PREMESSA
La lotta continua
II successo dell'impresa
dell'Apollo 11 ha contribuito senza dubbio a far sorgere simpatie o
per lo meno segni distensivi in parte dell'opinione pubblica
mondiale nei confronti degli americani.
Noi non ci lasciamo commuovere facilmente, coscienti come siamo che
tale successo è stato possibile solo con l'intelligenza degli
europei e sulle spalle degli europei.
Non crediamo nei miti della pace e del progresso che sono stati
tanto sbandierati, convinti che la conquista della Luna rappresenta
un consolidamento dei due imperialismi russo e americano, in quanto
anche nello spazio la distensione e la collaborazione si è
dimostrata efficace (Lunik - Apollo).
Dimostrando tuttavia la nostra profonda ammirazione e simpatia per i
tecnici tedeschi e italiani razziati dalla fine della guerra, e per
il brillante successo scientifico da essi ottenuto affermiamo che la
lotta all'imperialismo continua. |
ATTUALITÀ POLITICA
1 Fine del centrosinistra
L'attuale crisi governativa non è altro che la conseguenza della ben più grave
crisi in cui il centrosinistra si è venuto a trovare in seguito alle elezioni
politiche del '68.
In quella occasione infatti si è potuto verificare come tutto un sistema di
alleanze, di compromessi e di pressioni fosse fallito senza produrre, in
definitiva, né vincitori né vinti.
Sconfitte, infatti, ne sono uscite le due principali correnti all'interno della
coalizione governativa e cioè i moderati (dorotei e socialdemocratici) e le
sinistre (sinistra DC, socialisti e radicali), in quanto entrambe non sono
riuscite a raggiungere gli obiettivi che si erano prefissati. I radicali sono
stati sconfitti sul piano elettorale in quanto non si è verificato il tanto
sperato recupero di almeno una parte dei comunisti nell'area democratica, cioè
nel PSI, per potere ridurre il peso del PCI e nello stesso tempo per opporre un
forte partito di sinistra laica al moderatismo della DC. Strategia che non
poteva verificarsi dato il carattere equivoco, lento e moderato che aveva
assunto il centro-sinistra e il carattere socialdemocratico dell'unificazione
socialista (ecco la ragione della scissione del PSIUP). In quell'occasione,
anzi, l'affermazione della DC e il calo del PSI, aveva accentuato il potere
nelle mani del partito di maggioranza relativa, con il rischio di vedere i
socialisti completamente nelle mani dei democristiani e una decisiva svolta
moderata nel paese.
Tuttavia le sinistre si sono rafforzate sul piano politico, sia all'interno del
PSI che all'interno della DC, assumendo un potere di contrattazione non
indifferente.
In questo senso si può parlare di fallimento della linea Saragat, che vedeva il
centro-sinistra in chiave moderata e socialdemocratica e non radicale.
In conseguenza dei risultati elettorali vi è stato un ritorno a un centro
sinistra più moderato con il governo Rumor, ma contemporaneamente l'acuirsi
delle polemiche interne ai due partiti DC e PSI, in seguito agli attacchi delle
sinistre.
Polemiche queste che portando al rafforzamento delle sinistre stesse hanno
determinato la scissione del PSI e la crisi governativa.
Tale crisi può essere seguita in tappe successive, partendo dalla alzata di
scudi di Moro al Consiglio Nazionale della DC.
In tale sede infatti Moro è uscito dal gruppo di maggioranza mettendo così in
crisi la segreteria, tanto che si è dovuto procedere alla elezione provvisoria
di Piccoli. In seguito anche Sullo è uscito dal gruppo doroteo ed ha assunto una
posizione autonoma da sinistra, seguito poi da Scalfaro, il quale però,
spostandosi a destra, non costituisce un pericolo per i dorotei, ma finisce per
rientrare puntualmente nella loro politica. La situazione venutasi a creare
all'interno della DC in seguito alla azione di Moro, ha visto riaccendersi la
polemica tra lo stesso Moro e Fanfani, in quanto quest'ultimo deciso ormai a
puntare alla Presidenza della Repubblica, svolge un'azione di puntellamento dei
dorotei.
In tale clima di incertezza e di polemiche si è arrivati al congresso della DC,
che ha visto nuovamente "Impegno democratico", cioè i dorotei (Rumor, Piccoli,
Andreotti, Colombo) alla guida del partito assieme ai fanfaniani e ai tavianei,
ma nello stesso tempo il rafforzamento delle sinistre con Moro come probabile
leader.
Contemporaneamente, nell'altro partito del centro sinistra, cioè il PSI, la
polemica tra socialisti e radicali da una parte ed ex-socialdemocratici
dall'altra, volgeva sempre più a favore dei primi e minacciava di ridurre i
secondi alla completa impotenza.
Ma ecco la mano di Dio. È proprio il caso di dirlo. La salvezza, infatti, è
venuta dal Vaticano e affini.
In primo luogo Saragat, vedendo che la crisi del centro sinistra si stava
risolvendo a sinistra, ha voluto la scissione del PSI per un ritorno al
centrismo o centro sinistra «pulito», che è il suo vecchio pallino, cioè
moderato e socialdemocratico. In secondo luogo il Vaticano, preoccupato dalle
impennate laiche dei socialisti, tipo divorzio, e dalla situazione critica che
sta attraversando in questo momento, ha voluto impedire un eventuale
scivolamento a sinistra. In terzo luogo la vittoria del socialdemocratico Nixon
alla Casa Bianca è stata determinante, perchè, come si sa, la nostra politica
nazionale non è altro che il riflesso di quella internazionale. Questi, infatti,
preoccupato probabilmente anche dal fatto di non volere troppi fastidi in
occasione del rinnovo della NATO, che dovrà avvenire in novembre, ha senz'altro
dato il proprio appoggio ai moderati. In quarto luogo alcuni settori economici,
preoccupati dalle riforme sociali troppo spinte e insicure, dallo scivolamento a
sinistra e dalla instabilità del governo, sono stati determinanti per un ritorno
al moderatismo, facendo affidamento proprio sui gruppi moderati della DC
(dorotei). Costoro infatti, assieme ai fanfaniani, si fanno più portatori di
idee di rinnovamento istituzionale che sostenitori di riforme sociali, mostrando
appunto il loro carattere moderato.
Ce ne era abbastanza per attuare la spaccatura, e questa, alla fin fine è
avvenuta; male, ma è avvenuta.
Essa, verificandosi proprio dove vi è stata l'unificazione tra i due partiti, il
socialista e il socialdemocratico, ha riportato la questione ai termini
precedenti tale unificazione, e ha sancito così la fine del centro sinistra e
dei suoi obbiettivi.
Il problema dei rapporti con i comunisti è stato quindi il falso scopo usato a
giustificare la scissione, con la quale in realtà, per i motivi da noi esposti,
si è voluto dare una sterzata moderata e socialdemocratica al paese.
Per i comunisti, infatti, se ai tempi dell'apice del radicalismo mondiale con la
«nuova frontiera» kennediana, poteva esistere la possibilità di un loro ingresso
nell'area governativa, non esistevano tuttavia le condizioni politiche adatte,
(autonomia del PCI da Mosca, democratizzazione interna) ora anche se
esistessero, non esistono le possibilità, data la svolta
nazional-socialdemocratica dei due blocchi. Tuttavia, per ritornare al problema,
la scissione socialista non è stato che il primo passo per arrivare alla
costituzione di un centro sinistra «pulito» (DC, PRI, PSU).
L'avallo a tale formula governativa dovrebbe essere dato dalle elezioni
anticipate, le quali sancirebbero sicuramente la vittoria del PSU e la sconfitta
del PSI, quindi renderebbero possibile, sul piano numerico, la costituzione del
tripartito, cosa che attualmente non lo è, data la superiorità quantitativa del
PSI.
In questa prospettiva, qualsiasi soluzione che dovesse servire come transizione
in attesa delle elezioni, (governo balneare, monocolore DC) potrebbe essere
ritenuta valida.
Alla strategia dei moderati tuttavia si oppone quella delle sinistre, e il
braccio di ferro, tuttora in corso, potrebbe offrirci soluzioni diverse, quali
ad esempio un governo DC, PSI.
