ATTUALITÀ
1 - Roma: l'Internazionale
dell'Occidente a congresso
Si sono riuniti a Roma il 3 e il 4 gennaio
i leaders dei partiti socialisti europei aderenti all'Internazionale. L'incontro
in un momento particolarmente importante per il socialismo europeo (unificazione
in Italia, partecipazione al governo in Germania, leadership politica in Gran
Bretagna, imminenti elezioni in Francia) ha permesso di riassumere il punto di
vista e l'attuale tendenza politica dei partiti socialisti.
Prima di passare all'analisi dei vari problemi sui quali si è svolto il
dibattito sarà bene esaminare su quali basi ideologico-politiche nasce il
revisionismo socialista.
* La caratteristica di fondo del revisionismo socialista
Alla vigilia del primo conflitto mondiale l'atteggiamento verso la guerra e la
rivoluzione divide il movimento socialista. All'interno della seconda
internazionale si formano due tendenze: una che si dimostra sostanzialmente
propensa ad accettare, di fatto, la guerra opponendo ad essa al massimo una
sorta di «centrismo» (Plekanov, Kautsky, David, ecc.) ed un'altra, capeggiata
dal partito socialdemocratico di Lenin, che propugna «l'intensificazione
dell'azione rivoluzionaria di massa e la creazione di organizzazioni illegali»
allo scopo di abbattere i vari governi e di trasformare in guerra civile la
guerra tra nazioni.
Qual'è la sostanza, il significato vero dell'atteggiamento centrista, che Lenin
definisce «socialsciovinista»? È una posizione incapace di creare un'opposizione
rivoluzionaria ai sistemi politici dominanti. Scrive Lenin: «Il contenuto
politico dell'opportunismo e quello del socialsciovinismo sono identici:
collaborazione delle classi, rinuncia alla dittatura del proletariato,
all'azione rivoluzionaria, riconoscimento senza riserve della legalità borghese,
fiducia nella borghesia. Il socialsciovinismo è la continuazione diretta e il
coronamento della politica operaia liberale inglese, del millerandismo e del
bernsteinianismo».
L'abbandono di ogni programma rivoluzionario e l'accettazione dei termini di
base del sistema democratico-parlamentare e quindi la scelta di operare
unicamente entro lo spazio politico del sistema formano la caratteristica di
fondo che accompagnerà sempre l'azione politica dei gruppi socialisti che hanno
le loro origini ideologiche direttamente o indirettamente legate alla seconda
internazionale.
Rotto il legame con il socialismo rivoluzionario, essi arriveranno a negare
qualsiasi validità anche al pensiero di Marx, assorbendo completamente
l'interpretazione bernsteiniana, secondo la quale la critica di Marx è
insufficiente di fronte agli sviluppi del capitalismo e porranno come punto di
riferimento, come modello concreto al quale ispirarsi, l'esperienza
tradeunionista, cioè l'operaismo liberale inglese.
* Il partito socialista e il sistema
È facilmente rintracciabile la funzione di appoggio al sistema operata dal
socialismo italiano in tutto l'arco storico della sua esistenza.
Quello che a noi qui interessa è vedere come il partito socialista sia stato
recentemente la scialuppa di salvataggio del sistema sul piano politico e della
struttura economica.
Prendiamo l'esperienza di centro-sinistra. Quando il fallimento del centrismo
nella sua formula del quadripartito rilevò in maniera drammatica la crisi
dell'intero sistema parlamentare italiano, immediatamente, rotto ogni indugio,
il partito socialista si offrì di partecipare al governo. Successivamente, una
volta che la situazione economica del Paese dimostrò che il perseguimento di
determinate riforme avrebbe intaccato momentaneamente taluni tradizionali
rapporti di potere e, soprattutto, messo in crisi l'economia dell'Italia, il PSI
accettò di rimandare le riforme a quando la situazione economica lo avrebbe
permesso, quando cioè avrebbero potuto essere realizzate senza danno per i
gruppi moderati.
Un'ulteriore tappa dell'inserimento nel sistema è stata certamente la
riunificazione socialista. Essa è avvenuta, tra l'altro, proprio al culmine
dell'affermazione socialdemocratica, nel momento in cui la socialdemocrazia
approdava al clericalismo, e si dimostrava, in una particolare contingenza
(tentativo di Fanfani di arrivare alla Presidenza della Repubblica con probabile
modificazione del sistema), più sicura garante della stessa DC ai fini della
stabilità della democrazia parlamentare italiana.
È stata certamente la completa acquisizione al sistema del partito socialista
che ha permesso alle forze moderate, dopo un breve periodo di assestamento, di
riprendere saldamente in mano le redini della politica italiana. L'acquisizione
ha, tra l'altro, operato in modo che l'asse politico del partito socialista si
sia spostato assai più verso le posizioni socialdemocratiche che quelle
radicali.
* L'occidentalismo dell'Internazionale e del PSU
Scriveva "la Stampa" il 7 maggio dello scorso anno: «Ritorno all'Internazionale
dopo venti anni. Nenni illustra a Stoccolma il nuovo volto del socialismo
italiano». Il ritorno all'Internazionale dei socialisti ha infatti avuto un
preciso significato sul piano della politica estera.
Il gruppo più importante all'interno dell'Internazionale è senz'altro il gruppo
tedesco. Il socialismo dei laburisti invece, è un modello troppo poco
esportabile e rientra in un contesto politico istituzionale del tutto
particolare e differente rispetto ai sistemi politici dell'Europa continentale.
Anche per tradizione la socialdemocrazia tedesca rappresenta il gruppo
ideologico più forte e, sul piano politico, il gruppo che maggiormente influenza
la politica estera dell'Internazionale. È noto inoltre che la politica estera
dell'SPD è fortemente occidentalista, anche quando si fa promotrice di un
dialogo con l'Est, ed è rigidamente anticomunista.
Quando il «vecchio della socialdemocrazia» (cosi Brandt definì Nenni) andò a
Stoccolma, si ebbe il coronamento del processo di occidentalizzazione del PSI.
Dopo aver per molti anni propugnato una politica neutralista, «di equidistanza
dai due blocchi», il partito socialista veniva ad accettare l'altro pilastro del
sistema: l'inserimento nelle linee politiche dell'«Occidente».
In questo senso il processo di socialdemocratizzazione dei socialisti si è
globalmente compiuto.
A Roma, l'ordine del giorno fissava gli argomenti da trattare sul tema dei
problemi della politica estera e l'esame era incentrato su «i rapporti fra i
paesi della CEE e quelli dell'EFTA» in vista della «domanda inglese di adesione
alla CEE» e sui problemi connessi «alla liquidità monetaria internazionale».
È stato scritto che sul problema della politica europea si sono scontrate due
linee: quella filo-francese di Brandt e quella filo-inglese di Nenni.
Le cose non stanno precisamente così. La politica tedesca nei riguardi di Parigi
ha un contenuto ed una direzione che non divergono dalle impostazioni
occidentaliste e quindi filo-inglesi degli altri partiti dell'Internazionale.
Certamente la politica estera tedesca dopo Erhard è volta a cercare vie
apparentemente nuove e, a questo proposito, particolarmente significative sono
risultate le dichiarazioni del ministro degli esteri tedesco nei riguardi
dell'Unione Sovietica e dei paesi dell'Est europeo. Qualcuno in questo ha visto
un accordo con l'attuale politica di De Gaulle. Ma questa distensione nei
riguardi dell'Est rientra appunto nelle linee di fondo della coesistenza
est-ovest e costituisce la vecchia linea politica della socialdemocrazia
tedesca. Un fatto è certo: fino ad oggi, da parte tedesca, non si è avuto nessun
passo significativo nei riguardi di Parigi. Anzi, l'adesione al piano
tecnologico di Fanfani che rappresenta l'ennesimo tentativo di agganciare
l'Europa agli Stati Uniti e l'appoggio che la Germania pare intenzionata a
concedere all'ingresso della Gran Bretagna nel MEC sono certamente indizi di una
politica che non vuole abbandonare la strada maestra del filo-americanismo.
