Italia - Repubblica - Socializzazione

QUINDICINALE ANNO IV - N. 22-23
Roma, 20 novembre 1969


SOMMARIO

ATTUALITÀ
1 - DC: dai dorotei ai fanfaniani

POLITICA ESTERA
2 - La Germania dopo le elezioni
3 - Medio Oriente: la contestazione dell'imperialismo continua

SAGGISTICA
4 - L'esercito cinese

CULTURA
5 - La pubblicità «Mostro Sacro» dell'evo disumanante
 

 

 

È uscito il n. 2 - 3 di Azimut. La battagliera rivista, nel marasma della cultura moderna, si propone di affermare valori antichi e nuovi e di dare un preciso indirizzo per una presenza culturale, come conseguenza di una visione religiosa della vita, ispiratrice di una battaglia politica autenticamente rivoluzionaria. Chi desidera conoscerla per offrire la propria collaborazione, può rivolgersi alla redazione della rivista: 00185 Roma - via D. Fontana 12, presso la quale possono essere richiesti numeri di saggio.

 

 

ATTUALITÀ


1 - DC: dai dorotei ai fanfaniani
Le vicende dell'ultimo consiglio nazionale della DC che hanno portato alla elezione del nuovo segretario del partito Forlani, non meriterebbero una particolare riflessione se non fossero chiarificatrici, come invece lo sono, di importanti sviluppi all'interno del partito di maggioranza relativa.
A voler guardare bene, tutta l'operazione si inserisce nel tipo di iniziativa politica che ha caratterizzato la guida della DC in questi ultimi anni. Ci si spiega.
Nella DC il problema del mantenimento del potere e della pura gestione di esso (doroteismo) si accompagna ad una mancanza di approfondimento culturale, di circolazione di idee e di formulazioni originali e alla presenza di un estremismo verbale che non arriva mai a qualificarsi su una propria strategia o su posizioni di rottura (Donat-Cattin e, in parte, sinistra di base). Questo equilibrio di impossibilità politiche è l'origine di tutte le vicende che vanno dalla cosiddetta «svolta moderata del centro-sinistra», al «moroteismo», alla gestione Piccoli-Rumor, fino alla candidatura Forlani.
Questo significa che la DC è incapace a trovare o a proporre iniziative politiche che permettano di affrontare i grossi problemi, ma agisce solo in riguardo degli ostacoli politici attraverso gli strumenti del tempo, dell'equilibrio, del temperamento delle posizioni e del contenimento degli estremismi.

Il disegno fanfaniano
Accanto a questo tipo di direzione politica, che deriva soprattutto dalle esigenze di potere del gruppo doroteo, si è affiancato il disegno politico dell'on. Fanfani.
L'attuale presidente del Senato, come si può ricordare, fu il teorizzatore del centro-sinistra e ne fu il gestore nei primi mesi. Nello stesso tempo, su di un piano culturale sono le teorie fanfaniane che segnarono profondamente le concezioni dossettiane in materia di riforme sociali ed economiche, concezioni che ancor oggi rappresentano le basi culturali dei gruppi di sinistra e non solo di essi, nella DC.
Come è noto, Fanfani, molto probabilmente sarà il candidato della DC per le elezioni del Presidente della Repubblica. Il disegno dell'on. Fanfani può essere, in brevi parole, così spiegato.
Accortosi da molto tempo della incapacità del centrosinistra socialdemocratico a risolvere i grossi problemi politici, egli ha cominciato a lavorare su questa ipotesi. Innanzi tutto il fallimento del centro-sinistra rendeva sempre più improbabile una seconda candidatura Saragat o di un altro socialista, e conduceva nelle acque stagnanti la politica italiana. In questa situazione si profilavano due pericoli: uno, quello di una ideologizzazione del nuovo centro-sinistra su basi fortemente pluralistiche che permettevano al PSI di rinunciare alle grosse ambizioni riformistiche in nome dei vantaggi concreti della partecipazione al governo (moroteismo), e l'altro, dello scatenarsi delle divergenze all'interno della DC e della coalizione di governo di fronte al fallimento del centrosinistra.
Quello più immediato era il pericolo di una spaccatura del partito ed egli appoggiò fortemente (mesta politica e, su questa base, avvenne l'aggancio con i dorotei (C.N. 1965) (Vedi "CR" n. 1).
Esauritasi la legislatura del governo Moro che aveva condotto al risultato elettorale negativo per i socialisti e verificatasi la crisi di governo, Moro veniva escluso dal governo, e i dorotei assumevano direttamente la gestione del partito e del governo.
Costoro però pagavano questa svolta politica imposta da Fanfani, e ben accettata da Piccoli e Rumor, con la scissione del gruppo moroteo e con la ripresa della polemica delle due correnti di sinistra. Era chiaro che a questo punto i dorotei avevano la catena misurata. In un clima di aperta polemica interna era difficile per il gruppo riuscire a sopravvivere, mancando ad esso una linea tale da imporre una direzione precisa e solida al partito.
A questo punto la prospettiva fanfaniana rischiava di fallire. All'interno la situazione tendeva a radicalizzarsi in quanto il gruppo doroteo andava frantumandosi dopo la scissione morotea, mentre all'esterno la reazione radicale alla linea moderata, accentuata dal defenestramento di Moro e dal passaggio all'opposizione del PSI, si concretizzava in una spinta verso i fatti che determinarono la scissione del PSU.
Le elezioni politiche anticipate, con la probabilità di radicalizzare la situazione, mettevano in dubbio il dispiegarsi della linea fanfaniana, che ha bisogno dell'appoggio socialista (PSI + PSU) e di tutta la DC e solo in ultima ipotesi prevede l'afflusso dei voti comunisti.
Occorreva ritrovare una unità non formale ed equivoca (come lo era quella di Piccoli) e la possibilità del rilancio del centro-sinistra con una formula di quadripartito.

La candidatura Forlani
Qui si imponeva la candidatura Forlani. La quadratura del circolo era difficile. Occorreva trovare, all'interno, l'adesione delle sinistre, il «salvataggio dei dorotei», facendo pagare ad essi il meno possibile e lasciare al gruppo fanfaniano la direzione politica. All'esterno occorreva «garantire» i socialdemocratici e trovare l'appoggio anche del PSI.
Per l'appoggio della sinistra, che quindi aveva i suoi riflessi verso il PSI, si faceva pagare ai dorotei la segreteria, e il ridimensionamento delle due forze meno importanti (Andreotti e Colombo), i dorotei salvavano la poltrona più importante per loro (la probabile ricomparsa di Rumor alla presidenza del Consiglio) e ciò quindi garantiva anche l'adesione del PSU al governo.
È chiaro, a questo punto, che la soluzione ha seri pericoli e limiti essa stessa. Innanzitutto è l'ultima carta di Fanfani, nel senso che un eventuale fallimento comprometterebbe definitivamente la prospettiva verso la presidenza, aprendo alla candidatura Moro, appoggiato da parte degli ex-dorotei (Colombo e Andreotti) e dalle sinistre. Il fallimento della segreteria Forlani, dove potrebbe verificarsi? Senza scendere in ipotesi e congetture, si possono avanzare alcune riserve.
Il rilancio del centro-sinistra è su base programmatica, le concezioni di Forlani sono di una «attenzione sociologica», un empirismo concretistico, tipico di certi aspetti del fanfanismo. Manca, in sostanza, e non c'era posto del resto, una strategia politica sostenuta da una impostazione ideologica come invece c'era alla base del primo centrosinistra. A che cosa si va incontro? Alla critica radicale, al logoramento delle alleanze, alla ripresa della critica della sinistra DC.
L'equazione tattica di Forlani, sostenuta dal disegno fanfaniano, è una coalizione di forze e di idee e non una sintesi di esse. Il carattere non organico della soluzione impostata, probabilmente porterà la DC a frantumarsi di fronte alla prima grossa battaglia. Basterà una impennata socialdemocratica su qualche grosso tema riformistico richiesto nel programma dai socialisti e rifiutato dal PSU al momento della realizzazione e la crisi di governo conseguente, per far fallire, probabilmente, l'attuale segreteria.