La DC, infatti, pur dichiarandosi ufficialmente disposta ad attuare la formula
del centrosinistra organico (DC, PRI, PSU, PSI), tuttavia si trova condizionata
dalle sue stesse sinistre, le quali hanno fatto convergere i loro voti su
Piccoli al Consiglio Nazionale, condizionati appunto dal fatto di far rientrare
il PSI al governo, e, tra l'altro, si sono dichiarate pronte per un governo a
due (DC, PSI).
La formula del quadripartito in sostanza trova consenzienti solo i
democristiani, ed oltre che rappresentare una soluzione di compromesso, è
fermamente osteggiata dal PSU e dal PRI.
Il primo perchè non ha ottenuto dal PSI la garanzia di chiusura ai comunisti, e
questo è stato il motivo ufficiale della scissione, il secondo perchè non la
ritiene, a ragione, una soluzione stabile.
In queste prospettive si inserisce il gioco del PCI e del MSI. L'uno come forza
di pressione in appoggio ai gruppi di sinistra per favorire la riedificazione di
un centro sinistra in chiave radicale, l'altro in appoggio alle soluzioni
moderate (richiesta di elezioni anticipate), mentre le «soluzioni autoritarie»
tanto paventate, dovrebbero servire per ammorbidire eventuali alzate di scudi da
parte delle sinistre.
Tutto ciò ad onta di chi, credendo che il sistema sia in crisi, vede
potenzialità rivoluzionarie e rientra nel MSI o nel PCI, mentre non si accorge
che sia l'una che l'altra delle due soluzioni da noi prospettate come probabili
alternative alla attuale crisi governativa, non servono altro che a rafforzare
il sistema.
POLITICA ESTERA
2 La Francia dopo De Gaulle
Jorges Pompidou è il nuovo presidente dei francesi.
L'elezioni dell'ex primo ministro di De Gaulle era scontata in partenza e non ha
destato alcuna sorpresa ne emozione. Come era da prevedersi Pompidou ha raccolto
attorno a se l'appoggio di tutti gli ambienti moderati francesi, mentre Poher,
partito come candidato del centro, è stato al secondo turno abbandonato dalla
gran parte dei suoi sostenitori ed ha finito con l'assumere la fisionomia a lui
poco congeniale, di contestatore del sistema gollista, raccogliendo attorno a se
i suffragi di una sinistra sbrindellata, confusa e sconfitta prima d'ogni lotta.
Quello che comunque non è stato mai posto in discussione nella campagna
elettorale dal leader del centro democratico, è stato l'assetto della quinta
repubblica; un ritorno al parlamentarismo partitocratico, infatti, non avrebbe
mai potuto riscuotere l'approvazione dei Francesi. Non solo ma anche nel campo
della politica estera la differenza tra le posizioni dei due candidati era del
tutto trascurabile e verteva solo su punti marginali; l'uno e l'altro infatti
sostanzialmente si facevano portatori di una politica europeista nell'ambito
dell'alleanza atlantica, senza per altro rinunciare al ruolo della Francia come
grande potenza. La lotta elettorale quindi, svuotata di ogni contenuto politico
rilevante, veniva ad assumere i toni di una polemica personale e la scelta posta
all'elettorato francese veniva a porsi non tra due linee politiche ben
differenziante, ma tra due personaggi o meglio ancora tra due equipe differenti
di amministratori.
In sostanza ci sembra coerente la campagna astensionistica propugnata dal PCF,
nel senso che da parte di un partito che ha dimostrato chiaramente di voler
conservare lo status quo era del tutto inutile entrare in una competizione
assolutamente personalistica. Ben differente è stata la posizione della sinistra
velleitaria e intellettualistica, che ha dimostrato ancora una volta oltre al
suo vuoto organizzativo, la più assoluta mancanza di idee e di una sia pur
appena abbozzata strategia politica; appoggiando la candidatura di Poher,
infatti, i socialisti e i radicali francesi non si sono posti il problema di
dare alla loro decisione un contenuto politico, ma hanno agito in base al
criterio del «meno peggio», il che significa dichiarasi incapaci di porre, sia
pure in prospettiva, una qualsiasi alternativa al sistema.
Le reazioni della stampa occidentale sono state cautamente ottimistiche nei
confronti dell'elezioni di Pompidou, né questi è stato fatto segno da pesanti
attacchi dalla stampa sovietica, il che significa secondo la logica comunista
un'approvazione di fatto. Questo atteggiamento pressoché unanime trova la sua
giustificazione nel fatto che con l'elezione del nuovo presidente si conclude
quel processo di normalizzazione secondo la logica dei blocchi della politica
estera francese, processo già peraltro iniziato con visita di Nixon a De Gaulle.
Come avemmo già occasione di dire la Francia, riuscita finalmente ad entrare nel
novero delle grandi potenze, rinuncia di fatto alla sua posizione contestatrice
dell'ordine di Yalta e si mostra quindi disposta a trattare sull'entrata
dell'Inghilterra nel MEC il che costituisce come più volte abbiamo sostenuto, un
beneficio discutibile alla causa della collaborazione economica europea e senza
dubbio l'ennesima battuta d'arresto alla sua unità politica, che trova
nell'Inghilterra oltre che un ostacolo un'avversaria attiva. Il governo Pompidou
quindi si avvia con l'appoggio pressoché unanime del potere economico e con le
simpatie del moderatismo internazionale e dei circoli «benpensanti» ad un opera
di restaurazione conservatrice. Si è parlato in proposito di gollismo senza De
Gaulle. Questa espressione, tanto cara alla stampa borghese, non ci trova
consenzienti. Innanzi tutto ci sembra che non si possa parlare di un'ideologia o
di un sistema gollista; vi è stata in questi anni la politica del generale,
politica essenzialmente pragmatica, basata sulla soluzione immediata dei vari
problemi senza tuttavia presentare una linea organica né tanto meno dei principi
informatori. Solo nel campo della politica estera si è potuto parlare per un
certo periodo di una vera e propria politica gollista ma, come più volte abbiamo
avuto occasione di dire, essa non ha avuto sbocchi concreti e già il generale
aveva finito col fare marcia indietro, cercando di salvare un prestigio
puramente formale.
Nel campo della politica interna l'atteggiamento di De Gaulle non presentava
elementi originali, permeato come era da un certo tipo di autoritarismo
paternalistico, basato sull'accordo tra potere politico e potere economico. Solo
al momento della sua caduta il generale ha manifestato idee nuove tali da
rompere l'antico equilibrio e da potere instaurare una nuova realtà politica
basata su di un diverso assetto della realtà sociale e su nuovi rapporti, che
non esitiamo a definire rivoluzionari a confronto con le vecchie formule
illuministico-liberali tra stato e cittadino.
Col concetto di partecipazione viene a cadere la vecchia contrapposizione tra
potere politico e realtà sociale, e sorge un nuovo assetto che tende a superare
lo schematismo istituzionale inserendosi vivamente e prepotentemente nella vita
e nelle aspirazioni del popolo. Popolo che non si presenta più avulso,
distaccato dal potere politico, ma che tende a divenire il potere politico
stesso, a permeare di sé lo stato.
Questa intuizione forse non del tutto originale, ma certamente rivoluzionaria,
avrebbe potuto fare della politica del 'generale, una ideologia. Avrebbe
abbattuto la dialettica della destra e della sinistra, e proprio per questo lo
schieramento contro le riforme proposte dal referendum, è stato così largo, tale
da travolgere lo stesso prestigio del Generale. Così il gollismo è morto quando
stava per nascere.
3 - Il convegno dei PC a Mosca
La storia dei Congressi dei Partiti Comunisti a Mosca esemplifica l'evoluzione
della situazione politica ed ideologica nel mondo comunista. Quello del 1957
segnò la vittoria di Krusciov. Mao in persona, che pure pochi mesi prima aveva
condannato il massacro di Budapest, riconobbe nella sala di S. Giorgio la
supremazia morale e politica di Mosca nei confronti di tutti i comunisti. Il
prestigio di paese guida che solo a Yalta le era stato politicamente
riconosciuto, la Russia ora lo vedeva ampliamente riconfermato dal punto di
vista ideologico. Tre anni dopo (1960) al vertice di Mosca, la Cina invia solo
un osservatore: liu Sciao Sci, che sarà accusato da Lin Piao, nel corso del IX
congresso del PCC, di essere un «borghese revisionista al soldo del
capitalismo». In compenso, in confronto ai 13 PC che avevano partecipato al
vertice del '57, ne erano presenti 85. L'unità del mondo comunista era salva.
