguardo parlare
solamente di vocazione insurrezionale. Il discorso dell'inserimento e del
riformismo fa sempre più gola, tanto è vero che anche in questa occasione la
classe dirigente comunista ha mostrato la sua recettività al discorso della
creazione di un fronte di tutte le forze laiche, che gli ambienti radicali con
sempre maggior frequenza stanno facendo (vedi "l'Espresso").
Dunque a votare contro tale disegno sono rimaste solo le «Destre». I liberali, i
monarchici e i missini.
Dei monarchici non mette conto parlarne.
I liberali, come è stato concordemente considerato da tutta la stampa, sono
stati il centro animatore della battaglia anti-regionalistica. La loro
opposizione alle regioni non è stata motivata da questioni di principio, ma solo
da una valutazione del momento politico e sociale, per cui i tempi e i modi di
realizzazione sono stati considerati non attuali e antiquati. Quindi si
tratterebbe solo di rivedere e correggere i dettami della Costituzione sulla
questione per fare bene la riforma regionalistica dello lo Stato, come ha
lasciato detto in una intervista l'on. Malagodi stesso.
La posizione dei missini è un po' diversa. La loro presa di posizione contro la
realizzazione dell'istituto regionale è motivata invece da questioni di
principio, dettate in nome di un nebuloso senso dello Stato, oltre che dalle
solite considerazioni di ordine economico (elevato costo delle amministrazioni
regionali). Nebuloso senso dello Stato perché non si sa ancora come esso debba
essere concepito, al di là di oscure nostalgie risorgimentali e
corporativistiche, limiti questi che pare non si riesca in alcun modo a
superare, anche in virtù di una totale incapacità di concepire realisticamente
l'attuale momento storico politico. Infatti il MSI si attarda su di un viscerale
e quanto mai cieco anticomunismo, per cui le regioni, tra l'altro, non
andrebbero fatte perchè alcune di esse cadrebbero in mano ad una gestione
comunista con il conseguente pericolo di una loro marcia al potere della
periferia al centro. Senza contare la totale mancanza di volontà rivoluzionaria
del PCI, ciò in effetti non sarebbe possibile perché gli organismi vitali di
tali istituti, quali la polizia, le forze armate, la politica interna ed estera
rimarrebbero sempre saldamente nelle mani del potere centrale.
La motivazione dell'integrale rifiuto dell'istituto delle regioni dovrebbe
risiedere, a nostro avviso, in una chiara visione dell'idea di Stato, quale
valore spirituale ed entità metafisica, contrapposta a quella delle forze che si
vogliono combattere. Forze attualmente non più identificabili col comunismo ma
con quello specifico tipo di civiltà, realizzatasi pienamente oltreoceano,
neo-illluminista e neo-capitalista, che propugna la visione di un mondo arido,
desacralizzato, massificato, privo di autentici valori dello spirito.
Ma tale vera e spregiudicata visuale delle cose e delle nuove realtà politiche
manca alla classe dirigente di tale movimento, immobilizzato su vecchi luoghi
comuni per miopia, per malafede e per intrinseca arteriosclerosi politica, i
quali lo portano su comode posizioni di retroguardia, senza possibilità di
sbocco, nella totale incapacità di porsi come nuova soluzione di antitesi ad un
mondo che solo a parole dicono di combattere.
3 - Le dimissioni di Merzagora
Durante l'assemblea dei cavalieri del
lavoro all'EUR, presenti le massime autorità dello Stato, il senatore Merzagora
nel suo discorso rivolgeva una dura critica agli impegni e ai programmi del
governo, accentuando il suo dissidio con questo particolarmente riguardo
all'istituto delle regioni.
Con questo discorso Merzagora poneva fine alla sua lunga permanenza alla carica
di presidente del senato.
Infatti l'attacco sferratogli da tutti gli ambienti politici, esclusa
naturalmente la destra, lo costrinse a rassegnare le dimissioni, che mantenne,
sebbene venissero respinte con varie motivazioni, non potendo tornare indietro
al punto in cui si era giunti.
Dopo il violentissimo ordine del giorno del gruppo senatoriale comunista, che
nel corso di una improvvisa riunione aveva messo in minoranza il troppo moderato
Terracini, e dopo le aspre critiche dei gruppi repubblicani e socialisti, giunse
improvviso l'attacco della stessa Democrazia Cristiana.
Le principali riserve che i gruppi di maggioranza formalmente gli rivolgevano si
basavano sulla inopportunità di una simile presa di posizione derivante dalla
carica che egli ricopriva e da motivi di fedeltà al gruppo politico a cui egli
appartiene.