POLITICA ESTERA


2 - La Germania dopo le elezioni
Il risultato delle elezioni tedesche non ha certo costituito una sorpresa negli ambienti internazionali; in effetti non vi sono stati cambiamenti negli schieramenti politici. Si è potuto notare solo una diffusa e progressiva tendenza dell'elettorato verso il bipartitismo, tendenza agevolata dalla legge elettorale tedesca, che, escludendo dal parlamento i partiti che non abbiano ottenuto almeno il 5% del totale dei suffragi, finisce con il limitare l'eventuale ingresso nella vita politica di forze nuove e con l'indebolire quelle già esistenti che non possano contare su di un elevato e costante numero di voti. In sostanza la vita politica tedesca è caratterizzata da un dialogo a due tra democristiani e socialdemocratici che spesso viene ad assumere i toni di una vera e propria collaborazione nella gestione del potere. Appare del resto evidente che, escludendo di fatto l'ingresso di forze nuove portatrici di una carica contestatrice e a volte rivoluzionaria, la vita politica tedesca finisce col cristallizzarsi attorno ad una serie di problemi che i due partiti interpretano alla luce dei loro interessi spesso concordanti, impedendo il dibattito politico a quelle realtà che possono per un verso o per l'altro porre in discussione o comunque appena scuotere l'assetto sociale ed istituzionale della Repubblica Federale Tedesca.
Il cambio della guardia alla guida del paese tra democristiani e socialdemocratici obbedisce ad una logica che non è certo legata ai risultati elettorali, che anzi hanno confermato la maggioranza relativa al partito di Kiesinger, ma piuttosto alla mutata situazione internazionale e alla esigenza del governo tedesco di presentarsi con una nuova veste nel tentativo di dare al problema della riunificazione soluzioni aderenti alle possibilità che la nuova dialettica internazionale impone.
Il problema delle due Germanie, alla luce della dialettica internazionale, ha assunto ed assume tuttora un importanza primaria dati gli interessi che attorno ad esso si agitano da parte delle due super potenze e l'effettiva esigenza di sanare una ferita che spacca in due una nazione e divide l'Europa.
La politica tedesca ha sempre teso verso la meta della riunificazione, mutando di volta in volta strategia a seconda dell'effettiva possibilità di conseguire risultati concreti.
Potremmo sommariamente sintetizzare la politica estera fino ad ora condotta dai governi che si sono succeduti alla guida della Germania in due fasi.
1) Fase atlantica: che fu caratterizzata da uno stretto legame della Germania agli USA Era il periodo della guerra fredda e delle grandi «promesse» americane; la Germania risorgeva dalle ceneri della guerra in un mondo che le negava il suo diritto di esistere. Nel quadro della alleanza atlantica la Germania trovò l'appoggio che le permise di risorgere come nazione e nel clima teso dei rapporti USA-URSS fu giocata la carta del riarmo tedesco.
2) Fase europea. Questa fase ebbe inizio quando apparve chiara la fine della guerra fredda, ed iniziò un dialogo articolato tra USA e URSS. Di fronte alla progressiva convergenza di interessi tra le due super potenze il problema della riunificazione tedesca veniva a trovarsi in secondo piano e gli Stati Uniti finivano con l'abbandonare di fatto l'impegno che in tal senso si erano assunti. La Germania abbandonata a se stessa cercò la soluzione dei suoi problemi nella solidarietà europea e in particolare in una politica di stretta collaborazione con la Francia gollista, tendente alla creazione di una potenza autonoma europea capace di una autentica potenza contrattuale nei confronti dei due blocchi. Ma la reazione degli Stati Uniti non tardò a manifestarsi con la caduta di Adenauer e la ascesa al potere di Ehrard, con la susseguente opera di isolamento delle iniziative del generale De Gaulle. La crisi del comunismo internazionale offrì poi alla Germania di Kiesinger una nuova occasione per una serie di iniziative tendenti ad incoraggiare movimenti nazionalistici in seno al blocco comunista, cercando con questa manovra di porre il problema della riunificazione in termini assai meno drammatici. Ma dopo l'invasione nella Cecoslovacchia e i primi incontri russo-cinesi per la regolamentazione dei confini, apparve chiaro che anche questo disegno andava abbandonato; la caduta di De Gaulle sull'altro fronte faceva tramontare la possibilità di cercare una soluzione europea al problema. Ci sembra anzi che il cambio della guardia tra democristiani e socialdemocratici sia una diretta conseguenza della caduta del generale De Gaulle perché con essa potrà dirsi iniziata una terza fase della politica estera tedesca: quella della distensione e del dialogo diritto con le potenze orientali. È evidente che il governo di Brandt gode a questo proposito del tacito appoggio dei democristiani, infatti non si vede come un governo possa proporsi di attuare una linea politica sostenuto da una maggioranza parlamentare di pochi voti.
Quali possono essere gli sviluppi di questa nuova politica è ancora prematuro dire. Certo che le reazioni nei paesi comunisti all'insediamento di Brandt alla carica di cancelliere, sono in sostanza positive. L'URSS, che fino a ieri considerava condizione preliminare a qualsiasi tipo di trattative con la Repubblica Federale Tedesca il riconoscimento formale della Germania di Pankow, ha assunto un atteggiamento assai più conciliante, dichiarando per bocca di Breznev che con il nuovo governo tedesco si può trattare perché questo riconosca solo l'esistenza della Repubblica Democratica Tedesca.
In sostanza si può parlare di un ennesimo tentativo per sbloccare la situazione drammatica che lacera il cuore dell'Europa. Quali siano le reali probabilità di riuscita di questo disegno dipenderà in gran parte dal futuro dei rapporti internazionali.