Malgrado la distensione, il vecchio schema caro alla Casa Bianca e al Kremlino,
dei due blocchi, era ancora in piedi. Poi, nove lunghi anni densi di avvenimenti
di eccezionale importanza politica, che imprimono alla storia del mondo una
svolta decisiva: il fallimento della convergenza ideologica del radicalismo
kennediano e krusceviano, la crisi della democrazia, la guerra del Vietnam e
l'ascesa della Cina. Al vertice del '69, sui 45 milioni di iscritti che nel
mondo contano i vari partiti comunisti, ne sono rappresentati 23. La Russia è
isolata, è costretta ad ammettere il fallimento della propria politica, deve
ricorrere alla brutalità della mobilitazione al confine mongolo. L'ultima
vittoria la coglie ad Hanoi, impedendo ad Ho Chi Min di accettare il milione di
soldati cinesi offertogli da Mao, e costringendo il Vietnam del Nord a trattare
con gli americani. È certo una vittoria: ma a Mosca le sedie vuote dei
rappresentanti dei PC del terzo mondo sono eloquenti. Sfuggenti, inquieti,
reticenti, i rappresentanti di molti PC, primi fra tutti quelli rumeni.
La Russia sta attraversando un periodo di particolare crisi. La svolta politica
che qualche anno fa portò alla liquidazione del radicalismo krusceviano e
inaugurò una nuova fase di ortodossia ideologica basata sulla realpolitik e sui
rapporti di forza, si trova ora a dover affrontare due nemici: da un lato la
sovversione radicale che ancora alligna soprattutto nei paesi satelliti, e che
ha reso necessario l'intervento armato in Cecoslovacchia; e dall'altro il nemico
storico della Russia; la Cina maoista. Per di più, la trasformazione dei
rapporti fra USA e URSS dopo la sconfitta della «nuova frontiera», rischia di
costringere i due supercolossi ad una gara di prestigio assai controproducente.
In realtà con la morte di Kennedy e di Giovanni XXIII, e con il defenestramento
di Krusciov, i rapporti tra Stati Uniti e Russia hanno subito una radicale
trasformazione. Dalla convergenza ideologica rooseveltiana cui il kennedismo ha
infuso nuovo vigore, che faceva della crociata antifascista il suo vessillo, si
è passati ora ad una collaborazione utilitaristica, che pone i rapporti tra le
due superpotenze sotto il segno della forza e della convivenza politica,
escludendone ogni comune matrice ideologica. Di questo non possono rallegrarsi
coloro che abbiano una chiara coscienza europea, perchè questo mutamento apre
nuove prospettive nel futuro. La democrazia sente di essere esaurita, non ha più
fiducia in sé stessa, e trasforma la sua weltanschauug nell'alleanza di
convenienza. Nessuno può minimamente prevedere cosa potrà nascere da questo
fatto, ma la incertezza di prospettiva che esso genera, non può che sottolineare
l'importanza. La conferenza di Mosca e i successivi avvenimenti politici
confermano questa tendenza. Il discorso di Brezhnev violentemente anticinese non
è forse a tal riguardo l'avvenimento più significativo: quello che colpisce
invece maggiormente è il tentativo, precedente al congresso, di accodarsi con la
Cina, minacciandola al contempo con un grande spiegamento di forze. Il
significato politico di questo gesto di buona volontà da parte russa può essere
solo quello di cogliere un enorme successo psicologico nei confronti degli Stati
Uniti, che in questo momento stanno lanciando una vasta offensiva
propagandistica, che va dallo sbarco sulla Luna, al viaggio di Nixon in Romania.
La Russia voleva presentarsi a Mosca sotto il segno della collaborazione anche
se non dell'unità con la Cina; voleva far pesare in tutto il suo significato un
eventuale accordo per le zone di frontiera con la Cina. Ma il IX congresso del
PCC e successivamente la ferma opposizione di Mao ad ogni trattativa, hanno
costretto Breznev ad improvvisare il suo discorso violentemente antiradicale e
anticinese al tempo stesso. Il vertice comunista del 1959 si è quindi
trasformato da offensivo in difensivo, cercando la scomunica ideologica.
L'atteggiamento dei partiti comunisti è stato ambiguo, non del tutto
disciplinato. E ciò è comprensibile. Nel periodo della «nuova frontiera» e della
«distensione», la convergenza ideologica del capitalismo americano e di quello
russo aveva aperto a molti PC nuove speranze di governo: basti pensare
all'esperimento della "Repubblica Conciliare" in Italia, il cui successo, con
Giovanni XXXII al pontificato, sembrava assicurato. In questo quadro i vari
partiti comunisti perdevano la grinta partigiana, impugnavano chitarre e fasci
di fiori e marciavano per la pace e verso il governo; ma con la vittoria della
linea socialdemocratica (estendendo il significato italiano di questo termine a
tutto lo schieramento conservatore mondiale), consacrata dall'elezione di Nixon,
la repubblica conciliare diviene impossibile e la delusione dei vari partiti
comunisti è grande. Alcuni, come il PC Francese, obbediscono agli ordini del
Kremlino e ostacolano le avventure radicali; altri, come quello italiano, più
direttamente sollecitato dal potere, sono assai più restii; condannano
l'aggressione alla Cecoslovacchia, e Berlinguer assume un atteggiamento
addirittura provocatorio a Mosca.
Il fallimento della Repubblica Conciliare dipende direttamente dalla vittoria
dei conservatori in America e in Russia. Resta da vedere nel futuro in quale
misura la trasformazione dei rapporti tra i due grandi sul piano della
realpolitik (come si confà alla mentalità conservatrice efficientista),
influisca sulle decisioni sovietiche nei confronti dell'Italia e del ruolo del
PCI; resta da vedere, in altri termini, se un eventuale appoggio sovietico alla
repubblica conciliare possa configurarsi come azione di disturbo nei confronti
dell'America nixoniana. In tal caso essa avrebbe un valore politicamente assai
più limitato di quanto avrebbe avuto sotto il segno della «nuova frontiera»,
trasformandosi in uno dei tanti episodi della guerra fredda. È però certo che
tale ipotesi, di per sé assai poco probabile, sarebbe possibile solo nel caso
che ulteriori sviluppi nella situazione cinese non costringano URSS ed USA ad un
ulteriore ravvicinamento.
Ci resta da esaminare il punto forse più scabroso di tutta la questione, cioè
l'atteggiamento del PCI di fronte a tale stato di cose. Certamente il fallimento
dell'operazione di appoggio e successivamente di partecipazione al governo, deve
essere pesato a molti dirigenti, forse perfino al filo-sovietico Longo. Tuttavia
l'eliminazione di Togliatti, campione del revisionismo radicale, doveva essere
stata abbastanza chiara per i suoi successori. Tuttavia l'esaltazione delle «vie
nazionali» Jugoslava, Romena, Cecoslovacca, è rimasto il cavallo di battaglia
del PCI, la sua credenziale di governo. Dopo l'invasione di Praga, il PCI è
stato chiaramente posto nell'alternativa di ribellarsi o accettare gli ordini di
Mosca. La via della ribellione non offriva prospettive di sorta: una volta
ribelli a Mosca, i comunisti italiani perdevano ogni interesse politico, perfino
agli occhi di Paolo VI, che sembra essere rimasto l'ultimo dei radicali, ed è
alla disperata quanto vana ricerca di nuove linfe vitali nell'ONU e nei paesi
del Terzo mondo, forse nell'utopistica speranza di poter realizzare con essi ciò
che USA ed URSS non avevano voluto con Giovanni XXIII. Restava quindi per il PCI
soltanto la strada dell'allineamento. Il discorso di Berlinguer a Mosca ha
sorpreso molti: ambienti pacciardiani vi hanno voluto addirittura vedere il
segno di una disponibilità nazionale del PCI all'appoggio di eventuali
repubbliche presidenziali... mentre i furibondi attacchi dei marxisti-leninisti
italiani hanno fatto d'ogni erba un fascio accusando di revisionismo (graduato
da vari prefissi come «iper-», o «super-», ecc.) tutte le «cricche» anticinesi,
e smascherando il «funambulismo» di Berlinguer.