Stilando il suo discorso, Merzagora, sicuro dell'appoggio del suo partito, che
alla fin fine avrebbe dovuto difenderlo dagli attacchi dei comunisti e che
avrebbe messo a tacere per solidarietà le altre forze della coalizione
governativa, pensava certamente che, male che andassero le cose, al massimo si
sarebbe giunti alle sue dimissioni, poi normalmente rientrate, come già era
accaduto altre volte.
Ma in questa occasione Merzagora non ha fatto bene i suoi calcoli e non ha
valutato a dovere il momento politico.
Senza parlare delle immancabili ambizioni che si creano attorno a una carica
prestigiosa come quella di presidente del Senato, non aveva considerato che il
disegno di legge per le elezioni regionali, da poco terminato di discutere in
Parlamento, sarebbe passato prossimamente all'esame del Senato.
In previsione della discussione in Senato, gli ambienti laici della maggioranza,
favorevoli all'attuazione dell'ordinamento regionale, non potevano permettere
che la conduzione del dibattito, fosse affidata a un così acceso
anti-regionalista. Senza contare l'enorme numero di emendamenti che le
opposizioni si apprestano a presentare, la sua presenza destava apprensione, ed
una eventuale sconfitta al Senato avrebbe rappresentato un serio pericolo di
crisi per la maggioranza, oltre un possibile rafforzamento delle destre.
Merzagora, che aveva maldestramente consegnato ai suoi nemici l'arma con cui
colpirlo, oltre che attaccato dalle sinistre, si vide sacrificato dagli stessi
colleghi di partito agli interessi « superiori » del centro-sinistra, da loro
amorevolmente curato e che non volevano vedere minimamente turbato.
Ad appoggiarlo e difenderlo rimasero solo le destre. I liberali perché vedono in
lui il campione delle libertà democratiche e un fautore del mai dimenticato
centro-destra. I missini perchè vedono in lui l'occasione di dir male del
governo (del governo, si badi, non del sistema!) e spunto di propaganda per le
vicine elezioni.
Le regioni e Merzagora sono state, è il caso di dirlo, la manna caduta dal cielo
per la classe dirigente del MSI, che vede in esse il mezzo per rimpinguare il
vecchio e vuoto bagaglio di tesi politiche che da anni stancamente si portano
dietro. Va notato in ultimo che questo movimento non ha neppure sentito la
necessità di ricordare al senatore Merzagora che, se ha avuto il coraggio di
lamentare le carenze e le contraddizioni del governo, questo è il naturale
prodotto di quel sistema di cui egli fu uno dei creatori e che per venti anni vi
si è sentito perfettamente a suo agio. E vent'anni per accorgersi che qualcosa
non va sono forse un po' troppi.
POLITICA ESTERA
4 - Involuzione della rivoluzione nasseriana
Che la crisi del Medio Oriente si stia
avviando ormai verso una soluzione politica, è cosa da molti riconosciuta. Anche
se questa strada è lunga e difficile, tuttavia, dalle pur contrastanti voci
degli ambienti politici internazionali, si può prevedere che, contrariamente
alle dichiarazioni ufficiali dei governi arabi e del governo israeliano, si
arriverà quasi certamente ad una serie dì cedimenti e di compromessi «per
salvaguardare la pace» in quel settore.
Non che con questa ammissione si voglia essere d'accordo con la piega che sta
assumendo la crisi, o si voglia escludere del tutto nel futuro una eventuale
ripresa del conflitto, (che per il momento è improbabile), ma stando così le
cose, dopo un'analisi della situazione ci sembra che le parti in causa vogliano
arrivare per lo meno ad un compromesso. Il moderatismo in cui Nasser è
scivolato, e i recenti avvenimenti del Medio Oriente dimostrano che la
rivoluzione araba sta ormai esaurendo il suo corso. (A meno che la politica
nasseriana non sia volta a guadagnare tempo per una eventuale rivincita).
Entrambe le parti in causa, stando alle dichiarazioni ufficiali sono rimaste su
posizioni intransigenti. Israele pretende la libertà di navigazione negli
stretti di Tiran e nel canale di Suez, la smilitarizzazione del Sinai,
trattative di pace diretta con i paesi arabi, ergo il suo riconoscimento
all'esistenza, come condizione per il ritiro delle truppe dai territori
occupati, esclusa Gerusalemme.
L'Egitto dal canto suo risponde che non riconoscerà mai lo stato di Israele, e
pretende il ritiro delle truppe israeliane sulle posizioni anteguerra, come
condizione per la riapertura del canale di Suez.