3 - Medio Oriente: la contestazione dell'imperialismo continua
La contestazione della politica imperialista americana attuata dai paesi arabi si fa di giorno in giorno sempre più concreta.
I popoli arabi stanno acquisendo sempre più una coscienza politica rivoluzionaria di indipendenza e di unità.
Questo è il senso degli avvenimenti che hanno scosso i paesi mussulmani afro-asiatici, in questi ultimi tempi.
In effetti, le vicende politiche che si sono verificate recentemente nel Sudan, in Libia, in Somalia e nello Yemen meridionale, dimostrano come la contestazione dell'imperialismo americano, sia un fatto che gradualmente sta investendo tutto il mondo arabo e, come conseguenza, si sia rafforzato il fronte antisionista.
Indubbiamente i recenti avvenimenti rappresentano una vittoria e un rafforzamento del socialismo nazionale arabo di tipo nasseriano, la cui linea di azione politica all'interno dello schieramento rivoluzionario, contrapposto a quello conservatore legato agli interessi della borghesia anglo-americana, è attestata su posizioni più moderate, più possibiliste, più inclini al compromesso. Tuttavia gli avvenimenti in sé, non debbono trarci in inganno e spingerci a delle valutazioni eccessivamente ottimiste, in quanto, se da un lato è vera la presa di coscienza dei popoli arabi, dall'altro è altrettanto vero che le forze autenticamente rivoluzionarie, come l'OLP e Al Fatah, sono state incanalate dalla strategia moderata di Nasser, il quale se ne serve per aumentare il suo peso contrattuale e il suo prestigio agli occhi del mondo arabo e delle due superpotenze. Rimangono infatti al di fuori della sua strategia solo alcuni gruppi isolati che operano autonomamente e piccole organizzazioni manovrate dal Baath siriano; presentando però, questi organismi, più una caratteristica estremista che rivoluzionaria.
L'area della contestazione americana e del sionismo si è allargata, di conseguenza si va restringendo sempre più la zona di influenza degli Stati Uniti e quindi indirettamente di Israele; questo, naturalmente, turba i sonni a Washington e a Tel Aviv.
Il primo stato a subire i contraccolpi, in senso di rivincita, della disfatta araba del '67 e a seguire le linee di azione della politica nasseriana, e quindi a dare il via a tutto il movimento nazionalista e rivoluzionario arabo è stato il Sudan.
Il 25 Maggio, infatti, un Consiglio Rivoluzionario composto da militari, al comando del Col. Jafaar el-Nimeiry, ha rovesciato il governo di Mohammed Ahmed Mahgoub, e ne ha insediato un altro composto da 19 civili e due militari, sotto la direzione dell'ex-Presidente della Corte Suprema di Giustizia Abu Bakr Awadallah. Il colpo di stato nel Sudan investe una particolare importanza, per due principali ragioni. In primo luogo perché le accuse dei rivoluzionari rivolte a Mahgoub di «incapacità a risolvere i problemi sociali» e di «collusione con le potenze imperialiste e gli interessi sionisti», e le dichiarazioni di Awadallah che «non permetteremo che sia abbandonato a Israele un solo metro quadrato del territorio palestinese», non lasciano dubbi sul loro orientamento politico. Ciò costituisce un nuovo e grave colpo inferto al sistema mercantilista e colonialista britannico. Infatti, attraverso le corrotte classi dirigenti che si sono susseguite nel Sudan dal 1956, anno della sua indipendenza, ad oggi, e attraverso l'inserimento nella questione delle province meridionali, abitate da popolazioni negre di religione cristiana o animista, questione che ha portato a gravi contrasti razziali e religiosi sfocianti persino in episodi di guerriglia, la Gran Bretagna ha continuato a mantenere le sue posizioni di potere dividendo così il fronte arabo; politica questa sulla quale conta molto Israele.
La seconda ragione è che tale colpo di stato è servito come esempio ad altri paesi arabi, contribuendo notevolmente a rafforzare la causa nazionale araba.
Poco più di tre mesi dopo, infatti, è stata la Libia a seguire le orme dei militari sudanesi. Il 1° settembre, Idris el-Senussi, l'ormai ottantenne re della Libia, eterno amico dell'Inghilterra e nemico dell'Italia, è stato detronizzato da un Consiglio Rivoluzionario che ha avuto ragione anche del suo imbelle governo.
Partita probabilmente come una semplice «congiura di palazzo», la «rivoluzione libica» ha invece assunto sempre più atteggiamenti antimperialisti, antisionisti e rivoluzionari. Il 26 ottobre il Col. Mohammed el-Kadhafi, presidente del Consiglio Rivoluzionario, ha proclamato l'adesione della Libia alla causa araba, ha sottolineato l'affinità dei militari libici con quelli sudanesi e ha affermato di voler affrettare lo sgombero da parte degli Inglesi e degli Americani delle basi militari di Wheelus e di Tobruk, sgombro che sarebbe dovuto avvenire entro il '70. Come primo atto rivoluzionario, il governo libico ha annunciato la nazionalizzazione delle banche, atto questo che contribuisce notevolmente ad indebolire gli interessi del sionismo internazionale.
Situazione analoga si è presentata in Somalia, dove il 21 Ottobre, l'esercito e la polizia hanno abbattuto il governo del radicale occidentalista Mohammed Ibrahim Egal.
Dal giorno della sua indipendenza, la Somalia, che risulta composta dall'ex-colonia italiana e dall'ex-colonia britannica, ha visto nella figura del Presidente della Repubblica Abdirachid Ali Shermarke, assassinato il 15 ottobre, indubbiamente il personaggio più rappresentativo e più interessante. Fautore del nazionalismo somalo, cioè della grande Somalia, comprendente anche territori dell'Etiopia, del Kenya e la Somalia francese, Shermarke, con questa sua visione, dava certamente fastidio ai suoi vicini e particolarmente agli Inglesi. In questo motivo, unitamente al compromesso su cui reggeva il fragile equilibrio politico tra lui e il capo del governo Egal, si debbono ricercare le ragioni principali che hanno portato al suo assassinio. I militari, proclamandosi continuatori della politica del Presidente assassinato, hanno inteso così colpire principalmente i seguaci di Egal, accusati di corruzione e sfruttamento e lui stesso di essere un servo degli imperialisti.