Certo non sono i discorsi che possono qualificare un uomo politico e a maggior
ragione un partito. Il discorso di Berlinguer in realtà non si è discostato
troppo dall'ortodossia e propagandisticamente ha offerto il destro ai dirigenti
sovietici di far rilevare l'assolta «libertà» d'opinioni in seno al movimento
comunista mondiale. Inoltre Berlinguer l'ha pronunciato in un momento in cui in
Italia si stavano svolgendo le ultime fasi della battaglia politica che ha
portato alla vittoria del Quirinale e alla scissione socialista. Noi abbiamo
dato per scontato che la prospettiva della Repubblica Conciliare in Italia, in
seguito al mutamento dei rapporti fra USA e URSS, si è grandemente allontanata,
ma ciò non toglie che fino a poche settimane fa fosse ancora in corso la
battigia che vedeva impegnati da un lato i socialdemocratici e dall'altra J
radicali, e che in ogni caso valeva la pena di combattere fino in fondo. Ora la
tregua estiva offre al PCI il tempo di chiarire la sua posizione ambigua nel
quadro delle direttive moscovite.
DOCUMENTAZIONE
4 - Un esempio di «sana» amministrazione democratica
Il Pio Istituto di S. Spirito ed Ospedali Riuniti di Roma costituisce, con i
suoi 7.000 posti-letto, uno dei più grandiosi complessi ospedalieri oggi
esistenti anche al di fuori dei confini nazionali. Queste imponenti dimensioni
potrebbero realmente costituire la premessa di prestazioni assistenziali e
scientifiche senza precedenti nel settore della tecnica ospedaliera. Ma,
all'aspetto quantitativo fanno riscontro una situazione organizzativa ed una
dotazione tecnologica assolutamente di quart'ordine: si può affermare, senza
tema di smentite, che per la grande maggioranza dei 7.000 posti-letto sono
possibili prestazioni di un livello quale oggi, in qualsiasi paese del mondo, è
ammissibile solo per dei cronicari.
Tutto ciò comporta un aumento incredibile dei tempi di degenza ed uno spaventoso
sovraffollamento dei luoghi di cura, di per sé ormai insufficienti alle
necessità della popolazione in continuo aumento. Infatti, trascorsi 24 anni
dalla fine della guerra, l'edificazione del primo nuovo ospedale... è tuttora
allo stadio di progetto!
Si è voluto, per motivi probabilmente solo in parte confessabili, far fronte
mediante convenzioni con case di cura private che, per la primitività delle
attrezzature e la scarsità di personale, non sono in grado di fornire niente di
più che un'assistenza di livello infermieristico. Il rimedio attuato è perciò
ben lungi dall'essere utile (per lo meno, non a chi dovrebbe esserlo ...) ed il
problema si ripropone in termini ognora più dolorosi e categorici.
Ad aumentare il caos ed a renderlo irreparabile si è poi aggiunta la
costituzione, a lato del Presidente, di un consiglio d'amministrazione che
accoglie nel suo seno i rappresentanti di quei partiti politici di cui, a nostre
spese, abbiano bene imparato a conoscere l'efficienza in ogni settore della
pubblica amministrazione. La peste partitocratica si è diffusa con violenza
addirittura esplosiva, fra strutture ammuffite ed individui sonnecchianti, dando
nuove espressioni al malcostume che precedentemente aveva mantenuto aspetti
benigni di tipo borbonico. Basti pensare che questi campioni della democrazia
sono rimasti assorbiti presso che esclusivamente, per oltre un anno,
dall'impegno tremendo di conferire, per necessità di adeguamento dell'organico,
incarichi provvisori ad un certo numero di sanitarii e di elaborare i relativi
elenchi. Sembra uno scherzo, ma è autenticamente vero che per descrivere la
serie infinita di ingiustizie, di scandali, di rifacimenti che hanno
contraddistinto la tessitura di questa novella tela di Penelope occorrerebbero
volumi!
Ciò senza tener conto del fatto che, con la carenza di concorsi che perdura
dalla fine della guerra (quindi anche questo sarà da mettere nel conto delle
malefatte del fascismo), con il mancato avvicendamento dei sanitarii per
l'assicurato mantenimento in servizio fino al 65° anno di età e con il mancato
allargamento degli organici, si sono frustrate le aspettative di medici e
chirurghi di prim'ordine, che avrebbero meritato ben più alte responsabilità e,
in ogni caso, un destino meno inglorioso di quello di un qualsiasi parassita del
parastato. Nel frattempo, le organizzazioni sindacali dei medici ospedalieri,
cadute regolarmente nelle mani di individui appartenenti alla cricca del
centro-sinistra, sono servite, come le generalità dei sindacati in Italia, a
tutelare soprattutto gli interessi dei dirigenti sindacali e delle loro
clientele.
Ed è dai responsabili di tutto ciò, da questi uomini incapaci e corrotti che la
cittadinanza romana dovrebbe ora attendere, «con serena fiducia nella giustizia
democratica» l'indilazionabile attuazione dei provvedimenti di largo respiro che
soli possono consentire di superare l'attuale situazione fallimentare:
costruzione di nuovi ospedali, acquisto di nuove attrezzature, nuova
regolamentazione e rimunerazione del «tempo pieno» per il personale sanitario,
addestramento di quadri veramente qualificati del personale d'assistenza,
conseguente aumento delle rette pagate dagli enti mutualistici che verrebbe di
certo compensato da un notevole abbreviamento dei tempi di degenza degli
ammalati. Insomma: aumento delle entrate e delle spese in ogni capitolo del
bilancio, immissione di una nuova corrente vitale in tutti i compartimenti ed in
tutte le procedure, funzionalità ad un regime più elevato in ogni settore. Solo
così l'assistenza erogata dagli ospedali romani potrà essere all'altezza di uno
standard ormai universalmente diffuso.
SAGGISTICA
5 - NATO: analisi di una struttura
L'obiettivo americano di trasformare progressivamente tutta l'Europa in una
socialdemocrazia di tipo scandinavo per togliere ogni velleità di autonomia, si
sta ogni giorno sempre più chiaramente precisando. Impadronitasi dell'industria
di struttura europea, l'America sta ora cercando di adeguare gli apparati
militari europei alla politica dei rispettivi governi.
In realtà gli Stati Uniti sanno bene per esperienza diretta che è impossibile
ipotizzare un esercito puramente «istituzionale», che cioè non si interessi di
politica e non sia strutturato in conformità alle intenzioni politiche dello
stato. L'esercito, senza falsi pudori, serve a fare la guerra; e la guerra, da
Sun Zu a Macchiavelli e a Clausewitz, non è altro che la prosecuzione della
politica con altri mezzi.
Gli USA tengono conto di questa realtà e mirano quindi alla «politicizzazione»
delle forze armate dei paesi alleati, in un senso, beninteso, semplicemente
opposto a quello che ci potrebbe trovar consenzienti.
Essi hanno scelto per i paesi europei la forma di governo socialdemocratica,
come la più idonea ad esercitare il ruolo di amministrazione ordinaria che
compete ai loro vassalli europei: ed è quindi ovvio che i rispettivi eserciti
siano permeati di questa dottrina, che siano strutturati e comandati in tal
senso.
In tal modo non è tanto il principio strategico dell'unità di comando
politico-militare, che vien meno, quanto la volontà strategica stessa. Come i
governi socialdemocratici rinunciano a fare politica per amministrare i
rispettivi paesi per conto anche se non in nome degli USA, così le forze armate
delle socialdemocrazie europee rinunciano alla visione strategica dei problemi
militari e si limitano ai compiti esecutivi di carattere tattico. Le opposizioni
interne e le critiche anche larvate mosse a questo status quo, sono subito
efficacemente represse e i generali «ortodossi» fanno carriera.