In realtà, stando alle dichiarazioni di membri di governo, di uomini politici e
di portavoci, le posizioni ufficiose sia di Israele che della RAU sono ben
diverse. Le posizioni di Israele, pur variando entro certi limiti, sono
addirittura più intransigenti. Per quel che riguarda i territori occupati,
infatti, alcuni, i cosi detti «falchi» o «centurioni» tanto cari alla destra
italiana, sostengono di non volervi rinunciare, tranne il Sinai, in quanto lo
stato di Israele ha raggiunto i confini biblici facilmente difendibili. Secondo
altri, tutti i territori occupati tranne Gerusalemme sono negoziabili, altri
ancora sostengono la necessità di creare la Cisgiordania autonoma, ma sotto il
diretto controllo di Israele. Di questo avviso è lo stesso segretario del
partito comunista israeliano. In realtà sarà ben difficile che Israele abbandoni
Gaza e i territori conquistati nella Siria.
Le posizioni ufficiose degli stati arabi sono invece più moderate.
I viaggi di Hussein prima a Mosca e poi a Washington e le voci scaturite
dall'intensa attività diplomatica in corso tra Gran Bretagna ed Egitto
dimostrano questa tesi. Il governo di Londra dal canto suo vede infatti nel
tentativo di mediazione della crisi, l'occasione di riprendere le relazioni
diplomatiche con la RAU, interrotte nel 1965, e di ottenere la riapertura del
canale di Suez, la cui chiusura significa un onere di circa 250 milioni di
dollari l'anno per le proprie finanze in crisi. A questo proposito si sono
svolte consultazioni all'ONU tra delegati britannici ed egiziani, a cui hanno
fatto seguito le missioni al Cairo di Sir Dingle Foot e di Sir Harold Beely.
Secondo Fott infatti, Nasser sarebbe disposto ad accettare la riesumazione della
commissione mista di armistizio egizio-israeliana, sulla base quindi della
procedura del 1949, che permetterebbe tra l'altro il dialogo diretto tra
egiziani ed israeliani ancor prima dell'evacuazione del Sinai. In secondo luogo
sarebbe disposto a por fine allo stato di guerra con Israele e a regolare
definitivamente il problema della libertà di navigazione nel canale di Suez,
subordinato però alla evacuazione di tutti i territori egiziani occupati da
Israele e alla soluzione del problema dei profughi in conformità alle
risoluzioni dell'ONU.
All'azione che Londra ha svolto sul campo diplomatico, Tel Aviv ha dal canto suo
risposto in maniera negativa, in quanto ritiene che tale azione «eluda il
problema fondamentale del riconoscimento da parte araba dell'esistenza di
Israele quale stato sovrano». Non si deve tuttavia escludere che anche dietro
l'intransigenza di Israele, si nasconda il desiderio di arrivare al più presto,
ad una formula di compromesso, in quanto non può tenere continuamente sul piede
di guerra le sue truppe: in questo senso il tempo lavora a favore degli arabi.
Che la crisi si avvii verso questo tipo di soluzione lo dimostra anche il fatto
che, in seguito all'affondamento del cacciatorpediniere israeliano "Eilath", da
taluni interpretato come un tentativo dei militari e degli intransigenti di
estremizzare la crisi e di far fallire le consultazioni in corso al consiglio di
sicurezza dell'ONU, e alla conseguente distruzione da parte di Israele delle
raffinerie egiziane di Porto Said, fatti questi che hanno senz'altro provocato
un certo aumento di tensione, sia Nasser che Israele si sono adoperati per
smorzare ogni possibilità di riapertura della crisi.
La rivoluzione nasseriana sta subendo quindi una involuzione a tutto vantaggio
degli elementi moderati.
Nello Yemen infatti il colpo di stato del 5 novembre che ha defenestrato Sallal,
ha portato questi direttamente al potere.
È noto come il presidente dello Yemen si opponesse categoricamente all'accordo
tra Nasser e Feisal dopo la conferenza di Kartum, e questa sua intransigenza
procurava degli enormi fastidi a Nasser. Non si hanno prove che il presidente
egiziano sia stato il promotore del colpo di stato, tuttavia è con la
liberazione degli esponenti politici moderati yemeniti, che si trovavano al
Cairo, tra i quali l'attuale presidente dello Yemen Abdullah Rhaman al-Iryani,
che si sono poste le basi del colpo di stato immediatamente approvato da Nasser.
Ad Aden inoltre, a pochi giorni dall'indipendenza, gli elementi filo-nasseriani
sono completamente spariti dalla scena politica a tutto vantaggio dei monarchici
del NLF coi quali l'Inghilterra sta trattando a Ginevra le clausole
dell'indipendenza.
Con ciò le grandi potenze, hanno ancora una volta dimostrato la loro volontà di
mantenere la status quo mondiale, di restare i principali arbitri della
situazione e di non voler arrivare ad una rottura.
Questo è ciò che Nasser non ha capito; questo è ciò che l'Europa deve capire.
5 - Il protettorato USA sugli stati dell'America Latina (III parte)
L'Alleanza per il Progresso
Già alla fine della seconda guerra mondiale gli Stati Uniti si erano convinti ad
una politica di aiuti pubblici nei riguardi dell'America Latina, nel quadro
delle concezioni radicali.