Un nuovo stato quindi su posizioni rivoluzionarie: il fronte antisionista si rafforza. In ultimo lo Yemen meridionale ha rotto il 24 Ottobre le relazioni diplomatiche con gli USA. C'è da dire che questo non è certamente un anno fortunato per gli imperialisti americani, i sionisti e i loro amici.
Come coronamento di tutto ciò è avvenuta la risoluzione (in un certo senso) della crisi libanese.
La crisi è scoppiata tra il governo libanese e i guerriglieri di Al Fath, in quanto questi si sono visti costantemente boicottati nella loro azione rivoluzionaria contro lo Stato di Israele. È notorio come il Libano, attraverso le destre borghesi e cristiane, costituisca una autentica base di appoggio e di manovra per l'imperialismo americano e il sionismo, tendente a spezzare l'unità dei popoli arabi e a sabotare ogni tentativo nazionalista. In Libano esiste dal giorno della sua indipendenza dai Francesi nel 1943, un precario equilibrio tra la metà della popolazione cristiana, in genere grossi borghesi di destra e occidentalisti, e l'altra metà mussulmana, fortemente nazionalista e fautrice del socialismo arabo di Nasser; equilibrio questo che ha sempre spinto il Libano stesso ad affermare la propria neutralità, pur aderendo alla Lega Araba.
Ma sappiamo che cosa significhi neutralismo, se non l'essere ancora più saldamente legati agli interessi di uno dei blocchi (in questo caso quello occidentale) al punto che se prevalgono tendenze nazionalistiche e indipendentiste, si provocano addirittura interventi militari.
È ciò che si è verificato nel Libano nel 1958, quando le truppe americane sbarcarono nel paese per impedire che questo cadesse nelle mani dei nazionalisti arabi, ed è ciò che si è temuto che si ripetesse in occasione dell'ultima crisi.
In Libano la situazione è resa sempre più precaria, non solo dall'instabile equilibrio tra cristiani e mussulmani, ma anche dalla presenza di oltre 200.000 profughi palestinesi e di alcune basi di addestramento dei Fedayin.
I guerriglieri palestinesi, per poter portare avanti le loro azioni belliche contro Israele, hanno bisogno della massima libertà d'azione, mentre si vedono costantemente boicottati dal governo libanese, che teme le rappresaglie di Israele, come quella contro l'aeroporto di Beirut il 28 Dicembre 1968, e quindi l'estremizzarsi della situazione sempre più a favore dei nazionalisti.
In questo clima di tensioni, l'ambasciata americana a Beirut il 20 ottobre, ha reso noto esplicitamente che gli Stati Uniti sarebbero potuti intervenire militarmente come nel '58, mentre all'interno del paese si è arrivati ai sanguinosi scontri tra Fedayin e l'esercito regolare del 18 ottobre e alle dimissioni del primo ministro Rashid Karameh.
Ce n'era abbastanza per mettere in moto la diplomazia di tutto il mondo.
Mentre da una parte i paesi rivoluzionari, come la Siria, la Libia, l'Iraq e l'Algeria hanno rotto le relazioni diplomatiche con Beirut e l'Egitto ha ammonito il Presidente Helou, ricordandogli la solidarietà che doveva alla causa palestinese, dall'altra le superpotenze hanno compiuto un ennesimo tentativo per far accettare ai paesi arabi il riconoscimento formale di Israele. Tale era il senso del piano di pace americano proposto dall'Unione Sovietica, piano che ovviamente è stato rifiutato sia da Israele che dall'Egitto. Israele in quanto punta a trattative dirette con gli Arabi, e l'Egitto in quanto non può attenersi alle risoluzioni dell'ONU, perché significherebbe riconoscere implicitamente Israele.
A questo punto non si può non fare rilevare la indegna posizione assunta dal governo italiano, che, per bocca del ministro degli esteri Moro, ha dichiarato che spetta alle grandi potenze e all'ONU risolvere la questione palestinese e che l'Italia si atterrà alle loro decisioni. Tale dichiarazione dimostra ancora una volta il servilismo della classe dirigente italiana e l'inserimento di questa nella logica di Yalta.
Più concreta è stata invece l'azione diplomatica di Nasser il quale, offrendosi come mediatore tra le parti, ha spostato tutta l'attenzione su di sé e sull'Egitto.
I colloqui del Cairo tra la delegazione dei Fedayin, capeggiata da Arafat, e la delegazione del governo di Beirut, capeggiata dal Gen. Boustani, si sono risolti, tutto sommato, in un successo personale di Nasser e nel riconoscimento, da parte del Libano, di basi di Al Fatah sul proprio territorio.
In realtà, la strategia moderata di Nasser è riuscita ad incapsulare i guerriglieri di Al Fatah inserendoli nel Comando Arabo Unitario che è sotto il diretto controllo di ufficiali della RAU.
Dal canto loro, i Siriani, hanno puntato invece ad estremizzare la situazione con azioni di commandos contro il Libano e con la chiusura delle frontiere, per tentare di controllare e di strumentalizzare direttamente la guerriglia palestinese.
In definitiva, la mediazione del Cairo, pur rappresentando un compromesso che non risolve affatto la crisi libanese, rappresenta tuttavia una nuova e chiara sconfitta del sionismo.
Nasser ha infatti dichiarato, in un recente discorso, che l'unica soluzione possibile per risolvere la questione palestinese è la guerra; questo è un dato di fatto di cui tutti i paesi arabi debbono prendere coscienza. Sotto la spinta diplomatica egiziana e di tutti i paesi rivoluzionari, il Consiglio di Difesa della Lega Araba, ha infatti raggiunto un accordo per indire una conferenza dei Paesi Arabi da tenersi a Rabat in Dicembre. Scopo della Conferenza dovrebbe essere quello di stabilire una strategia di lotta comune a tutti i popoli arabi. Solo così le ore del sionismo si possono contare.
 

