ANNO I - N° 2 -
Febbraio 1974
quindicinale iscritto al numero 15326 del registro stampa
presso il Tribunale di Roma il 2 gennaio 1974 - direttore
responsabile Romolo Giuliana - spedizione in abbonamento
postale gruppo II - pubblicità inferiore al 70% - stampato
in proprio - editrice SMIARCA srl - in caso di mancato
recapito restituire al mittente: via P. Villari 27 - 00184
Roma
dimensioni: cm.
11 X 17 * pagine n° 16 |
POLITICA INTERNA: LA CRISI
DI GOVERNO
L'equilibrio immobilista del regime ha subìto lo
scossone della crisi governativa. Pur essendo il terreno preparato dalla
girandola di scandali e di ricatti di questi ultimi tempi, il fatto è
esploso improvviso.
Non è, al momento in cui scriviamo, possibile stabilire con certezza le
cause che hanno determinato la caduta di Rumor. Tutto si è messo in moto
con le dimissioni di Ugo La Malfa, causate ufficialmente dal contrasto
in tema di politica economica col ministro socialista del Bilancio
Giolitti, e in particolare dalla questione relativa alla negoziazione
del prestito del Fondo Monetario Internazionale.
Ma che la sortita lamalfiana sia stata da sola l'artefice della crisi
non è credibile. Evidentemente essa è stata suscitata o comunque
sfruttata dai veri interessati.
Il risultato immediato infatti è stata la determinazione della data per
il referendum sul divorzio, fissata da Rumor, con mandato fanfaniano,
tramite un vero e proprio colpo di mano all'indomani della
"provvidenziale" lettera dell'ex ministro delle Finanze. Le vie
democristiane sono, se non infinite, numerose, e la politica italiana
fatta di mossettine e rimaneggiamenti per tradizione ormai trentennale,
non è certo aliena da simili espedienti.
In questo quadro è anche da considerare il rapporto del partito
cattolico coi comunisti.
Questi ultimi avevano tentato a più riprese di evitare il referendum
(giungendo ad offrire un progetto di legge che non dispiacesse troppo al
Vaticano, e quindi utile ad evitare lo scontro diretto), nel contesto di
decisa apertura alla DC della linea Berlinguer. Il suo "compromesso
storico" ha rappresentato il fallimento del tentativo di portare il PCI
su posizioni radicaleggianti, con la prospettiva del grande partito di
democrazia laica come superamento della faraonica gestione democristiana
del potere, da tempo sostenuto dal mondo della sinistra illuminata e non
comunista.
Il segretario DC però non si è mostrato sensibile alle profferte del
collega di via delle Botteghe Oscure. Insensibilità che si è accentuata
dopo la caduta del quarto gabinetto Rumor. Ma Fanfani sa che la
dittatura democristiana ha bisogno per il futuro di nuovi apporti. La
chiusura verso il PCI è, in tal senso, una pausa. Dopo la consultazione,
da posizioni di forza, il discorso potrà ricominciare.
UN MARTIRE PER LA DISTENSIONE
Le disgrazie del premio Nobel 1970 per la letteratura
Aleksandr Solgenitzin, espulso dalla Russia dopo il suo rifiuto di
presentarsi davanti al procuratore generale di Mosca, hanno fatto
fremere di sdegno tutti gli occidentalisti, sempre pronti a riempirsi la
bocca della parola "libertà", per riempire di piombo quanti non
obbediscono alla legge di Wall Street e di Fort Knox.
Il fatto è che nella attività dello scrittore sovietico i santoni del
radicalismo e della distensione (sulla pelle dell'Europa) trovano una
amplificazione delle loro tesi.