Con la ripresa in forma diretta del potere dei radicali negli Stati Uniti con
Kennedy, si ha una ripresa in grande stile di questa politica.
Come al solito le concessioni dei prestiti si accompagnano alle attached strings,
le clausole aggiuntive che destinano il monopolio dei trasporti alle compagnie
marittime statunitensi, la copertura dei rischi alle compagnie assicuratrici USA
e il monopolio delle operazioni bancarie agli istituti USA.
Nel marzo del 1961 il presidente Kennedy offre il piano "Alleanza per il
Progresso" ai Paesi latinoamericani. Il piano viene approvato dalla Conferenza
di Punta del Este cinque mesi dopo.
Il Piano si risolve in una ennesima forma di controllo economico e politico
verso i Paesi latinoamericani. Innanzitutto gli aiuti vengono forniti in
relazione alla situazione economica degli USA, e nel periodo di più largo
deficit della bilancia dei pagamenti statunitensi il Congresso opererà numerosi
tagli. La politica degli aiuti si esprime in precisi termini di priorità,
escludendo quei governi che avessero nazionalizzato beni americani, mentre come
al solito nessun aiuto è stato concesso a quei settori che avrebbero realmente
contribuito all'elevazione del prodotto continentale lordo. Un solo esempio:
l'80 per cento dei crediti agricoli hanno riguardato gli otto grandi feudi dell'UFCO,
mentre sono piovute le solite clausole preferenziali per quanto riguarda il
materiale, la scelta dei vettori, le compagnie di assicurazione ecc.
Inoltre questo nuovo strumento di pressione ha cominciato a funzionare alla
seconda conferenza di Punta del Este (gennaio 1962) come mezzo per adottare a
maggioranza dell'OSA una mozione di condanna del regime castrista.
L'incontro di Punta del Este
Alla situazione venutasi a determinare recentemente attraverso l'Alleanza per il
Progresso, l'incontro di Punta del Este non ha aggiunto nulla.
Il progetto di un mercato comune sudamericano (LAFTA) e centroamericano (CAFTA)
è stato messo in cantiere già da diversi anni, ma le condizioni economico
politiche e l'instabilità continua dei Paesi latino-americani ha evitato e
probabilmente eviterà passi avanti anche per il futuro.
Il dato più evidente che è balzato dalla riunione è stato il fatto delle
continue richieste di «migliori condizioni» di commercio dei Paesi dell'America
Latina verso gli Stati Uniti. Queste migliori condizioni, in genere, chiedevano
maggiori possibilità di allargamento dei mercati.
La Colombia ha richiesto maggiori possibilità di esportazioni di tessili e di
caffè in America e in Europa. Il Venezuela l'eliminazione delle restrizioni
all'esportazione imposte dagli USA. Il Cile maggiori possibilità di commercio
con l'Europa e il Giappone. Il centro delle varie questioni è stato sempre una
modificazione delle dure condizioni dei prestiti statunitensi. Ma su questo
argomento gli Stati Uniti non hanno voluto concedere nulla. A questo proposito
una sola cifra: nel 1966 su 1,3 miliardi di dollari, i Paesi latino americani
hanno dovuto rendere agli Stati Uniti per vecchi debiti 570 milioni. Se si pensa
ai tassi di interesse e al giro di condizioni a cui sottostanno quei Paesi si ha
una pallida idea dello strozzinaggio internazionale operato dagl'i americani.
L'impressione più profonda che la stampa statunitense ha avuto è che la politica
americana di aiuti, tendente a inglobare negli schemi economicisti le classi
medie e la nascente borghesia sudamericana, sia in avanzato stato di fallimento.
L'"US New & World Report" ha scritto: «Alcuni osservatori vedono più dinamite
politica nella insoddisfazione della emergente classe media che nelle masse
depresse dell'America Latina».
In effetti il disagio e l'insofferenza si va facendo strada, a livello economico
beninteso, finanche negli accondiscendenti governi filo-americani. Questo
dimostra non la loro volontà di contestazione degli Stati Uniti ma le difficoltà
che questi registrano nel mantenersi a galla. In conclusione una prospettiva
rivoluzionaria in America Latina deve comprendere alcuni punti importanti e
innanzitutto:
* impostazione ideologica a carattere popolare e nazionale con abbandono di
posizioni laiciste, ma nello stesso tempo con una dura polemica nei riguardi
dell'attuale politica Vaticana pacifista, distensionista e filo-americana;
* superamento del piccolo nazionalismo e del marxismo tutte e due chiaramente
inefficaci e contenenti ormai posizioni certamente conservatrici;
* legame rivoluzionario supernazionale capace di legare il movimento
rivoluzionario sudamericano non con il corrotto mondo afro-asiatico che vive ai
margini dell'ONU e degli USA, ma con le forze rivoluzionarie che vogliono
l'Unità Panaraba, la grande Asia orientale e l'autonomia dell'Europa;
* utilizzazione del ceto medio costituzionalmente nazionalista, ma con tendenze
piccolo borghesi e quindi riformiste, ma alle volte capace di spingersi oltre
con una guida politica di tipo rivoluzionaria;
* superamento delle forme parapolitiche, quali quelle sindacaliste,
insurrezionaliste, settariste, da associazione segreta, per la creazione del
partito politico rivoluzionario.