SAGGISTICA


4 - L'esercito cinese
Poche settimane fa è stato celebrato in tutta la Cina con grande solennità il 41° anniversario della fondazione dell'Armata di Liberazione Popolare.
Un esame della storia e della struttura di questo esercito offre spunti assai interessanti per la comprensione dell'odierna situazione cinese.
Qual'è la forza politica, la coesione, il peso dell'esercito rosso nella vita cinese e nel dramma che sta per scatenarsi? Le notizie, contraddittorie e confuse che provengono dalla Cina rendono difficilissimo discernere la verità dalla propaganda e apprezzare con esattezza la situazione.
I problemi che si pongono sono:
1) rapporto fra esercito e popolo in Cina;
2) rapporto fra esercito e partito;
3) coesione interna dell'esercito;
4) struttura delle forze armate e potenziale bellico della Cina, come componente del potenziale strategico.
L'esercito cinese è assai scarso rispetto alla popolazione. Esso conta appena 2.500.000 uomini su un totale di 700 milioni di cinesi, appena lo 0,35% della popolazione, il che significa che soltanto un quarto degli uomini atti alle armi viene annualmente chiamato; tale fenomeno si accentua particolarmente se si pensa che la ferma è lunga, minimo quattro anni. L'esercito non è volontario, ma seguendo il principio comunista, è composto da giovani destinativi dall'autorità governativa. Ciò dovrebbe contribuire non poco a creare un alone di superiorità spirituale del soldato nei confronti degli altri giovani scelti per il servizio del lavoro. Tutto questo potrebbe portare ad una frattura fra esercito e popolo, e vedremo più avanti come il problema è stato affrontato e forse risolto; ci limiteremo qui a dire che la formazione di una «Milizia Popolare» forte di 12.000.000 di uomini e donne quotidianamente addestrati al lavoro e alle armi, attenua molto la tensione e lo iato che si potrebbero produrre tra soldati e operai. Con fine intuizione politica, dopo il 1965 ogni distinzione fra ufficiali e soldati è stata abolita (la categoria dei sottufficiali era stata già soppressa), abolendo il sistema dei gradi. D'ora innanzi ci saranno «Compagni» comandanti di Compagnia, o Reggimento, o Divisione ecc., fino al «Compagno Ministro della Difesa», non più capitani, colonnelli, generali ecc., in maniera tale che, cessando dalla funzione, l'ufficiale ritorni semplice soldato. La paga è unica per tutti i gradi: 20.000 lire al mese, una fra le più alte in Cina. Per sottolineare ancor di più l'unitarietà della funzione, in questi giorni l'uniforme è divenuta unica per le quattro forze armate (Esercito, Marina, Aviazione e Truppe di Confine), color kaki o verde; i soldati, che portano tutti la stella rossa e il tipico berretto floscio con visiera modello 1930, si distingueranno ora solo per le mostrine e distintivi. Numerosissime le concessioni dell'unica decorazione cinese, tanto militare che civile, l'Ordine della Bandiera Rossa, di cui sono insigniti non solo i singoli, ma anche, per esaltare lo spirito collettivista, intere unità, così come lo sono fabbriche, città, villaggi, ecc.
L'esercito cinese ha attualmente assunto una formidabile importanza politica, come la stampa occidentale e perfino la Televisione italiana hanno più volte sottolineato. Ciò è tanto più significativo in quanto è avvenuto in un paese, come la Cina, che tradizionalmente aveva in discredito l'arte militare, assai indegnamente rappresentata dai «Signori della Guerra». Ma i precedenti storici dei Taiping (1857) e dei Boxers (1899-1902), e la recente epopea rivoluzionaria sintetizzata nell'epica impresa della «Lunga Marcia», hanno contribuito a creare nel paese quelle tradizioni militari che mancavano completamente. Inoltre la profonda differenza fra l'esercito maoista, esercito di popolo nel vero senso della parola, fortemente politicizzato e formante un tutt'uno con il partito, e quello di Ciang Kai Shek, formato sul tipico modello occidentale ottocentesco, senza avere dietro di sé né le tradizioni secolari che costituiscono la forza morale degli eserciti occidentali, né tantomeno la coesione morale del popolo, questa differenza, dicevamo, ha fortemente impressionato il popolo, mostrandogli per la prima volta sotto una luce favorevole il suo esercito. Tutto ciò è stato abilmente sfruttato dalla propaganda. Nei films, nei libri, nelle conferenze, nessuna occasione è perduta per esaltare gli eroismi dei centomila di Mao e Lin Piao, e rinverdire le glorie della Corea, dove 850.000 cinesi si batterono contro l'imperialismo americano. Finiti i tempi eroici della rivoluzione, bisognava vigilare perché la millenaria frattura tra popolo e forze armate non si riproducesse, perché il relativamente piccolo esercito non si isolasse in una casta chiusa, dannosa agli interessi della Cina. Due strade erano possibili; politicizzare l'esercito trasformandolo in nucleo specializzato della milizia nazionale, oppure affidare all'ALP la direzione del paese. È il bivio di fronte al quale si sono sempre trovati i rivoluzionari. La prima via, come la più congeniale alla mentalità di un rivoluzionario, fu tentata fra il 1950 e il 1960 da Mao con l'aiuto di Chu Teh, allora Ministro della Difesa. Non abbiamo sufficienti notizie per ricostruire sia pur sommariamente le fasi di questa lotta, ma si ha l'impressione che la tattica adottata fosse quella di isolare l'esercito per accentuare l'apparato del partito, che si identificava al tempo stesso con lo Stato e con il popolo. L'esercito fu svuotato, fu posto alle dipendenze del partito, controllato attraverso i commissari del popolo; i Comandi Regionali dell'Esercito furono affiancati dai vari Bureaux del Partito, competenti anche per questioni militari, e il Ministero della Difesa, da cui dipende lo Stato Maggiore Generale, fu sottoposto alla suprema direzione del Comitato Centrale del PCC.
Ma l'isolamento dell'esercito è stato assai pericoloso per i rivoluzionari «civili» del tipo di Liu Shao Shi. Quando l'esercito ha trovato un uomo capace di impadronirsene, ed è stato Lin Piao, ha scoperto tutta la sua forza.
L'abolizione dei gradi (1965), la paga unica, la standardizzazione delle uniformi, perfino la costituzione, in conformità delle decisioni del IX congresso del PCC, di sezioni e cellule nelle unità a livello di Compagnia e Reggimento e di Comitati Rivoluzionari presso i Comandi di Divisione e Territoriali (eletti dal basso), che potrebbero sembrare a prima vista vittorie del partito sull'esercito, hanno in realtà segnato la vittoria di quest'ultimo, che ha raggiunto il duplice obiettivo di riprendere possesso del posto che gli spetta nella vita pubblica cinese e di passare a sua volta all'offensiva dominando l'intero apparato del partito.
