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http://www.campoantimperialista.it/index.php?option=com_content&view=article&id=821:cina-qcapitalistaq-o-pragmatismo-statalistico-da-grande-potenza&catid=25:cina-cat&Itemid=37
Risposta politica a Moreno Pasquinelli
Cina "capitalista" o
pragmatismo statalistico da grande potenza?
Michele Santini
«Anche se si
spiega alle persone come la vittoria può essere ottenuta applicando
tattiche flessibili secondo il mutamento delle circostanze, esse non
lo comprenderanno».
Sun Tzu |
Abbiamo letto con molta attenzione l'articolo di Moreno Pasquinelli,
estremamente interessante e certamente utile più per le problematiche che
suscita nel lettore attento e volenteroso di apprendere e confrontarsi con i
massimi problemi di politica internazionale, piuttosto che per le specifiche
risposte politiche che esso ci fornisce, del tutto interne ancora ad una visione
dogmaticamente economicista e per taluni versi anche determinista, visione in
base a cui i funzionari del capitale della "nuova Cina", ossia le forze
strategiche soggettive sulle cui azioni si è sviluppato e si sta sempre più
sviluppando il "miracolo cinese"(1), non sarebbero null'altro che la copia
sbiadita dei funzionari del capitale americani.
Ciò che intendiamo radicalmente contestare è anzitutto l'essenza capitalista
della strategia politica di Deng Xiaoping implicitamente affermata dal
Pasquinelli, per poi approfondire il discorso in base a quanto il Nostro ha
sviluppato nelle sue analisi.
Alla base del radicale, impressionante sviluppismo modernista -o per taluni
versi addirittura ultramodernista- cinese, vi è a nostro avviso il piano
strategico dello Stato nazionale cinese, più precisamente grande-nazionale HAN,
il quale non solo è rimasto intatto tramite la "rivoluzione dell'economia"
avviata da Deng in seguito al definitivo trionfo della linea Wang Li– Zhao
Ziyang – Deng Xiaoping, collocabile nel dicembre del 1978, ma è la forza
"spirituale" stessa che ha reso possibile questa impressionante ascesa dinamica
planetaria.
Una parentesi "economica" è a questo punto doverosa, al termine della quale
divideremo in precisi punti le nostre riflessioni. Come è noto, Deng Xiaoping,
una volta tornato sulla scena dopo la persecuzione che dovette subire nel
periodo della Rivoluzione culturale, non si stancava mai di richiamarsi
pubblicamente a quel piano delle Quattro Modernizzazioni (agricoltura,
industria, difesa nazionale, scienza e tecnologia) che Zhou Enlai -che
considerava peraltro Deng il suo naturale continuatore- esponeva nel 1975
durante la prima sessione della IV Assemblea popolare nazionale, dopo averlo in
varie circostanze private formulato almeno dal 1964.
La prima fase della riforma economica si delineava nei primi anni Ottanta con la
rapida decollettivizzazione delle campagne. Nel 1981 le terre venivano divise
tra le unità familiari, anche se ufficialmente rimanevano ancora di proprietà
collettiva: le famiglie potevano disporne liberamente dopo aver consegnato allo
Stato le quote obbligatorie. Dal 1983 questo tipo di organizzazione agricola si
andava generalizzando e diveniva sempre più rilevante la componente familiare
delle imprese, collegata con attività specializzate come l'allevamento e la
piscicoltura. Le comuni popolari erano soppresse alla fine del 1984 e dal 1985
le quote obbligatorie venivano sostituite da contratti di acquisto negoziati.
Ciò permetteva, in rapidissimo tempo, alla produzione agricola di conoscere uno
sviluppo senza precedenti: nel 1984 si aveva infatti un raccolto record di 407
milioni di tonnellate di granaglie. Egualmente, sul piano della produzione
industriale, che veniva toccato da taluni correttivi quali una progressiva
liberalizzazione dei prezzi associata quindi ad un'autonomia delle singole
imprese, si assisteva ad una spettacolare crescita, come quella degli anni
1983-1985, che registrava un tasso record del 24%. Va del resto considerato che
la crescita record riguardava in particolare i settori dell'industria leggera e
dei beni di consumo, mentre certamente più lento fu il progresso dell'industria
pesante. Il dinamismo dell'economia cinese in quegli anni si evidenziava dal
rapido aumento delle importazioni dai paesi più avanzati, i quali d'altra parte
assorbivano circa il 45% delle esportazioni cinesi.
