Italia - Repubblica - Socializzazione

Controcorrente

ANNO I - N° 2 - Febbraio 1974

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dimensioni: cm. 11 X 17  * pagine n° 16

 

 

POLITICA INTERNA: LA CRISI DI GOVERNO

L'equilibrio immobilista del regime ha subìto lo scossone della crisi governativa. Pur essendo il terreno preparato dalla girandola di scandali e di ricatti di questi ultimi tempi, il fatto è esploso improvviso.
Non è, al momento in cui scriviamo, possibile stabilire con certezza le cause che hanno determinato la caduta di Rumor. Tutto si è messo in moto con le dimissioni di Ugo La Malfa, causate ufficialmente dal contrasto in tema di politica economica col ministro socialista del Bilancio Giolitti, e in particolare dalla questione relativa alla negoziazione del prestito del Fondo Monetario Internazionale.
Ma che la sortita lamalfiana sia stata da sola l'artefice della crisi non è credibile. Evidentemente essa è stata suscitata o comunque sfruttata dai veri interessati.
Il risultato immediato infatti è stata la determinazione della data per il referendum sul divorzio, fissata da Rumor, con mandato fanfaniano, tramite un vero e proprio colpo di mano all'indomani della "provvidenziale" lettera dell'ex ministro delle Finanze. Le vie democristiane sono, se non infinite, numerose, e la politica italiana fatta di mossettine e rimaneggiamenti per tradizione ormai trentennale, non è certo aliena da simili espedienti.
In questo quadro è anche da considerare il rapporto del partito cattolico coi comunisti.
Questi ultimi avevano tentato a più riprese di evitare il referendum (giungendo ad offrire un progetto di legge che non dispiacesse troppo al Vaticano, e quindi utile ad evitare lo scontro diretto), nel contesto di decisa apertura alla DC della linea Berlinguer. Il suo "compromesso storico" ha rappresentato il fallimento del tentativo di portare il PCI su posizioni radicaleggianti, con la prospettiva del grande partito di democrazia laica come superamento della faraonica gestione democristiana del potere, da tempo sostenuto dal mondo della sinistra illuminata e non comunista.
Il segretario DC però non si è mostrato sensibile alle profferte del collega di via delle Botteghe Oscure. Insensibilità che si è accentuata dopo la caduta del quarto gabinetto Rumor. Ma Fanfani sa che la dittatura democristiana ha bisogno per il futuro di nuovi apporti. La chiusura verso il PCI è, in tal senso, una pausa. Dopo la consultazione, da posizioni di forza, il discorso potrà ricominciare.


UN MARTIRE PER LA DISTENSIONE

Le disgrazie del premio Nobel 1970 per la letteratura Aleksandr Solgenitzin, espulso dalla Russia dopo il suo rifiuto di presentarsi davanti al procuratore generale di Mosca, hanno fatto fremere di sdegno tutti gli occidentalisti, sempre pronti a riempirsi la bocca della parola "libertà", per riempire di piombo quanti non obbediscono alla legge di Wall Street e di Fort Knox.
Il fatto è che nella attività dello scrittore sovietico i santoni del radicalismo e della distensione (sulla pelle dell'Europa) trovano una amplificazione delle loro tesi.
La cricca dei Solgenitzin e dei Sacharov infatti sostiene la necessità di un incontro a mezza via (la cosiddetta teoria della "convergenza finale") tra i due poli dell'antitesi collettivismo-individualismo, per cui i tecnocrati di Russia e d'America si daranno la mano nella società del futuro. Il fascino che tale prospettiva può avere esercitato sulle teste d'uovo di Harvard e su quelle dei banchieri ebraici è facile comprendere. Citiamo ad esempio Samuel Pisar, ninfa egeria di Kissinger ed esperto per i rapporti est-ovest, che ha profetizzato l'avvento di "aziende transideologiche" nelle quali la finanza liberista col suo dinamismo sposerebbe l'efficienza e le risorse dei sovietici. Una teoria assai analoga, pur se ristretta al campo economico, a quella di Sacharov.
Del resto non è la prima volta che nel blocco orientale si manifestano tentativi di adeguamento alla "american way of life". Basti pensare alla cosiddetta primavera di Praga, illuminante al riguardo la posizione dell'economista Ota-Sik, o alla Ostpolitik dell'Occidente verso i tedeschi orientali.
Per quanto riguarda poi le malvagità sovietiche non va dimenticato che gli USA e l'Occidente stesso ne sono i comprimari (hanno forse mosso un dito in Cecoslovacchia, pur sapendo in anticipo dell'invasione russa?). Quelli che strillano tanto per i "martiri" come Solgenitzin, hanno bisogno di coprire il proprio stato di asservimento agli americani, che da Hiroshima ad Hanoi non hanno certo usato i guanti di velluto.
In entrambi i sistemi della truculenza materiale (anche se ad ovest essa è celata sotto la narcosi del consumismo e dello svirilimento progressivo) va riscontrata la stessa assenza di libertà. La scelta come protettore e padrone tra l'orso sovietico e il più subdolo ma non meno feroce Zio Sam, la lasciamo agli ingenui.

