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Sempre sul tema del 25 aprile

Chi sa parli!

   
Filippo Giannini     

  

Fra le mille e mille mattanze avvenute nell'infausta data del 25 aprile 1945, due fra le tante, colpiscono di più: l'uccisione dei fratelli Cervi e quella dei fratelli Govoni.
«Il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell'occupante, ma per provocarlo, per inasprirlo. Esso è autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell'odio. E' una pedagogia impietosa, una lezione feroce».
Sono parole di un ex fascista, poi partigiano. Il suo nome? Giorgio Bocca. Lo studioso onesto sa bene che il fenomeno partigiano, salvo rare eccezioni, di cui più avanti porterò un esempio, mirava solo a provocare rappresaglie e martiri: le une e gli altri da consegnare all'Italia del secondo dopoguerra. Chi è onesto sa pure bene che il sangue versato negli anni '43- 48 e oltre, ancora oggi e come ieri, è ben manipolato dai politicanti.
Nell'anniversario del 25 aprile di quest'anno tutti gli ometti che reggono il casotto Italia si sono sbracciati nel rammentare i morti causati dal male assoluto (cercati, voluti e ottenuti dai liberatori, giuste le parole di Giorgio Bocca), dimenticando quelle decine e decine di migliaia vigliaccamente assassinati dagli eroici partigiani.
Sempre nell'occasione del detto anniversario sono stati di nuovo rammentati i fratelli Cervi, di cui voglio fare una breve storia. Ma prima di entrare in argomento desidero di nuovo rammentare che il partigiano, per le Convenzioni Internazionali di Guerra allora in vigore, veniva uguagliato al franco tiratore, quindi passibile di essere, una volta catturato, passato immediatamente per le armi. Ogni esercito del mondo è praticamente indifeso di fronte alla lotta condotta da uomini non in divisa, i quali seguendo la tecnica del mordi e scappa, dell'imboscata, dell'attentato, fuggono mimetizzandosi in abiti civili fra civili.
I fratelli Cervi erano sette, figli di Alcide e Genoveffa Cocconi. Dopo la capitolazione italiana dell'8 settembre 1943 i Cervi organizzarono una banda partigiana, accogliendo nella stessa anche prigionieri di guerra fuggiti dai campi di concentramento.
La notte tra il 24 e il 25 novembre 1943, nel corso di un rastrellamento, vennero catturati con le armi in pugno. Il settimanale "Candido" di alcuni anni fa, sotto il titolo "Furono i comunisti a volerli morti", documenta che la cattura dei sette fratelli fu decisa su pressione di un ufficiale della Milizia fascista, Maurizio Cocconi, poi rivelatosi capo dei partigiani comunisti con il nome di battaglia Miro, il quale era uno dei proprietari dei terreni di Campeggino, località dove lavorava la famiglia Cervi. Il Cocconi -sostiene il servizio- «si liberò di quella famiglia di anarchici individualisti che spadroneggiava sui suoi terreni» e, nel contempo, rese un servizio ai comunisti, i quali «non tolleravano la totale indipendenza e autonomia dei Cervi nei confronti del PCI».
Quanto scritto è ampiamente documentato dal libro "Una storia di campagna" di Lino Fanti, ex redattore de "l'Unità". Del resto, mentre i fratelli Cervi erano imprigionati, elementi comunisti scatenarono una serie di uccisioni di fascisti nel Reggiano, sapendo bene che, prima o poi, i fascisti avrebbero reagito fucilando gli ostaggi in loro mani. E i fascisti caddero nella trappola del piano, cinicamente escogitato dai comunisti, che mirava a seminare dovunque il terrore onde controllare più facilmente la situazione. A seguito di una nuova serie di uccisioni di fascisti, il 28 dicembre di quello stesso anno, come reazione, i sette fratelli Cervi furono fucilati. Fu una rappresaglia brutale, disumana e stupida: stupida perché i fascisti caddero nella trappola loro preparata dai comunisti.
Giusto per la conoscenza: Maurizio Cocconi, detto appunto Miro, divenne vicecomandante di tutte le bande partigiane comuniste del Reggiano e del Modenese e, a guerra finita, vice prefetto del CLN a Reggio Emilia.
Mi sono stati regalati i due libri di Pansa: "Il sangue dei vinti" e "Sconosciuto 1945": libri che come ben sanno i lettori trattano degli assassinii commessi dai "Caini rossi", la cui crudeltà riabilita il personaggio biblico. Non so se Pansa nei citati volumi, che non ho avuto per ora modo di leggere, cita l'assassinio dei fratelli Govoni, argomento che tratterò in questo articolo, anticipando che questo episodio, per efferatezza e crudeltà, rientra nella tecnica di quei vigliacchi "vincitori di una guerra perduta".
Nel trattare della vicenda dei fratelli Govoni desidero partire dall'epilogo, quando cioè alla madre disperata che cercava di riavere almeno i corpi dei figli, un partigiano sarcasticamente rispose: «Vuoi trovare i tuoi figli? Affidati al fiuto di un cane da tartufi».
