SAGGISTICA
Fine dell'utopia
Con questo saggio vogliamo mostrare tragicamente quali insidiose sabbie mobili
possano inghiottire una rivoluzione. La rivoluzione è quella d'Ottobre, quella
bolscevica: la rivoluzione comunista.
Vogliamo far comprendere, tanto per parafrasare Marx, che una società
agonizzante si crea da sé i suoi malaticci affossatori. Far capire come è stato
possibile che la vecchia società capitalistica sia stata ristabilita; come un
nuovo e terrificante dispotismo comprima e sfrutti l'uomo, con tutta la abietta
e servile mentalità del servaggio.
Capitalismo di Stato
C'è dunque uno sfruttamento dell'uomo da parte dello Stato! Si partì dal
presupposto che in un sistema economico vincolato, quale fu creato nella fase
primaria della rivoluzione d'ottobre, dove il cosidetto «Sistema dei commissari»
dominava incondizionato, le valutazioni di carattere strutturale erano
sottoposte alla necessità palese di informare la struttura interna dell'URSS ad
una concentrazione burocratica e dal minuzioso controllo di ogni piccola cosa.
Ci si domanda ora, come da una simile impostazione di carattere
pseudo-burocratico, oseremmo dire zarista, si sia arrivati, attraverso una «fase
dialettica» (sic) di tipo socialista-leniniano, alla rivelazione di un processo
i cui prodomi sussistono tutt'ora. La questione si pone dunque in questi
termini: in quale misura è stata operata la rottura con il vecchio mondo
burocratico-dogmatista di tipo zarista? È stata poi operata una rottura? E se lo
è stata, in quale senso? Con un ritorno alle tesi primordiali marxiste? E quali
i risultati? Per noi si è proceduto ad una prevaricazione di certi presupposti
dell'ideologia marxista in senso di pura statolatria.
Nell'odierno capitalismo di Stato lo stesso processo «evolutivo» non ha fatto
che progredire in questa direzione: verso il perfezionamento del meccanismo
della gestione statale di tipo borghese e verso una burocratizzazione ed un più
esteso e celato parassitismo. È essenzialmente in questi termini che si deve
porre il problema, perché il proletario sociale, nell'antico senso marxista,
oramai è quasi inesistente!
La crisi delle strutture economico-sociali trascina con sé la crisi delle
sovrastrutture politiche, ma quest'ultima acquista di volta in volta un valore
risolutivo in quanto apre o chiude la strada a tutto il successivo sviluppo.
Una fede non si acquista col ragionamento. Non ci si innamora di una donna, né
si entra in seno ad una confessione religiosa o ad una concezione politica a
causa di una persuasione di ordine logico.
La ragione può difendere un atto di fede ma soltanto quando l'atto è già stato
espresso e l'uomo si è impegnato in esso; la persuasione può avere una parte
nella conversione di un uomo, ma soltanto quella di portare al suo culmine pieno
e cosciente un processo che è andato maturandosi là ove esso non può giungere.
Rivoluzione come atto di fede
Una fede non si acquista; essa cresce come un albero: le sue fronde si
protendono verso il cielo e le sue radici, verso il basso, si espandono nel
passato e si nutrono del succo oscuro dell'antichissimo «humus» degli avi.
In politica, un uomo di fede, un «rivoluzionario», è sempre ritenuto, a torto o
a ragione, una persona un po' «sfasata».
Il suo sguardo si spinge oltre la prossima svolta, mentre gli altri tengono gli
occhi fissi sulla strada; egli arrischia la sua fede puntando su idee
incomprensibili agli altri, invece di limitarsi alle realtà quotidiane.
È in anticipo sugli eventi e, quindi, un estremista.
Se la storia giustifica le sue previsioni, tanto meglio. Ma se invece essa
prende un'altra direzione, egli dovrà andare avanti fino a raggiungere un punto
morto, oppure tornare ignominiosamente indietro, ripudiando quegli ideali che
erano divenuti parte della sua personalità. Tutto questo discorso serve a far
comprendere lo stato d'animo di coloro che in buona fede e completamente
convinti della «santità» della loro scelta, aderirono al comunismo. Il richiamo
fu sentito con particolare forza da coloro che erano troppo «onesti» per
accettare la fede dominante in un progresso, per così dire, fatalistico, in un
capitalismo in fase di regolare ascensione nell'abolizione della politica di
potenza.
Essi riconobbero nel regime di Coolidge in America, di Baldwin e Mac Donald in
Inghilterra, nel «pacifismo collettivo» della Società delle Nazioni, nient'altro
che pigre illusioni intellettualistiche le quali servivano soltanto a mascherare
ai loro occhi, di cauti e benpensanti democratici, la catastrofe in cui stavano
precipitando.
Presentando la catastrofe, essi cercarono una filosofia che potesse aiutarli a
spiegarla ed a superarla; e molti trovarono nel marxismo quello di cui avevano
bisogno.
Peraltro, l'attrazione intellettuale del marxismo stava nella sua reale capacità
di mettere a nudo gli errori del liberalismo, che erano e sono autentici errori.
Esso insegnava le amare verità che il progresso non è un processo automatico,
che prosperità e crisi sono inerenti al capitalismo, che l'ingiustizia sociale
non si cura semplicemente con l'aiuto del tempo, che la politica di potenza non
può essere abolita ma soltanto usata per scopi buoni o cattivi.
Se la disperazione, la fame, la solitudine furono i motivi principali delle
conversioni al comunismo, la coscienza cristiana di tanti li rafforzò ancora di
più. Non è un paradosso.
Anche qui, l'intellettuale, pur avendo abbandonato il cristianesimo ortodosso,
ne sentiva gli stimoli più acutamente di molti suoi contemporanei che andavano
in chiesa senza sapere il perché. Egli almeno era consapevole che la condizione
ed i privilegi di cui godeva gli erano toccati in sorte ingiustamente, per
ragioni di razza, di classe o di educazione.