La cricca dei Solgenitzin e dei Sacharov infatti sostiene la necessità
di un incontro a mezza via (la cosiddetta teoria della "convergenza
finale") tra i due poli dell'antitesi collettivismo-individualismo, per
cui i tecnocrati di Russia e d'America si daranno la mano nella società
del futuro. Il fascino che tale prospettiva può avere esercitato sulle
teste d'uovo di Harvard e su quelle dei banchieri ebraici è facile
comprendere. Citiamo ad esempio Samuel Pisar, ninfa egeria di Kissinger
ed esperto per i rapporti est-ovest, che ha profetizzato l'avvento di
"aziende transideologiche" nelle quali la finanza liberista col suo
dinamismo sposerebbe l'efficienza e le risorse dei sovietici. Una teoria
assai analoga, pur se ristretta al campo economico, a quella di
Sacharov.
Del resto non è la prima volta che nel blocco orientale si manifestano
tentativi di adeguamento alla "american way of life". Basti pensare alla
cosiddetta primavera di Praga, illuminante al riguardo la posizione
dell'economista Ota-Sik, o alla Ostpolitik dell'Occidente verso i
tedeschi orientali.
Per quanto riguarda poi le malvagità sovietiche non va dimenticato che
gli USA e l'Occidente stesso ne sono i comprimari (hanno forse mosso un
dito in Cecoslovacchia, pur sapendo in anticipo dell'invasione russa?).
Quelli che strillano tanto per i "martiri" come Solgenitzin, hanno
bisogno di coprire il proprio stato di asservimento agli americani, che
da Hiroshima ad Hanoi non hanno certo usato i guanti di velluto.
In entrambi i sistemi della truculenza materiale (anche se ad ovest essa
è celata sotto la narcosi del consumismo e dello svirilimento
progressivo) va riscontrata la stessa assenza di libertà. La scelta come
protettore e padrone tra l'orso sovietico e il più subdolo ma non meno
feroce Zio Sam, la lasciamo agli ingenui.
Dietro il paravento della distensione e della libertà gli americani e i
russi si sono spartiti il mondo. Il "dissenso" dei martiri su misura
come Solgenitzin non è che il tentativo di ridurre ulteriormente le
distanze tra le due Superpotenze, le quali potranno così unificare la
loro politica colonialista. La statua della libertà newyorkese getta la
sua ombra verso Mosca, e raccoglie i suoi frutti.
VICINO ORIENTE: GLI ARABI DOPO LA FINTA
GUERRA
Dalla fine della "guerra del kippur" ad oggi, gli
sviluppi della situazione politica nel Vicino Oriente ci inducono a
trarre una valutazione purtroppo negativa.
La possibilità di una svolta in senso rivoluzionario, intravista negli
anni passati, è ormai un lontano ricordo. La costante che domina oggi il
mondo arabo è il moderatismo dei vari Faisal, Sadat e Hussein (e, per un
altro verso, dello stesso Arafat), come dimostra il riconoscimento di
fatto dello stato di Israele, attuato da alcuni governi arabi, per i
quali tale eventualità soltanto un anno addietro sarebbe stata
impensabile.
La cosiddetta "istituzionalizzazione della tregua", tradottasi in
pratica nell'accordo per il disimpegno e la riduzione delle forze sul
canale di Suez, firmato il 18 gennaio da egiziani e israeliani, si è
resa possibile grazie alle manovre moderate dopo la guerra d'ottobre.
Guerra che, come è ormai evidente, è stata una tragica farsa preparata a
tavolino durante gli incontri tra Nixon e Breznev della scorsa estate.
Nel Vicino Oriente le due Superpotenze si erano costantemente trovate
d'accordo nel mantenere surriscaldata la situazione al fine di
controllare gli enormi interessi relativi al petrolio ("Controcorrente",
anno I, n° 1), ma che russi e americani arrivassero al punto di giocare
la carta rischiosa del conflitto armato per assestare ulteriormente la
situazione è stato un espediente senza precedenti. Duplice il risultato
conseguito: da una parte la rivalutazione come elemento di guida in seno
al mondo arabo delle nazioni più moderate, dall'altra la probabile
riapertura del canale di Suez. Inoltre, con il paravento del "ricatto
arabo" responsabile della crisi energetica, che ha invece le sue cause
altrove, gli americani hanno potuto dare un nuovo colpo all'economia
europea e giapponese. Dal canto loro i sovietici hanno sicuramente
ottenuto una contropartita all'appoggio dato agli USA, probabilmente nel
sudest asiatico.