Pieve di Cento è una località non distante da Reggio Emilia. In questo piccolo centro viveva la famiglia Govoni, e per rinnovare la documentazione storica, desidero ricordarne i componenti. La famiglia era composta dal padre Cesare, dalla madre Caterina Gamberini e da otto figli: Dino 41 anni, falegname, sposato e padre di due figli; Marino, 36 anni, sposato, una figlia; Emo, 32 anni, falegname; Giuseppe, 30 anni, contadino e appena sposato; Augusto, 27 anni; Primo, 22 anni, contadino; Ida, 20 anni, sposata e madre da soli due mesi. Unica sopravvissuta Maria, perché lontana dalla famiglia. Va subito ricordato che solo Dino e Marino, quest'ultimo reduce dalla guerra d'Africa, avevano aderito alla RSI, tutti gli altri non si erano mai interessati di politica.
Nella zona operava la brigata partigiana "Paolo". Uno dei componenti, Dino Cipollani, il 10 maggio 1945 -quindi a guerra ormai terminata- fu incaricato di recarsi nella casa colonica, in frazione Casadio di Argelato, appartenente al contadino Emilio Grazia, per informarlo che il giorno successivo ci sarebbe stato un carico di fascisti da rinchiudere nella sua abitazione. Contemporaneamente il commissario politico della brigata partigiana, Vittorio Caffo, accompagnato da un altro partigiano, Dardi, si recò a casa dei Govoni e vi trovò Marino. Gli altri fratelli erano fuori casa. Dopo aver prelevato Marino, i partigiani, rinforzati da altri gruppi, tornarono, costringendo gli altri fratelli a seguirli, compresa la sorella Ida. Ai due anziani genitori che, terrorizzati, chiedevano il motivo del prelevamento, i partigiani risposero che si trattava di una «misura di polizia». Così i sette fratelli, caricati su un camion, vennero "scaricati" nel casolare di Emilio Grazia.
Alcuni anni dopo furono rinvenuti i resti delle vittime e si accertò che quasi tutte le ossa degli sventurati presentavano fratture o incrinature. Nessuna traccia di armi da fuoco, il che può dare solo un'idea della crudeltà messa in atto dai partigiani della brigata "Paolo": quegli infelici morirono per le torture subite, cosa che solo menti mefistofeliche potevano concepire. Dopo il terrificante eccidio, i cadaveri dei sette fratelli vennero sepolti in una fossa anticarro, poco distante dalla casa colonica, dove era stata compiuta la "giustizia antifascista".
Tutta la popolazione della zona era terrorizzata per le gesta dei partigiani e su quel fatto calò un silenzio omertoso. Ma mamma Govoni non si rassegnò: nonostante il pesante silenzio, durato tre anni, pur nel terrore, qualcuno, mosso da pietà, ebbe la forza di indicare alla povera madre il luogo dove "riposavano" i resti dei suoi figli. Così lentamente venne fuori la verità e con essa i nomi degli spietati assassini. Quindi il processo e le condanne. Come si ricorderà, Togliatti, ministro della Giustizia, promulgò una legge per la quale anche quel misfatto -similmente a migliaia di altri- rientrava nel "movente politico" e quindi considerato non punibile.
Non si può non ricordare che insieme ai fratelli Govoni, in quella notte maledetta furono soppresse dai "demoni rossi" altre dieci persone non meno innocenti. Con l'aiuto di un vecchio articolo di Loris Lolli e di Cesare Mazza proviamo a ricostruirne la storia. Insieme ai Govoni, sempre nella notte dell'11 maggio 1945, vennero prelevate, al fine di aumentare il "bagno di sangue", altre dieci vittime. Queste ultime, tutti cittadini di San Giorgio di Piano, ugualmente di nulla imputabili se non di essere anticomunisti. I loro nomi: Ivo Bonora, diciannovenne, con il padre Cesarino ed il nonno Alberto; Alberto Bonvicini, Giovanni Caliceti, Vinino Testoni, Guido Mattioli, Guido Pancaldi, Ugo Bonora, Giacomo Malaguti. Quest'ultimo, ufficiale degli alpini, con la RSI non aveva niente a che fare. Oltretutto aveva combattuto contro i tedeschi a Montelungo e in quella battaglia era stato ferito. I componenti della brigata "Paolo" furono artefici di un'altra "nobile impresa" messa in atto pochi giorni prima di quella compiuta con il supplizio dei fratelli Govoni e di altre vittime: dieci persone vennero prelevate "more solito", con l'inganno. Il luogo dell'ignobile delitto: la casa colonica del podere "San Giacomo Minore", frazione Voltarono di Argelato, dimora della famiglia Longhi. Anche questi martiri -fra essi una donna- vennero derubati, denudati, massacrati di percosse, infine strangolati e gettati in una fossa comune, non molto lontana dal luogo del supplizio.
Il citato articolo di Loris Lolli e Cesare Mazza ricorda altri eccidi che vale la pena menzionare per rinverdire "i valori" della Resistenza. I partigiani, specialmente quelli dell'ultima ora, sterminarono interi nuclei familiari: nel Comune di Castelletto d'Orba, tutti i sette componenti della famiglia Tacchino-Lavagello; in provincia di Savona, la signora Caterina Turchi e le figlie Pierina, Giuseppina e Maria; a Leca d'Albenga, Navone padre e la madre, le figlie Rosa, Bice, Irene, Rita, il figlio Leo e la moglie Gina Fannucci; a Vercelli, Elsa Scaffi, la sorella Laura, lo zio e la nonna di ottanta anni; a Pegli, la signora Granara e i suoi due figli di nove e otto anni.