L'attrattiva sentimentale del comunismo stava appunto nei sacrifici, morali e
materiali, che esso richiedeva ai suoi adepti.
Si può chiamare «masochismo» una reazione simile, oppure si può definirla come
un desiderio sincero di «servire l'umanità».
Ma comunque la si chiami, l'idea di una fratellanza di lotta, che implichi il
sacrificio personale e l'abolizione delle differenze di classe e di razza, ha
esercitato una influenza determinante in tutte le democrazie occidentali.
L'attrattiva di un partito politico qualunque consiste in ciò che esso offre ai
suoi membri; l'attrattiva, invece, del comunismo, stava nel non offrire nulla e
nel chiedere tutto, compreso l'abbandono della libertà spirituale. Nelle
ideologie di tipo comunitario e democratico ricorre spesso l'idea del sacrificio
e della prostrazione. La subordinazione, l'altruismo e lo stesso sacrificio del
singolo in vista di un interesse generale, sono parole d'ordine contrabbandate
in modo più o meno pietistico. In ciò si scorge di nuovo una statolatria o
almeno una sociolatria, in ogni caso un feticismo.
In ciò è appunto la spiegazione di un fenomeno che ha lasciato perplessi molti
osservatori.
Come potevano, ad esempio, questi intellettuali accettare il dogmatismo
staliniano?
Per l'intellettuale, gli agi materiali hanno relativamente poca importanza: ciò
che gli preme maggiormente è la libertà dello spirito. La forza della chiesa
cattolica ha sempre consistito nel chiedere il completo sacrificio di tale
libertà, e nel condannare l'orgoglio spirituale come un peccato mortale.
Il novizio comunista, sottomettendo la propria anima alla legge canonica del
Cremlino, provava un sollievo simile a quello che il cattolicesimo arreca
all'intellettuale stanco e turbato dal privilegio della libertà.
Una volta che la rinuncia è stata compiuta, la mente, invece di agire libera, si
mette al servizio di uno scopo più «alto» ed incontestato.
Ecco perché è inutile discutere qualsiasi problema politico particolare con il
comunista.
Qualunque autentico contatto «spirituale» che si riesca a stabilire con lui
implica una sfida al suo credo fondamentale, una lotta per la sua anima. È
infatti molto più facile deporre il proprio orgoglio spirituale come obolo
sull'altare della «rivoluzione» mondiale che non riprenderselo indietro.
Una delle più strane realtà del marxismo è l'atteggiamento del comunista di
professione verso l'adepto intellettuale.
C'è da rilevare un dato di fatto, ben esplicito, ben codificato. Parlando di
intellettuali, non si può non precisare che le simpatie di questi ultimi per il
marxismo hanno un certo carattere paradossale, dal momento che il comunismo
disprezza il tipo dell'intellettuale come tale, giustificando tale reazione con
il declinare esplicitamente l'appartenenza di quest'ultimo essenzialmente al
mondo dell'odiata borghesia.
Non solo egli è mal tollerato e sospettato, ma anche, sottoposto ad una continua
e deliberata tortura mentale.
Da principio questo trattamento non serve che a consolidare la sua fede e ad
approvare ed approfondire il suo senso di umiltà di fronte al proletariato.
Egli deve, in qualche modo, acquistare, in virtù di un esercizio mentale, le
qualità che, come egli si compiace di immaginare, il lavoratore possiede
naturalmente. Ma è chiaro che non appena egli comincia a conoscere di più la
realtà, a sapere di più sulle condizioni di vita in Russia, il suo stato d'animo
cambia.
All'umiltà si sostituisce la persuasione che l'Occidente deve illuminare
l'Oriente (ciò era, del resto, confermato dalla autorità di Marx, il quale aveva
il massimo disprezzo per gli slavi) e la borghesia il proletariato.
Tale convincimento era l'inizio della delusione ed insieme il pretesto per
continuare a restare nel partito.
Delusione in quanto l'incentivo principale a convertirsi al comunismo era stata
la sfiducia completa nella civiltà occidentale, che invece, come ora si
scopriva, conteneva i valori essenziali per redimere il socialismo russo.
Pretesto, perché si poteva sostenere che venendo a mancare gli influssi
occidentali, la brutalità orientale avrebbe trasformato la «difesa delle libertà
umane» in una «odiosa tirannia».
Rivoluzione ed utopia
Dal punto di vista dello psicologo, c'è poca differenza tra una fede
rivoluzionaria ed una tradizionale: ogni vera fede è intransigente, radicale,
rigorosa, completa; per cui il vero tradizionalista è sempre un entusiasta, un
rivoluzionario in conflitto con la società farisaica, con i tiepidi corruttori
della dottrina.
E viceversa: l'Utopia del rivoluzionario, che in apparenza rappresenta una
rottura col passato, è sempre modellata su qualche immagine del paradiso
perduto, di una leggendaria età dell'oro.
La società comunista senza classi, secondo Marx ed Engels, doveva, al termine
della spirale dialettica, segnare il risorgere della società comunista primitiva
che si trovava al suo inizio.
Tale società doveva tendere ad illuminare la struttura e la portata della
società individualistico-borghese presente, in vista del suo superamento
rivoluzionario: aveva lo scopo, quindi, gettando luce sul passato, di dimostrare
il carattere storicamente condizionato di istituti «arcaici» quali la famiglia,
la proprietà privata e lo Stato.
Vogliamo esemplificare! Si sa della parte che ha avuto nella storiografia
comunista la valorizzazione del matriarcato sociale, da essa concepito come la
costituzione delle origini e lo stato di giustizia a cui posero fine il regime
della proprietà privata e le forme politiche che ad esso si assocerebbero.
(Polemica Engels-Bachofen).
La regressione dal maschile al femminile è tuttavia egualmente visibile nella
ideologia «rivoluzionaria» dianzi accennata. È dunque di importanza capitale
riconoscere la continuità della corrente che ha generato le varie forme
politiche di tipo comunitario.