La conferenza dell'OLAS
Da questo angolo di visuale l'ultimo importante avvenimento che ci consente di
vagliare le prospettive della rivoluzione castrista nell'America Latina è la
riunione dell'OLAS svoltasi a l'Avana la scorsa estate.
Il disegno di Castro nel convocare la conferenza era piuttosto chiaro: mentre da
un lato egli manteneva i contatti con l'Unione Sovietica cercando di presentarne
il lato economico, dall'altra il suo appello rivoluzionario, il ritrovato
collegamento con «Che» Guevara e la critica ai partiti «opportunisti», dovevano
concretarsi nella conferenza con il riconoscimento di Cuba come centro e guida
rivoluzionaria dell'America Latina.
I risultati concreti della conferenza sono stati invece tutt'altri. Innanzitutto
si è dimostrata la eterogeneità del movimento castrista o nazional-comunista
latinoamericano e il richiamo di Castro alle «idee guida» è apparso privo di una
seria consistenza. Non solo si è dimostrata la nota divisione tra partiti
riformisti (con una strategia politica) e partiti rivoluzionari (che hanno a
base della loro strategia la guerriglia) -in effetti i primi non si sono visti
alla conferenza- ma tra gli stessi sostenitori della guerriglia vi sono state
aperte e chiare divisioni sia sui compiti e le tattiche dei singoli Paesi, sia
sulle linee generali della rivoluzione. Su questa linea il quadro che ne è
uscito fuori è quello nato dalla presenza di gruppi rivoluzionari, a volte
consistenti (Venezuela, Colombia), ma che non riescono a presentare una linea
unitaria. In questo senso anche lo scritto di Regis Debrey che tentando di
colpire le linee sindacaliste, difensiviste, trotzkiste, aveva cercato di
impostare una sistemazione ideologica e strategica del castrismo sulla quale
richiamare gli altri gruppi è caduto nel vuoto.
La conferenza ha confermato altri motivi: quello dei limiti ideologici di
Castro, degli elementi nazionalistici e paraborghesi della sua posizione
politica, delle difficoltà pratiche che Castro deve incontrare nel sostenere
allo stesso tempo una linea di accordo con l'URSS e la rivoluzione.
Una nota particolare della Conferenza è stata la presenza di movimenti politici
a tendenze rivoluzionarie e, soprattutto, interessante la presenza della
delegazione della Federazione dei sindacati argentini, che è notoriamente di
tendenze peroniste. Ciò dovrebbe far riflettere sulle prospettive future del
castrismo. Incapace di stabilire un contatto con il maoismo, anche perché questo
al momento attuale non ha interessi al di fuori dell'area asiatica, con un forte
atteggiamento laicista, che se era valido alcuni anni fa oggi non lo è più per
il fatto che il clero in Sudamerica si va portando verso una posizione
progressista, con un contenuto marxista che forse fa assumere al movimento
castrista un peso più conservatore che rivoluzionario, sia per gli agganci con
Mosca che per una ormai radicata tradizione riformista del comunismo
sudamericano, il filone più giusto al quale Castro dovrebbe attingere è quello
nazionale e rivoluzionario che è stato dei Simon Bolivar, dei Peron, dei Pancho
Villa. In questo senso l'aggancio con il sindacalismo peronista potrebbe essere
di buon auspicio.
Ma gli elementi dei quali è permeato attualmente il castrismo fanno pensare
assai di più ad una utilizzazione dello stesso, una volta dimostrata la
inconsistenza dell'attuale linea strategica e giunto alla fine del suo «vicolo
cieco », da parte dei gruppi radicali per tentare una via di penetrazione nel
Sudamerica. Questa, nonostante la verbosità rivoluzionaria di Fidel, ci sembra
essere la prospettiva della rivoluzione di Castro a lunga scadenza, un ritorno
cioè alla sua vera natura, quella del riformismo radicale.
DOCUMENTAZIONE
6 - La bomba atomica «pulita»
Il prof. Samuel Cohen, studioso alle
dipendenze dell'organizzazione di ricerche Rand Corporation, avrebbe stilato per
il Dipartimento della Difesa americano, un rapporto sulla sperimentazione in
territorio italiano. di un ordigno nucleare nuovo, capace di rivoluzionare i
canoni della strategia atomica. Che cosa c'è di vero nel "Rapporto Cohen"?