Dietro a questa manovra c'è un uomo dotato di eccezionali capacità; il sessantaduenne Lin Piao, che dal 1959, col grado (ora abolito) di Maresciallo, ricopre la Carica di Ministro della Difesa che ora cumula con quella di Vice Presidente del Comitato Centrale del PCC. Comandante del I Corpo d'Armata della Nuova IV Armata durante la Lunga Marcia, proveniente dall'Accademia Militare Wam-poa di Canton (comandata da Chiang Kai-shek), comunista dal 1928, diresse poi l'Università Militare-Politica Antigiapponese e dal 1945 fece parte del Comitato Centrale entrando alla testa della sua Nuova IV Armata in Pechino (1949). Nel 1950 Lin era Primo Segretario del Partito del Bureau Centrale-Meridionale e Comandante dell'Armata da Campagna e della Regione Militare Centrale-Meridionale; nel 1955 era membro del Politburo e uno fra i dieci marescialli della Cina.
La nomina di Lin alla Difesa coincise con un'alleanza politica con Mao, desideroso di forza politica al di fuori degli apparati burocratici dello stato-partito. Mao aveva bisogno dell'Esercito per condurre la sua battaglia; ma Lin Piao aveva bisogno di Mao per riportare l'esercito, sua creatura, nell'agone politico.
A partire dal 1965, concluso il lavoro di preparazione politica sotterraneo condotto in sordina nei ranghi dell'esercito, Lin iniziò sul giornale delle forze armate, il "Quotidiano dell'Armata di Liberazione", una violentissima campagna contro la mentalità piccolo-borghese tecnicista ed efficientista che ancora allignava in certi ambienti reazionari (con chiara allusione agli intellettuali e ai politici «civili» dall'entourage di Liu Shiao Shi). Gli ambienti maoisti appoggiarono il «principio dei cinque punti», enunciato da Lin Piao alla fine del 1965, che dava la priorità al lavoro politico rispetto alla tecnica e faceva dell'ALP l'avanguardia della dittatura del proletariato.
La Rivoluzione Culturale delle Guardie Rosse procedette di pari passo con il crescere della propaganda maoista in seno all'ALP e del peso politico di Lin Piao, che il 18 agosto 1966 apparve al posto d'onore accanto a Mao, al posto di Liu Shiao Shi. Collaboratore di Lin è T'ao Chu, suo successore al Bureau Centrale-Meridionale e ufficiale della ALP. Dal gennaio 1967 al 5 settembre dello stesso anno, mentre cresceva vertiginosamente l'ondata di violenza scatenata dalle «Guardie Rosse», l'ALP assumeva sempre più il ruolo di unica forza capace di garantire l'ordine. Si ebbero notizie di battaglie sanguinose fra Guardie Rosse e borghesi revisionisti, con impiego perfino di carri e artiglierie; finché il 5 settembre l'ALP non ricevette l'ordine di intervenire contro le Guardie Rosse, disperdendole e inviandole in campi di concentramento o al lavoro coatto. Il 1° ottobre Lin Piao ricompariva in pubblico e attaccava pesantemente l'URSS, provocando l'abbandono della conferenza da parte delle delegazioni comuniste europee.
In novembre, i marinai della Flotta Rossa acclamarono Lin Piao come loro Cesare, chiamandolo «Vice Supremo Comandante dell'intero popolo cinese», e ricevettero da Lin le massime di Mao.
Il IX Congresso del PCC ha visto il trionfo completo della linea di Lin Piao; durissima e irrevocabile condanna contro l'imperialismo russo, e contro il revisionismo di Liu Shiao Shi; integrazione fra apparato del partito e apparato militare; riconferma della propria posizione personale di prestigio. Le battaglie combattute con grande coraggio sull'Ussuri riconfermano l'entusiasmo del popolo e dell'esercito, galvanizzandoli.
L'ammassarsi di truppe e missili russi alla frontiera e le voci sempre più insistenti di una «guerra preventiva» russo-cinese contribuiscono a rafforzare l'unità spirituale del popolo cinese e del suo esercito.
La propaganda dà grande risalto all'ospedale oftalmico per bambini costruito dal Reggimento 3016, che è l'unico in tutta la Cina dove cura e degenza siano completamente gratuite, e non passa giorno senza che il "Quotidiano del Popolo" o "Bandiera Rossa" pubblichino foto di soldati che aiutano i contadini nei lavori dei campi o studiano le massime di Mao. Tra le foto eroiche, si nota che diminuiscono quelle rappresentanti le unità navali ed i fanti di marina e aumentano quelle che mostrano la cavalleria mongola di confine e le truppe dell'artiglieria contraerea, e assai celebre è quella in cui si vede una compagnia di fanteria con tanto di trombettiere che attraversa a guado un ruscello sull'isola di Chen Pao.
A conclusione di questo rapidissimo esame dell'influenza politica e psicologica dell'ALP nella società cinese, riportiamo questi eloquenti dati, che si riferiscono al giugno 1969:
Sui 29 Comitati Rivoluzionari Provinciali costituiti dopo la Rivoluzione Culturale, ben 21 sono presieduti da militari; negli altri le truppe stanziatevi sono di modestissima entità. Su 25 membri del Comitato Centrale del PCC, 13 sono militari, compreso Lin Piao.
Qual'è la saldezza morale dell'Armata di Liberazione Popolare? A questa domanda non è troppo agevole rispondere. Stando alla propaganda essa naturalmente è alle stelle; ma i fatti, le notizie pervenuteci negli ultimi due anni da Hong Kong non sembrano smentire tale quadro? Si è parlato di intere divisioni datesi alla macchia, in appoggio ai contadini ribelli, divenuti partigiani a causa del marasma economico e della carestia in cui la Rivoluzione Culturale aveva precipitato la Cina: si ebbe notizia di uno scontro cruentissimo tra 5.000 soldati ribelli e tre divisioni regolari; si sa per certo che il 3125° Reggimento di fanteria di stanza a Port Arthur si è ribellato nel 1967 massacrando il comandante, e che il 155° Reggimento di fanteria, composto di kazak abitanti in territorio cinese, due anni fa attraversò il confine col colonnello in testa venendo inquadrato con la sua formazione originaria nell'Armata Rossa, della quale hanno indossata l'uniforme; ma tutti questi sono soltanto episodi sporadici oppure si tratta di un fenomeno più vasto? Noi crediamo che si sia trattato di sbandamenti determinati dalla crisi economica e facilitati dall'enorme estensione del territorio che rende assai difficile il controllo di tutti i reparti. A ciò si aggiungono fattori di carattere etnico e razziale, come nel caso dei kazak del confine mongolo, oltre alla propaganda dei circoli antimilitaristi e antimaoisti, sobillati da Formosa.
Comunque, nell'attuale fase di assestamento, questi fenomeni dovrebbero essere grandemente diminuiti.
Ci resta da esaminare l'organizzazione e la struttura delle forze cinesi.
Comandante delle forze armate è nominalmente il Capo dello Stato, il quale è pure Presidente del Consiglio Nazionale della Difesa, composto da un presidente, 15 vicepresidenti e 81 membri; in realtà il vero comandante è il Ministro della Difesa, che fa parte del Consiglio di Stato, organo che grosso modo corrisponde al Governo dei paesi occidentali. Ma poiché la decisione politica spetta al Congresso e al Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese, ne consegue che la vera forza la possiede chi controlla il PCC. Ciò è tanto più vero dopo la vittoria della linea maoista e rivoluzionaria, propugnatrice del contatto immediato fra partito e popolo, contro la linea giuridicista moderata che vagheggiava uno stato di diritto affiancato in sordina dal partito.