Così ogni vera fede implica una rivolta contro l'ambiente sociale del credente,
e la proiezione nel futuro di un ideale derivante dal lontano passato: tutte le
utopie si alimentano alle fonti della mitologia.
I progetti ed i disegni del sociologo non sono che edizioni rivedute del testo
antico. La dedizione all'Utopia pura e la rivolta contro una società degenerata,
("Rivolta contro il mondo moderno") sono i due poli che generano la tensione di
ogni dottrina attiva. Chiedersi quale dei due faccia scaturire la corrente
-attrazione di un ideale o repulsione dell'ambiente sociale- è come riproporre
l'annosa questione dell'uovo e della gallina.
Per lo psichiatra sia l'anelito all'Utopia che la Ribellione contro lo STATUS
QUO, sono sintomi di un mancato adattamento alla società; per il sociologo sono
sintomi di una sana disposizione razionale.
Lo psichiatra è incline a dimenticare che il lento adattamento ad una società
guasta crea individui «guasti», ed il sociologo è in eguale misura proclive a
dimenticare che l'odio, anche per cose obiettivamente odiose, non produce quella
giustizia e quella carità su cui la società utopistica dovrebbe basarsi.
Così ciascuno dei due atteggiamenti, quello dello sociologo e quello dello
psichiatra, riflettono una mezza verità.
È vero che la storia personale di molti «rivoluzionari» rivela un conflitto di
carattere nevrotico con la famiglia o la società, ma questo prova soltanto, per
parafrasare Marx, che una società agonizzante, si crea da sé i suoi malaticci
affossatori.
È pure vero che, davanti a rivoltanti ingiustizie, l'unico atteggiamento
ONOREVOLE consiste appunto nel ribellarsi, e rimandare l'introspezione a tempi
migliori; ma se percorriamo la storia e confrontiamo i «grandi ideali» nel cui
nome vennero iniziate le rivoluzioni sociali, con la triste fine cui esse
giunsero, vediamo sempre meglio come una civiltà contaminata e degenerata,
contamini e degeneri le sue stesse conseguenze rivoluzionarie.
Accostando le due mezze verità (dal momento che per la «dialettica sociale» non
esistono verità assolute, ma convivono identità relative) giungiamo alla
conclusione che se da un lato la ipersensibilità nei confronti dell'ingiustizia
sociale e l'anelito ossessionato all'Utopia, sono segni di un mancato
adattamento di carattere «nevrotico», dall'altro la società può toccare un grado
di decadenza tale che la ribellione del nevrotico provochi più delizie in cielo
della salute dell'uomo «positivo e pratico» che ordina di far affogare i maiali
sotto gli occhi di uomini affamati.
La parabola è convincente, ci sembra: in effetti, questa è la condizione della
nostra civiltà e delle consequenziali aderenze attraverso le quali un
intellettuale si colloca nell'ambito di fedi «rivoluzionarie ».
Morale borghese e morale «proletaria»
«(...) La famiglia borghese sparirà naturalmente con lo sparire del capitale
(...) Le declamazioni borghesi sulla famiglia e sulla educazione, sui dolci
legami che uniscono i figlioli ai genitori divengono sempre più nauseanti quanto
più per effetto dell'industria moderna, i legami di famiglia fra i proletari
vengono spezzati». Così il manifesto comunista.
Effettivamente ogni pagina di Marx ed ancor più di Engels, reca all'adepto
comunista in potenza, una nuova rivelazione, ed un piacere intellettuale che uno
può sperimentare, per esempio, al primo contatto con Freud o Kafka.
Tolto dal suo contenuto, il passo di cui sopra suona ridicolo; inserito in un
sistema chiuso, che organizza la filosofia sociale in un ideale chiaro e
comprensibile, la dimostrazione della relatività storica di istituzioni ed
ideali -della famiglia, della classe, del patriottismo, della morale borghese,
dei tabù sessuali- aveva sul simpatizzante l'effetto inebriante di una
improvvisa liberazione dalle catene arrugginite in cui era stata costretta la
mente di chi aveva avuto un infanzia ed una educazione piccolo-borghesi.
In genere, appunto l'educazione e l'infanzia di un «intellettuale». In realtà,
oggi che la filosofia marxista è degenerata conseguenzialmente e naturalmente
(dal momento che già nelle sue enunciazioni contiene i germi del suo
disfacimento) in una sorta di culto bizantino, e praticamente ogni punto del
programma comunista è stato stravolto nel suo contrario, è difficile afferrare
quello stato di animo di fervore emotivo e di «beatitudine intellettuale».
Quanti «onesti» furono abbindolati, quando stanchi di elettroni e di meccanica
ondulatoria (tanto per citare esempi di aderenza «al mondo moderno»)
cominciarono a leggere per la prima volta Marx, Engels, Lenin od altri.
È necessaria una valutazione apodittica di questi intuizioni? Bene, ve la
possiamo fornire.
Immaginiamo uno studente che si converte alla fede comunista tramite letture del
tipo "Stato e Rivoluzione", "Feuerbach", "Rivoluzione in Occidente ed
infantilismo di sinistra" e cosi via. Qualcosa scatta nel suo cervello,
scuotendolo tutto come un'esplosione. Dire che si è «vista la luce» significa
descrivere miseramente il rapimento mentale che soltanto il convertito conosce
(indipendentemente dalla fede a cui si è rivolto).
La nuova luce sembra riversarsi da ogni direzione attraverso il cranio, e
l'universo intero si dispone ordinatamente e coerentemente come se, per magia, i
pezzi dispersi di un gioco di pazienza andassero di un colpo a posto.
Adesso ogni domanda ha la sua risposta: dubbi e conflitti appartengono al
tormentoso passato: un passato lontano in cui la vita trascorreva in una cupa
ignoranza, nel mondo insipido e sbiadito di coloro che «non sanno».