Questo è infatti il punto di divergenza rispetto a Parigi. La posizione francese
riguardo all'ingresso della Gran Bretagna nel MEC è stata chiaramente illustrata
dal primo ministro Pompidou nella sua recente visita a Londra: accettazione
integrale dei Trattati di Roma, sganciamento dalla «alleanza privilegiata» con
gli Stati Uniti, avvicinamento alle posizioni francesi in termini di politica
monetaria internazionale, accettazione della politica agricola del MEC senza
alcuna «aggregazione speciale» e attesa di qualche anno «perchè la Gran Bretagna
rimetta in sesto la sua economia prima di poter discutere di nuovo la sua
entrata nel MEC».
Siamo solo agli inizi della politica estera del centrosinistra tedesco di cui si
devono attendere gli sviluppi futuri; esso comunque pare muoversi unicamente
nello spazio che gli lascia la politica russo-americana alla ricerca di una
piccola distensione e di un piccolo europeismo, con la catena strettamente
misurata dagli SU. In questo modo non esiste nessuna divergenza politica
nell'Internazionale. Il socialismo rimane sempre il fedele servitore
dell'occidentalismo in Europa.
Particolarmente significativo a questo proposito è stato il filo-inglesismo dei
socialisti italiani. Esso è la testimonianza del grado avanzato
dell'occidentalismo nel partito unificato. A questo proposito è risultata
particolarmente indicativa la proposta di Pieraccini sui problemi monetari volta
ad auspicare, come scriveva "l'Avanti!", «un sostanziale passo innanzi verso un
più razionale ordinamento del sistema monetario internazionale attraverso una
politica comune, conglobante la sterlina, che si porrebbe come saldo punto di
riferimento del sistema monetario internazionale».
L'intervento di Nenni contro la Spagna e il Portogallo (a cui si collega quello
contro la politica gollista dei giorni successivi) mostra la funzione da
estremista delle tesi altrui a cui si è ridotta la politica nenniana.
* Comunismo e socialdemocrazia
È stato scritto anche che si sono avute divergenze circa i rapporti con i
comunisti.
Nella posizione di De Martino, il quale ha sottolineato che i rapporti con i
comunisti sono regolati in Italia dalla carta dell'unificazione, e in quella di
Jules Moch, che ha illustrato i termini dell'alleanza tra la federazione della
sinistra e il partito comunista in Francia in vista delle prossime elezioni,
Panfilo Gentile ha notato una divergenza rispetto alla politica delle altre
formazioni socialiste europee e un allontanamento dalla Carta di Francoforte.
In effetti il commento de "il Corriere della Sera" mostra una preoccupazione del
tutto infondata per la illibatezza della socialdemocrazia francese e italiana.
In Italia infatti la possibilità del PSU di utilizzare i voti comunisti in
funzione antimoderata è stata prospettata dai radicali (prima Lombardi, ora De
Martino) unicamente per tentare un ricatto verso le forze moderate che fanno
capo al gruppo doroteo della DC.
Ma è chiaro che un eventuale blocco delle sinistre (PSU + PCI) non ha spazio di
manovra in quanto se realizzato su singole leggi comporterebbe la fine del
centro-sinistra, che è concepito come indirizzo politico globale, mentre lo
stesso blocco realizzato in via permanente presupporrebbe già terminata
l'esperienza di centro-sinistra. È indicativo in tal senso che la possibilità di
reinserire i comunisti prospettata a suo tempo da "l'Espresso" si fondava
sull'iniziativa del presidente Saragat, iniziativa impossibile a verificarsi.
In quanto alla situazione francese, si tratta di una vera strumentalizzazione
dei voti comunisti, i quali, per il particolare sistema francese a ballottaggio,
dovrebbero andare a tutto vantaggio dei candidati della Federazione Socialista.
Pitterman ha esposto la posizione ufficiale dell'Internazionale riguardo ai
comunisti, riaffermando la fedeltà all'«opposizione sui princìpi formulata al
congresso di Oslo del 1961», dichiarazione che non può essere modificabile a
motivo della «lentezza e contraddittorietà dell'evoluzione revisionista nel
mondo comunista».
Se nei rapporti tra socialdemocratici e comunisti vi è uno spostamento di
posizioni, una convergenza, essa è senz'altro da parte comunista verso i
socialdemocratici ed è su questa base che si tenterà l'utilizzazione dei partiti
comunisti in Europa. A questo proposito ricordiamo quanto scrisse la "Prava" il
4 febbraio '65 in un lungo esame dei rapporti: «Indubbiamente le modificazioni
che avvengono nel mondo sotto l'influsso delle forze del socialismo spingono
anche i comunisti a modificare alcune loro posizioni, ormai non rispondenti alla
situazione oggettiva. Come è noto i comunisti hanno rivisto alcune concezioni,
non più corrispondenti alla realtà, circa il giudizio sul ruolo della
socialdemocrazia e sulla via per avanzare verso il socialismo nei paesi di
capitalismo sviluppato».
2 - Sindacalismo: una proposta di legge seria per i collaboratori scientifici
dell'industria farmaceutica
Il caos del sistema democratico per quanto
concerne i rapporti di lavoro e l'organizzazione professionale ha colpito anche
il settore dei collaboratori scientifici della produzione farmaceutica.
È infatti proprio in questi giorni oggetto di dibattito, con tesi contrastanti e
spesso opposte, il problema del riconoscimento giuridico della categoria.
Mentre la proposta di legge 2256 per la disciplina della propaganda medica
limita la stessa ai soli laureati delle facoltà scientifiche, la proposta di
legge Storti prevede per chiunque la possibilità di esercitare una professione
così carica di responsabilità che interessa direttamente la salute nazionale.
Trattasi di due proposte di legge estremiste e limitate che non risolvono il
problema sanitario nè soddisfano le esigenze professionali. Opportunamente,
pertanto si è inserita fra esse per opera del «Sindacato Nazionale Propagandisti
Scientifici» (SINAPS) la proposta di legge n. 3560 che integra le esigenze della
salute pubblica con il rispetto giuridico e morale dell'informatore scientifico.
Si propone, in sostanza, la istituzione di un corso biennale universitario, alla
fine del quale si viene abilitati all'esercizio della professione. I corsi di
studio previsti riguardano chimica, farmacologia, patologia, ricerche di
mercato, statistica economica, matematica attuariale, diritto del lavoro e
infine due lingue, in previsione dello sviluppo del mercato europeo.
Laureati di tutte le facoltà possono acquisire la specializzazione in
"Informazione scientifica", mediante esami integrativi, nel caso sia necessario.
In questo modo viene delineata la vera figura del collaboratore scientifico,
messo in condizioni di poter operare con adeguata preparazione a favore del
sanitario quanto nell'interesse dell'industria che rappresenta. Inoltre una
chiara coscienza professionale non potrà che orientare alla collaborazione con
le sole industrie che diano sicure garanzie nella ricerca e nell'approntamento
dei farmaci.
POLITICA ESTERA
3 - Cina: il secondo tempo della rivoluzione maoista
È in atto in Cina l'ultima fase della
rivoluzione, quella contro il sistema economico, strumento e arma della classe
borghese insediatasi su posizioni di potere.
