Italia - Repubblica - Socializzazione

Controcorrente

ANNO I - N° 1 - Febbraio 1974

 

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dimensioni: cm. 11 X 17  * pagine n° 16

 

 

 

IL REGIME DELL'IMMOBILISMO

La sostituzione del governo Andreotti con un centrismo a sinistra ha forse indotto qualche anima candida a credere nella possibilità che si affrontino ora seriamente i problemi sociali e politici del paese.
Nulla di più falso. Il tramonto della linea centrista non significa affatto una sconfitta delle forze moderate che da quasi trent'anni hanno in mano le leve del comando, senza aver risolto un problema che non sia quello della gestione pura e semplice del potere.
Tali forze hanno bisogno di una situazione di stasi, da cui sorga il malcontento popolare, amministrato poi dai partiti, e dunque incanalato verso false questioni, per bloccare ogni possibilità di rinnovamento.
All'origine delle vicende che vanno dalla crisi del centrosinistra al suo recupero, non c'è dunque che l'equilibrio di impotenze politiche tra i clericali dello stampo dei Rumor e dei Fanfani e i loro (ben poco) oppositori, a destra e a sinistra, dentro e fuori il partito.
La DC, incapace a proporre iniziative che permettano di affrontare le grosse questioni, con una politica di temperamento delle posizioni, ha spesso mutato le sue formule di governo. Quei mutamenti non hanno un reale valore, essendo sfaccettature dello stesso disegno moderato.
Su tale gioco di formule i cattolici si sono costantemente tirati dietro la sinistra, sempre più radicaleggiante e socialdemocratizzata, negata da sempre ad ogni prospettiva rivoluzionaria, e la destra, chiusa nella sua miopia tardo-borghese, pronta a servire le manovre papaline e americane.
E così, esauritosi il colpo gobbo andreottiano, Amintore Fanfani, risorto sulle proprie ceneri (presidenziali), compie il gran riappattumamento con i dorotei, ed ecco il segretario del PCI che annuncia la "opposizione morbida" del suo partito, mentre Lama strizza l'occhio proprio a Rumor, il cui ultimo centrosinistra era caduto tra il gaudio dei sindacati.