 


Dietro il paravento della distensione e della libertà gli americani e i russi si sono spartiti il mondo. Il "dissenso" dei martiri su misura come Solgenitzin non è che il tentativo di ridurre ulteriormente le distanze tra le due Superpotenze, le quali potranno così unificare la loro politica colonialista. La statua della libertà newyorkese getta la sua ombra verso Mosca, e raccoglie i suoi frutti.


VICINO ORIENTE: GLI ARABI DOPO LA FINTA GUERRA

Dalla fine della "guerra del kippur" ad oggi, gli sviluppi della situazione politica nel Vicino Oriente ci inducono a trarre una valutazione purtroppo negativa.
La possibilità di una svolta in senso rivoluzionario, intravista negli anni passati, è ormai un lontano ricordo. La costante che domina oggi il mondo arabo è il moderatismo dei vari Faisal, Sadat e Hussein (e, per un altro verso, dello stesso Arafat), come dimostra il riconoscimento di fatto dello stato di Israele, attuato da alcuni governi arabi, per i quali tale eventualità soltanto un anno addietro sarebbe stata impensabile.
La cosiddetta "istituzionalizzazione della tregua", tradottasi in pratica nell'accordo per il disimpegno e la riduzione delle forze sul canale di Suez, firmato il 18 gennaio da egiziani e israeliani, si è resa possibile grazie alle manovre moderate dopo la guerra d'ottobre. Guerra che, come è ormai evidente, è stata una tragica farsa preparata a tavolino durante gli incontri tra Nixon e Breznev della scorsa estate.
Nel Vicino Oriente le due Superpotenze si erano costantemente trovate d'accordo nel mantenere surriscaldata la situazione al fine di controllare gli enormi interessi relativi al petrolio ("Controcorrente", anno I, n° 1), ma che russi e americani arrivassero al punto di giocare la carta rischiosa del conflitto armato per assestare ulteriormente la situazione è stato un espediente senza precedenti. Duplice il risultato conseguito: da una parte la rivalutazione come elemento di guida in seno al mondo arabo delle nazioni più moderate, dall'altra la probabile riapertura del canale di Suez. Inoltre, con il paravento del "ricatto arabo" responsabile della crisi energetica, che ha invece le sue cause altrove, gli americani hanno potuto dare un nuovo colpo all'economia europea e giapponese. Dal canto loro i sovietici hanno sicuramente ottenuto una contropartita all'appoggio dato agli USA, probabilmente nel sudest asiatico.
Le reazioni non sono mancate, tutte però ad un livello ben modesto. Alcuni paesi arabi hanno fatto la voce grossa, solo per pretendere una fetta della torta (impianti tecnologici e sviluppo industriale), ottenendo tutt'al più il risultato di indispettire Nixon. Gli europei invece hanno cercato affannosamente un accordo, subito bloccato dagli USA, con i produttori di petrolio, nella vana speranza di scavalcare le famigerate "sette sorelle".
Il paese arabo che più si è prestato al gioco è l'Egitto. Divenuto per merito di Nasser il cuore della politica araba e il centro della lotta al colonialismo israeliano, con l'avvento di Sadat l'Egitto è andato subendo in modo seppur graduale una continua involuzione. L'ostracismo di Sadat contro le sinistre facenti capo ad Ali Sabri, la cacciata dei tecnici sovietici concordata tra russi ed americani, la repressione poliziesca nei confronti degli studenti, il fallimento dell'unione "scomoda" con la Libia, la ricerca di punti di incontro, e non di scontro, con gli USA, ne sono esempi.
Il ruolo di Sadat si è rivelato in pieno durante il conflitto. Sua preoccupazione costante è stata conseguire obbiettivi limitati, per salvare le apparenze, bloccando contemporaneamente ogni possibilità di allargamento della crisi, ciò che gli avrebbe invece consentito di infrangere la trama yankee-sionista. In seguito con un colpo di coda concordato con Kissinger, egli ha spianato la strada all'interno del paese (vedi l'allontanamento del direttore di "Al Ahram", il "nasseriano" Haikal) per un completo avvicinamento agli USA, comprovato anche dal moltiplicarsi delle iniziative di cooperazione (controlli di traffico aereo, commissione miste per il rispetto degli accordi, collaborazione sanitaria, scambio di dati metereologici e agricoli) tra egiziani e israeliani.
La questione vicinorientale è oggi come mai nelle mani di Mosca e di Washington, mentre la possibilità che il mondo arabo riesca a rompere i legami con i due partners è attualmente minima. Ma essa è ben lontano dal potersi dire liquidata. L'impossibilità di risolvere pacificamente il dramma del popolo palestinese, e le mire colonialiste dei sionisti che, passato questo momento di assestamento internazionale riprenderanno con maggiore intensità, senza contare la presenza del petrolio, rendono la situazione aperta a tutti gli sviluppi.
 