Le reazioni non sono mancate, tutte però ad un livello ben modesto.
Alcuni paesi arabi hanno fatto la voce grossa, solo per pretendere una
fetta della torta (impianti tecnologici e sviluppo industriale),
ottenendo tutt'al più il risultato di indispettire Nixon. Gli europei
invece hanno cercato affannosamente un accordo, subito bloccato dagli
USA, con i produttori di petrolio, nella vana speranza di scavalcare le
famigerate "sette sorelle".
Il paese arabo che più si è prestato al gioco è l'Egitto. Divenuto per
merito di Nasser il cuore della politica araba e il centro della lotta
al colonialismo israeliano, con l'avvento di Sadat l'Egitto è andato
subendo in modo seppur graduale una continua involuzione. L'ostracismo
di Sadat contro le sinistre facenti capo ad Ali Sabri, la cacciata dei
tecnici sovietici concordata tra russi ed americani, la repressione
poliziesca nei confronti degli studenti, il fallimento dell'unione
"scomoda" con la Libia, la ricerca di punti di incontro, e non di
scontro, con gli USA, ne sono esempi.
Il ruolo di Sadat si è rivelato in pieno durante il conflitto. Sua
preoccupazione costante è stata conseguire obbiettivi limitati, per
salvare le apparenze, bloccando contemporaneamente ogni possibilità di
allargamento della crisi, ciò che gli avrebbe invece consentito di
infrangere la trama yankee-sionista. In seguito con un colpo di coda
concordato con Kissinger, egli ha spianato la strada all'interno del
paese (vedi l'allontanamento del direttore di "Al Ahram", il
"nasseriano" Haikal) per un completo avvicinamento agli USA, comprovato
anche dal moltiplicarsi delle iniziative di cooperazione (controlli di
traffico aereo, commissione miste per il rispetto degli accordi,
collaborazione sanitaria, scambio di dati metereologici e agricoli) tra
egiziani e israeliani.
La questione vicinorientale è oggi come mai nelle mani di Mosca e di
Washington, mentre la possibilità che il mondo arabo riesca a rompere i
legami con i due partners è attualmente minima. Ma essa è ben lontano
dal potersi dire liquidata. L'impossibilità di risolvere pacificamente
il dramma del popolo palestinese, e le mire colonialiste dei sionisti
che, passato questo momento di assestamento internazionale riprenderanno
con maggiore intensità, senza contare la presenza del petrolio, rendono
la situazione aperta a tutti gli sviluppi.
CILE
Il golpe di fine estate attuato in Cile da un gruppo
di militari scatenò, anche in Italia, un putiferio. I destristi
nazionali, alfieri dell'Occidentalismo e degli USA, tripudiarono per il
nuovo regime mentre i patriottardi cugini d'oltreoceano facevano i
lanzichenecchi a favore dei generali: l'organizzazione anticomunista (ma
amica degli USA) "Patria y Libertad" si sciolse volontariamente per
«cooperare con l"esercito», mettendo cioè i suoi uomini a disposizione
delle Forze Armate, maldisposte a compromettersi più del necessario, per
operazioni poco pulite. Dall'altra parte i radicali col botto, gli
amanti della democrazia, i difensori della libertà (quella di essere
schiavi), fecero a gara nello strapparsi i capelli e piangere sull'eroe
caduto (non esclusi gli extraparlamentari), per nascondere il proprio
stato di servizio al soldo degli stessi padroni dei generali di
Santiago. Qual'è dunque, aldilà del battage pubblicitario delle voci del
regime, il significato degli avvenimenti cileni?
Il tentativo di sganciamento dagli USA di Allende, ha avuto il suo
limite nel riformismo e nel moderatismo, tipici dell'ideologia
socialista. La sua fine dimostra che il colonialismo americano può
essere sconfitto solo da una politica di autonomia basata su una volontà
rivoluzionaria senza mezze misure.