Nulla d'ora in poi può turbare la «pace interiore» e la serenità del convertito.
Salvo il timore che di tanto in tanto lo coglie di perdere nuovamente la fede,
perdendo così ciò che soltanto rende la vita degna di essere vissuta, per
ricadere nella nell'oscurità esterna.
Nella maggior parte dei casi, questa forma di simpatia paradossale per il
comunismo (paradossale perché ben sappiamo che parte abbia nel comunismo il
disprezzo per il tipo del vero intellettuale) è intimamente legata a quel
particolare «pathos » antiborghese che il comunismo ha fatto proprio.
C'è da precisare, tra l'altro, il rifiuto categorico del comunismo verso forme
soggettivistiche ed individualistiche, quali il culto romantico dell'«IO» e le
altre forme della retorica idealista. Tutto ciò al fine di interpretare la
realtà come superamento dell'era borghese, procedendo ad una restrizione di ogni
orizzonte sistematico, avviando l'uomo verso un nuovo realismo: il mondo
dell'economia e della «classe», appunto.
Forse solo codesta interpretazione di una fede acquisita ciecamente ed
irrazionalmente può spiegare come gli intellettuali comunisti, pur avendo occhi
per vedere e cervelli per pensare, possano ancora agire soggettivamente in
«buona fede» nell'anno di grazia 1969.
In tutti i tempi ed in tutte le circostanze ed in tutte le credenze soltanto una
minoranza esigua è stabilizzata una gravosa atmosfera di imposizione, e di
compiere un «karakiri» sentimentale ed emotivo in nome di verità astratte.
Ciò perché, nei paesi a regime socialista, a differenza delle rivoluzioni
precedenti che nel loro demonismo, sono quasi sempre sfuggite dalle mani di
coloro che le avevano suscitate, si è completamente attuata una continuità
ferrea di potere e si è stabilizzata una gravosa atmosfera di imposizione.
Uscire dalla rotta è quindi impossibile, o per lo meno ciò costituisce un
suicidio mentale e fisico.
L'uomo massa
Colui che si impegna in un'attività esistenziale in seno ad organismi comunitari
di tipo bolscevico, a poco a poco apprende a diffidare, per esempio, della sua
preoccupazione tutta meccanicista dei fatti ed a considerare poi il mondo
intorno a sé alla luce dell'interpretazione dialettica.
È certo una condizione soddisfacente e beata; una volta assimilata la tecnica
dell'ingranaggio dell'uomo-collettivizzante, realizzazione ultima e finale
dell'«uomo-massa» e del «materialismo storico», non si è più turbati dai fatti
contingenti, al punto tale che la razionalizzazione si presenta come una delle
vie, insieme alla meccanizzazione ed alla disintellettualizzazione, per
liquidare i «residui» e gli «accidenti individualistici» dell'«epoca borghese».
Il singolo non ha più ragione di esistere in quanto si è disintegrato in un ente
collettivo, in un ente plurimo e poliartico, senza nome né volto: il Partito.
Tutte le cose pigliano automaticamente il colore giusto e si sistemano al posto
giusto.
Sia dal punto di vista morale che da quello logico, il Partito è infallibile:
dal punto di vista morale, perché i suoi fini sono giusti, cioè in accordo con
la dialettica della storia, e questi fini giustificano ogni mezzo; dal punto di
vista logico, perché il partito è all'avanguardia del proletariato, ed il
proletariato a sua volta l'incarnazione del principio attivo della storia.
Ma intendiamoci bene: l'abolizione della proprietà privata e dell'iniziativa
personale, che sussiste, sia ben chiaro, come Idea-Policentrica delle verità
assiomatiche del marxismo ed al di là delle accondiscendenti prese di posizioni
di tipo libertario-stakanovista, rappresenta solo un episodio, uno dei tanti,
isolato, limitato: la conclusione è la realizzazione dell'«uomo-massa», lo
ripetiamo.
Arte di massa
Già si è proceduti alla liquidazione di tutte le prevaricazioni
individualistiche, libertarie e romantiche della cosiddetta «epoca borghese». Né
ci si illuda che l'intellettuale, l'artista, lo scienziato, svolgano funzioni
diverse da quelle che realmente esercitano. Fatto sta che sono stati
ri-condizionati ogni sorta di gusti letterari, artistici o musicali. Già a suo
tempo Lenin aveva da qualche parte asserito di aver imparato di più
sull'Occidente dai romanzi di Balzac che da tutti i libri di storia messi
assieme. Per questa ragione, Balzac era il più grande scrittore di tutti i tempi
mentre altri romanzieri del passato si limitavano a riflettere i valori fissati
e deformati della società decadente che li aveva prodotti, Dostojewskij, Cekov,
Puskin, compresi.
Forse, per essere in tema con le accezioni dialettiche, Lenin, non si accorse
dell'immenso caos che trapela da ogni scritto balzachiano.
Cosmopolita tra i generi e nello stesso tempo degenere, il contenuto letterario
delle opere di Balzac offre asilo a tutti gli stili e a tutte le forme di
linguaggio, falsando la realtà e traviandola. Erede tardo ma riconoscente della
letteratura tardo-borghese, accetta tutto quello che può in qualche modo
utilizzare: informe spazzatura e cloaca massima, raccoglitore di stracci
letterari, non si vergogna di fregiarsi di quell'orpello e di ori scaduti, che
generi ben più nobili ed esclusivi, da tempo avevano ripudiato.
L'arte per l'arte, quindi, e non l'arte per la vita: «arte di massa» poi, nella
misura in cui quest'ultima cessa di occuparsi delle vicissitudini
individualistiche ed esce dai binari della «psicologia» del singolo per
spersonalizzarsi e trasformarsi in un «Potente martello che inciti il
proletariato all'azione».
Questo per inciso.
Sul fronte dell'arte il principio ispiratore del periodo bolscevico iniziale fu
il Dinamismo Rivoluzionario.