Ecco perchè il generale Baudissin, amico e collaboratore dell'esperto militare
della SPD, Willy Berkham, e ideatore della «Innere Fuhrung» (disciplina
interiore, in contrapposizione alla tradizionale disciplina della Wehrmacht) che
attraverso l'istituzione di sindacati e consigli di soldati rende assai facile
il controllo politico della Bundeswehr, ha recentemente assunto tanta
importanza, ed ecco il motivo recondito di tanti personalismi e tante lotte
negli ambienti militari italiani.
Ma ciò che rende più evidente questo stato di cose e che ci permette di cogliere
il meccanismo dell'asservimento delle potenzialità belliche (e politiche)
europee al programma di Yalta, è l'analisi, anche generale, della struttura
dell'Organizzazione del Trattato del Nordatlantico.
In base al principio della «mutua difesa» subordinato al rispetto dei princìpi
informatori delle Nazioni Unite riguardo alla pace e alla sicurezza (artt. 1 e 7
del Trattato del Nordatlantico e Capo VIII della Carta delle NU), la NATO si
compone di una duplice struttura, civile e militare, tendente all'integrazione
dei paesi membri, anche dal punto di vista economico (art. 2).
Organi civili sono il Consiglio del Nord Atlantico, composto dai Rappresentanti
Permanenti e dalle Delegazioni dei 15 paesi membri, presieduto dal Segretario
Generale (attualmente Manlio Brosio, con compiti puramente onorifici come quelli
di Fanfani alle NU), e il Segretario Internazionale affiancato da dodici
Comitati esecutivi.
Il Consiglio del Nord Atlantico, in cui in certe occasioni gli Stati possono
essere rappresentati dal Presidente del Consiglio o dai Ministri competenti di
volta in volta, «è chiamato ad esaminare le questioni relative all'applicazione
del Trattato». Le Convenzioni di Londra ed Ottawa ne specificarono a suo tempo i
compiti di carattere amministrativo e arbitrale, e di fatto esso non esplica
quella funzione di guida politica che invece, com'è noto, avviene nell'ambito
dell'alleanza tramite le Ambasciate Americane nei vari paesi europei.
Tuttavia non meno stretta è la sudditanza che la struttura dell'alleanza impone
ai paesi europei nei confronti degli USA: essa si esplica attraverso i vari
uffici del Segretariato Internazionale (Divisione Affari Politici e Affari
Economici) e i Council Committees (Politica Estera, Economico, Studio della
mobilitazione civile, Pianificazione, Comitato per il Carbone, l'Acciaio e le
materie grezze), che da un lato rappresentano forme legalizzate di spionaggio
industriale e dall'altro consentono il controllo diretto di organizzazioni come
la CECA, l'EFTA e il MEC. Dal canto suo il Comitato dei Piani Civili d'Urgenza
contribuisce al mantenimento dello status quo nei paesi dell'alleanza. Last, but
not least, ricordiamo il Servizio del Controllo Finanziario facente capo alla
Segreteria Internazionale, che tanta occulta parte ha avuto nelle complesse
relazioni euro-americane in ordine alla politica monetaria degli ultimi anni, e
che così efficacemente ha combattuto le iniziative di De Gaulle.
Dal punto di vista militare, dopo il 1954, si è assistito ad una spaventosa
integrazione accentratrice, che condiziona in modo determinante tutti gli
apparati militari dei paesi europei.
Organo supremo è il "Military Committee", composto di tutti i Capi di Stato
Maggiore della Difesa dei paesi membri, che deve formulare raccomandazioni,
impartire direttive e fornire pareri; ma il suo compito è puramente illusorio,
in quanto si riunisce due volte l'anno. Permanente è invece lo "Standing Group",
che è l'organo esecutivo del Consiglio Militare, e che è composto da tre soli
Ufficiali, cioè i CSMD degli USA, di Gran Bretagna e di Francia. Esso è
competente a fissare le dottrine militari dell'alleanza, (vedremo fra poco la
cd. «difesa flessibile»), e a realizzarle in concreto attraverso vari uffici,
competenti per questioni secondarie. Fra queste, collegandoci a quanto già
dicemmo nello scorso numero, fa spicco il problema della produzione bellica, per
cui, sotto lo specioso pretesto dell'unità di armamento fra gli alleati, si è
istituito in Londra (cioè vicino alle sedi delle grandi società di produzione
bellica inglesi che svolgono compiti di corollario alla produzione americana)
l'Ufficio per la Standardizzazione militare, in collaborazione col Comitato per
gli Armamenti, che programma e prescrive i mezzi da impiegare da parte dei vari
eserciti. Per rendere più definitivo l'ancoramento alle armi americane di volta
in volta scelte da tale ufficio, sono state recentemente create in Germania, ad
Oberuhldingen, le organizzazioni per la produzione dell'F-104G e dei missili "Sidewinder"
e "Bullpup", e in Francia per il missile c.a. "Hawk".
Fino al 1954 l'Alleanza si limitava a questa struttura, che esercitava un
controllo e una direzione indirette, mediate da una formale sovranità degli
stati membri. Dopo questa data si crearono gli enormi apparati di comando
militare che vincolano ancor oggi tutte le forze operative dei vari paesi.
Le forze furono divise in quattro settori; quelle del Gruppo Regionale di
Pianificazione Canada-Stati Uniti (Washington), con compiti strategici ma non di
comando operativo; quelle del Comitato della Manica (Londra) per la difesa della
Manica e del Mare del Nord; quelle dell'Europa (Supreme Allied Commander
Europe-SACEUR; prima a Fontainebleau e poi a Bruxelles). Da SACEUR dipende il
Quartiere Generale delle Forze Alleate Europee (SHAPE), sempre a Bruxelles, e i
vari comandi locali.
«Il Comando Alleato -scrive in una lettera aperta ai giornali pubblicata da
"Paese Sera" il Gen. SA in p. aus. Nino Pasti- è oggi costituito alla sua
sommità da tre soli generali, due americani, il Comando Supremo e il CSM, ed uno
inglese, il vice comandante Supremo, senza nessun rappresentante europeo
continentale». Infatti, come scrive lo stesso Gen. Pasti, nell'autunno del 1696
i paesi dell'alleanza tra cui l'Italia, accolsero favorevolmente la proposta di
sopprimere l'unico posto dello SHAPE riservato ad ufficiali europei, quello di
Vice Comandante Supremo Alleato per gli Affari Nucleari, occupato allora proprio
dal Gen. Pasti.
La costituzione dello SHAPE-SACEUR fu decisa proprio nel 1954, in concomitanza
col fallimento della CED e con la decisione del riarmo tedesco, e la sua
strutturazione fu basata proprio sull'obiettivo di ammanettare la Bundeswher e
di impedire al più forte apparato militare europeo di poter svolgere un ruolo
autonomo.
Dallo SHAPE dipendono quattro comandi integrati: Nordeuropa, Europa Centrale (da
cui dipende un milione di uomini), Europa Sud e Mediterraneo.
Il primo, Europa Nord, che dispone dei Comandi della Norvegia e del Baltico, è
posto sotto la direzione di ufficiali danesi e norvegesi pur essendo costituito
per metà da truppe tedesche basate nello Schleswig-Holstein; il Comando
Centrale, con sede ad Aquisgrana, è esercitato da ufficiali americani; dispone
dell'armata del Nord (sotto comando inglese) e dell'armata Centrale (sotto
comando americano), oltre a due Forze Aeree (la 2a sotto comando britannico e la
4a sotto comando americano). Su un milione di uomini che ne dipendono, solo
250.000 sono americani, 20.000 Canadesi e 60.000 inglesi; gli altri due terzi
sono tedeschi, belgi e olandesi.
L'Europa Sud e il Mediterraneo godono invece di una certa autonomia, specie dopo
che l'ultimo comando è stato ceduto dalla Royal Navy alla Marina Militare; ma la
presenza di una forza autonoma americana come la 6a Flotta e la 6a Forza Aerea
in Spagna tolgono gran peso all'importanza di tali Comandi.