La struttura dell'Esercito (ALP) è fortemente centralizzata; tuttavia l'enorme estensione della Cina non consente di separare nettamente la struttura territoriale dall'Armata da campagna (come avviene nei paesi occidentali); e pertanto i Comandi Regionali e Provinciali dell'ALP hanno il duplice carattere di Comandi Operativi e Territoriali al tempo stesso. Ciò è tipico degli eserciti popolari, di origine miliziana, perché in tal modo essi sono a più diretto contatto con la popolazione ed i suoi problemi, e rientra perfettamente nella tradizione militare cinese: ciò spiega come il reclutamento sia regionale, almeno nell'ambito di ciascuna delle ventinove province e regioni autonome.
L'esercito conta 106 Divisioni di Fanteria, 4 Corazzate, 3 di Cavalleria, 2 aerotrasportate (forse se ne è costituita una 3a) riunite in 20 «Armate» e 4 Gruppi di Armate. L'armamento è in gran parte russo e cecoslovacco; carri T-34 e T-54 (superati, soprattutto il primo), mortai da 160 mm., carabine automatiche AK-47, mitragliatrici M-38, cannoni da 122 e obici da 152, cannoni contraerei da 57 e anticarro da 100. Non si ha notizia di una notevole industria bellica cinese di progettazione nazionale, sebbene nel Vietnam siano state catturate armi leggere di fabbricazione cinese, particolarmente efficaci nel settore antiaereo e anticarro.
La dislocazione delle grandi unità è la seguente:
— alle dipendenze del Comando della Regione Militare della Provincia di Heilungkiang (Harbin); 28 Divisioni di fanteria e 2 Divisioni corazzate, più 4 Divisioni di Milizia confinaria mobiltate: si tratta dell'Armata che presidia le sponde dell'Ussuri, ed è fronteggiata da venti divisioni sovietiche di cui sette corazzate, oltre ad alcune divisioni di frontiera;
— alle dipendenze del Comando della Regione Militare della Provincia dello Yunnan (Kungming), alla frontiera indiana, 20 Divisioni di fanteria, quelle stesse che nel 1966 condussero la breve campagna contro l'India (in cui si distinsero le divisioni 2a, T, lla);
— alle dipendenze del Comando Regione Militare Cina Orientale (Anchino), 28 Divisioni, schierate lungo la costa dallo Shantung ad Hong Kong, in difesa da parte di attacchi cino-nazionalisti ed americani;
— alle dipendenze del Comando Regione Militare Centro-Meridionale (Canton), l'Armata da campagna, dislocata lungo la ferrovia da Canton a Wuhan, è forte di 25 Divisioni di fanteria, 2 corazzate e 2-3 aerotrasportate, in funzione di riserva strategica; essa è pronta a spostarsi per ferrovia in direzione del Singkiang e della Mongolia interna, per coprire Pechino e la Manciuria da eventuali attacchi sovietici: alla fine di agosto sono stati segnalati da viaggiatori ingenti spostamenti delle truppe di questa armata verso il confine mongolo, in modo che lo schieramento definitivo correrebbe approssimativamente lungo la congiungente monti Nei Meng-ku — Lanchow, a sud di Gdbi e a ridosso della Grande Muraglia;
— truppe di copertura si trovano inoltre nel Tibet (3 Divisioni di fanteria), nel Singkiang (4 Div. Fanteria e 1 di Milizia confinaria), nella Mongolia Interna (4 Div. Fanteria e 1 di Milizia), e ad Hainan (3 Divisioni).
L'Aeronautica è assai scarsa; comprende circa 2.500 apparecchi operativi, tutti di vecchio tipo; bombardieri 1.128 e caccia Mig 17; di questi, ben 1.500 sono basati in Manciuria.
La Flotta cinese ha compiti eminentemente difensivi, aggravati dall'enorme estensione delle coste. Anch'essa è di provenienza sovietica, ed è equipaggiato con navi obsolete, con oltre venti anni di servizio; si tratta di una diecina di incrociatori leggeri («Skory», «Gordy», «Riga»), uno o due sommergibili lanciamissili tipo «G», 32 sommergibili convenzionali (quasi tutti di tipo «W»), e una flotta di vedette lanciamissili, tipo «Osa» (5 unità) e «Komar» (3 unità); oltre a queste unità d'altura, c'è numeroso naviglio costiero, cioè 150 motosiluranti (P-6) e 70 motocannoniere, 24 navi pattuglia (Kronstadt) e 12 dragamine (T-43).
Queste unità sono divise in tre flotte:
— Flotta del Nord (Tsingtao e Lushun), a difesa delle coste tra lo Yalu e Lien Yuen Kang, composta da una squadriglia navi scorta, una squadriglia sommergibili e una squadriglia anfibia, oltre a due squadriglie di vedette rapide.
— Flotta Orientale (Shangai e Chou Shan), tra Lein Luen Kang e Chao An Wan, composta da una squadriglia navi scorta, una sommergibili, due anfibie e due di dragamine.
— Flotta Meridionale (Wampoa e Tsamkong), per il resto della costa, composta ad una squadriglia navi scorta, una anfibia e una di dragamine.
Esiste in più l'Aviazione Navale, forte di 500 aerei, bombardieri e caccia sovietici, e il Corpo dei Fanti di Marina, organizzato in brigate costiere e da sbarco.
Come punto d'appoggio a sud, la flotta cinese gode dell'isola di Hainan, presidiata da tre divisioni di fanteria.
Come è agevole vedere, si tratta di un esercito poco tecnicizzato, in cui prevale assai la fanteria. Recentemente sono state costituite 20 Divisioni di artiglieria, formate riunendo l'artiglieria pesante dei Corpi d'Armata e sono assegnate in ragione di una ogni corpo.
La massa è radunata in Manciuria, a Pechino, nell'Hopei e nello Shangtung, cioè a dire nella zona nordorientale nel paese; lo schieramento denuncia la consapevolezza di non poter difendere il Tibet ed il Singkiang contro un attacco russo, e la fiducia di poterlo rintuzzare nella pianura tra lo Yangtze e Pechino, dop averlo lasciato esaurire attraverso le catene montuose dello Nan Shan e del Kunlun. Tuttavia la perdita del Singkiang sarebbe particolarmente grave per i cinesi, che vi hanno dislocato basi di missili ICBM di portata pari a 9.000 Km., e che nel 1970 saranno in grado di avere ogive nucleari. Poca fiducia invece sembra che essi abbiano nei due sommergibili lanciamissili ceduti dalla Russia, in quanto essi sarebbero privi di missili adatti.
Circa gli effettivi alle armi, nel 1967 essi ammontavano a 2.500.000 uomini per l'esercito, 136.000 per la Marina e la Fanteria di Marina e 100.000 per l'Aviazione, oltre a 300.000 uomini della Milizia Confinaria. Una Milizia di 12 milioni di uomini e donne è utilizzabile per la guerra partigiana e la digesa civile e antiaerea; a questa si aggiunge la «Milizia Civile» con 200 milioni di lavoratori, uomini e donne. Sembra che attualmente gli effettivi delle forze dell'ALP siano stati portati a 3.000.000 di uomini. Di questi, 40.000 (ma forse sono il triplo), si trovano nel Vietnam del nord.
Le spese per la Difesa sono in proporzione fra le più alte del mondo: nel 1967 ammontavano al 10% del reddito nazionale lordo, circa il triplo dei paesi occidentali ed il doppio dell'URSS, pari a lire italiane 3.750 miliardi (l'Italia spese nel 1967 1.100 miliardi per la Difesa); nel 1968 la spesa è salita a 4.400 miliardi di lire, con incidenza pro-capite di 5.500 lire annue per ogni cittadino cinese. Si deve tener conto però, nel calcolo di tali cifre, che l'incidenza delle spese passive per stipendi, alimentazione, accasermamento, approvvigionamento ecc. è di gran lunga inferiore a quella dei paesi occidentali, per cui si può calcolare che circa il 70% delle somme viene speso in armamenti.
 