SPAGNA: UN AVVERTIMENTO PER FRANCO

Un fatto di eccezione ha agitato le acque nella morta gora della politica spagnola. Il 20 dicembre una mina ad alto potenziale lanciava in aria il Primo Ministro uccidendolo.
Sull'assassinio dell'Ammiraglio Carrero Bianco sono state subito avanzate le ipotesi più disparate, tutte però orientate a riconoscere nel fatto un segno della tensione provocata dall'irredentismo basco. È una ipotesi che non ci convince, come non ci convince la abusata polemica sull'antitesi antifascismo-anticomunismo, anche se la polizia spagnola ha affibbiato subito la paternità dell'attentato alla organizzazione separatista ETA (acrostico in lingua basca di Patria Basca e Libertà), ed anche se la paternità stessa appare suffragata dalla conferenza stampa tenuta da esponenti dell'ETA, incappucciati per ovvi motivi di sicurezza, otto giorni dopo, nei pressi di Bordeaux.
In ogni caso occorre capire a chi possa aver giovato o potrà giovare in futuro la morte di Carrero Bianco.
Una costante della politica estera spagnola va ricercata nei tentativi di rottura dell'isolamento in cui Franco è venuto a trovarsi dal '45. Tale azione nella direzione internazionale è stata costantemente e reciprocamente appoggiata dalle misure sviluppate ed attuate -nel campo interno- dallo stesso Franco, alle prese coi problemi del ritorno del monarca e della liquidazione del regime falangista. Il quadro internazionale del disgelo prima e della distensione poi ha favorito anche il Caudillo che ha pagato il prezzo del ritorno alla normalità con l'accettazione della subordinazione agli USA, i quali gli hanno lasciato la catena lenta sulla strada della ricerca di un ruolo nel Mediterraneo.
Nel disegno distensivo, infatti, certi capricci degli europei si incastrano malamente e, considerata la perdita di prestigio di parte inglese, naturale patrona sul continente degli interessi americani, la livrea nuova di un altro servitore sicuramente fedele, avrebbe ridato una spinta in su all'ago della bilancia. I rapporti di cordialità, mantenuti da Franco con gli arabi, da sempre, possono rappresentare un buon biglietto di presentazione per la CEE.
Alfiere di questa politica mediterranea si rese fin dal 1960 il Ministro degli Esteri Castiella che tentò anche la assunzione, in ciò visto con simpatia dallo stesso De Gaulle, di una certa autonomia nei confronti del partner americano, ma il braccio di ferro che ne seguì si concluse con le dimissioni del ministro spagnolo.
Bianco era intimo di Franco e ne riscuoteva in assoluto la piena fiducia. Forse rappresentava un punto obbligato di mediazione tra la nuova classe dirigente (i tecnocrati allevati dall'Opus Dei) e la vecchia dirigenza militarista, e questo lo rendeva indispensabile al vecchio generalissimo. Ma certi atteggiamenti debbono aver seriamente impressionato oltreoceano (vedi ad esempio lo scambio di colloqui tra il francese Jobert e Lopez Rodò)e quando, durante l'ultima battaglia arabo-israeliana, egli ha negato le basi spagnole per i fini logistici degli USA in favore di Israele, ha evidentemente colmato la misura. L'uccisione del braccio destro rappresenta così per Franco un avvertimento preciso: non è consentito deviare dalla strada imboccata. La fedeltà è una sola, quella agli interessi americani sul continente europeo e nel Mediterraneo.
Del resto eventi simili si sono manifestati nella Grecia di Papadopulos. Questi, oltre a negare l'uso delle basi, aveva cominciato a stringere rapporti con la Cina, con la Romania e con la Libia di Gheddafi e si era schierato a favore dei popoli arabi. Anche qui i canoni della libertà distensiva non prevedono per i subordinati di fare di testa propria e Papadopulos ha pagato la propria sconsideratezza a caro prezzo, trovandosi destituito da un "golpe", dopo le violente e inopinate dimostrazioni di Atene, attuato da militari fedelissimi alla NATO e di conseguenza ad Israele. La solita strategia della tensione.
Per tornare alla Spagna, trovare gli ispiratori e i mandanti del gesto non ci sembra un enigma tanto insolubile. Non è difficile per gli esperti elementi della CIA, usi a questi e ad altri metodi, inserirsi e strumentalizzare un gruppo di estremisti sotto la spinta suadente del gesto disperato per un atto di giustizia (Italia docet!).
Una prima conseguenza è stata la provocazione di attriti tra Spagna e Francia, dopo la richiesta di estradizione dei baschi sospettati dell'attentato che risiedono altre i Pirenei. Ma anche in politica interna le ripercussioni non mancheranno, primo fra tutte un irrigidimento del governo verso i separatisti, con le solite richieste di maggior durezza verso l'opposizione avanzate dai settori più interessati alla difesa del regime, ma osteggiate, ora come in passato, dallo stesso Franco per il rischio che comportano di fare fallire la politica di pacificazione e di democraticizzazione che dovrebbe culminare con il ristabilimento della democrazia parlamentare e dei partiti nello stato monarchico che egli ha preparato per il pupillo Juan Carlos.


NOTERELLE

L'austerità si sta rivelando un pericoloso attentato alla libertà degli italiani: perlomeno stando alla stampa del regime.
Che la libertà di un popolo consista nel poter andare in automobile la domenica è opinione discutibile, specie quando quel popolo (ed è il caso nostro), sottoposto al colonialismo economico, politico e militare di altre nazioni, non sia libero di scegliere il proprio destino. Ma gli italiani alla stampa del regime ci credono e hanno stoicamente sopportato il colpo camminando, pedalando, e stipandosi negli autobus, limitandosi ad imprecare contro i perfidi responsabili: gli arabi.
A nostro avviso il "ricatto arabo" non è altro che il paravento col quale i padroni del mondo cercano di mascherare la crisi energetica che incombe sulle loro -e di conseguenza sulle nostre- teste.
È perfettamente idiota sostenere Israele per chi come l'Italia può sperare di significare qualcosa che non sia un puro dato geografico solo mediante l'autonomia economica, politica e militare che oggi ci è negata dagli USA e dai loro primi alleati nel Mediterraneo. Ma la stampa d cui sopra è riuscita, anche grazie ai fatti di Fiumicino (la CIA non ne sa niente!), ad orientare gli animi contro gli arabi.
E così mentre c'è chi ha ritenuto opportuno sottolineare il proprio stato di servizio a favore del sionismo, imbrattando i muri romani con vari epiteti: dal solenne «no al ricatto arabo», al drastico «arabi = belve», al più spontaneo «arabacci cattivacci», gli italiani passano la domenica come hanno sempre fatto: guardando la televisione.
Posizioni del genere sono proprie di un mondo conservatore ad oltranza, di una società abituata a non compromettersi, a non fare delle scelte.
Uomini siffatti sono pronti a credere qualunque idiozia purchè non venga turbata la loro tranquillità. Il livore antiarabo del momento lo dimostra.