Un quadro senza ciminiere fumanti o trattori era considerato «d'evasione»;
d'altra parte bisogna riconoscere che il motto «Dinamismo» lasciava spazio
sufficiente per il cubismo, l'espressionismo ed altri stili sperimentali. Questo
cambiò qualche anno più tardi quando il dinamismo rivoluzionario fu superato dal
Realismo Socialista; d'allora in poi ogni cosa che sapesse di «moderno» e di
sperimentale fu bollata come «formalismo borghese» esprimente la «putrida
corruzione della decadenza borghese».
Ad evitare ogni forma di affermazione individuale, sia nel campo musicale che in
quello drammatico, il «coro» fu considerato in quel tempo come la forma più alta
di espressione, perché rifletteva una tendenza collettiva, opposta ad una
individualistico-borghese.
Nel campo artistico ed in particolare in quello teatrale, poiché non era
possibile abolire tutt'insieme, d'un colpo, i personaggi individuali del
palcoscenico, bisognava sterilizzarli, renderli tipici, spersonalizzarli.
Così lo furono Brecht, Piscator, Meyer-Hold, Auden, Isherwood, Spender.
Una buona standardizzazione letteraria internazionale, ben avvilente, ben
abbrutente, arrivò proprio a tempo per completare l'opera di insensibilizzazione,
di livellamento artistico, di snaturalizzazione. Così in termini crudi ma reali,
si è attuato il disegno comunista, dopo aver fatto il giro del globo, dopo aver
lacerato e pervertito ogni cosa al suo passaggio, beninteso in chiave
demagogica, pacifista, progressista e collettivista.
Ed è in questa prospettiva e solamente così che si può capire la
spersonalizzazione dell'uomo e dell'arte, quale conseguenza fatale di un ordine
orientato al collettivo, sotto il dominio delle forze e delle esigenze
economiche.
Il resto, tutto quello che non può assorbire e standardizzare, deve scomparire.
È il sistema più semplice. Questo, a dire la verità, non produce nemmeno un
vuoto, tanto non c'è niente.
Quanto alle produzioni letterarie «standardizzabili» desiderate da questi
novelli Messia, i «capolavori» moderni ne rappresentano assai bene
l'abbacchiante livello.
Che esiste di più abusivo, in fatto di predicante fesseria, di un romanzo
pretenziosamente letterario, tipo Lawrence, Hardy, Chesterton, Sinclair Lewis?...
di più artificioso, di più inutile, di più straordinariamente belante? di più
cretinescamente vizioso? di più caotico per importanza dei vari William Faulkner,
dei Proust, dei Mauriac, dei Richar Wright, dei Cohen e soci?...
Ciò che rimane dell'uomo...
Tutto sembra imporre con forza crescente il livellamento delle singole
personalità, la fatale, totale sottomissione dell'individuo al gruppo,
deificazione moderna di teorie aridamente materialistiche.
E poi, ci si chiede, cos'è rimasto dell'«uomo»?
«Solidarietà di classe e impulso sessuale». Così vi risponderà la psicologia
marxista. Il resto, tutto il resto, è «metafisica borghese», o, come l'ambizione
e la brama di potere. «prodotti dell'economia capitalista di mercato».
E di seguito continuerà: «Quanto all'impulso sessuale, esso è ufficialmente
sanzionato dalle teorie materialistiche. La monogamia e l'istituzione della
famiglia nel suo insieme sono un prodotto del sistema economico; esse alimentano
l'individualismo, l'ipocrisia, un atteggiamento di evasione rispetto alla lotta
di classe e devono quindi essere respinte in blocco: il matrimonio borghese non
è che una forma di prostituzione sanzionata dalla società. L'unico atteggiamento
corretto nei confronti dell'impulso sessuale è la morale proletaria. Questa
consiste nello sposarsi, rimanere fedele al coniuge e mettere al mondo bambini
proletari».
Ma come, non è questa ancora morale borghese?
Così vi risponderà la psicologia marxista: «La domanda, "compagno" mostra che tu
pensi in termini meccanicistici e non dialettici. Questa è la differenza fra la
cosiddetta "morale borghese" e la morale proletaria: l'istituto del matrimonio
che nella società capitalistica è un aspetto della decadenza borghese, è
trasformato dialetticamente, in una sana società proletaria. Hai capito,
"compagno" o debbo ripetere la mia risposta in termini più concreti?»...
Non ridete! Non cadete nella superficialità.
Questa è una cosa seria, molto seria. Uno stile gremito di ripetizioni, la
tecnica propria del catechismo di fare una domanda retorica e di ripeterla per
intero nella risposta, l'uso di aggettivi stereotipati ed il ripudio di un
atteggiamento o di un fatto mediante il semplice espediente di mettere le parole
tra virgolette dando loro un tono ironico: tutti questi sono gli ingredienti
essenziali di uno stile di cui il marxismo è l'incontestato maestro, e che con
la noia che ispira, genuina, autentica, produce un effetto ipnotico e sfibrante.
Due ore di quel tam-tam dialettico e non sapete più se siete maschio o femmina,
pronti a credere indifferentemente l'una o l'altra probabilità non appena quella
respinta apparisse tra virgolette.
È questo uno dei segni del comunismo che si avvale del «pensiero di Stato», per
evirare la sensibilità individuale e creare dogmi e seminare inganno.
A suscitare questa specie di seconda natura esprimentesi sotto le specie di un
«dogma» e di un «pensiero di Stato», ha contribuito non poco ciò che di più
spinto v'è, in fatto di scientismo sociologico e di materialismo evoluzionista,
nel pensiero occidentale. Pertanto, non solo idealmente, ma anche storicamente,
è dimostrabile la tesi che all'origine delle varie forme comunitarie stanno
liberalismo ed individualismo.
Idealmente, nella misura in cui capitalismo e marxismo sono identici
qualitativamente, una e sola essendo la visione materialistica della vita;
storicamente, uniche essendo le premesse legate ad un mondo il cui centro è
costituito dalla tecnologia, dalla scienza, dalla produzione, dal rendimento,
dal «numero».