Presso i laboratori del CNEN di Frascati, diretti dal Prof. Lucio Mezzetti si
opera già da diverso tempo su un gruppo di gas ionizzati che potrebbero essere
la base di partenza per la messa a punto di un ordigno termonucleare piccolo, ma
libero di scorie radioattive. Per illustrare in modo accessibile i loro
esperimenti possiamo dire che quando esplode una bomba all'idrogeno, in realtà
sono tre gli ordigni che esplodono. Deflagra per prima una carica di tritolo,
con la quale si provoca la disintegrazione istantanea di una massa di uranio (la
così detta bomba A). Lo scoppio della bomba A serve a sua volta per creare le
condizioni di compressione, calore ed instabilità atomica con le quali può
deflagrare la bomba all'idrogeno. Tutta la spaventosa quantità di ceneri
radioattive che si diffondono è provocato dalla bomba all'uranio, che è
«sporchissima», cioè letale per l'atmosfera. Se si riuscisse ad innescare
direttamente la bomba all'idrogeno col tritolo, saltando la fase «A», si
otterrebbe invece un ordigno di uguale potenza distruttiva ma «pulito», e quindi
di enorme interesse dal punto di vista militare.
È a tutto ciò che mirano gli studiosi di Frascati?
I comunicati ufficiali lo smentiscono: a Frascati, essi dicono, si lavora per
dare all'umanità, che già controlla l'energia dell'atomo di uranio, anche il ben
più importante dominio dell'atomo di idrogeno.
I comunicati però non dicono tutto, e le smentite sono redatte in termini poco
persuasivi: occhi non del tutto profani notano qualche reticenza, e un poco di
imbarazzo. Un ordigno nucleare libero da scorie radioattive è proprio quello che
gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica stanno cercando di realizzare da quindici
anni a questa parte. È in sostanza, la bomba atomica «pulita» un'arma che
potrebbe essere usata in certi conflitti locali (Vietnam) senza esporre le
popolazioni civili ad un sicuro sterminio ad opera delle radiazioni, e che
consentirebbe di vincere la guerra anche soltanto minacciandone l'uso.
Il risultato tecnico degli esperimenti di Frascati si trova, a quanto pare, nel
rapporto che la Rand Corporation ha inviato a Mc Namara. Ed è appunto in base a
notizie precise che il dottor Cohen avrebbe stabilito la supremazia di Frascati
sul Los Alamos e Kurciatov per quanto riguarda l'innesco dell'idrogeno mediante
esplosivi convenzionali.
Ce n'è abbastanza per destare preoccupazione a Washington e a Mosca. Si sa, fra
l'altro, che alcuni membri del congresso degli Stati Uniti manifestano
l'intenzione di visitare al più presto i laboratori di Frascati.
Washington desidera fortemente che l'Italia sottoscriva il Trattato per la non
proliferazione delle armi nucleari, retrocedendo dalla sua posizione di attesa
di chiarimenti.
Di fatto, tale trattato «antiatomico», così come è stato concepito da sovietici
e americani, è inaccettabile perché serve esclusivamente gli interessi delle
potenze atomiche. Non soltanto gli altri Paesi dovrebbero rinunciare al possesso
di armi nucleari proprie, ma dovrebbero altresì accettare in ogni momento
ispezioni e controlli su qualsiasi impianto, anche per uso pacifico, e ciò senza
alcuna reciprocità. In un mondo che fra qualche decennio sarà mosso dall'energia
nucleare, questo vuol dire essere esposti ai rischi dello spionaggio
industriale. Con il pretesto di venire a controllare se trattiamo l'uranio,
americani e sovietici possono portarsi a casa informazioni tecniche che
preferiremmo tenere per noi.
In cambio di tutto ciò. cosa offrono le potenze atomiche?
Niente. Con l'ipocrita pretesto di impedire la proliferazione delle armi
atomiche, tali potenze, per poter conservare le loro posizioni di potere, hanno
stretto una salda collaborazione per tenere i loro alleati «denuclearizzati» in
uno stato di inferiorità e sottomissione permanente.
L'iniquità è evidente! Si dovrebbe, in altri termini, sottoscrivere il principio
della divisione del mondo in due blocchi altamente «nuclearizzati» e ipotecare
per sempre lo sviluppo scientifico e tecnologico di tutti gli altri paesi, e in
special modo dell'Europa.
L'economicismo che impera oggi nei governi europei, ha comportato un rifiuto al
trattato, e per questo motivo sono stati deliberatamente tralasciati i pericoli
politici ben più importanti e determinanti ai fini di una vera autonomia
europea.