Dal punto di vista giuridico, dopo il 1954, le forze dei Paesi NATO furono
divise in tre categorie :
* Assigned Forces: sono le forze poste sotto comando integrato fin dal tempo di
pace; comprendono, ad eccezione di quelle francesi, tutte o quasi le forze
operative strategiche e tattiche europee la 7th Army e la British Army of Rhein,
oltre alla 17th USAF.
* Earmarked Forces; forze che saranno assegnate in caso di guerra (alcuni
reparti formati in caso di mobilitazione).
* Forze sotto comando nazionale: sono tali tutte le forze armate francesi e le
forze territoriali, di polizia e di difesa civile dei paesi europei, oltre al
resto delle forze americane.
In tal modo gli Stati non possono disporre di forze autonome, perchè tutte
quelle che abbiano un qualche valore bellico sono poste sotto Comando americano,
mentre restano a disposizione dei Governi nazionali solo le infrastrutture
Territoriali, le forze per la Difesa Aerea e la Difesa del Territorio, e le
forze mobili di polizia e gendarmeria, oltre alla Difesa Civile.
L'organizzazione delle forze e la loro dislocazione, risponde alla dottrina
della «difesa flessibile», secondo cui l'iniziativa dell'attacco è lasciata
all'ipotetico avversario, cioè la Russia; si prevede il ritiro delle truppe
alleate in Francia e all'occorrenza in Inghilterra e Spagna, e l'impiego di armi
nucleari tattiche contro truppe sovietiche che abbiano occupato la Germania
Occidentale. Per quanto riguarda la difesa dell'Italia, mentre lo Stato Maggiore
della Difesa prevede la «Difesa ancorata» e il «Logoramento» delle truppe
avversarie tra la Carnia e le Porte di Gorizia, con contrattacco di truppe
corazzate, l'Alto Comando della NATO sembra abbia deciso altrimenti, perchè non
ha concesso che tre giornate di fuoco alle truppe della nostra Terza Armata.
Esaminando questo fantastico piano vien fatto di sorridere e di considerarlo
ingenuo. In realtà non è così. Evidentemente gli americani sanno che l'ipotesi
delle orde cosacche che marciano verso Parigi e Roma non si verificherà mai,
almeno finché resta in piedi l'ordine di Yalta; tuttavia essi sanno anche quanto
sia forte l'efficacia intimidatoria di tale piano nei confronti della Germania,
che diverrebbe un campo di battaglia della più atroce guerra mai combattuta.
Dietro a questo piano si rivela la semiesplicita minaccia della punizione
nucleare ad ogni tentativo di ribellione. In Germania ci si rende
drammaticamente conto di ciò, anche fra gli ambienti militari. Di contro alla
posizione assunta dall'Ispettore Generale della Bundeswehr, generale Ulrich de
Maizière, che è fautore dell'attuale struttura della NATO e delle forze armate
federali, sta quella dell'Ispettore dell'Esercito, gen. Schnez e del suo vice,
gen. Grashey, che contestano la validità dell'«innere fuhrung» e della «Flexible
response».
È ora il tempo di esaminare brevemente come si impernia la NATO nel sistema
americano. È vero che gli Stati Uniti svolgono un ruolo di potenza e partecipano
alla divisione del mondo insieme alla Russia; ma è pur vero che per conservare
tale posizione, essi hanno bisogno di strutturare la loro difesa anche nei
confronti della Russia. Ciò serve al duplice scopo propagandistico (coesione
nazionale sul fronte interno e simpatia dei loro vassalli, in nome della
crociata democratica anticomunista) e di difesa concreta della posizione di
potere anche nei confronti dell'Unione Sovietica.
Si tratta di concetti espressi assai chiaramente nel famoso libro del Generale
Gavin, "War and Peace in the Space Age", in cui si sostiene che l'intero globo
terrestre è divenuto teatro tattico della guerra, perchè il teatro strategico
comprende l'intero universo, dopo lo sviluppo delle imprese spaziali e l'impiego
dei missili intercontinentali; «Molti americani -scrive Gavin- si aspettano
dalla NATO vantaggi materiali per gli Stati Uniti. Lo scudo della Repubblica
viene portato avanti verso quello dell'URSS; il primo urto del combattimento
sarà, in certa misura, assorbito dalla NATO, come la fu dall'Europa nella prima
e nella seconda guerra mondiale».
Prescindiamo dall'assurdità della tesi storica contenuta nel brano; resta
tuttavia la conclamazione della volontà americana di servirsi della NATO come
uno strumento di oppressione.
Di fronte a questo stato di cose, occorre decidere se continuare a restare nella
struttura della NATO, obbedendo alle direttive politiche economiche e militari
americane e continuando ad acquistare dall'America (l'«arsenale delle
democrazie» come l'ha argutamente definita il Gen. Ailleret) le paccottiglie che
soddisfano il patriottismo borghese; oppure dar vita ad uno Stato europeo che
sappia identificare tanto ad Est che ad Ovest il suo nemico.
In un caso o nell'altro bisogna avere il coraggio di dire contro chi la
struttura militare deve dirigersi. Nel primo caso, il nemico sarà l'Europa coi
popoli che la compongono, e che gli eserciti della NATO sono chiamati a
occupare; nell'altro caso il nemico sarà uno solo, quello di sempre; la
democrazia radicale e capitalistica che sull'equilibrio di Yalta ha potuto
costruire il suo sistema.
6 - L'accerchiamento della Cina
Giorno dopo giorno, febbrilmente, la morsa russo-americana si va stringendo
attorno alla Repubblica Popolare Cinese.
La Russia è la più direttamente impegnata, non solo per le frontiere ma anche e
soprattutto perchè vede progressivamente sgretolarsi il credito che godeva
presso i paesi Afro asiatici e latinoamericani, in conseguenza della campagna
propagandistica cinese.
Essa ha bisogno di tempo, per rafforzare la sua potenza bellica e spostarne la
direttrice dall'Europa, dove per ragioni propagandistiche era stata costretta a
indirizzarla, alla frontiera orientale; e ha bisogno di ottenere la scomunica
del maoismo come fenomeno rivoluzionario e marxista.
La prima grande vittoria contro la Cina, la Russia l'ha ottenuta scalzandola dal
Vietnam. Nel giro di due anni, approfittando delle contraddizioni interne della
"Rivoluzione culturale" e dell'enorme bisogno che Hanoi aveva di armi e di
appoggio politico, l'URSS si è impadronita della condotta della guerra
rivoluzionaria, che il popolo indocinese aveva intrapreso contro l'imperialismo
di Yalta.
L'incontro di Parigi è frutto proprio di tale vittoria russa. Gli americani
potranno sganciarsi dalla guerra cui proprio la Cina li aveva costretti nella
speranza di farne scaturire la scintilla dello scontro con la Russia, e la
situazione in Indocina potrà venir controllata dall'imperialismo.
Ma si tratta solo di una battaglia vinta. Il fuoco della rivoluzione cova sotto
la cenere. Dovunque, in estremo oriente, la lotta è pronta a riaccendersi;
l'Africa e l'America latina nascondono enormi potenzialità d'urto, che
potrebbero rivelarsi sorprese assai amare per i padroni del mondo: perfino in
Europa timidi accenni di rivolta contro l'ordine di Yalta sembrano verificarsi.
Mosca sa di aver solo rimandato la resa dei conti, e stringe i tempi. Breznev e
Gomulka tuonano nella Sala di S. Giorgio contro l'eresia cinese, sollecitano un
«Patto di Sicurezza asiatico», fanno pressioni sui partiti comunisti perchè
formino quadrato attorno allo scettro dell'ortodossia marxista.
Si dà il massimo rilievo agli scontri di frontiera che in passato venivano
accuratamente occultati si giunge addirittura al punto di provocarli.
Oggi la Russia scopre le sue batterie, pazientemente ammassate alla frontiera
cinese a partire dal 1965. È del '66 l'asservimento della Mongolia, attraverso
il Patto di alleanza, e il trasferimento delle truppe mongole (Div. Cr. "Suhe
Bator") in Germania orientale; è dal 66 infine che oltre 300 missili nucleari
«terra - terra» sono puntati dal territorio mongolo verso il Sinkiang, dove la
Cina ha concentrato la gran parte delle sue installazioni nucleari.