 


CONSIDERAZIONI SUL CONFLITTO ARABO-ISRAELIANO

La furiosa campagna filosionista sviluppata dagli organi di informazione italiana durante il conflitto arabo-israeliano ha fatto salire in superficie le vene sotterranee che li hanno sempre alimentati. A ciascuno è ormai chiaro la profondità di certe influenze.
Nella difesa di Israele il giornalismo italiano ha mostrato la sua vera dimensione di faccendiere del sionismo, tutto teso ad ampliare, a diffondere, a sostenere e a puntellare le tesi politiche promananti dai suoi padroni.
Era evidente lo scopo di far perdere all'opinione pubblica le tracce della verità. Ed è per questo che riteniamo opportuno riassumere la questione mediorientale nei suoi reali termini storici.
La Palestina nel 1917 era ormai da millenni un paese arabo, facente parte dell'impero ottomano. Alla fine della prima guerra mondiale fu occupata dagli Inglesi ai quali la famigerata pace di Versailles la concesse come «mandato». L'Inghilterra che aveva con Lawrence staccato gli Arabi dalla Turchia, facendo balenare agli occhi della dinastia hascemita la creazione di una grande monarchia islamica indipendente, si affrettò a tradire questa promessa con la «dichiarazione Balfour» del 1917 con la quale veniva promessa agli ebrei l'istituzione di una «national home» (un focolare nazionale) in Palestina.
Nei trenta anni del mandato britannico l'azione filosionista, favorita da ben qualificati gruppi di potere interni, pose le basi per la realizzazione della promessa di Balfour. Nel 1918 infatti gli Ebrei in Palestina erano solo 50.000 ossia il 7% della popolazione della regione. Nel 1947 erano diventati 650.000. Si pensi inoltre che nei primi anni del mandato l'Alto Commissario di S.M. era ebreo.
Alla fine della seconda guerra mondiale l'Inghilterra passò la mano agli Stati Uniti, nei quali i circoli ebraici erano certamente più influenti che nel Regno Unito. Già l'11 maggio del 1942 il Congresso Sionista mondiale tenutosi a New York aveva deciso di trasformare la Palestina in uno stato ebraico e di scacciarne tutti gli abitanti arabi.
Vinta la guerra gli Stati Uniti trasferirono di peso la questione in seno al loro braccio secolare, le Nazioni Unite, le quali puntualmente ne seguirono le direttive e nel novembre del 1947 votarono con una maggioranza di due terzi in favore della spartizione.
Il 14 maggio 1948 il disegno sionista grazie all'Inghilterra e agli USA si concluse con la proclamazione dello stato di Israele.
Negli anni che seguirono gli Ebrei, forti delle armi e degli istruttori angloamericani intrapresero in successive tappe tutta una serie di aggressioni, di stragi, di atti di terrorismo organizzati allo scopo di eliminare la popolazione locale. Intanto l'operazione era costata agli Arabi un milione e mezzo di profughi. Con l'aggressione del 1956 e del 1967 (guerra dei sei giorni) gli Ebrei rivolsero le mire colonialistiche (promananti forse dal sogno messianico di dominio universale?) contro gli stati arabi confinanti. Siria, Egitto, Giordania, si videro rapinate larghe estensioni di territorio.
Come si vede dunque in linea di diritto la ragione sta dalla parte degli arabi, ma in politica il buon diritto si sa quel che vale. Appellarsi ad esso significa solo chiamare in causa quell'ignobile arnese che sono le Nazioni Unite.
E veniamo ora ad analizzare le cause e gli interessi che hanno portato al riaccendersi delle ostilità nel Vicino Oriente.
Nel clima della distensione e della cooperazione gli USA e l'URSS hanno sempre mirato, come già in Indocina, ad amministrare la tensione, per evitare lo scontro tra padroni, e per imporre la loro politica ai paesi assoggettati.
Gli USA, interessati ad appoggiare Israele anche contro i propri interessi, mirano a perpetuare in Medioriente lo sfruttamento economico basato sul controllo dei prezzi del petrolio, a discapito dell'Europa e del Giappone.
L'URSS d'altro canto cerca di consolidare l'influenza raggiunta in un settore per essa importantissimo quale rappresentano il Mediterraneo ed il Golfo Persico. In base a questi obiettivi i due partners si sono sempre trovati d'accordo nel mantenere surriscaldato quel settore, impedendo una risoluzione definitiva della questione mediorientale e nel contempo incanalando la politica araba verso un disegno moderato e antiunitario.
Negli ultimi tempi alcuni fattori hanno perturbato questi presupposti. Negli Stati Uniti lo scandalo Watergate ha raggiunto sempre più i contorni di una guerra tra gruppi di potere fatta di colpi di mano, ricatti e manovre di vertice, nello stile gangsteristico da sempre tipico della politica americana.
Tale contrasto può tra l'altro essere un riflesso di una più ampia frattura del sionismo internazionale. Si veda in questo senso la nomina dell'ebreo Kissinger al Dipartimento di Stato americano: secondo «mister Kiss» il segreto di ogni politica di conservazione è il compromesso, per ridurre al minimo i motivi di insoddisfazione e di rivincita; egli infatti ha tenuto a precisare durante la crisi che gli USA sono impegnati a difendere Israele, non le sue conquiste.