Il trattato di non proliferazione, in ultima analisi è lo strumento col quale si
vogliono disarmare i disarmati e rafforzare gli armati, e rappresenta la
frontiera aperta attraverso cui i paesi non nucleari vedranno, impotenti,
verificarsi l'esodo dei «cervelli» e il trasferimento degli impianti tecnici nei
paesi privilegiati. Il disegno di Yalta, colpito più volte in questi venti anni
e indebolito da nuove forze politiche (Cina), lo si vuole rinforzare e rinnovare
in maniera palese e sprezzante attraverso il trattato di non proliferazione. La
coesistenza di cui il trattato è figlio, vuole significare il predominio globale
delle due potenze che vinsero la guerra mondiale. L'era atomica, quale si
delinea essere il XXI secolo, non deve trovare l'Europa priva degli strumenti
essenziali all'industria nucleare.
L'Europa non ha ancora rinunziato a considerarsi la protagonista della politica
mondiale.
CINEMA
7 - "Vietnam: guerra senza fronte" di A. Perrone
«Fratelli, lasciate i francesi, venite con
noi». È la voce dei vietminh, che attraverso gli altoparlanti si rivolgono alle
truppe coloniali, che insieme a pochi francesi resistono ancora dopo la caduta
di Dien Bien Phu. Poi rivolgendosi ai francesi: «... arrendetevi, non
combattente per gli americani, lasciate che vengano loro i difendere i propri
interessi». «Ma che centrano gli americani?» si domanda con rabbia e meraviglia
un giovane ufficiale francese. «Quelli hanno capito tutto» risponde un veterano
che ha evidentemente un buon senso politico.
Sono le ultime battute del film "317° battaglione d'assalto" nel quale il
regista Pierre Schoendoerfer intende esaltare l'eroismo dei soldati francesi che
hanno combattuto in Indocina per il prestigio dell'Europa e, nello stesso tempo,
porre in evidenza l'interessato tradimento dell'allora principale alleato della
Francia. Alleato che negli accordi di Ginevra troverà il suo premio ed ora ad
opera dei Vietcong sta scontando la pena nelle foreste e nelle risaie del
Vietnam.
Ma questo traditore ha per sua fortuna trovato nella stessa Europa una lunga
schiera di così detti «uomini forti», di «falchi», che con la loro politica del
«terrorismo», della continua minaccia sovietica, sono riusciti a cloroformizzare
gli europei e a far dimenticare loro la tragedia del 1945. In nome
dell'occidente sono riusciti a far passare gli americani come i difensori del
così detto «Mondo libero», e a far credere agli europei che con i loro
bombardamenti sul Vietnam gli USA difendono la civiltà occidentale. È la schiera
questa dei Beltrametti, dei Torchia, dei Giannettini, dei D'Andrea, e in ultimo
dei Perrone con il suo film "Vietnam: guerra senza fronte".
In questo suo documentario, il Perrone, dietro una falsa e odiosa imparzialità,
vuol giustificare la presenza e l'azione bellica degli americani. «Nel volto di
questi soldati» dice il commentatore «Non vi è odio». Come possono odiare,
domandiamo noi, se combattono una guerra che non sentono? Come possono vincere,
aggiungiamo, se combattono per una civiltà che li squalifica di giorno in
giorno?
È la civiltà del dollaro, dei mercanti, dei trusts economici, dei frigoriferi. È
la civiltà di coloro che credono di opporre la coca cola ai mitra, ma poi si
rendono conto che sono necessari altri mitra per difendere la stessa coca cola
(nazionalisti). Quando poi l'odio dei viet, superiore al disinteresse dei
marines, li trascina sempre più nel baratro della guerra mondiale, allora
chiedono la pace e il disimpegno (radicali). Lo stesso commentatore, riportando
le parole di un ufficiale americano rivolto ai giovani sud-vietnamiti, dice:
«Noi siamo qui per portarvi la pace, la libertà e la democrazia». Sono le stesse
cose che hanno portato in Europa nel 1945 dopo la sua sconfitta. Evidentemente
chi li sostiene ora nel Vietnam, come li sosteneva ieri in Corea, sono coloro
che hanno accettato la sconfitta e la conseguente divisione del mondo in due
sfere di influenza -il così detto mondo libero e il mondo comunista-; sono
coloro che hanno accettato il patto di Yalta schierandosi con l'un blocco e
accusando l'altro di non stare al gioco, ma di voler rompere lo status quo.
Oppure, come nel caso della destra, di accusare gli Stati Uniti di tradimento se
questi si muovono verso l'Unione Sovietica. Evidentemente questi «uomini forti»
hanno dimenticato che coloro i quali stanno bombardando il Vietnam, sono gli
stessi che hanno bombardato Roma, Napoli, Berlino, Dresda e le altre città
europee, distruggendo con una morsa di ferro e di fuoco l'Europa intera.