CULTURA


5 - La pubblicità «Mostro Sacro» dell'evo disumanante
Tra le molte «droghe» di cui l'uomo a cavallo tra il 19° e il 20° secolo ha dovuto e voluto nutrirsi, la dea pubblicità è tra quelle che maggiormente hanno contribuito a dare al mondo contemporaneo una veste di sostanziale impotenza creativa.
Ci sembra logico, quindi, inquadrarla nel contesto generale dei miti assunti nel nostro secolo a sistema di «valori» certi e razionali. Non si può, quindi, analizzare il fenomeno della elevazione a istituto della pubblicità e il soggiacere ad essa di masse sempre più numerose (e più prive di autocontrollo) se non si comprende il cordone ombelicale che la lega ai fenomeni, ai « mostri sacri » del nostro tempo.
In effetti la pubblicità si muove seguendo un binario parallelo a quello del progresso, del materialismo, dell'egualitarismo, del cosmopolitismo (inteso come confusione di razze), del pacifismo, del benessere, etc. E dietro le quinte è facile scorgere quale sia il vero motore di tali eventi, e cioè il capitalismo di tutte le tinte, la «demorda del denaro» che dei suddetti fa strumenti per seguire un preciso piano logico.
Se noi possiamo, oggi, annoverare tra i tanti condizionamenti, più o meno inconsci, quello della pubblicità televisiva, radiofonica, cartellonistica, murale, cinematografica, giornalistica, lo dobbiamo allo spirito demoniaco che anima l'economia del mondo, soprattutto occidentale.
Solo partendo da questi presupposti possiamo comprendere come si possano oggi spendere cifre iperboliche per incrementare e sviluppare tali attività.
Secondo alcuni dati nel 1962 vennero spesi 12.500 miliardi per la pubblicità nel mondo, di cui 8.200 nel Nord America e Canada, 2.700 in Europa; 103 in Italia. Su quest'ultima, per la precisione, 3.220 lire annue per abitante contro 41.000 pro-capite USA. Ma le statistiche hanno un interesse relativo, è sintomatico, invece, osservare che tali cifre non sono spese in espedienti che direttamente stimolino le masse acquirenti, ma finanziano, come è noto, interi spettacoli, stampa, e, ciò che è peggio, ricerche scientifiche, congressi di studiosi e specialisti. Per fare un esempio attuale, chi non ha notato recentemente sulla stampa italana la rivalutazione, da parte di un simposio di medici, delle qualità pregevoli di un determinato prodotto commestibile, smentendo quanto era stato asserito qualche anno fa da un gruppo di altrettanto rispettabili e seri colleghi dottori nella scienza di Esculapio?
Ma in Italia si fa ancora poco per la pubblicità, e poiché pubblicità = indice di benessere, secondo un noto slogan, ecco che si rende assolutamente inconcepibile un benché minimo cedimento nella corsa ad indici vistosi.
Superato quindi da tempo il periodo postbellico, in cui la pubblicità era superflua, essendo la domanda superiore all'offerta, superato un periodo di rodaggio iniziale, l'Italia si prepara, aumentando la produttività, a dar la scalata, nei prossimi anni, con adeguate campagne pubblicitarie, ai primi posti nel settore europeo tenuti da Inghilterra, Germania, Olanda. È d'uopo quindi non dolersi oggi se il paese sembra invaso dalla pubblicità, siamo ancora lontani dalla seduzione ossessiva di altre nazioni.
L'uomo occidentale non compra più in armonia con le proprie esigenze, i propri bisogni, è preso invece dal vortice del consumo che ha le proprie leggi e il proprio ritmo da rispettare e che si prepara l'humus psicologico scatenando l'offensiva della reclamizzazione su vasta scala. La macchina si vendica dell'uomo che ha creduto nella sua autosufficienza.
È come se l'uomo occidentale avesse racchiuso in musei polverosi la sua arte passata, e staticamente si sia seduto a guardarla con occhi di sonnacchiosi guardiani attraverso le lenti di vecchie turiste americane.
Il suo posto è stato occupato da masse sempre più passive e più svuotate di energie reattive e di volontà. Questo il terreno su cui agisce il bombardamento psicologico, l'influenza di parole-chiave, per cui seriamente risulta compromessa la capacità creativa di gran parte dell'umanità. Ciò, naturalmente, se non si cede all'illusione ingenua che l'uomo «crei» oggi in misura del numero raggiunto dal parco auto o di elettrodomestici di tale o tal'altra nazione occidentale.
Ancora una volta, quindi, tremendamente ci fa meditare la scintilla intuitiva di chi, sul finire dello scorso secolo, ci parlò di «nichilismo» vedendo decadere l'uomo dal rango di creatura a quello di automa condizionato da ciò che egli stesso aveva materialmente partorito. Ma ritorniamo all'argomento in esame.
L'assunzione della pubblicità a livello di regola di vita economica e spirituale, ha fatto sviluppare uno studio psicologico particolareggiato per cercare di irretire, con arte subdola, congerie sempre più vaste di individui, avendo come meta finale il lavaggio totale dei cervelli.
Si è così potuta creare, attraverso esperimenti, sondaggi d'opinione e studi specifici, una «dottrina della pubblicità», di cui basti citare qualche passo contenente postulati fondamentali:
«... una frase ripetuta più volte produce la scissione tra la parola e l'oggetto cui si riferisce, tra parola e significato. Questa scissione ripetuta provoca, in un primo tempo, una sensazione di fastidio, quindi uno stato di insicurezza emotiva. Sentendosi insicuro, l'individuo (già anestetizzato) si lascia sedurre inconsciamente. Si depositano nella sede dell'inconscio stimoli e tracce che diventano reali, soltanto quando si percepisce nuovamente la stessa parola-stimolo, magari in ambiente diverso. Il vuoto provocato dalla scissione di cui sopra, si riempie con l'azione. Cioè la pubblicità, in sintesi, è un invito all'azione, l'azione a cui si è invitati, cioè l'acquisto. La decisione razionale è così annullata dalla decisione inconscia ...».
E con tutto ciò, l'individuo già abbondantemente violentato da questa azione-base, soggiace ad una infinità di altri più o meno occulti stimoli percepiti inconsciamente. Uno dei principali è l'esaltazione dell'io, per cui la persona che si raffigura in un determinato modello, si identifica nello stesso usando il prodotto reclamizzato. È efficacissimo. Basti pensare all'impiegato di mezza età che, con pantofole, pancia, e disturbi di digestione, si accarezza il viso con il dopobarba X reclamizzato da un giovane alto, vigoroso, a dorso nudo su un cavallo focoso ed ambiente selvaggio intorno. Meglio ancora se si intravede sulle spalle del giovane vigoroso una mano femminile, che accoppi all'esaltazione dell'io stimoli erotico-sessuali. È, in altre parole, anche questa una manifestazione della tacita rinuncia dell'individuo all'azione diretta sull'esterno per una più comoda, passiva accettazione dello stesso. Da attore, insomma, l'uomo diviene muto spettatore invertebrato di fenomeni ed eventi esterni di cui gli sfugge il controllo ma da cui, perniciosamente si lascia influenzare.
Studio dei colori (rosso = emotività, azzurro = affettività), studio delle parole secondo uno schema diadico che le suddivide in parole-stimolo e parole-neutre, studio della ricettività dell'individuo nel tempo e nello spazio. Tutto contribuisce a stordire la mente e a privarla di ogni autonomia. Tra i tanti studi speculativi, è d'attualità quello sulle possibilità di assorbimento da parte della pubblicità di fatti sociali, scientifici e politici per tradurli in novità «reclamistiche» inserendoli in una logica che obbedisce a regole precise. Si provi, ad esempio, quante volte il termine «rivoluzione» viene usato nei caroselli televisivi o radiofonici per reclamizzare un prodotto (soprattutto detersivi). Oppure il termine «contestazione» per affermare la qualità di un altro. Può sembrare insignificante eppure l'assunzione di una terminologia attuale nel linguaggio pubblicitario assolve a precise funzioni: quella di mantenere al passo con i tempi un'attività di cui l'attualità è condizione sine qua non per affermarsi, e quella di svuotare, attraverso un abile cesello psicologico, del contenuto sostanziale fatti e parole attinenti ad un fenomeno politico sociale che dovrebbe nuocere non poco ai centri motori di tali programmi pubblicitari e cioè grandi industrie e capitalisti.
Fuorviati da questi falsi scopi, alienati da queste mostruose macchine, condizionati e svuotati da impulsi che li costringono nel sub-umano, gli uomini contemporanei rischiano di morire spiritualmente.
Creatività, personalità, umanità sono caratteristiche che non appartengono più all'uomo.