O ancora il comportamento di un altro ebreo, Kreisky, presidente della repubblica austriaca, in merito all'azione dei guerriglieri palestinesi contro gli ebrei russi in Austria, giunto al dissidio con Golda Meir.
In un'altra ottica va invece considerato il rapporto tra gli Stati Uniti e l'Europa. Quello che da Nixon era stato definito l'anno dell'Europa ha subito un rinvio sine die, stanti le difficoltà sempre crescenti di prolungare lo sfruttamento a tutti i livelli del vecchio continente da parte degli USA
Il conflitto mediorientale è stata l'occasione giusta per rilanciare una realtà internazionale il cui cardine resta il bipolarismo politico oltreché militare facente capo a Washington e a Mosca.
Una realtà che ha visto gli USA e l'URSS arbitri della guerra prima e della «pace» poi, e che ha umiliato l'Europa dei Nove e non, inchiodandola alla sua impotenza politica tale situazione ha già fatto sentire il suo peso nei rapporti USA-Europa.
Ciò posto diventa una domanda oziosa porsi il problema di chi tra arabi e israeliani abbia riacceso le ostilità. È però da notare che negli ultimi tempi nella sola Africa, ben 19 paesi hanno chiuso le proprie ambasciate a Tel Aviv. Per cui Israele ha avuto senz'altro interesse a rompere il ghiaccio in una situazione che rischiava di divenire pesante.
E qui occorre parlare degli arabi e in particolar modo dell'Egitto. Sadat come è ormai noto è un moderato convinto, la sua incapacità di concepire la lotta in termini di civiltà ha come immediata conseguenza il rifiuto della guerra rivoluzionaria. Già il 16 ottobre in piena guerra egli ribadiva all'Assemblea Nazionale egiziana gli obiettivi militari limitati dell'Egitto. Con il che era implicito un vero e proprio tradimento della causa araba. Non per niente Gheddafi, il cui atteggiamento non è comunque esente da critiche, attaccava violentemente i governi arabi coinvolti nel conflitto. In una intervista concessa al francese "Le Monde" dichiarava: «L'essenziale non è il recupero dei territori conquistati da Israele nel '67, ma liberare i palestinesi, tutti i palestinesi dal giogo sionista. Io non parteciperò a una guerra se non quando l'obiettivo sarà quello di ricacciare gli usurpatori, di rispedire a casa loro questi ebrei d'Europa che sono venuti dopo il '48 a colonizzare una terra araba. (...) La guerra riprenderà fra uno o dieci anni. I regimi arabi che avranno dato !a loro cauzione a un simile tradimento, saranno rovesciati».
Dal canto suo l'OLP riferendosi alla risoluzione di cessate il fuoco imposta da Russi ed Americani e definita dalla Cina «carta straccia» affermava: «l'OLP si dichiara non coinvolta dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza, e afferma la decisione di continuare la lotta armata e di massa per la liberazione della sua terra e il diritto del popolo palestinese all'autodeterminazione». Successivamente però I'OLP, confermando in pieno la sua involuzione moderata che trova espressione nel leader Arafat, è passata ad un atteggiamento più possibilista, invischiandosi così nella trama politica di Mosca e Washington.
Elemento interessante di questa guerra è stato il positivo comportamento dei combattenti arabi, di enorme importanza psicologica nel quadro di una futura unificazione, anche se gli elementi negativi restano svariati.
Significativo il raffronto tra la situazione odierna che ha visto l'incontro tra Israeliani ed Egiziani, e quella del '67 quando al vertice di Karthoum dopo la guerra dei sei giorni emerse il triplice rifiuto: nessun riconoscimento, nessun negoziato, nessun trattato di pace con Israele.
Oggi i governi arabi moderati appaiono proni a tutti i compromessi e a tutte le concessioni, imbavagliati come sono dall'alleanza con la Russia dalla quale in ultima analisi vengono ricattati.
Nella crisi mediorientale l'Unione Sovietica ha mantenuto il suo impegno nei confronti degli USA, prima tenendo il posto filo-arabo che altrimenti sarebbe andato alla Cina; poi rifiutandosi di estremizzare il conflitto (neppure quando gli israeliani avevano palesemente violato la tregua, come già fecero nel 48 conseguendo importanti obiettivi militari) quando sarebbe bastato l'invio di poche migliaia di uomini; infine accordandosi con gli USA per imporre agli arabi una soluzione di compromesso moderata.
Il fatto è che i tecnocrati al potere nell'URSS hanno da tempo rinunciato ad una linea aggressiva ed espansionista.
Secondo Breznev, «la distensione e la coesistenza sono le cose che più contano per noi».
È bene ricordare inoltre che gli scambi USA-URSS ammontavano a 118 milioni di dollari nel '70, divenuti poi 400 nel '72, e destinati a raggiungere i 3.000 nel 1980. Un traguardo mai raggiunto dagli Stati Uniti nel commercio con una singola nazione.
E c'è chi ancora parla di pericolo rosso per il cosiddetto mondo libero!