Allo scopo di acquisire nuove tecniche e incoraggiare gli investimenti, il
governo cinese aveva creato, sin dal 1979, delle "zone economiche speciali"
nelle province del Guangdong e del Fujian, in cui veniva introdotta una economia
di libero mercato. Per attrarre investimenti stranieri, furono previsti
interventi sulle infrastrutture e varie agevolazioni di carattere sia fiscale
sia doganale. Nel 1984, inoltre, il sistema veniva esteso ad un'area molto più
ampia, che comprendeva 14 città costiere e una nuova zona economica nel basso
Yangzi, con centro Shanghai. Ma l'autentico "miracolo economico" cinese lo
cogliamo a partire dal 1992 (2).
Nell'ottobre 1992, al XIV congresso del partito, veniva ufficialmente adottata
la formula che poi sarà costantemente usata per definire la nuova fase di
sviluppo: «economia socialista di mercato». Nel 1993 la crescita economica
raggiungeva il culmine con l'incremento del PIL del 13,7 % e l'interscambio
internazionale raggiungeva nel 1994 i 236 miliardi di dollari. Con le ulteriori
riforme di Zhu Rongji, che continuava la via sviluppista modernista denghista,
veniva accelerata la politica di privatizzazione delle imprese statali a
carattere non strategico e per le altre venivano adottate misure di riforma
quali la trasformazione in società per azioni, ed inoltre la creazione di nuove
strutture gestionali e di nuove cariche sociali. Con la stabilizzazione
economica, pur in un contesto caratterizzato da un processo di sviluppo in cui
venivano toccate le punte dell'8,5 % di incremento del PIL nel 1997, la Cina
usciva praticamente indenne dalla gravissima crisi finanziaria che colpiva le
"tigri asiatiche" nel 1997.
Gli ultimi anni del XX secolo videro una serie di grandi successi della politica
di riforma, che contribuirono senza dubbio a esaltare l'immagine della Cina sia
sul piano interno che su quello estero. Con il ritorno di Hong Kong e di Macao
alla madrepatria (rispettivamente nel luglio 1997 e nel dicembre 1999) sembrò
compiuta la missione di riscatto nazionale che tutti i nazionalisti cinesi,
riformisti o rivoluzionari, avevano fatta propria fin dagli inizi del XX secolo.
Non può essere sottovaluto quindi il valore simbolico della restituzione delle
ultime colonie. E' chiaro che rimaneva ancora Taiwan, ma esso era ed è
considerato un problema puramente interno, che non può essere ricondotto al
passato coloniale (3).
È ora di passare appunto alle riflessioni generali.
1. Questo spettacolare "miracolo economico" cinese è stato chiaramente il frutto
dell'intuizione strategica di Deng, che si è rivelata alla lunga vincente, la
quale partiva dalla lucida comprensione che il nuovo schmittiano nomos
dell'ordinamento mondiale era dato dalla divisione della terra in regioni
industrialmente sviluppate o meno sviluppate. Deng vedeva quindi l'evoluzione
del principio cujus regio ejus industria su cui si fondava in sostanza la
politica della guerra fredda (divisione in economia di mercato ed in economia di
comando) e scorgeva così la potenziale riorganizzazione dello spazio mondiale in
modalità non duali ma multipolari, in Grandi spazi dominati dall'esigenza intima
del nomos quale Weiden, ossia dal produrre, e come Teilen, ossia dal ripartire -
la terza radice semantica di nomos per Schmitt è Nehmen, prendere (4).