E finché il termine «civiltà» sarà condizionato da un particolare sistema di
distribuzione delle ricchezze e dei beni piuttosto che da un altro, fintantoché
il progresso umano sarà misurato col parametro fallace dei profitti e dei
salari, dei numeri, della produzione e dei «budgets», non si avrà nemmeno
sfiorato l'«essenziale», anche nel caso che teorie nuove venissero escogitate
come forme di transazione fra marxismo e capitalismo, teorie quest'ultime,
legate tra loro indissolubilmente, come gradi di uno stesso male, come stadi che
preparano ciascuno quello successivo.
Per ritornare in tema d'argomento, diremo che una «educazione dei sentimenti»
viene anche contemplata dal pensiero socialista.
Abbiamo già accennato alla «coscienza di classe» ed all'«istinto sessuale».
Come si può facilmente rilevare, è una educazione che scivola su un binario
antitetico ma parallelo, affinché le complicazioni dell'uomo borghese
-sentimentalismo, ossessione dell'eros, passionalità- vengano sdrammatizzate.
Coscienza di classe!
Livellate le classi, sono livellati anche i sessi, come si è voluto dimostrare
nella nostra precedente «fase dialettica».
Viene statuita la completa pianificazione della donna rispetto al maschio, tanto
che di fronte allo stato comunista, non esistono più donne e uomini, ma
«compagni» e «compagne», in una massa indifferenziata, inconcludente, quasi
asessuata.
È facile trarre una debita conclusione anche per ciò che riguarda l'istinto
sessuale. È evidente che, dati presupposti simili, il bambino «proletario»
preferisce la vita collettiva e quella familiare, eliminando non solo ciò che la
famiglia rappresentava nell'«era delle genti eroiche» ma anche quei residui
propri alla tradizione borghese della casa con i suoi convenevoli ed i suoi
sentimentalismi.
Aver avuto l'equivoco di una educazione borghese, poter vedere parecchi aspetti
di un problema piuttosto che uno solo, diviene una causa permanente di
autoaccusa, per un convertito bolscevico.
Questa autocastrazione intellettuale è il sacrificio richiesto al comunista per
giungere a somigliare un po' all'«uomo-massa», al compagno «Ivan Ivanovic», al
proletario ideale dalle larghe spalle, dalla faccia aperta e lineamenti rozzi,
con una coscienza di classe completa, ed un impulso sessuale ben controllato.
Se poi viene inserito, a mo' di didascalia, in un panorama da officine Pulitov
di Leningrado o in un campo petrolifero di Baku col pugno chiuso levato al
cielo, il quadro da «realismo socialista» è completo.
Questo è il punto! Questa la verità assoluta, la prospettiva ultima di una
umanità che prende coscienza di se stessa attraverso la propria cretinità,
attraverso quelle formule intermedie così care alla democrazia ed al socialismo,
e che condurranno diritto diritto alla concezione «religiosa» dell'uomo
terrestrizzato.
Questa è la nuova umanità: fine ultimo e supremo del proprio sforzo
«civilizzatore», tradotta in forme messianiche, organizzata attraverso una
unificazione di menti deboli in un'immensa armata rossa, in un'unica officina
Pulitov, in un immenso «cartello» industriale di marca capitalista, non avendo
per Dio che se stessa.
A voler semplificare la lezione impartita da questa specie di esperienza,
tradotta in parola, si può dire che essa compare sempre sotto il manto goffo e
grossolano degli eterni luoghi comuni: che l'umanità è una realtà innegabile e
l'uomo una pura astrazione; che si possono adoperare gli uomini come numeri in
operazioni d'aritmetica politica, poiché essi non si comportano come i simboli
dello zero e dell'infinito, i quali sconvolgono tutte le operazioni matematiche;
che l'uomo cioè è semplice addendo e numero equidistante sia dallo zero che
dall'infinito; che il fine giustifica il mezzo e non soltanto entro limiti assai
ristretti ma in modo globale; che l'etica è in funzione solo ed unicamente
dell'utilità sociale; che l'Humanitas non è la forza di gravità che mantiene le
civiltà nella loro orbita, ma è solo un sentimento piccolo-borghese.
L'uomo come essere differenziato
È tempo di parlar chiaro; di dire a noi stessi che l'uomo non può essere
concepito solo come unità atomica, come un puro numero nel dominio della
quantità. Società e collettività non possono essere che sinonimi. Ben venga
quindi ogni concezione del mondo antisociale ed anticollettivistica, a patto che
porre la disuguaglianza voglia dire trascendere la quantità per ammettere la
qualità; a patto che l'emancipazione del singolo dalla società significhi
libertà rispetto a se stessi e non rispetto ad un giogo esterno.
Priorità della persona e dell'uomo, quindi, nella misura in cui la libertà è
diversa come diversi sono i ranghi ed i diritti: «uomo» come essere
differenziato e non come atomo o massa di atomi; e siamo disposti a riconoscere
questa priorità persino di fronte allo Stato, la statolatria dei moderni non
avendo nulla a che vedere con la nostra concezione politica.
«Ecco lo Stato, dove tutti bevono veleno, buoni e cattivi: lo Stato, dove tutti
si perdono, buoni e cattivi: lo Stato, dove il lento suicidio di tutti si chiama
"vita"».
Così fu descritto da Nietzsche questo freddo mostro, questa aberrazione, questo
impersonale, pesante ente burocratico e giuridico attuale, sotto le cui vesti si
pasce e s'appiattisce il gregge umano in una «religiosa» adorazione
escatologica, in una statolatria codificata.
In verità nulla può suonare più trito e banale di simili tentativi di esprimere
a parole un sapere che non è di natura verbale né tanto meno derivante da
«concezioni del mondo» diveniristico-sociali.