A dimostrazione che non tutti i partigiani vanno considerati biechi assassini, preciso che, a seguito dello sfascio dello Stato causato dopo la capitolazione dell'8 settembre, si creò nei giovani di allora, uno stato di giustificata confusione: alcuni scelsero la via della montagna, altri quella del rifiuto della sconfitta e del disonore. Perciò ritengo utile richiamare alla memoria un mio precedente articolo apparso su "Nuovo Fronte" del novembre 2000, con il titolo: "Francesco Montanari, partigiano, ma grande uomo".
Avevo scritto: «La quiete agiografica nella quale si cullavano da anni le forze resistenziali antifasciste fu scossa violentemente un giorno del 1990. Accadde che un ex partigiano, l'ingegner Francesco Otello Montanari (Cincino), ricordando gli eccidi compiuti dai suoi compagni nelle giornate primaverili (e oltre) del 1945, lanciò, appunto quel giorno del 1990, un grido accorato: "Chi sa, parli". Superfluo aggiungere che dopo quella denuncia intorno a Montanari fu eretta una cortina di silenzio e di omertà. Il dado, però, era tratto e l'ex partigiano voleva lavarsi completamente la coscienza. Nel 1994, venuto a sapere che lo Stato era pronto ad assegnare all'A.N.P.I. (Associazione Nazionale Partigiani Italiani) la somma di 20 miliardi, scrisse a Scalfaro minacciandolo: "Se consegnerete quei soldi, io mi brucerò vivo!".
Sabato 17 febbraio 1996 "Cincino" affidò una lettera, che può essere considerata il suo testamento spirituale, ad un amico, l'avvocato Gustavo Raffi. Di quella lettera ecco alcuni passi significativi: "Sono certo che coloro i quali detengono le leve del potere faranno tutto il possibile per farmi passare per matto o anormale (…). Mi ammazzo perché so valutare la 'sora' morte nella maniera giusta, perché ho dignità, moralità, sensibilità e coraggio per cui, in questo letamaio pieno di miserie, ingiustizie e violenza -dove comandano i ladri, i delinquenti e i mafiosi- si potranno trovare bene i loro compari o le pecore, ma non il sottoscritto (…). Durante la guerra sono stato comandante partigiano (…). Non ho mai fatto scatenare terribili rappresaglie su gente innocente, non ho mai vigliaccamente giustiziato nessun fascista a guerra finita (…). Qui non c'è una sola cosa che funzioni per il verso giusto: si privilegiano gli stranieri illegali invece dei fratelli, si puniscono i ladri di galline e i piccoli evasori, ma mai i grossi: i sindacati insegnano solo i diritti (mai i doveri) (…). Provo ormai nausea a vivere in questa ripugnante società di ladri, di delinquenti e di pecore. Perciò vi dico 'IO NON CI STO' più e tolgo il disturbo! Spero di avere sufficientemente chiarito che il mio non è un gesto inconsulto, ma un gesto di protesta nei riguardi dei principali responsabili di questo sfascio morale e materiale dell'Italia. Vi saluto tutti, amici e nemici, e vi prometto che, se di là si sta peggio che di qua, vi scriverò. Ma se non riceverete niente, vuol dire che si sta meglio. Francesco Montanari"».
Il mio articolo continuava così: «I 20 miliardi furono consegnati all'A.N.P.I. e, da uomo coerente, Montanari, il 22 febbraio 1996 si dette alle fiamme, ponendo atrocemente fine alla sua vita.
P.S. Da perfetti vigliacchi, ma coerenti, a parte un paio di quotidiani, i "mass-media" ignorarono il "fatto Montanari"».