CILE

Il golpe di fine estate attuato in Cile da un gruppo di militari scatenò, anche in Italia, un putiferio. I destristi nazionali, alfieri dell'Occidentalismo e degli USA, tripudiarono per il nuovo regime mentre i patriottardi cugini d'oltreoceano facevano i lanzichenecchi a favore dei generali: l'organizzazione anticomunista (ma amica degli USA) "Patria y Libertad" si sciolse volontariamente per «cooperare con l"esercito», mettendo cioè i suoi uomini a disposizione delle Forze Armate, maldisposte a compromettersi più del necessario, per operazioni poco pulite. Dall'altra parte i radicali col botto, gli amanti della democrazia, i difensori della libertà (quella di essere schiavi), fecero a gara nello strapparsi i capelli e piangere sull'eroe caduto (non esclusi gli extraparlamentari), per nascondere il proprio stato di servizio al soldo degli stessi padroni dei generali di Santiago. Qual'è dunque, aldilà del battage pubblicitario delle voci del regime, il significato degli avvenimenti cileni?
Il tentativo di sganciamento dagli USA di Allende, ha avuto il suo limite nel riformismo e nel moderatismo, tipici dell'ideologia socialista. La sua fine dimostra che il colonialismo americano può essere sconfitto solo da una politica di autonomia basata su una volontà rivoluzionaria senza mezze misure.
In una delle sue prime dichiarazioni quale nuovo presidente della Repubblica, Salvador Allende proclamava che il suo governo si prefiggeva due obiettivi fondamentali: cancellare per sempre il latifondo, al fine di spezzare l'egemonia economica dei grossi proprietari terrieri; nazionalizzare le risorse naturali, per stroncarne lo sfruttamento da parte delle grandi imprese straniere, sostenute dal capitale USA. La chiave moderata in cui tale disegno fu messo in atto portò Allende a ricorrere ai militari. Era la prova del limite riformista dell'uomo: un moderato che si illuse di vincere il capitalismo umanizzandolo. La sua fine dimostra che il colonialismo americano può essere sconfitto solo da una politica di autonomia basata su una volontà rivoluzionaria senza mezze misure.
La soluzione militarista, intermedia e provvisoria nei suoi intenti, è stata dunque per Allende un'autocondanna.
Nel dicembre '72 l'opposizione -"Partito nazionale" e "Democrazia cristiana"- sferrò un duro attacco al governo di "Unidad Popular" con lo scopo di creare il caos economico e far cadere il governo. Il tentativo era però sostenuto anche dalla ITT [International Telephon & Telegraph) che già aveva tentato un complotto nel marzo '72, da compagnie USA quali la Anaconda Copper, la Cerro Mining, la Kennecott, e da due gruppi bancari statunitensi che operano nell'America Latina.
Non era che lo sbocco del boicottaggio economico e finanziario operato dagli Stati Uniti attraverso la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, le Agenzie di Credito e di Sviluppo e consimili istituti di rapina internazionale.
Da qui il ricatto di Washington per il debito di indennizzo alle suddette compagnie, il blocco della ricerca tecnologica mediante allettanti impieghi all'estero (senza alternativa) offerti ai quadri cileni, e soprattutto la paralisi dell'esportazione del rame (80% della esportazione totale cilena!), dimezzato nel prezzo dopo le misure protezionistiche annunciate da Nixon la notte del ferragosto '71.
Ne derivò il crollo dell'economia cilena, anche per il blocco delle comunicazioni (vitali in un paese lungo 4.192 km. e pressochè privo di strade ferrate) operato dall'opposizione di destra. D'altra parte le occupazioni delle fabbriche e delle terre (tomas) attuate da elementi del MIR (Movimento della Sinistra Rivoluzionaria) hanno finito col fare il gioco della destra. Infatti i contadini delle tomas, privi di una coscienza rivoluzionaria, inseguivano solo un sogno borghese aspirando a divenire piccoli proprietari. Fallito il sogno la produzione calò di colpo: tutto ciò riprova la mancanza in qualunque strategia classista di una vera forza rivoluzionaria.
Il Partito Comunista ortodosso, del resto, si è limitato a svolgere un'azione moderatrice, senza prendere alcuna iniziativa. È palese in tale atteggiamento la volontà di non dispiacere a Mosca, evitando contemporaneamente di perdere la faccia di fronte alle masse. Così Carlos Altamirano, leader del partito socialista (che aveva scavalcato a sinistra il PC), in un appello lanciato da Radio Avana tre mesi dopo il golpe ha condannato i gruppi della guerriglia, limitandosi ad invocare l'unità delle sinistre. L'11 settembre i militari compivano il colpo di Stato. Evidente dietro di essi la longa manus della CIA.
Che la Central Intelligence Agency sia tradizionalmente implicata in tutti i sommovimenti politici, e in quelli dell'America Latina in particolare, è un fatto scontato. Non a caso Henry Kissinger, allora "consigliori" di Nixon, nel settembre 1970 ebbe a dire che una vittoria di Allende alle elezioni avrebbe significato un grave pericolo «per noi, per le forze democratiche e per le forze filo-statunitensi dell'America Latina». Lo stesso Juan Peròn (che di CIA se ne intende!) ha affermato circa l'ipotesi di un intervento diretto dell'organizzazione: «Non posso dimostrarlo, ma lo credo fermamente, perché conosco tutti i retroscena. Non credo che possa essere andata in alcun altro modo». Sembra inoltre che due esponenti del MIR, Miquel Enriquez e Oscar Villalobos, già prima della morte di Allende avessero denunciato la partecipazione di ufficiali americani alla preparazione di un colpo di Stato.
Se la destra ha manifestato subito la propria simpatia alle marionette del Dipartimento di Stato, la DC cilena non è stata da meno. Istigata contro Allende dai partiti omologhi europei, dagli USA e dal Vaticano (di recente Eduardo Frei, ex-presidente cileno, si era consultato con Papapaolo), ha prima appoggiato i militari, sostenendo contemporaneamente per bocca del presidente Patricio Ailwyn di essere «su posizioni di sinistra avanzata e di battersi per le riforme», giustificando poi il putsch come difesa da un presunto complotto dello stesso Allende, ed infine ritirandosi in una posizione di prudente attesa. Evidentemente l'arte dei gesuiti è ben viva nei democristi di qualunque paese.
Il capo della Giunta Militare cilena Augusto Pinochet ha motivato il golpe dichiarando di voler ripristinare la pace nel paese ed arrestare il pauroso tasso inflazionistico dell'escudo (294%). Il generale (progressista a modo suo ed a suo tempo estimatore di Robert McNamara) vuole dunque, a parte la «pace nazionale» ottenuta col pugno di ferro, la ripresa economica e conta molto sui nuovi rapporti con gli USA.
Dopo aver sdraiato l'economia cilena gli americani possono così riprendersi quello che le nazionalizzazioni avevano loro tolto, con tutti gli interessi. E forse riusciranno anche a farci la figura dell'amico generoso, dimentico dei torti subiti.