Ritornando all'antico tema, se per l'intellettuale bolscevico la corda delle sue
intuizioni si spezza, cade di sotto, dove c'è la rete di sicurezza, tesa da una
nuova ed ancor più subdola coscienza di classe: la realtà democratica in tutte
le sue varie accezioni.
Si troverà allora, quando cadrà, tra una compagnia mista di persone -vecchi
acrobati che avevano perduto l'equilibrio dialettico, trotzkisti, riformisti,
revanscisti, simpatizzanti critici, «cripto» indipendenti appartenenti al
movimento del "New Stateman", neo-repubblicani, democratici dissidenti, liberali
totalitari, destrorsi conservatori- che si dimenano nella rete in varie,
contorte posizioni. Tutti diabolicamente scomodi, poiché sospesi sulla terra di
nessuno, ma almeno non angeli ancora completamente caduti.
D'altronde è pacifico che l'essere dediti al mito bolscevico è più in
particolare a quello democratico-progressista, è un vizio assai tenace e
difficile da sradicare.
Dopo i «giorni perduti» nel paese dell'Utopia, è forte la tentazione di
prenderne proprio l'ultimo goccio, di alzare il calice come un certo Cristo fece
nell'ultima cena, anche se quel vino era non solo annacquato e contrabbandato
con un'etichetta diversa dall'originale, ma anche e soprattutto intriso di
tossico.
Siatene certi: c'è sempre un'offerta di nuove etichette nel mercato nero degli
ideali gestiti dal Cominform, giacché esso tratta parole d'ordine e formule
ideali e dogmi come i più onesti contrabbandieri trattano alcoolici adulterati,
o come la Chiesa contrabbanda le sue «sostanziali verità».
Ed il bello è che più innocente è il cliente, tanto più facilmente cade vittima
del liquore ideologico spacciato sotto il marchio di fabbrica di Pace,
Progresso, Democrazia, Utilità sociale, Coscienza di Classe, o quel che volete.
La scomparsa del capitalismo non ha portato la libertà ai lavoratori sovietici,
né tanto meno il benessere sociale. È essenziale che il proletariato degli altri
stati se ne renda pienamente conto.
È vero che essi non sono più sfruttati da capitalisti-azionisti, ma sono
sfruttati lo stesso, in maniera così obliqua, sottile e subdola che non sanno
nemmeno chi accusare.
Quasi tutti vivono ad un livello di miseria; ma sono i loro salari di fame che
permettono i salari sproporzionati dei privilegiati: i benvisti, i docili, i
maneggevoli.
Come non essere urtati dal disprezzo che chi ha autorità dimostra verso i suoi
dipendenti, e dalla servilità, dall'ossequiosità di questi ultimi! S'intende;
non vi sono più classi né distinzioni nell'Unione Sovietica, ma i poveri ci sono
ancora e sono troppi, davvero troppi.
La povertà poi, che nulla ha di infamante o di degradante, è considerata con
disgusto, come se fosse indelicata o peggio criminale: non ispira né carità, né
pietà, ma soltanto disprezzo.
E quelli che si comportano con tanta superbia sono precisamente coloro che hanno
ottenuto la prosperità a spese di quell'infinita miseria.
Il proletariato poi è ridiventato una nuova specie di borghesia operaia,
soddisfatta e quindi conservatrice, troppo simile alla piccola borghesia dei
paesi dell'Occidente.
Se ne vedono dappertutto i sintomi ed i bubboni cancrenosi.
A dispetto della «rivoluzione proletaria», i vizi ed i difetti
miserando-borghesi sonnecchiano nel cuore di tutti.
Non hanno capito che ogni riforma, ogni rivoluzione dell'uomo non si compie
soltanto dall'esterno, ma occorre soprattutto modificare gli animi. Oggi
nell'URSS, tutti gli istinti borghesi sono invece lusingati ed incoraggiati e
tornano a formarsi (se mai furono eliminati) i vecchi strati sociali e se non
precisamente delle classi sociali, almeno una nuova specie di aristocrazia.
Non parliamo dell'aristocrazia del merito, del valore personale, dello spirito,
del sangue, ma di quella dei ben pensanti e dei conformisti, che nella
generazione seguente, diventerà, siatene certi, l'aristocrazia del denaro. URSS
= USA. «Divide et impera».
Il che dimostra, fra l'altro, che le nostre anticipazioni, sono veritiere.
Sebbene la promessa dittatura del proletariato non si sia realizzata, una
dittatura c'è: la dittatura della burocrazia sovietica. Il proletariato non ha
nemmeno più la possibilità di eleggere dei rappresentanti per difendere i suoi
interessi minacciati. I voti popolari, aperti o segreti, sono una derisione, una
paradossale frode. Il proletariato è preso in giro, imbavagliato, legato, e la
resistenza gli è resa pressapoco impossibile.
L'operaio sovietico è legato alla sua fabbrica, ed il lavoratore rurale al suo "kolkos"
o al suo "sovkos".
Non è libero di andare o di restare dove gli piace, dove forse lo chiamano o lo
legano affetti o interessi. Cose troppo «borghesi».
Se non appartiene al Partito, i compagni iscritti gli passeranno davanti. Ma non
tutti quelli che lo desiderano possono entrare nel Partito, e non tutti
posseggono le qualità richieste: servilismo, compiacenza, sottomissione.
Se ha la fortuna di essere ammesso al partito, non ne può più uscire senza
perdere il lavoro ed i vantaggi acquisiti e senza destare sospetti o
rappresaglie. Pensare da sé è correre il rischio di essere considerati
controrivoluzionari; ed allora chi è membro del Partito ne viene espulso, ed è
maturo per la Siberia.
Si sarebbe, in via di ipotesi, potuto accettare l'abolizione della libertà
personale ed intellettuale nella Russia odierna se vi fossero almeno prove che
il progresso materiale e sociale delle masse è perseguito costantemente, se pur
lentamente: ma non è affatto così, e al contrario è evidente che le peggiori e
più deplorevoli caratteristiche della società capitalistica tornano, intatte e
complete, ad affiorare.