Di quanto sta accadendo in Cina, dall'inizio dell'anno, sappiamo effettivamente
ben poco. Qual'è l'entità degli scontri a Sciangai, Nanchino, Lanchow, Ciuscian
e nella stessa Pechino non è in realtà noto a nessuno. Quale la consistenza, le
reali possibilità, i fini precisi delle opposte forze in lotta non si può
conoscere che attraverso la valanga di informazioni, per lo più contrastanti
l'una dall'altra e non sempre attendibili, trasmesse dalle agenzie di stampa. In
sostanza si può affermare che la lotta per il potere, che non è tanto una lotta
di personalità quanto un conflitto tra concetti basilari sugli sviluppi della
politica interna ed estera cinese, si concreta nella divisione dei seguenti
gruppi:
1) gruppo nazional-maoista, promotore della «rivoluzione culturale», ispiratore
delle «guardie rosse», guidato da Lin Piao e sostenuto da una parte
dell'esercito. È in posizione duramente antisovietica. Sostiene che le risorse
della produzione cinese debbano essere investite principalmente nella
costruzione dell'arsenale atomico ed ha imposto perciò alla classe operaia dure
condizioni di vita. Mira alla formazione di un grande Stato cinese in senso
rivoluzionario. Fa leva sulle forze giovani e vive del Paese: studenti, soldati
e contadini.
2) Gruppo filo-sovietico, guidato dall'ex sindaco di Pekino Peng Cien, che ha
deplorato la rottura delle relazioni ideologiche con Mosca. Conta sull'appoggio
di vecchi militanti del partito e fa leva sugli intellettuali, professori,
universitari, scrittori, ma non possiede comunque una base di manovra tale da
consentirgli possibilità di successo.
3) Gruppo anti-Lin Piao e anti-sovietico, guidato dal Presidente della
Repubblica Liu Sciao-Ci, sostenuto dal segretario generale del partito Teng
Siao-ping ed ora anche da Tciao Ciu componente del Comitato Comunista del
Kiangsu e vice primo ministro. Mira anch'esso alla formazione di un grande Stato
cinese ma inteso in senso borghese. Fa leva sulle forze economiche, operaistiche
e sindacali, cioè sugli quegli strati sociali che costituiscono la migliore arma
per chiunque voglia instaurare un regime borghese. È indicativo notare che nel
Plenum di agosto Liu Sciao-Ci mosse violente critiche alla politica militare di
Lin Piao accusandolo di aver privato la Cina della possibilità di costituirsi un
forte esercito di tipo convenzionale a causa delle eccessive spese sostenute per
gli esperimenti nucleari.
Ed è con questo terzo gruppo che la fazione nazional-maoista del maresciallo Lin
Piao, dopo aver colpito ed eliminato alquanto facilmente il primo dei gruppi
anti maoisti e i centri in cui questo si era sviluppato, ha ingaggiato quello
scontro che dovrebbe costituire l'ultima fase della rivoluzione. Questa fase
della lotta intrapresa nove mesi fa sarà senz'altro la più difficile da
concludere favorevolmente per il gruppo nazional-maoista perchè si rivolge
appunto contro le vere forze antirivoluzionarie e conservatrici, contro cioè le
forze economiche espressione ed arma potentissima della borghesia.
Mao Tse-tung non si è smentito neanche questa volta ed ha impostato il suo
disegno fedele ai postulati della sua dottrina, ha provocato l'avversario e poi
ne ha atteso le reazioni facendolo così scoprire per meglio colpirlo.
Ha istigato le forze operaie e industriali provocandone le rivendicazioni
economiche ed il risentimento per i bassi salari imposti (di molto inferiori a
quelli dei contadini). A questo proposito è indicativo notare che in un recente
articolo del giornale dei sindacati sovietici "Trud", si affermava che nelle
fabbriche delle grandi città e nelle miniere cinesi vi erano ancora molti
elementi fedeli al verbo di Mosca mentre la massa contadina sarebbe aliena da
ogni influenza del Cremlino.
E così inevitabilmente anche gli elementi antirivoluzionari del settore
economico sono caduti nella rete tesa loro dal gruppo nazional-maoista, cosi
come vi erano caduti gli intellettuali, i pacifisti, i burocrati e i tecnocrati.
Ora Mao sa benissimo quali sono i suoi reali avversari, conosce cioè
personalmente chi agiva dietro Liu Seiao-ci e Teng Siao-ping, li ha individuati
nelle municipalità delle due città più industriali e operaie del Paese, Nanchino
e Sciangai con a capo i rispettivi sindaci, Yu Wei-fan e Tsao Ti-chin, chiara
espressione questa della avversione che le grandi città hanno sempre avuto verso
il pensiero e la dottrina di Mao Tse-tung che facente leva sin dai tempi della
«lunga marcia» sulle campagne e sui valori naturali propri dei contadini cinesi,
solo questi aveva considerato vincitori della rivoluzione e portatori della sua
concezione politica. Sono stati altresì individuati come sostenitori del
deviazionismo economicistico razionalista i quattro vice primi ministri del
settore economico: Li Fu-ciun, presidente della commissione di pianificazione,
Li Hsien-nen, ministro delle finanze, Tan Cen-lin, ministro dell'agricoltura e
foreste e Liu Ciu-li, ministro dell'industria e del petrolio.
Emerge ormai chiaramente che la lotta delle campagne contro le città impostata
da Mao in Cina va ormai concludendosi a suo favore. Mentre rileviamo che in
termini di pensiero questa lotta è quella del naturalismo contro il
razionalismo, dobbiamo precisare che i termini generali di essa sono
estremamente chiari per quanto concerne la politica interna cinese. Per la
politica estera devono essere invece rifiutate alcune interpretazioni, come
quella che tende a identificare «la campagna» con i Paesi sottosviluppati e che
è di carattere tendenzioso. Ma su questo e su tutto ciò che concerne il riflesso
della politica maoista verso la Russia, il Vietnam, l'Asia e l'America Latina
torneremo nei prossimi numeri.
4 - Medio Oriente: considerazioni sul
conflitto tra gli arabi e Israele
Lo sviluppo della crisi del vicino
oriente, iniziatasi nel 1948 con lo scoppio della guerra arabo-ebraica, trova la
sua attuale espressione nella reazione della popolazione arabo giordana contro
l'attuale linea distensionista imposta dai centri di potere mondiali (Vaticano -
Londra - Washington) e accettata dal Re di Giordania Hussein. Questo
irrigidimento del sentimento di larga parte del popolo giordano-palestinese
contro lo Stato di Israele trova giustificazione nel fatto che la guerra tra gli
Stati arabi e Israele non si concluse nel 1949 con una pace, ma con una serie di
armistizi separati che per il loro carattere non fecero altro che acuire lo
stato di tensione già esistente. Responsabile di questa situazione è senza
dubbio il governo inglese che si trovò contemporaneamente, alla fine della
seconda guerra mondiale, a garantire la formazione dello Stato di Israele e a
mantenere legati alla corona britannica i vari Stati arabi cui man mano
concedeva l'indipendenza o la sovranità.
Nel 1946 infatti l'Inghilterra concesse la sovranità alla Transgiordania,
ponendo al potere la dinastia degli Hascemiti con il Re Abdullah, mentre Faruk
Re d'Egitto e Feisal Re dell'Irak godevano già dell'appoggio militare ed
economico inglese. Fu praticamente l'Inghilterra ad imporre ai monarchi arabi di
ritirarsi dalla lotta contro Israele, permettendo cosi al novello Stato di
consolidare le sue posizioni e di essere riconosciuto legittimo da tutti gli
Stati del mondo.
La situazione peggiorò quando Faruk fu deposto da Neguib nel 1952 e a questi
successe Nasser nel 1954. Quest'ultimo diventò presto il paladino del
nazionalismo panarabo e della continuazione della guerra contro Israele.