 


ARGENTINA: PERON VENT'ANNI DOPO

Le posizioni sostanzialmente moderate di Juan Domingo Peròn, che hanno portato il fronte giustizia lista allo spaccamento tra "vecchi peronisti" e "rivoluzionari", si sono evidenziate nei duri atteggiamenti presi nei confronti dei gruppi armati della guerriglia, di qualsiasi tendenza ideologica e politica.
Risulta chiaro, a nostro avviso, che il giustizialismo è incapace a prospettare delle tematiche autenticamente rivoluzionarie. Peròn, destituito intorno agli anni '50 ad opera di un'insurrezione militare determinata da Washington e caldeggiata dal Vaticano, si è ripresentato sulla scena a distanza di un ventennio, sostenuto dalle stesse centrali di potere che ne determinarono la caduta, e che oggi lo strumentalizzano per i loro fini.
Col peronismo giovane (FAR, FAL, Montoneros) egli ha sconfessato la sola forza politica che gli avrebbe consentito di sostenere una leadership rivoluzionaria e di contestazione agli USA nei confronti degli altri paesi sudamericani.
Impostando la campagna elettorale in chiave "terzaforzista" ha inoltre allontanato dal movimento gli elementi giudicati non ortodossi, in omaggio al credo giustizialista che, secondo lui, si pone come alternativa al marxismo e al capitalismo. Il preteso superamento delle due dottrine (che sarebbe, qualora effettivamente attuato, il solo presupposto valido per un'azione politica di autonomia dal colonialismo delle Superpotenze) è servito invece a celare la manovra di integrazione -mascherata come "unità sociale"- di tutte le frange politiche, dalla sinistra radicale alla destra conservatrice, già predisposte ad un orientamento moderato e ampiamente inserite nel sistema parlamentare.
D'altro canto il generale promettendo la pacificazione nazionale ha toccato una corda sensibile dell'animo argentino: ma aldilà dell'atteggiamento passionale il disegno integrazionista si è rivelato come una copertura per gli ambienti economici più avanzati, al fine di trovare lo spazio che gli avevano negato i militari, tramite l'apporto nuovo degli imprenditori piccoli e medi tra essi e gli operai.
Sul fronte della politica estera invece il governo di Buenos Aires va allacciando delle relazioni con gli altri paesi del subcontinente.
Il trattato sulla "fratellanza rioplatense" che dirime la secolare questione dei confini sulla zona del Rio de la Plata, contesa da Argentina e Uruguay, delinea tra l'altro la possibilità di una intesa tra le nazioni sudamericane allo scopo di esercitare un proprio ruolo, al di fuori delle ingerenze extracontinentali.
Tale rilancio della linea autonomista non ha però la carica degli anni '50, quando il presidente riusciva a dar vita ad una unione economica tra le repubbliche dell'America meridionale.
Dopo il monito yankee al Cile, e con l'ambigua situazione interna, Peròn non ha più la forza per sostenere quel ruolo. L'avvicinamento del Brasile e della Bolivia e gli accordi economici e territoriali col Paraguay e l'Uruguay porteranno forse più semplicemente ad un equilibrio di influenze, il cui effetto sarà di impedire ogni più ampia iniziativa unitaria, a tutto vantaggio di Washington.
Ciononostante questi fermenti potrebbero sfuggire al controllo. L'America latina resta una bomba innescata per gli USA, e la manovra moderata di oggi potrebbe essere, data la natura assai mutabile dei regimi che le soffocano, il preludio di un'azione unificatrice delle aspirazioni latinoamericane.