Evidentemente chi sostiene i bei marines alti, biondi, con gli occhi azzurri
(vedi alcuni circoli culturali di estrema destra) ancora non ha capito al
servizio di chi sono questi soldati, né che questi stessi sono pronti a
fraternizzare con i loro compagni d'arme negri, abbastanza numerosi.
Il Vietnam del sud appare ai nostri occhi né più né meno come una provincia
americana, con le stesse manifestazioni tipiche del mondo moderno rintracciabili
in tutta l'area di influenza statunitense: night, corruzione, orchestre jazz,
capelloni, coca cola, gomma da masticare, eterogeneità razziale. Civiltà questa
che rende simili l'America al Giappone moderno, di contro a quello dei samurai e
del Tenno, l'Asia all'Europa moderna, di contro a quella guerriera ed
aristocratica.
Civiltà questa contro cui lanciamo il nostro grido di battaglia. Noi non siamo
per la pace, noi siamo per la sconfitta degli USA, in quanto ciò
corrisponderebbe a nostro avviso ad una diminuzione del loro prestigio mondiale,
fatto gravido di effetti positivi per una azione rivoluzionaria in senso
nazionale Europeo. Lo abbiamo detto in più occasioni e lo ripeteremo fino alla
noia che un Europa completamente autonoma rispetto agli USA, politicamente,
militarmente ed economicamente unita con armamento nucleare, è in grado di
difendersi da sola contro l'Unione Sovietica.
Lo stesso documentario di Perrone pone in risalto, volutamente o
inconsapevolmente, l'enorme differenza esistente tra il combattente vietcong e
il marine americano.
L'uno trova rifugio nelle foreste, dentro buche, nella costante paura che gli
aerei americani con una semplice bomba al napalm possano distruggere in un
attimo l'intera boscaglia in cui vive, senza per questo perdere l'iniziativa
dell'attacco, nonostante sia male armato e possegga come viveri un sacchetto di
riso «che deve bastargli per molti giorni»; l'altro passa all'azione solo dopo
un massiccio intervento dell'aviazione e dell'artiglieria e trova nelle
immediate retrovie del fronte gli «scugnizzi» vietnamiti pronti a rinfrescarli
con aranciate e coca cola o a pulirgli le scarpe per pochi centesimi.
Queste considerazioni dovrebbero bastare per rendersi conto di come la mostruosa
macchina da guerra americana sia impotente contro la volontà di combattere dei
vietcong, alle cui spalle sta una volontà politica rivoluzionaria.
Naturalmente il Perrone da buon liberal borghese arrabbiato attribuisce tutto
ciò al fanatismo che il regime «comunista» di Hanoi, come tutti i regimi
«totalitari», in cui manca la «libertà», inculca ai guerriglieri. Le cose per
noi non stanno esattamente così. Innanzi tutto la valutazione che abbiamo fatto
della Cina e di Mao (vedi n° 6) vale per Ho Chi Min, il Vietnam del Nord e i
guerriglieri vietcong: la ideologia marxista entra cioè nella misura in cui è
possibile la strumentalizzazione delle masse. In secondo luogo i temi di fondo
che galvanizzano l'azione politica e militare contro gli USA, pur lontano dai
princìpi tradizionali, sono una volontà di contestazione dell'area di influenza
americana, un esasperato razzismo e un nazionalismo posto in termini di civiltà
da contrapporre a quella edonistica e borghese degli USA. La realtà della guerra
del Vietnam è quindi ben diversa da come ce la fanno apparire i giornali della
destra terroristica e della sinistra pacifista. La realtà è una sola,
innegabile: esistono uomini che ancora oggi hanno il coraggio di opporsi
all'impero del dollaro-cuori contro cannoni.
MISCELLANEA
I nostri amici.
Premesso che, secondo De Gaulle, l'Europa dovrebbe rafforzarsi per «far fronte
alla potenza economica degli Stati Uniti», come se gli Stati Uniti fossero i
nostri nemici...
"Il Tempo", 28 novembre 1967
Gli amici dei nemici.
È un bello scherzo far credere al mondo che gli Stati Uniti aiutando Israele
combattano il comunismo, quando in realtà invece lo appoggiano proprio con
questa azione.
"South African Jewish Time", 26-2-1966
I nostri nemici.
Dunque non c'è tempo da perdere: l'ONU deve muoversi con la massima rapidità e
con la massima chiarezza di idee e non può farlo fino a che Stati Uniti ed
Unione Sovietica non abbiano riconosciuto l'urgenza di intervenire e non abbiano
deciso di esercitare la massima pressione sui due contendenti.
"l'Espresso" n° 45 |