Convinto anticomunista egli è anche un acerrimo nemico della supremazia
britannica nel mondo arabo. Per questo motivo la nazionalizzazione del canale di
Suez nel 1956 diede il pretesto a Israele, Francia e Inghilterra per
intraprendere le ostilità contro l'Egitto. La coincidenza della rivolta
ungherese, la minaccia sovietica e la conseguente imposizione americana agli
alleati pose fine al conflitto, il quale se da un punto di vista militare si
risolse con una loro completa vittoria, da un punto di vista politico rafforzò
il potere di Nasser in Egitto e aumentò la sua popolarità nel mondo arabo. Da
allora la politica nasseriana è costantemente rivolta verso un potenziamento
bellico dell'Egitto, uno sganciamento dei Paesi arabi dall'Occidente e una
risoluzione militare dello stato di tensione tra mondo arabo e Stato di Israele.
In questo contesto vanno inquadrate le varie rivoluzioni e controrivoluzioni
filo-nasseriane o anti-nasseriane nei Paesi arabi, (accostamento della Siria
all'Egitto, eliminazione di Feisal Re dell'Irak e dell'Iman dello Yemen) e le
dichiarazioni che il Presidente della RAU fece il 29 aprile 1964 al giornale di
Monaco "Deusche National und Soldatenzeitung" in cui affermava che sperava «di
far scomparire Israele nella presente generazione».
In seguito al fatto che Hussein di Giordania continua ad essere una pedina nelle
mani degli Inglesi (la visita di Paolo VI a Gerusalemme ed a Amman non fece
altro che porre i due paesi su un piano di parità e quindi contribuì ad inserire
la Giordania nella linea distensionista verso Israele), è sorta recentemente in
Giordania l'«Organizzazione di liberazione della Palestina».
I dirigenti di questa organizzazione, che ha sede al Cairo, accusano Hussein di
essere un traditore della causa araba e di condurre una lotta moderata contro
Israele, contro gli interessi del milione e trecentomila profughi palestinesi
che vogliono liberare la loro terra dagli ebrei. È chiaro che questa
organizzazione riceve aiuti dagli ambienti rivoluzionari del Cairo e di Pekino
ed è una spina che turba i sonni dei distensionisti, dei pacifisti e degli
ambienti radicali. Vaticano, Inghilterra, Internazionale Socialista, Stati Uniti
e ONU hanno di che essere preoccupati.
CINEMA
5 - "La battaglia di Algeri" di Gillo Pontecorvo
Con questo film Gillo Pontecorvo ha voluto
presentare nei termini più possibilmente vicini alla realtà gli avvenimenti
della guerra algerina, dal 1956 fino alla indipendenza, cosi come vennero
vissuti nella città che fu poi capitale del nuovo Stato.
Il film, che ha e vuole avere un carattere documentaristico e si avvale in molti
punti di riprese dirette degli avvenimenti, riesce a dare una visione tesa e
vigorosa del dramma algerino, cogliendo sopratutto il significato collettivo di
quegli eventi. La disperazione isterica della popolazione europea, consapevole
di non saper trovare nè in se stessa nè nella metropoli la forza per opporsi al
FNL; l'entusiastica energia dei paracadutisti, decisi a combattere per proprio
conto una guerra personale contro il terrorismo dei guerriglieri e contro la
fiacchezza di Parigi; l'iniziale passività delle masse mussulmane ed il lento
ingranare degli uomini di punta del FLN in questo conglomerato opaco, fino a
conquistarne l'appoggio e la silenziosa, quasi religiosa adesione, sono resi con
lucida immediatezza. La scena ripetuta degli ululati che si levano la notte dal
quartiere arabo con ritmo ossessivo, la sequenza dei mussulmani che pregano
sulle terrazze della Casbah in un'alba livida, attendendo l'esplosione della
casa ove è asserragliato un ultimo terrorista che ha rifiutato di arrendersi,
hanno un'incisività capace di riportare lo spettatore all'essenza di quei moti
profondi dei popoli che soli sono degni di segnarne il destino.
Come uomo di sinistra, investito della difesa d'ufficio d'ogni rivoluzione
libertaria, non si può negare a Pontecorvo una soddisfacente obiettività. Ma non
si può dimenticare che Pontecorvo è israelita e che la sorte degli ebrei nelle
vicende algerine fu strettamente legata, di fronte alla minaccia araba, alla
causa francese. Tralasciando, perchè troppo facili e scontati, i sentimenti di
masochistica compiacenza che la vista degli europei dilaniati dal plastico può
suscitare in certo pubblico italiano, affetto da autolesionismo razziale, e
l'analogo sentimento di vittimismo resistenziale davanti alle torture inflitte
dai paras ai terroristi catturati, il film, presentando con realismo
l'esperienza algerina, può essere occasione di rilievi interessanti per chi
voglia giudicare la storia guardando verso il futuro, anzichè verso il passato.
Certo la destra italiana, che ha fatto del nostalgismo una professione e si
sente chiamata a versar lacrime su ogni causa colpevolmente perduta, non è la
più idonea a comprendere la lezione algerina, come non comprende il senso della
guerra vietnamita.
La prima considerazione da fare riguarda l'errore dei militari francesi di
concepire la contro-guerriglia come un fatto eminentemente tecnico.
Dall'esperienza indocinese essi avevano appreso alla perfezione le forme
organizzative del terrorismo, credendo che in esse consistesse l'essenza della
guerra rivoluzionaria. Ad Algeri pensarono perciò di poter vincere la partita
stroncando i gangli dell'organizzazione avversaria. In effetti -come il film di
Pontecorvo pone, forse involontariamente, in evidenza- l'operazione conseguì il
suo scopo: spazzare da Algeri l'organizzazione del FLN. Ma in questo modo essi
non avevano risolto il problema; lo avevano solo rinviato, perchè di li a
qualche anno il FLN ricompariva nel capoluogo sotto nuove forme, più temibile di
prima.
La realtà è che nessun fatto tecnico può vincere una concezione ed una volontà
politica.
I capi algerini possedevano una strategia politica e seppero trovare le vie per
realizzare il loro obiettivo; non così i generali e i colonnelli francesi che
avevano una visione così caliginosa da arrivare a chiedere l'aiuto della CIA
contro Parigi, non comprendendo che alla Casa Bianca la sorte dell'«Algerie
francaise» era da tempo segnata!
Vi è una seconda considerazione: che una nazione ha la forza di imporsi
durevolmente alle altre solo quando porta in sè un messaggio universale di
civiltà. È bene che gli europei si rendano conto, al di fuori di ogni
sentimentalismo, che inevitabilmente alla loro decadenza spirituale e politica
doveva seguire la perdita degli imperi coloniali. La superiorità
tecnico-industriale e la capacità amministrativa non hanno alcun significato:
quando si parla in termini di porti e di dighe è inevitabile che chi è in grado
di costruire più porti e più dighe si sostituisca a chi ha possibilità
inferiori. Era inevitabile, quindi, che gli USA soppiantassero in Asia e in
Africa le potenze europee. Ma per la medesima ragione anch'essi oggi hanno
cominciato a scontare lo stesso errore; e lo sconteranno in misura ben maggiore,
quanto maggiore è l'inganno con cui continuano ad attirare a sè i popoli nuovi.
Solo ha diritto di guidare gli altri chi è spiritualmente superiore; e gli USA
non lo sono, nè in Africa, nè in Asia, nè in America Latina, nè in Europa.
COSTUME
6 - «Ecque qua» e «pirichè»: il linguaggio dell'Italia nova
Pappagone ha appena interpellato i suoi
partners, che questi, rivelatisi come due durissimi tedeschi, lo aggrediscono
con tono aspro e secco, al punto che egli si intimorisce, si ritrae, tenta la
fuga ed infine alza le mani dinanzi ad essi che con le braccia mimano due mitra
Prima ancora che lo «skech» termini, la platea, perentoriamente invitata
dall'apposito indicatore luminoso, fa scrosciare un applauso fragoroso,
insistente e convinto, tale comunque da far apparire spontanea e universalmente
sentita la condanna del furore «teutonico».