Sul confine, dopo i «Graniciari» (truppe di confine), sono schierate oltre
trenta divisioni sovietiche, pari a 1/4 di tutte le forze di terra russe,
riunite nel 5° (Taskent) e 6° (Chabarowsk) Fronte: oltre un milione di uomini.
La Flotta Sovietica dell'Estremo Oriente pattuglia incessantemente i mari caldi.
Ancora più spettacolari sono le misure di difesa e offesa missilistica.
Alla fine del '67 l'URSS ha rivelato al mondo di avere una «bomba orbitale» (FOBS),
tale cioè da poter essere diretta durante il suo volo orbitale attorno alla
terra, in qualunque punto a mezzo di impulsi elettronici. Essa realizza un
notevole vantaggio sui missili intercontinentali nucleari (ICBM), in quanto
mentre costoro hanno una traettoria obbligata, il FOBS non ha bisogno di una
base fissa che con la sua installazione riveli la direzione di puntamento; in
tal modo la Russia nel 1967 poteva disporre di un'arma il cui vero destinatario
è la Cina, seguitando ad affermare per motivi propagandistici che essa era
invece indirizzata verso l'USA.
Nel campo della difesa contraerea e antimissile, l'URSS ha effettuato una spesa
pazzesca di miliardi e miliardi di rubli, per dotare la Capitale e i territori
nord-occidentali di una rete di difesa missilistica terra-aria denominata «Linea
Tallin», armata con missili "Griffon".
Poiché tale sistema difensivo deve ritenersi del tutto inefficace a proteggere
il suolo sovietico dagli attacchi dei "Minutemen" e dei "Polaris" americani, ne
appare chiara la funzione anticinese.
Dal canto loro, gli USA non navigano in acque migliori. Il cambiamento
strategico e psicologico del fronte dalla Russia alla Cina, è apparso evidente
nella recentissima e assai complicata controversia tra «falchi» e «colombe» a
proposito della difesa strategica americana.
Me Namara e le «colombe» del Pentagono, primo fra tutti il Gen. Gavin, sosteneva
la necessità di una «forza di ritorsione», capace di radere al suolo qualunque
paese nemico avesse attaccato con ICBM nucleari il territorio americano, fidando
nella forza dissuasiva di tale struttura, basata su oltre 1.000 "Minutemen"
posti in basi sotterranee e sui 41 sommergibili "Polaris". I «falchi» volevano
invece un sistema di difesa antimissile di tutte le città ed installazioni
militari americane, denominato "Sentinel", sicuro al 95%. Ma il costo
elevatissimo del "Sentinel" (100 miliardi di dollari, pari ad un anno di
Vietnam) e quello addirittura pazzesco del progetto migliorato "Defender" (400
miliardi di dollari), trovarono l'opposizione di Bob e Ted Kennedy e di
McCarthy, che volevano destinare tali cifre alla soluzione del problema dei
ghetti negri.
Il motivo addotto dai «falchi» a suffragio del "Sentinel" era significativo: «i
Cinesi -disse un generale- sono differenti. L'equilibrio del terrore non basta a
spaventarli». Può darsi che i generali del Pentagono ossessionati dalla minaccia
sovietica (vittime della loro stessa assurda propaganda) e le grandi ditte
interessate alle succulente commesse del "Sentinel" non credessero molto
all'eventualità dei missili cinesi, specie nel 1966. Tuttavia è significativo
che abbiano fatto ricorso a questo argomento arrivando a proporre a Nixon un
progetto di "Sentinel" orientato contro gli attacchi cinesi, che nel 1970
potranno essere portati da ICBM.
Johnson, preoccupato dalle elezioni, sacrificò ai voti della destra economica la
testa di McNamara e autorizzò un programma di minima di "Sentinel", per
proteggere alcune città americane (costo: dai 14 ai 27 miliardi).
Nixon, assai più realista, dopo la piena ripresa della linea di Yalta e il
viaggio in Europa, comprese l'inutilità del "Sentinel", puntato in eterno contro
un nemico (il russo), che non sarebbe mai arrivato, e si rese invece conto della
necessità di ristrutturare la difesa americana in relazione al vero nemico: la
Cina.
Fu così che il "Sentinel" fu soppiantato dal "Safeguard", un sistema di missili
ABM (Anti-balistic-missile) del costo di 4 miliardi di dollari, orientato a
difesa delle basi terrestri dei "Minutemen", cioè della «forza di ritorsione»
americana. Un eventuale attacco atomico cinese, in tal modo, potrebbe
distruggere metà degli Stati Uniti, ma non le basi missilistiche americane, che
provveder ebbero a compiere la vendetta nucleare. Sconfitti appaiono così i
«falchi» e le oltre tremila aziende americane (1 milione di operai) interessate
al "Sentinel", che vedono sfumare i loro sogni.
Le conseguenze politiche di questa decisione americana sono notevoli.
Il venir meno dell'impegno nel Vietnam esige una ristrutturazione delle zone di
difesa del Pacifico: di qui la selvaggia repressione del maoismo in Indonesia,
il ruolo crescente dell'ANZUS (Australia-New Zealand-US), della CENTO, della
SEATO, del Giappone e di Formosa. La Corea è un immenso campo militare in cui
600.000 ottimi combattenti sono pronti a difendere l'imperialismo americano. La
VII Flotta domina incontrastata il Pacifico, dove oltre un milione di soldati
americani (su tre milioni alle armi e uno in riserva) sono pronti ad entrare in
azione. Ancora nel '66 McNamara cercava di contestare il peso della presenza
americana nel Pacifico: abbiamo nel Vietnam solo 300.000 uomini (ora sono
550.000), appena il 10% degli effettivi delle nostre forze armate, affermava il
Ministro della Difesa USA.
La realtà è che la presenza americana nel Pacifico già nel '66 ammontava a quasi
un milione di uomini, pari al 30% delle forze armate USA; e se si pensa che nel
1945 gli Americani su 14 milioni di arruolati ne avevano 6 in madrepatria e
soltanto 2 al fronte, e che nella guerra moderna si calcola che per ogni
combattente occorrono ben otto soldati nelle retrovie e nei servizi, si può
valutare l'entità dello sforzo militare americano nel Pacifico; a queste cifre
si deve poi aggiungere che i tre quarti degli aiuti militari USA agli alleati
sono assorbiti dallo scacchiere dell'estremo oriente: l'esercito sudcoreano, per
esempio, è completamente armato, equipaggiato ed istruito con materiale
americano, perchè la Repubblica coreana spende in un anno per ciascun soldato
appena 160.000 lire, laddove gli USA arrivano ai 16 milioni di lire per ciascun
soldato alle armi, comprese le Riserve e la Guardia Nazionale.
Nello scontro sempre più vicino fra il popolo cinese e l'imperialismo di Yalta,
è prevedibile che il ruolo delle superpotenze sarà alquanto diverso. Il peso
principale cadrà sulla Russia, mentre gli USA almeno all'inizio circonderanno di
un cordone sanitario di stati satelliti la zona infetta. «Presto o tardi -ha
affermato Anatoli Shub, corrispondente da Mosca del "Washington Post"- quando i
cinesi saranno pronti, e saranno loro a decidere il momento, ci sarà la
guerra... E sarà una guerra di lunga durata. I cinesi non sono in grado di
invadere la Russia, ma ...»