FINE DELL'EUROPA?

Il 1973 era stato definito «l'anno dell'Europa». Alla luce degli avvenimenti del trascorso anno e della recente conferenza di Washington ci sembra sia stato l'anno della fine delle speranze (ammesso che esistessero) di autonomia dell'Europa.
Nè poteva essere altrimenti, dato lo stato di sottomissione economica politica e militare nei riguardi degli USA in cui versa il vecchio continente. Non si è mai profilata, in seno alla CEE, una chiara linea politica, tale da giustificare l'unione e l'autonomia delle nazioni europee, e non certo per motivi di contingenza o per le difficoltà di pervenire ad un accordo, ma per la assenza di una volontà capace di rifiutare le direttive americane.
L'ultima prova di tale assenza è stata l'improvvisa inversione di rotta dei "nove", rispetto alle decisioni prese, il 5 febbraio scorso a Bruxelles, dai ministri degli esteri della CEE, contro il tentativo americano di assicurarsi la leadership economica mondiale tramite l'imposizione di una "tutela" in campo energetico all'Europa e al Giappone.
Giunti davanti a Kissinger, essi non hanno invece esitato ad accettare la tesi americana, che prevede un gruppo coordinatore, con la partecipazione USA, per i rapporti tra paesi consumatori e paesi produttori di energia. In pratica niente accordi bilaterali e diretti con gli arabi.
Soltanto il capo del "Quai d'Orsay", Michel Jobert ha storto il naso al monito di Nixon e alle tesi kissingeriane del "globalismo". Poche minacce però sono bastate a far chinare la testa, e a spezzare l'illusione che la Francia di Pompidou improvvisamente avesse scoperto una vocazione europeista. Evidentemente tutto rientra nell'ottica della "grandeur", atteggiamento costante della mentalità francese, attualmente congiunto con la logica del capitalismo, con le sue contraddizioni ed i suoi scontri d'interesse.