Così oggi, puntando sul conformismo, sulla passività e sulla pigrizia
intellettuale dello spettatore televisivo, si diffondono valutazioni, sentimenti
e stati d'animo creati in precedenza in laboratorio. Addio tradizioni popolari,
passate al vaglio dei secoli, costruite dalla saggezza, dal buongusto e dalla
sensibilità dei popoli! Addio concezioni personali, segnate dalla riflessione e
dal sentimento! Questo è tempo di massa e non di popolo, di individui e non di
persone e quindi è tempo di inculcamento meccanico delle idee e degli stati
d'animo.
Sul condizionamento delle masse che può operarsi attraverso la TV si è scritto
molto e spesso con cognizione di causa da psicologi e da sociologi. Tuttavia
pochi hanno posto in chiara luce che più della potenza del mezzo è la povertà
spirituale dell'uomo moderno che rende possibili i noti risultati.
L'uomo d'oggi è tabula rasa nella quale può essere scritta ogni cosa.
Una riserva può farsi tuttavia proprio circa l'instillazione delle idee
politiche attraverso la TV. Escluso senz'altro che una minima influenza possa
aversi, almeno in Italia, con i dibattiti e le conferenze stampa televisive, è
dubbio anche l'effetto immediato degli «skech» simili a quello descritto, le cui
tesi rimangono in gran parte depositate nel subcosciente e solo in un secondo
momento riemergono per orientare il giudizio dello spettatore.
Per quanto concerne il costume, invece, il mezzo televisivo si trova ad operare
su un campo già largamente arato dalle mode. L'abitudine a considerare tutto
come passeggero, provvisorio e non impegnativo, si è trasferita facilmente dai
vestiti al comportamento e al linguaggio. La fortuna degli «ecque qua» e dei «pirichè»
non può infatti spiegarsi soltanto con la sfacciata ed insistente proposta
fattane da De Filippo. Nè si può ritenere che abbia influito su mezza Italia
l'avallo del preside il quale ha preteso l'indicazione dell'ortografia delle due
parole.
La disposizione di fondo per l'accettazione massiva di quelle parole deriva
appunto dall'equazione linguaggio = moda.
Il linguaggio è una moda e come tale può benissimo essere elaborato negli studi
televisivi, come le «canzoni popolari» vengono confezionate negli studi delle
case discografiche.
Sotto questo punto di vista si comprende anche la differenza che corre tra le
concezioni democratico-popolari, quelle marxiste e quelle radicali. Come
avrebbero potuto infatti accettare una simile concezione, non dico Dante, per il
quale la lingua è sangue, ma gli stessi De Santis, Lukàs e Stalin?
Alla identificazione linguaggio = moda ha particolarmente contribuito, in
Italia, il fenomeno dell'urbanesimo che in un primo momento ha provocato il
culto dei dialetti più vari (vedi i trionfi televisivi, intorno al '60, di
Manfredi, ciociaro, dei comici siculi e di altri ancora) e in seguito
l'acquisizione del linguaggio cittadino da parte delle masse inurbate, le quali,
private del dialetto materno e naturale, si sono ritrovate con un meccanismo di
parole nuove entro il quale possono inserirsi sia i «pirichè» e gli «ecque qua»
sia un'infinità di espressioni straniere (l'ultima, definita molto divertente
dal provincialismo italiano, è «fare lo shopping» invece di «fare la spesa»).
Questa è l'Italia nuova e questo è il suo linguaggio.
SAGGISTICA
7 - Spagna trent'anni dopo: dalla Falange all'Opus Dei (ultimo capitolo)
Il patto ispano-americano del 1953 venne
presentato come un accordo di carattere puramente militare. In realtà fu una
delle più brillanti operazioni economico-finanziarie intraprese da Washington
dopo il piano Marshall.
Dopo i primi anni occorsi per vincere l'inerzia della situazione economica
spagnola, l'aiuto americano non tardò a far sentire i suoi effetti. Nel decennio
1955-1965 si avviò un processo di espansione economica, tuttora in atto, che
doveva superare le più ottimistiche previsioni. Anche la Spagna, come la
Germania e l'Italia, ebbe cosi il suo miracolo economico.
I settori che hanno registrato il più forte incremento sono stati quello
siderurgico, metallurgico, chimico, meccanico, edilizio, nonchè quelli del
turismo e dei beni di consumo domestico. Stazionari restarono, invece, i settori
dell'industria tessile e mineraria, oltre che -come avviene in tutti i processi
di rapida industrializzazione- il settore agricolo. Gli squilibri tra i diversi
rami produttivi e le inevitabili spinte inflazionistiche misero si in pericolo
nei primi anni la bilancia spagnola dei pagamenti, che raggiunse deficit
preoccupanti; ma occorre riconoscere che le misure stabilizzatrici adottate dal
governo nel 1959 (soprattutto la svalutazione della peseta) valsero a contenere
il fenomeno. Ciò non impedì il ripetersi di tali perturbazioni, tanto che nel
1965 il deficit della bilancia dei pagamenti aveva nuovamente raggiunto i 177
milioni e 500.000 dollari.
Anche il costo della vita subì un incremento vertiginoso. Prendendo come base il
1958, alla fine del 1965 esso era salito da 100 a 154,8. Nel solo 1965 aveva
registrato un aumento del 6%.
Ma le formule keynesiane danno per scontate siffatte ripercussioni negative ed
esse rientrano nel prezzo che un Paese deve essere disposto a pagare se vuole
conquistare una evoluta struttura capitalistica. Prezzo economico -si intende-
perchè degli altri prezzi le formule del Keynes non si occupano. E sul piano
tecnico soltanto la più retriva destra economica può contestare al
neo-capitalismo di saper raggiungere splendidi risultati.
In effetti, tra il 1956 e il 1965 la produzione industriale spagnola segnò un
tasso di incremento oscillante tra l'8 e l'11%. Nel settore edilizio nel solo
1964 furono costruiti 257.000 appartamenti. Città come Madrid e Barcellona hanno
subito in dieci anni uno sviluppo urbanistico come nessuna altra città europea
se si eccettua Atene. Nel 1960 Madrid contava 2 milioni e 260.000 abitanti,
all'inizio del '66 ne contava tre: Barcellona aveva un milione e mezzo di
abitanti, oggi supera i due milioni.
L'incremento turistico è risultato un fattore di primaria importanza,
contribuendo, assieme alle rimesse del milione di lavoratori spagnoli emigrati
nell'Europa centrale, a riequilibrare la bilancia dei pagamenti.
* Lo stato liberista
La realtà è che l'ondata di benessere, che si va diffondendo in vari strati
della società spagnola, ha il suo prezzo, anche sul piano economico.
Vivificato con gli aiuti finanziari e con un'accorta politica dei consumi il
mercato spagnolo, la finanza internazionale è entrata pesantemente nel vivo
dell'economia del Paese.
Le importazioni di merci dall'estero, provenienti in gran parte dal
Nord-America, sono salite con un incremento annuo del 9%, passando in tre anni
da 750 a quasi 3.000 milioni di dollari, mentre le esportazioni di prodotti
spagnoli sono rimaste pressochè stazionarie, non avendo superato nello stesso
periodo i 1.000 milioni di dollari all'anno.
Ma l'indirizzo più significativo della politica economica di Madrid nell'ultimo
decennio è la vantata liberalizzazione del commercio estero.
Durante una visita negli Stati Uniti, nel settembre 1965, l'allora ministro
delle finanze, Josè Espinosa, ebbe a dichiarare che «l'attuale legislazione
spagnola in materia di investimenti è estremamente liberale. Nei settori più
importanti della nostra economia le partecipazioni straniere possono raggiungere
praticamente il 100% del capitale senza che occorra un'autorizzazione speciale».