2. Deng ha compiuto a nostro avviso una rivoluzione strategica di taglio epocale
in quanto annullando e delegittimando gli sterili utopismi ideologico-messianici
linbiaoisti (ed in parte anche quelli maoisti)5 (ha mostrato -nella prassi
politica e con la prassi politica- che si può vincere il capitalismo
usurocratico fondato strategicamente sulla figura del finanziere apolide,
sottomettendo il capitale al senso trascendentale ed organicistico di una legge
nazionalstatale. Avrebbe poco senso, a nostro avviso, parlare, come fa il
Pasquinelli, di una Cina capitalista o di un capitalismo cinese. Si deve invece
parlare di uno Stato nazionalcapitalista, dove il soggetto strategico centrale,
dotato di legittimità assoluta di decisione, è lo Stato: Stato degli Han in
primo luogo (nel senso morale evidentemente, non in quello brutalmente etnico),
di tutti i cinesi poi (compresi tibetani ed uiguri, con buona pace del
democratico Occidente!), ed il nazionalcapitalismo lo strumento tattico,
necessario ed ineludibile, di espansione globale nella marcia verso il primato
mondiale. Rivoluzione strategica epocale in quanto alla teoria del nomos di
taglio americanista, caratterizzata dal trionfo della titanica e fascinosa
potenza tentacolare della tecnica al lato di una dimensione spirituale
contrassegnata dal meccanicismo come ferrea legge dell'indistinto,
dall'uniformazione verso il più basso materialismo planetario, dal dominio delle
oligarchie plutocratiche che spesso tengono in ostaggio i vari Presidenti Usa
che si avvicendano, la nuova Cina risponde con uno Stato che rimanda alla figura
di un leader, di un Politico presente (Wen Jiabao) e soggetto storico delle
supreme decisioni del suo popolo, con uno Stato che ha saputo pianificare la
strategia della "guerra totale politica" al Primo Mondo (Occidente ed URSS ieri,
USA oggi) mediante la tattica di una rivoluzione economica dalle conseguenze
mondiali.
3) Il Pasquinelli fa bene ad insistere sul carattere taoista della tattica
strategica dei leader politici e militari cinesi attuali, di cui possiamo del
resto, come occidentali, limitatamente comprendere, altrimenti verrebbe meno
l'espediente stesso da stratagemma occulto dominante il complessivo piano
tattico strategico (Questa strategia per ottenere la vittoria non deve essere
divulgata anzitempo: Sun Tzu), ma va anche notato che ci troviamo di fronte ad
uno Stato-Nazione unito e compatto all'insegna della equità e della pace
sociale, ossia di idee-forza che derivano chiaramente, almeno in tal caso, dal
pensiero di Confucio. Un confucianesimo dinamico e modernista, ma sempre della
radice confuciana si tratta. Il politologo giapponese Kenichi Ohmae non si fa
scrupoli nel suo saggio La fine dello Stato-Nazione, di definire "arcaico"
questo ultra-nazionalismo morale HAN, che farebbe a pugni, secondo lo stesso,
con la globalizzazione degli affari. Non va però dimenticato che la linea cinese
in proposito, cioè riguardo i rapporti Stato-partito-patriottismo, è quella
delle "tre rappresentanze" di Jiang Zemin, secondo cui il partito non è più
soltanto l'avanguardia della classe operaia, secondo la tradizionale
definizione, ma il rappresentante delle tre forze produttive più avanzate, della
cultura più avanzata e degli interessi generali della Nazione. Da quanto deriva
dalla nuova costituzione adottata dal dicembre 1982, il partito ha una funzione
dirigente limitata all'indirizzo politico ed ideologico, ma l'autentico lavoro
politico amministrativo è di esclusiva competenza dello Stato. In base a questa
sinergia politica partito-Stato, in seguito all'affermazione della linea
denghista, si avevano peraltro in Cina forti trasformazioni sociali che hanno
portato a funzione dirigente esponenti di classi solitamente escluse dalla sfera
del dominio politico. Che questa modernizzazione si sia innestata anche sul
processo della Rivoluzione culturale è certo, ma con una direzione politica
statalistica-nazionalista ben diversa da quella prospettata dagli
internazionalisti linbiaoisti. Per tornare alla questione dell'attuale
nazionalismo cinese, il patriottismo innalzato dall'ufficialità statale ha
questo obiettivo: "Difendere la cinesità per difendere l'unità della Cina".
4) Infine, veniamo al punto principale. Deng, in termini hegeliani, si chiama
politische Genie. Il genio politico strategico è colui che cogliendo l'esigenza
fondamentale dello Spirito del tempo, lo fa a vantaggio dell'Intero, del tutto,
trascendendo la scissione. Diceva Hegel nelle lezioni di Jena: «Coloro che si
chiamano geni hanno acquistato una qualche particolare abilità con cui
trasformano in opera propria le forme del popolo». Con Deng, da Deng in poi, le
forme proprie dello spirito di popolo cinese si vanno sempre più
universalizzando. Abbattendo l'ideologia, col principio del realismo politico
assoluto, il Politico Deng ha legato la sua persona al principio unitario
universale dello Stato: in tal senso non poteva non vincere, hegelianamente,
essendo lo Stato -in Hegel- non solo "totalità organica" ma anche «lo spirito
della realtà». «La realtà del regno dei cieli è appunto lo Stato», ci dice
ancora Hegel nella Filosofia dello Spirito jenese! Con tale epocale "rivoluzione
dall'alto" il Politico, non il comunista o il capitalista, ma lo stratega della
politica -il Politico, appunto…- ha stabilizzato la forma necessaria
all'espressione dirompente universale dello spirito del popolo cinese. Il
Politico, Deng nel caso di specie, intuiva allora che ci si avvicinava ad una
epoca in cui lo spirito andava facendo un balzo, andava uscendo da sé
acquistando una nuova figura; che era per questo necessario sbarazzarsi di tutti
i concetti precedenti: "le catene del mondo si sono dissolte e sprofondano come
un'immagine di sogno. Si prepara una nuova sortita dello spirito"(6).