In una delle sue prime dichiarazioni quale nuovo presidente della
Repubblica, Salvador Allende proclamava che il suo governo si prefiggeva
due obiettivi fondamentali: cancellare per sempre il latifondo, al fine
di spezzare l'egemonia economica dei grossi proprietari terrieri;
nazionalizzare le risorse naturali, per stroncarne lo sfruttamento da
parte delle grandi imprese straniere, sostenute dal capitale USA. La
chiave moderata in cui tale disegno fu messo in atto portò Allende a
ricorrere ai militari. Era la prova del limite riformista dell'uomo: un
moderato che si illuse di vincere il capitalismo umanizzandolo. La sua
fine dimostra che il colonialismo americano può essere sconfitto solo da
una politica di autonomia basata su una volontà rivoluzionaria senza
mezze misure.
La soluzione militarista, intermedia e provvisoria nei suoi intenti, è
stata dunque per Allende un'autocondanna.
Nel dicembre '72 l'opposizione -"Partito nazionale" e "Democrazia
cristiana"- sferrò un duro attacco al governo di "Unidad Popular" con lo
scopo di creare il caos economico e far cadere il governo. Il tentativo
era però sostenuto anche dalla ITT [International Telephon & Telegraph)
che già aveva tentato un complotto nel marzo '72, da compagnie USA quali
la Anaconda Copper, la Cerro Mining, la Kennecott, e da due gruppi
bancari statunitensi che operano nell'America Latina.
Non era che lo sbocco del boicottaggio economico e finanziario operato
dagli Stati Uniti attraverso la Banca Mondiale, il Fondo Monetario
Internazionale, le Agenzie di Credito e di Sviluppo e consimili istituti
di rapina internazionale.
Da qui il ricatto di Washington per il debito di indennizzo alle
suddette compagnie, il blocco della ricerca tecnologica mediante
allettanti impieghi all'estero (senza alternativa) offerti ai quadri
cileni, e soprattutto la paralisi dell'esportazione del rame (80% della
esportazione totale cilena!), dimezzato nel prezzo dopo le misure
protezionistiche annunciate da Nixon la notte del ferragosto '71.
Ne derivò il crollo dell'economia cilena, anche per il blocco delle
comunicazioni (vitali in un paese lungo 4.192 km. e pressochè privo di
strade ferrate) operato dall'opposizione di destra. D'altra parte le
occupazioni delle fabbriche e delle terre (tomas) attuate da elementi
del MIR (Movimento della Sinistra Rivoluzionaria) hanno finito col fare
il gioco della destra. Infatti i contadini delle tomas, privi di una
coscienza rivoluzionaria, inseguivano solo un sogno borghese aspirando a
divenire piccoli proprietari. Fallito il sogno la produzione calò di
colpo: tutto ciò riprova la mancanza in qualunque strategia classista di
una vera forza rivoluzionaria.
Il Partito Comunista ortodosso, del resto, si è limitato a svolgere
un'azione moderatrice, senza prendere alcuna iniziativa. È palese in
tale atteggiamento la volontà di non dispiacere a Mosca, evitando
contemporaneamente di perdere la faccia di fronte alle masse. Così
Carlos Altamirano, leader del partito socialista (che aveva scavalcato a
sinistra il PC), in un appello lanciato da Radio Avana tre mesi dopo il
golpe ha condannato i gruppi della guerriglia, limitandosi ad invocare
l'unità delle sinistre. L'11 settembre i militari compivano il colpo di
Stato. Evidente dietro di essi la longa manus della CIA.
Che la Central Intelligence Agency sia tradizionalmente implicata in
tutti i sommovimenti politici, e in quelli dell'America Latina in
particolare, è un fatto scontato. Non a caso Henry Kissinger, allora
"consigliori" di Nixon, nel settembre 1970 ebbe a dire che una vittoria
di Allende alle elezioni avrebbe significato un grave pericolo «per noi,
per le forze democratiche e per le forze filo-statunitensi dell'America
Latina». Lo stesso Juan Peròn (che di CIA se ne intende!) ha affermato
circa l'ipotesi di un intervento diretto dell'organizzazione: «Non posso
dimostrarlo, ma lo credo fermamente, perché conosco tutti i retroscena.