Invero ben pochi Stati sono cosi generosi di concessioni al capitale straniero.
Solo per un numero limitato di settori produttivi è richiesta un'autorizzazione
governativa qualora gli investimenti superino il 50% del capitale dell'impresa!
Come se non bastasse, la legge spagnola autorizza il rimpatrio dei capitali
investiti e degli utili realizzati senza limitazione di somma; solo si richiede
un periodo minimo di investimento. Non per nulla l'apporto di capitale straniero
ha superato dal 1959 ad oggi -secondo le cifre indicate da Lopez Rodò, ministro
incaricato dell'esecuzione del piano quinquennale attualmente in corso- i 500
milioni di dollari. Non occorre dire che gran parte di questi investimenti
proviene dagli Stati Uniti, sia direttamente dalla banche americane, sia
attraverso gli istituti finanziari mediati di carattere internazionale.
* Gli investimenti stranieri
Ma oltre ai capitali privati, di cui finora si è parlato, e che sfuggono ad un
esatto controllo grazie alle norme liberali che disciplinano la materia (gli
investimenti inferiori al 50% del capitale non sono soggetti ad alcuna
autorizzazione), la nuova borghesia franchista può contare sui capitali pubblici
investiti nell'esecuzione di opere dirette al potenziamento delle
infrastrutture.
La Banca Mondiale di Washington, ad esempio, ha concesso a tale scopo al governo
spagnolo nel 1965 la somma complessiva di 163 milioni di dollari, di cui 33 per
l'ammodernamento della rete stradale, 65 per le ferrovie, 30 per gli impianti
portuali, ecc. Nello stesso anno il governo americano offriva direttamente un
prestito di 37 milioni di dollari per lo sviluppo dell'allevamento del bestiame
e dell'industria delle carni.
Se si pensa alle cospicue partecipazioni americane nel capitale di molte banche
che si definiscono tedesche, inglesi o svizzere, comunque interessate al mercato
spagnolo, si può avere un'idea di quale sia la dipendenza economica della Spagna
di oggi dagli ambienti finanziari statunitensi e come essa si accentui col
passare degli anni. Non si può negare ai finanzieri americani di aver saputo
giocare la carta franchista.
Sul piano politico tutto ciò significa la perdita definitiva di ogni spazio di
manovra al di fuori della sfera politica statunitense. Evidentemente ciò non
interessa la classe politica spagnola, il cui obiettivo principale è costituito
-secondo quanto affermano i più qualificati rappresentanti del regime- dal
«raggiungimento di un livello di vita più elevato per tutti gli spagnoli».
A questo nuovo corso, ispirato ai più puri principi borghesi del capitalismo
illuminato, elevano osanna i cattolici progressisti spagnoli, fedeli interpreti
di più alte direttive.
L'antica Spagna cristiana era terra di miracoli; è giusto che anche la Spagna
neo-cristiana abbia il suo miracolo. Non sarà più la Vergine che appare tra le
rupi di Montserrat, ma la curva del reddito annuo che sale nell'ufficio
statistico del Banco di Spagna.
* Declino del partito nuovo
Era naturale che le ripercussioni politiche e sociali del boom economico
mutassero, negli anni successivi al 1955, i rapporti di forza all'interno del
Paese.
I nuovi punti d'appoggio del regime franchista divennero così l'amicizia degli
Stati Uniti, che grazie alla massiccia presenza americana nella vita spagnola
acquistava un peso decisivo anche nelle scelte di politica interna, e l'adesione
alla politica governativa della nuova classe borghese e tecnocratica che si era
sviluppata e rafforzata in relazione al miracolo economico.
Mano a mano che si affermavano i nuovi centri di potere, perdeva rilievo nella
vita pubblica spagnola il partito unico cui Franco aveva imposto nel '37 il nome
di Falange. Esaurita la sua funzione di principale sostegno del regime negli
anni dell'isolamento internazionale, Franco poteva ora sbarazzarsi a poco a poco
di questo strumento ingombrante, che nonostante fosse stato da tempo
svitalizzato di ogni contenuto, recava il compromettente marchio di un nome e di
un'origine legati a quel passato che i nuovi dirigenti di Madrid volevano far
dimenticare e riscattare, reinterpretandolo in chiave occidentalista. In fin dei
conti era un dovere di alleato aiutare il governo di Washington a dissipare gli
ultimi scrupoli morali alla sinistra democratica americana e internazionale.
Presentarsi al banco della finanza mondiale con tutte le carte in regola: ecco
la grande preoccupazione dei tecnocrati spagnoli degli anni '60. Dimostrare che
non solo sul terreno economico si allineavano con le avanguardie del
neo-capitalismo, ma anche sul terreno politico si ravvedevano ed accettavano i
postulati fondamentali della dottrina democratica.
Se prima del '55 si poteva ancora chiedere a chi entrava a far parte del governo
la tessera del partito unico, negli anni successivi anche questa pregiudiziale
formale veniva a cadere.
Dai congressi giovanili, casse di risonanza delle decisioni del regime; ai
campeggi estivi al rullo dei tamburi, la funzione di questo pesante organismo
veniva sempre più risospinta verso i compiti marginali. Fu questo il malinconico
declino di un partito nato morto dal decreto di unificazione dell'aprile 1937,
il cui unico scopo era stato quello di fare da poggiapiedi al potere personale
di Franco.
Saliva nel cielo di Spagna il nuovo astro dell'Opus Dei.
* Il ritorno del laicismo
In questo quadro, aperto dall'espansione neocapitalista e dal progressismo
cattolico, si spiegava la grande manovra del laicismo per reinserirsi nella vita
spagnola dopo lo scacco subito durante la guerra civile.
In una nazione profondamente religiosa come la Spagna e fiduciosa nella guida
pastorale del suo clero, impadronirsi degli ambienti cattolici significava avere
in mano il Paese. Fu il nuovo orientamento dato alla politica religiosa da
Giovanni XXIII e da Paolo VI a permettere l'attuazione di un disegno cosi
audace, che solo pochi anni prima sarebbe apparso impensabile. E furono le
costituzioni del Concilio Vaticano II, e ancor più la propaganda montata intorno
ai dibattiti conciliari, ad offrire ai laicisti i veicoli ideali per introdurre
con successo nella società spagnola quell'armamentario di concetti
razionalistici che cento e trenta anni di guerre sanguinose, dal 1812 al 1939,
non erano riusciti ad imporre.
Le equivoche affermazioni sulla libertà di coscienza, questa parola mediata
dall'eresia calvinista e così cara alla tradizione radicale; la riforma della
liturgia, cui si è voluto dare un rilievo esagerato, quasi che la fede consista
essenzialmente in pratiche rituali; l'ecumenismo religioso, diretto ad
instillare nei fedeli l'idea che la religione altro non sia che una filosofia
della vita, come tale disgiunta da ogni realtà sacramentale e da ogni contatto
soprannaturale con Dio; la concezione profondamente antireligiosa dell'origine
volontaristica della società e quindi dell'autorità che ad essa presiede;
l'affermazione blasfema, e più volte ripetuta in conferenze e sermoni, che scopo
della Chiesa, come comunità dei cristiani, è servire l'uomo ed il mondo, come se
la tradizione e le scritture non avessero insegnato a servire solo Dio; tutto
ciò ha gettato nel più angoscioso disorientamento quella grande parte del popolo
spagnolo che, attraverso sacrifici ed eroismi, aveva saputo difendere la purezza
della fede.
Andando incontro all'eresia contemporanea, gli uomini della Chiesa hanno
lasciato intendere che scopo primo della società è il conseguimento del
benessere materiale esteso al maggior numero dei suoi membri e che, di
conseguenza, la democrazia e il capitalismo illuminato rappresentano le forme di
organizzazione della società civile più conformi alla verità evangelica.