5) Ormai ci siamo. Stiamo assistendo al trionfo postumo di Deng: il nomos della
terra, lo Stato, l'Intero, il Totale, sta tornando all'ordine del giorno. Non
saranno certo i tibetani o le star di Hollywood a impedirne la definitiva
concretizzazione! Chiudersi dogmaticamente rispetto a tale rivoluzione epocale,
a tale spostamento del baricentro terragneo, che non solo è economico ma anche
ideale, significa essere hegelianamente dei reazionari. Dei reazionari astratti,
sul piano ideologico, nemmeno concreti, sul piano della realtà politica. Ciò che
lo spirito europeo ha dato (Fascismo, Bolscevismo, nemmeno comunismo!) ha
perduto indubbiamente la sua partita storica e metastorica: inutile indagare ora
sul perché e sul per come. Sembrava inarrestabile il culto della scissione, la
distruzione dell'Intero, che ci aveva invaso da oltreoceano. Sembrava tutto
chiuso per secoli, con masse abbrutite, stancate, drogate, umiliate,
sessualizzate. Ma Deng Xiaoping, il Politico, la cui minuta figura era quasi un
segno per l'adombramento delle intuizioni di cui l'anima del mondo assolutamente
abbisognava, riapriva gli argini chiusi e rinserrati. Mettersi quindi oggi a
parlare di comunismo, fascismo, capitalismo etc.etc, quando ormai la Cina si va
approssimando al primato mondiale, quando ormai la Cina nazionalista e
statalista dovrà per forza di cose assolutizzare, universalizzare la propria
forma, dovrà indirizzare su una nuova via -che non è possibile ora prevedere e
su cui a nulla servono gli schemi ideologici di ieri- la potenza interna dei
funzionari del capitale cinesi, se vuole prestare fede alla propria missione
mondiale: mettersi dunque, da europei sconfitti quali siamo, completamente
estranei ai processi spirituali storici che si vanno svolgendo, a parlare di
fascismo, capitalismo, comunismo, diritti umani e democrazia, significa non aver
compreso che lo spirito ha fatto un balzo in avanti e che la rivoluzione
dall'alto di Deng ha reso stantii e oggettivamente reazionari, sul piano della
pura dottrina politica, tali concetti.
E non è del resto sorprendente, se si tralascia la politica economica interna,
che la rivoluzione denghista ha come lascito gli stessi principi della
rivoluzione dall'alto di staliniana memoria: nazionalismo modernista,
industrialismo, militarismo, statalismo da grande potenza, innalzamento delle
condizioni sociali?
Infine, perché non riflettere minimamente sul fatto che se oggi il Presidente
Ahmadinejad è ancora in sella a Teheran, qualcosina probabilmente lo dobbiamo
pure a Pechino? In sostanza, come europei che ancora vogliono dire qualcosa a
livello dei grandi processi storici, per ora a nostro avviso non vi è altra via
-data l'oggettiva situazione di morte civile e politica europea e degli europei-
che aprire la strada alla nuova potenza che marcia verso il primato mondiale.
Prendere coscienza che lo spirito è sobbalzato di nuovo fuori di sé. Deng lo
comprese prima di ogni altro.
Michele Santini
Note:
1 M. Weber, "Il miracolo cinese", Bologna 2001.
2 M. Sabatini - P. Santangelo, "Storia della Cina", Bari 2008, pp. 646-648.
3 Ivi, pag. 648.
4 C. Schmitt, "Le categorie del politico", Bologna 2009, pp. 293-312.
5 Deng Xiaoping, "Socialismo alla cinese", Roma 1985, pp. 47-53.
6 "Dokument zu Hegels Entwicklung", Stoccarda 1936, pag. 352.
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