Non credo che possa essere andata in alcun altro modo». Sembra inoltre
che due esponenti del MIR, Miquel Enriquez e Oscar Villalobos, già prima
della morte di Allende avessero denunciato la partecipazione di
ufficiali americani alla preparazione di un colpo di Stato.
Se la destra ha manifestato subito la propria simpatia alle marionette
del Dipartimento di Stato, la DC cilena non è stata da meno. Istigata
contro Allende dai partiti omologhi europei, dagli USA e dal Vaticano
(di recente Eduardo Frei, ex-presidente cileno, si era consultato con
Papapaolo), ha prima appoggiato i militari, sostenendo
contemporaneamente per bocca del presidente Patricio Ailwyn di essere
«su posizioni di sinistra avanzata e di battersi per le riforme»,
giustificando poi il putsch come difesa da un presunto complotto dello
stesso Allende, ed infine ritirandosi in una posizione di prudente
attesa. Evidentemente l'arte dei gesuiti è ben viva nei democristi di
qualunque paese.
Il capo della Giunta Militare cilena Augusto Pinochet ha motivato il
golpe dichiarando di voler ripristinare la pace nel paese ed arrestare
il pauroso tasso inflazionistico dell'escudo (294%). Il generale
(progressista a modo suo ed a suo tempo estimatore di Robert McNamara)
vuole dunque, a parte la «pace nazionale» ottenuta col pugno di ferro,
la ripresa economica e conta molto sui nuovi rapporti con gli USA.
Dopo aver sdraiato l'economia cilena gli americani possono così
riprendersi quello che le nazionalizzazioni avevano loro tolto, con
tutti gli interessi. E forse riusciranno anche a farci la figura
dell'amico generoso, dimentico dei torti subiti.
FINE DELL'EUROPA?
Il 1973 era stato definito «l'anno dell'Europa». Alla
luce degli avvenimenti del trascorso anno e della recente conferenza di
Washington ci sembra sia stato l'anno della fine delle speranze (ammesso
che esistessero) di autonomia dell'Europa.
Nè poteva essere altrimenti, dato lo stato di sottomissione economica
politica e militare nei riguardi degli USA in cui versa il vecchio
continente. Non si è mai profilata, in seno alla CEE, una chiara linea
politica, tale da giustificare l'unione e l'autonomia delle nazioni
europee, e non certo per motivi di contingenza o per le difficoltà di
pervenire ad un accordo, ma per la assenza di una volontà capace di
rifiutare le direttive americane.
L'ultima prova di tale assenza è stata l'improvvisa inversione di rotta
dei "nove", rispetto alle decisioni prese, il 5 febbraio scorso a
Bruxelles, dai ministri degli esteri della CEE, contro il tentativo
americano di assicurarsi la leadership economica mondiale tramite
l'imposizione di una "tutela" in campo energetico all'Europa e al
Giappone.
Giunti davanti a Kissinger, essi non hanno invece esitato ad accettare
la tesi americana, che prevede un gruppo coordinatore, con la
partecipazione USA, per i rapporti tra paesi consumatori e paesi
produttori di energia. In pratica niente accordi bilaterali e diretti
con gli arabi.
Soltanto il capo del "Quai d'Orsay", Michel Jobert ha storto il naso al
monito di Nixon e alle tesi kissingeriane del "globalismo". Poche
minacce però sono bastate a far chinare la testa, e a spezzare
l'illusione che la Francia di Pompidou improvvisamente avesse scoperto
una vocazione europeista. Evidentemente tutto rientra nell'ottica della
"grandeur", atteggiamento costante della mentalità francese, attualmente
congiunto con la logica del capitalismo, con le sue contraddizioni ed i
suoi scontri d'interesse.
|