Francesco "Cincino" Montanari aveva 76 anni, era nato a Ravenna, ma abitava a Cesena. La notte del 22 febbraio 1996 salì su una vecchia "Ritmo" acquistata pochi giorni prima e la parcheggiò in San Mauro in Valle (una frazione di Cesena) dove si dette fuoco. Il suo corpo fu divorato dalle fiamme, ma rimasero intatte alcune copie del suo libro dal titolo: "Qui il più pulito ha la rogna", che aveva posto accanto alla macchina prima dello stoico gesto. A questa documentazione aggiungo uno stralcio della lettera inviata a "il Giornale" il 15 marzo 1997 dal signor Italo Tassinari di Padova che aveva fatto parte della stessa brigata partigiana di Montanari: «Ero amico intimo di Francesco "Cincino" Montanari, amico sino a recensire il suo ultimo libro "Qui il più pulito ha la rogna" (…). Anche Cincino Montanari era un capo partigiano che combatteva per una Resistenza diversa e che non indusse mai ad atti come quello di Codevigo, dove la 28ª Brigata Garibaldi del PCI, comandata dal cosiddetto "eroe rosso" Boldrini, medaglia d'oro al VM (figuriamoci) senatore della Repubblica per meriti resistenziali, passò per le armi circa 300 giovani nelle "radiose giornate" 10, 11 e 12 maggio 1945, cioè dopo la fine della guerra (…). Cincino, prima di suicidarsi, venne a trovarmi, di domenica, nella mia casa di Bellaria, in quel di Rimini, per salutarmi. Un addio semplice: "Caro amico Italo -mi disse- ti porto dieci copie del mio libro, diffondilo. Mi ucciderò mercoledì prossimo, perché in questo merdaio di grassatori e tangetocrati non voglio più vivere (…). Questa Italia nata dalla Resistenza, un parto che forse era meglio fosse stato aborto…"».
Questa è la storia, per motivi di spazio molto concisa, di un grande uomo che è un onore avere avuto come avversario; non nemico. Perché poche cose ci dividevano da Lui.


Filippo Giannini