In un simile contesto la revoca della condanna storica del popolo ebraico era un
corollario che si imponeva, se non altro in riconoscimento dei meriti acquisiti
dal quel popolo nei secoli per il trionfo degli ideali immanentisti. Essa è
soprattutto indicativa di quali forze internazionali abbiano esercitato la più
vivace pressione sulle decisioni conciliari.
* L'«Opus Dei»
La grande carta del progressismo cattolico in Spagna è l'«Opus Dei».
I ministri che hanno occupato in questi anni i posti-chiave nel governo di
Madrid, come Ullastres, già ministro del commercio ed oggi ambasciatore
straordinario presso il MEC, Lopez Rodò, ministro del piano per lo sviluppo
economico, Garcia Monco, ministro delle finanze, Lopez Bravo, attuale ministro
del commercio, sono tutti uomini dell'Opus Dei. Ma non si può conoscere
esattamente chi ne faccia parte, perchè per i suoi membri l'impegno apostolico è
«qualcosa che riguarda l'intimità della coscienza».
S'ingannerebbe tuttavia chi giudicasse questa organizzazione una consorteria di
tipo massonico o un gruppo di potere a sfondo classista. Anzi la sua
caratteristica consiste proprio nel non presentarsi, e nel non volersi
presentare, come un gruppo di potere.
Fondato da mons. Escrivà de Balaguer, questo istituto secolare, che ha ottenuto
l'approvazione della S. Sede nel 1950, quando Montini occupava la carica di
prosegretario di Stato, è aperto soprattutto ai laici, ma non esclude dalle sue
file sacerdoti o religiosi che vi vogliano entrare.
Diffuso in tutto il mondo, la sua presenza si esaurisce per lo più in opere di
assistenza e formazione professionale. Ma, essendo caratteristica del suo
apostolato adattarsi alle necessità e circostanze di ogni situazione e Paese,
ecco che in Spagna esso ha assunto un preciso carattere politico, facendo da
ponte tra l'oligarchia finanziaria internazionale e la tradizione cattolica
spagnola.
Nessuna istituzione avrebbe potuto assolvere questo compito meglio dell'Opus
Dei.
L'ideale dei suoi membri è raggiungere la perfezione cristiana nell'attività
professionale di ogni giorno. Per essere buoni cristiani ed entrare nel regno
della Grazia basta essere buoni tornitori, buoni propagandisti di commercio,
buoni ingegneri o... buoni ministri. I più brillanti esperti di relazioni umane
non avevano scoperto uno stimolo così potente per incrementare il rendimento
produttivo!
L'OD non ha una propria scuola teologica -ci pensano gli altri a indottrinarla-,
nè ha una sua visione politica dei problemi. Teoricamente i suoi membri possono
essere socialisti o democristiani, falangisti o -perchè no?- radicali, senza che
ciò abbia alcuna importanza. Importante è che lavorino bene, inseriti nel
sistema economico di cui fanno parte, che di solito è quello ad indirizzo
neo-capitalista. Non per niente i centri dell'Opus Dei sono particolarmente
attivi nei Paesi in via di sviluppo.
È la retorica della quotidianità, l'esaltazione del trasformismo più squallido.
Non avendo una propria opinione -non si parla neppure di princìpi- il membro
dell'OD accetta e rispetta tutte le opinioni; considera persino una mancanza di
carità additare ai fratelli i loro errori o esortarli con una testimonianza del
suo cristianesimo. Cosi egli si mimetizza, adattandosi ad ogni ambiente,
condividendone le aspirazioni e i bisogni: lo impone la regola, in conformità ai
dettami dell'evoluzionismo biologico. Va da sè che la democrazia è l'habitat
naturale di un siffatto individuo.
Un'istituzione del genere sembra fatta apposta -e lo sarà senz'altro- per dare
via libera alle più sfrenate correnti progressiste. Se c'era qualcosa di più
estraneo alla sana anima spagnola, questo era la regola del singolare sodalizio
che osa fregiarsi del nome di «Società Sacerdotale della S. Croce (Opus Dei)».
Quei «valori» che non avevano messo radici in terra di Spagna sotto la
Repubblica di Azana e di Girai, vengono ora imposti in nome del cristianesimo.
* I tecnocrati di Madrid
I gruppi finanziari internazionali trovarono nei tecnocrati dell'Opus Dei i loro
più efficienti servitori.
Non avendo lo Stato altri compiti al di fuori del soddisfacimento dei bisogni
materiali, la politica diventa una professione come un'altra, priva di ogni
dimensione superiore. L'uomo politico non può e non deve essere portatore di una
concezione della vita, ma soltanto un tecnico, capace di assolvere con abilità
le sue mansioni amministrative.
Il pensiero dell'Opus Dei ha colto il momento giusto per adeguare la morale
cristiana alle più pericolose tendenze della borghesia illuminista: dare agli
Stati un governo di tecnici che sappiano realizzare una «politica delle cose»,
non di politici che inseguano «illusorie teorizzazioni».
La società civile non ha bisogno di idee nè di principi, ma di cose, e non
importa se per realizzare queste ultime si debbano abbandonare i primi, o
distorcerli cinicamente al servizio delle seconde. Invertendo la scala dei
valori naturali, è la politica subordinata alla economia ed alla socialità, il
superiore subordinato all'inferiore.
Nel tracciare le linee del nuovo Stato che la sua Falange voleva, Josè Antonio
aveva affermato che i fini dello Stato si potevano sintetizzare nel «porre il
nazionale e il sociale sotto il dominio dello spirituale». Dalla sua morte il
regime franchista ha fatto molta strada...
Quello che gli uomini dell'Opus Dei seppero fare sul piano economico si è già
veduto. Ma fu sul terreno politico che essi giocarono un colpo maestro: attuare
il passaggio dello Stato franchista allo Stato democratico-tecnocratico.
A tale scopo questi alchimisti del democratismo hanno trovato una nuova formula:
la «democrazia organica».
Senza parlamento, senza elezioni, essi hanno saputo realizzare all'interno del
regime una vivace dialettica, che fa incontrare intorno allo stesso tavolo
correnti politiche tra loro distanti, le quali corrispondono più o meno alla
destra, al centro e alla sinistra, come si trovano nelle democrazie
parlamentari.
Non sapendo che farsene delle idee, la democrazia organica ha però il vantaggio
di aver superato il sistema dei partiti. Accantonato anche il partito unico, la
«democrazia» spagnola è diventata la precorritrice dei tempi nuovi.
«La Repubblica di Azaria» -scrive Manuel Fraga Iribarne, uomo di punta del
regime e dal 1962 ministro del turismo- che pure era «sostenuta dalle classi
medie progressiste» fu costretta a cedere «alla violenza degli ambienti
rivoluzionari di estrema sinistra» non perchè il principio democratico fosse
errato in se stesso ma perchè, a causa della frammentazione dei partiti, il
parlamentarismo non funzionò.
Oggi il regime franchista ha offerto alle classi medie progressiste uno
strumento politico più adeguato, un «governo di competenti», che non si chiede
quali siano i fini ultimi della politica che persegue, ma obbedisce docilmente
alle direttive impartite dai gruppi di pressione.
* La crociata occidentalista
Anche nelle relazioni internazionali gli ultimi anni segnano un accentuarsi
della subordinazione di Madrid agli interessi statunitensi.
Nel 1963 veniva rinnovato il patto di cooperazione ispano-americano ed ai mesi
che precedettero l'accordo risalgono le ultime iniziative di Franco al di fuori
della tutela americana. Ma gli assaggi a Parigi e a Bonn ebbero probabilmente
l'unico obiettivo di far salire il prezzo dell'adesione spagnola.