CULTURA
7 - L'autorità
Sembra assurdo a moltissimi che qualcuno spenda delle parole sul concetto di
«capo», tanto tale termine oggi appare in disuso e «superato». Ma chi non abbia
ceduto ai limiti vani della nostra epoca e sappia ancora elevare valori e
concetti sani e perenni, costui sa che vai la pena di intenderci su cosa vuol
dir «capo» e sulla necessità di ritrovare uomini che tale funzione egregiamente
assolvano. Che il capo non sia, non debba essere solo un uomo è il nostro punto
di partenza del quale non è concesso dubitare. Egli deve, per tal elemento del
sub strato su cui sì articolava, esercitare la sua peculiare funzione, per
mettere fuori discussione la propria autorità, irradiare qualcosa di sovrumano,
qualcosa di diverso che lo distacchi dalla «mediocritas» della massa. Ciò ieri
era perfettamente visibile nella «Romanità». L'imperatore-uomo-dio rendeva saldo
e indiscutibilmente sacro il vincolo attraverso cui il popolo era a lui legato,
proprio in virtù di questa bipolarità data dall'unione dell'elemento politico
con quello spirituale. Tale bipolarità lungi dall'essere una dicotomia,
rappresentava piuttosto una fusione, una simbiosi perfetta, non essendo né
apparendo l'una entità mai in contrasto con l'altra.
Oggi, se si devono per evidenti ragioni, ritenere irrepetibili taluni aspetti
marginali e tal'al-tro elemento del substrato su cui si articolava tale
istituzione, devesi altresì ammettere la irremissibilità dell'idea nella sua
essenzialità.
Mai come ora, si avverte la indispensabile esigenza che chi riveste cariche o
adempie funzioni che sono al vertice dello Stato abbia almeno attitudine
all'esercizio di potestà di comando e di suprema direzione del Paese. Tale acuto
bisogno si è maggiormente sensibilizzato ed ha toccato più strati sociali
laddove, esempio ne sia l'Italia, dalla carenza dello Stato si è passati al suo
disfacimento, alla sua rovinosa dissoluzione.
Quale dei variopinti e grotteschi personaggi che primeggiano nell'attuale
fantasmagorico mondo politico, si avvicina alla più tenue ombra di ciò che fu il
«capo»? Chi può dirsi educato al comando e legittimamente investito dello
stesso? Nessuno che sappia in virtù di una «auctoritas» e di una sovranità
riconosciuta dal popolo, che nella di lui persona, ravvisi una superiorità che
trascende le umane possibilità, distaccarsi qualitativamente dalla massa, dal
gregge amorfo impersonale.
Una delle difficoltà sostanziali che nel popolo oggi si riscontra, sta proprio
di riconoscere la legittimità di una «potestà di imperio» (privilegio di persone
eccelse) nei panni di un uomo comune, che molto spesso anzi rappresenta i
caratteri umani più bassi. E ciò anche se il popolo, nella stragrande
maggioranza, non ne ha piena coscienza. Come piegare altrimenti il suo continuo
dissacrare l'autorità statale? È incontestabile d'altronde che oggi diverse
componenti della nostra società, abbiano preso coscienza che uno degli aspetti
deteriori della «democrazia» sia appunto la totale mancanza di un saldo
principio che conferisca a colui che è preposto al vertice dell'organizzazione
statale la veste sacra del «potere» dell'«imperiurn». Tale principio, essendosi
mutuato con quello più «umano» (e cioè non vero ed immutabile) di
«rappresentante». Tale rovescio della medaglia democratica comincia però ad
apparire agli occhi di molti.
La così detta «corsa alla poltrona», termini assai di moda, cos'altro è se non
un particolare di questa spesso «incosciente» constatazione? Tuttavia la
graduale accettazione, che sfocia spesso nella rassegnazione, che la «stanza dei
bottoni» sia la meta di esclusivo appannaggio di scaltri, di grettamente
ambiziosi, di avidi di lustro personale, scopo ultimo e non strumento di fini
supremi e superindividuali è indice della sfiducia che alberga ormai nell'animo
dei più. Ma il fatto che non vi sia una omogenea consapevolezza della causa
sostanziale di tale fenomeno di disgregazione non viene ad inficiare minimamente
quella che è la nostra diagnosi.
La crisi, lo sfacelo dello Stato della sua autorità e della persona, (che del
secondo è investita e il primo raffigura) non più risolversi con la passiva
attesa di una democrazia migliore che fornisca quadri migliori. Lo sfaldamento
canceroso dello Stato (e quindi della società che da esso è modellata e ad esso
si conforma) non si lenisce con palliativi né confidando nelle proprietà
terapeutiche di chicchessia. Il male sarà minato alla radice fino alla, sua
distruzione quando altri valori saranno ricercati, altri principi saranno
perseguiti. Così quando il popolo sarà educato di nuovo alla" idea di una «auctoritas»
che irradi da uomini forti, veri, superiori, e non da comparse, gran passo
avanti si sarà compiuto nell'ordinamento del «caos». L'entità di forza magnetica
che tali uomini saranno in grado di irradiare darà l'esatta misura della loro
potenza. In virtù di questo magnetismo la collettività sarà legittimamente
chiamata a gravitare nelle loro orbite e si ricomporrà nelle giuste gerarchie.
Tale affermazione sarà uno dei cardini su cui poggerà la vittoria di una società
organizzata secondo un ordine gerarchico ed organico che abbia una portata ben
più reale e logica dell'attuale. Paura di questo ordine è timore delle proprie
deficienze.
Ecco perchè affermiamo contro i prototipi di una società dei consumi, i valori
di un'aristocrazia dello spirito. Con ciò intendiamo distruggere
inequivocabilmente certi miti nati dalla democrazia e di essa costituenti
integranti. Ingenuità o malafede anima coloro i quali credono ancora o dicono di
credere in tali miti.
L'avvento di tali uomini rivoluzionari non può non essere auspicato anche da chi
si fermi solo alla constatazione che lo Stato non può continuare ad essere una
palestra per le esercitazioni di un pugno di sprovveduti esibizionisti, né tanto
meno un palcoscenico per improvvisati commedianti. A queste girandole
multicolori, a questa etero-genesi promiscua che prima o poi conducono
all'anarchia, al caos, non può non contrapporsi la visione organica, completa ed
omogenea dello Stato come creazione e come generatore di uomini che abbiano la
dignità e la personalità autorevole del capo, l'arte del comando.
Dall'estrema propensione dell'uomo e dell'idea, reciprocamente attratti sino
alla simbiosi, si potrà assistere alla edificazione di una nuova società.
Uomini che sentono scorrere sangue sano nelle proprie vene sapranno recepire
questo ed altri semi? Questo Stato e questa Società forniscono lo strumento di
cui servirsi per l'attuazione dei nostri principi. Quando questo ibrido
agglomerato clerical-liberal marxista sarà agonizzante, essi saranno pronti a
vibrare il colpo di grazia. La certezza che dalle rovine di una violenta catarsi
sarà più agevole sorgere per uomini che vogliono costruire secondo altro metro,
fornirà la decisione nel non concedere scampo a chi fugge o chi «more solito»
propugna compromessi. Quando da comodi rifugi saranno stanati uomini del sistema
essi sapranno di appartenere al passato, i loro conati affretteranno la loro
sclerosi, la loro scomparsa.
«Perchè l'avvento del nichilismo è ormai inevitabile? Perchè dobbiamo prima
vivere il nichilismo per riuscire a capire quanto bisogno abbiamo di "valori". …
Le stesse cause che producono il rimpicciolimento degli uomini (mediocri)
spingono i forti e i rari in alto, fino alla grandezza ...»
MISCELLANEA
8 - Peron e Castro
Riportiamo di seguito un passo, a nostro avviso molto interessante, della
intervista concessa a J. Thiriart dal gen. Peron.
Ci fa piacere constatare una aderenza a tesi politiche che da anni andiamo
sostenendo.
Thiriart: pensa che il lavoro di agitazione intrapreso da Castro sia utile alla
causa latino-americana ?
Peron: Si Castro è un promotore della liberazione. Egli ha dovuto appoggiarsi ad
un imperialismo poiché la vicinanza dell'altro minacciava di schiacciarlo; ma
l'obiettivo dei cubani è la liberazione dei popoli dell'America latina. Che
Guevara è un simbolo di questa liberazione; egli è stato grande perchè ha
servito una grande causa. Egli è un ideale.
Thiriart: Ha l'impressione che i sovietici impediscano a Castro di svolgere
un'azione importante in America latina?
Perori: Esatto. Tale ruolo i russi non lo svolgono solo a Cuba ma in altri
paesi. Guevara dovette lasciare l'Africa perchè i russi vi stavano già
lavorando. |