Lo spirito piccolo-borghese che si sta sviluppando è ai nostri occhi
profondamente e fondamentalmente controrivoluzionario.
Ma l'ironia, il paradosso, la vera enormità sta qui: quello che in URSS si
considerava controrivoluzionario è precisamente quello spirito «rivoluzionario»,
quel torrente che spazzò le dighe infracidite e crollanti del vecchio mondo
zarista.
Liberalismo, poi costituzionalismo, poi democrazia parlamentare, poi socialismo,
poi radicalismo, infine comunismo e sovietismo: è questa la catarsi
«dialettica», attraverso la quale è avvenuta la completa snaturalizzazione
dell'uomo, da quando quest'ultimo ha tarpato le ali degli entusiasmi personali,
ha offuscato gli orizzonti dell'intelligenza, ha abbandonato l'interpretazione
della sua volontà creatrice.
Rivolta contro il mondo moderno
Occorre innanzitutto affermare a viso aperto la nostra rottura con questo mondo
e con questa società.
È d'obbligo una rettificazione degli atteggiamenti ed una disintossicazione
ideologica, altrimenti ogni rivoluzione sarà solo di superficie e non toccherà
mai le profonde radici della crisi della società attuale.
È tempo di dire la verità. Di dire che nel movimento socialista nulla ci fu,
nulla è, nulla sarà, mai, rivoluzionario.
Una volta compiuta la «rivoluzione» del 1917, tutto quell'alone in qualche modo
«borghesemente eroico» è svanito ed i sentimenti più o meno generosi che
animarono i primi riformatori sono divenuti ingombranti e superflui, come
strumenti arrugginiti che non servono più. La vecchia società capitalistica è
stata ristabilita, un nuovo e terribile dispotismo comprime e sfrutta l'uomo con
tutta l'abietta e squallida mentalità del servaggio.
La «rivoluzione proletaria», dopo aver trionfato, s'addomesticò e patteggiò con
l'iniquità, e lo fa tutt'ora; e coloro che il fermento rivoluzionario anima
ancora, coloro che considerano come compromessi tutte quelle successive
concessioni, sono disprezzati o soppressi, in ogni caso considerati
«deviazionisti, revisionisti, controrivoluzionari». Ma, parliamoci chiaro, non
sarebbe meglio smettere di giocare sulle parole e riconoscere che lo spirito
rivoluzionario nella fede comunista non è mai esistito e gli ultimi ed
inconsistenti epigoni si traducono nel mondo attuale in vane, vacue,
indefinibili manifestazioni di falsa intolleranza derivanti da fiacchi
atteggiamenti d'attualità per persone «à la page» ?
Essere rivoluzionari è ben di più.
Essere rivoluzionari significa riconoscere ed ammettere «qualcosa» di
metastorico e di dinamico: una concezione del mondo e della vita che ci
riconduce naturalmente ad un ordine superiore di legittimità con il crisma di
una funzione generale ordinatrice.
NON il verificarsi quindi di una determinata situazione storica che giustifichi
un tale atteggiamento rivoluzionario, bensì aderenza a principi che non possono
oggettivizzarsi in una realtà storica ma che si pongono su un piano di superiore
immediatezza.
NON formule storicistico-empiriche, che condizionino epoche e tempi, princìpi e
sistemi, ma visione rivoluzionaria della vita che si traduce come affermazione
di vita e come negazione di qualsiasi orientamento in cui si rifletta in un
qualunque modo il mito moderno del progresso con le sue fisime affrancatrici e
coi suoi miraggi fascinosi di civilizzazione tecnica.
Uno che vuole una rivoluzione, la vorrà sempre.
Anche se essa divenisse abominevole ed ignobile. Ma essa è abominevole ed
ignobile. Se vi fossero uomini forti, si fermerebbe questo abominio e non
resterebbe che la grandezza.
Il cammino rivoluzionario, se vuole essere davvero tale, deve procedere sulla
stessa strada, deve adottare metodi rivoluzionari.
La rivoluzione o è totale o non è niente.
Rivoluzione: sì, noi l'accettiamo e la vogliamo, a patto che diventi totale.
Essa è il nome che prende il nostro secolo. È l'esigenza «eterna» degli uomini e
non limitata a singoli popoli per singole nazioni, in singoli momenti storici.
Rivoluzione è l'ondata che si rinfrange spumeggiante, violenta e totale,
sull'enorme cloaca della democrazia, di tutta la democrazia, sia su quella
appoggiata dalle baionette russe che su quella prostituita all'industria
capitalistica americana; su tutte le democrazie che stanno sommergendo l'Europa
e facendo tramontare ogni sacra speranza.
Noi dobbiamo ritrovare il senso della vita attraverso un istante rivoluzionario.
La vita è più importante che il modo di acquisirla.
Una quantità di gente, che si «guadagna» la vita non vive ma muore lentamente.
Sono i becchini della nostra «civiltà», gli uomini prudenti, quelli che cercano
i compromessi, i fabbricanti di danaro, «la borghesia del suolo», i defecatori,
gli stercofagi. Non ci sono mai stati nella storia del mondo dei becchini così
affascinanti, ed il loro fascino viene in gran parte dal fatto che essi non
sanno chi sono, come del resto ignorano chi «siamo noi».
Ci definiscono dei matti, degli stravaganti, dei relitti della loro società, dei
pazzi innocui che non è possibile comperare col danaro o blandire coi
complimenti.
Ma verrà il giorno in cui noi, gli «uomini pericolosi», saremo uccisi o fatti
re, perché verrà anche il tempo in cui non basterà amare l'Europa come uno
stanco uomo d'affari ama il suo sonnellino dopo i pasti.
Potremo essere chiamati ad amarla cupamente, amaramente e follemente, odiando ed
eliminando coloro che l'hanno amata meno di se stessi. |