Oggi Madrid è lanciata sulle posizioni più avanzate dell'offensiva
occidentalista di Washington. La politica spagnola in questo campo si fa
addirittura ambiziosa.
Sfruttando la posizione geografica e culturale del Paese, essa offre agli Stati
Uniti la sua mediazione su tre direttrici: il mondo arabo, l'America latina,
l'Europa, con il confessato scopo di far trionfare la causa di una comunità
atlantica che comprenda l'Europa e le due Americhe e si estenda ai paesi
africani.
La classe dirigente franchista si sente cosi «investita di una missione
unificatrice consistente nell'avvicinare l'Europa all'Africa e all'America».
Sono parole dell'ex ministro degli esteri Martin Artajo. Anche il
neo-colonialismo americano ha trovato il suo violino di spalla.
Nonostante i legittimi sospetti di Nasser e la sfrontatezza di Madrid -che nel
mentre lusinga i mussulmani è prodiga di vergognose adulazioni verso Israele e
gli ebrei- le iniziative verso il mondo arabo hanno incontrato un certo
successo. Nel 1963 avveniva lo incontro di Barajas tra Franco e il re del
Marocco Hassan II, noto occidentalista, la cui amministrazione è legata a filo
doppio al Pentagono e alla CIA, come ha dimostrato a sufficienza il caso Ben
Barka. Seguiva l'anno dopo un accordo commerciale ispano-marocchino. Riguardo
all'Europa, la Spagna si propone oggi alla attenzione di Washington come
alternativa al fallimento della NATO, dovuto alla vivace fronda gollista. La
cooperazione ispano-americana potrebbe essere domani il perno di un nuovo
sistema di alleanze strategiche.
Come Paese che gode l'incondizionata fiducia degli Stati Uniti, la Spagna si sta
preparando da anni ad entrare, spalleggiata dalla Casa Bianca, nel Mercato
Comune. Se fino ad oggi non si è raggiunto un accordo completo è solo perchè
l'economia spagnola non è ancora matura per un abbattimento troppo rapido delle
barriere doganali.
D'altronde l'alto livello degli ideali europeistici dei dirigenti madrileni è
rivelato dal loro modo di concepire lo spirito dell'integrazione europea, il cui
scopo precipuo sarebbe quello di «permettere a tutti i popoli del continente di
migliorare le proprie condizioni economiche e sociali». È questo che si chiama
avere una visione politica del futuro dell'Europa!
Verso l'America latina l'offerta di servire da ponte ad una sempre più pesante
influenza statunitense è ancora più spinta.
Nella sua visita a Washington nell'aprile 1966, Fernando Maria Castiella,
attuale ministro degli esteri e principale artefice di questo nuovo indirizzo,
ha detto testualmente che il desiderio del suo governo è che «tutti i Paesi
europei possano collaborare con gli americani in una grande opera di
comprensione internazionale. I problemi dell'America latina hanno bisogno di
attenzioni generose e costanti da parte degli Stati Uniti, ma necessitano anche
della collaborazione effettiva di tutti i Paesi d'Europa».
Era il contro-canto all'affermazione di Dean Rusk di quattro mesi prima: «Tra
Washington e Madrid vi è comunità di interessi di ogni ordine: politici,
strategici, diplomatici».
In occasione del Pan American Day, data di esaltazione del sistema
interamericano celebrata da tutti i Paesi membri dell'OSA (Organizzazione degli
Stati americani) veniva sanzionato un accordo ispano-statunitense per
l'installazione da parte della NASA di una nuova grande base nelle Canarie. Nel
1940 Franco aveva rifiutato a Hitler l'uso di quelle isole perchè ciò avrebbe
offeso la dignità nazionale del popolo spagnolo.
In quello stesso giorno, veniva inaugurato davanti alla sede dell'OSA, alla
presenza di Castiella, un monumento a Isabella la Cattolica, la regina che aveva
permesso a Colombo la scoperta delle Americhe. Anche la corona dei Re Cattolici
veniva così deposta ai piedi della statua della libertà capitalista.
* Di nuovo Gibilterra
Può stupire che in un clima del genere, con il Paese coperto da una rete di
installazioni militari americane, il governo di Madrid si agiti tanto da qualche
anno per ottenere dalla Gran Bretagna la restituzione di Gibilterra, occupata
senza contestazioni dal 1713.
Gibilterra significa per Franco lenire le ferite arrecate all'orgoglio nazionale
spagnolo dalla sua politica verso l'America e dall'invadenza USA nel Paese. Con
questo gesto di patriottismo domestico -a spese della Inghilterra che non serve
più, proprio perchè soppiantata nella penisola iberica dalla potenza americana-
il generale spera di riacquistare un po' del suo prestigio, rinverdendo sulla
via del tramonto i suoi trascorsi nazionalistici.
È significativo che, quando nel gennaio 1966 l'ordigno atomico caduto da un B52
delle basi americane contaminò migliaia di persone, la notizia fu diffusa da
Madrid solo dopo la consegna di un'ennesima nota su Gibilterra. L'onore era
salvo!
GLI UOMINI E I
GIORNI
* Lo stile del giornalismo democratico
... «Siamo caduti cosi in basso da tenere per un pensatore Mao, l'autore di
simili scempiaggini... C'era stata una certa opposizione a Mao - soprattutto
alle sue stupide idee in materia di economia e di organizzazione dell'esercito
... Mao con l'eterno sorriso nel faccione tondo e gonfio di pensatore...».
dall'articolo di fondo de "il Corriere della Sera" dell'I 1-1-67
* "il Borghese" chiede scusa all'ambasciata
«Siamo diventati antiamericani? Soltanto gli sciocchi possono dirlo ... In
realtà, noi siamo «antiamericani» quanto lo è il Generale Westmoreland,
comandante in capo del Sud Vietnam, il quale non riesce a far capire ai suoi
superiori «politici» che la guerra si potrebbe vincere. Siamo «antiamericani»
quanto lo fu Mac Arthur allorchè Truman gli impedì di fermare i cinesi alle
porte della Corea lanciando l'atomica... Siamo «antiamericani» quanto lo è
Goldwater, il quale viene considerato da metà del suo Paese un folle
guerrafondaio pericoloso ...».
da "il Borghese" n. 46 - 17 novembre 1966
* Gli Stati Uniti rivogliono i prestiti della Grande Guerra
«È corsa voce che gli USA per colmare il deficit della bilancia commerciale,
abbiano intenzione di chiedere la restituzione dei prestiti fatti alle nazioni
europee durante la prima guerra mondiale. In realtà il governo americano, non ha
mai rinunciato alla speranza di riaverli ma dal 1940 tutte le nazioni debitrici
ad eccezione della Finlandia hanno cessato di pagare.
Il totale del credito USA ammonta compresi gli interessi maturati a 13.121
miliardi di lire, così suddivise: Belgio 423 miliardi, Austria 16, Francia
4.190, GB 5.994, Grecia 29, Italia 1.414, Polonia 485, Romania 70, URSS 405,
Cecoslovacchia 169, Jugoslavia 53, ecc.».
da "la Domenica del Corriere" dell'I 1-12-'66
* La realtà dei progetti di pace
«Costituito un asse atomico tra Russia e Stati Uniti - ... Dell'accordo per la
non proliferazione delle armi atomiche la cui conclusione è attesa per i
prossimi mesi, l'unica a trionfare sarà l'Unione Sovietica (e gli USA - N.d.R.)
la quale vede confermata la sua politica basata sul riconoscimento delle
conseguenze della seconda guerra mondiale. Un punto importante del Trattato sarà
infatti -anche se non espresso- la cristallizzazione della situazione esistente
in Europa».
dalla "Koelnische Rundschau" del 4 gennaio '67 |