Italia - Repubblica - Socializzazione

Controcorrente

ANNO II * n. 1/2 * Gennaio/Febbraio 1975

 

quindicinale iscritto al numero 15326 del registro stampa presso il Tribunale di Roma il 2 gennaio 1974 - direttore responsabile Romolo Giuliana - spedizione in abbonamento postale gruppo II - pubblicità inferiore al 70% - stampato in proprio - editrice SMIARCA srl - in caso di mancato recapito restituire al mittente: via P. Villari 27 - 00184 Roma

dimensioni: cm. 16,5 X 22 * pagine n° 12

 

 

INTERNI

UN SEGRETARIO PERVICACE

Dopo la liquidazione della crisi e la formazione del governo Moro la Democrazia Cristiana ha celebrato agli inizi di febbraio un Consiglio Nazionale impostato e diretto da Amintore Fanfani che nel corso dell'assise ha giostrato per accendere gli entusiasmi e spegnere i bollori dei notabili cattolici, dai dorotei alla sinistra interna.
I primi (la «palude» della DC) non vanno oltre al problema del mantenimento del potere e della gestione pura e semplice di esso, accompagnandolo alla staticità culturale e alla inanità politica più totali, privi di circolazione di idee e di formulazioni originali. Sul terreno del moderatismo essi hanno sostanziato del proprio immobilismo anche le altre forze del centrosinistra. I secondi (Donat Cattin e Base) alla stagnazione dorotea contrappongono un estremismo verbale, comunque privo di una sua strategia e che non arriva mai a qualificarsi su posizioni di rottura.
Un equilibrio di impossibilità politiche che Fanfani ha manovrato a suo piacimento fin dall'epoca del congresso di Napoli. Dopo essere stato il teorizzatore e l'effimero gestore del primo centro-sinistra il nostro andò progressivamente allontanandosi dalla mischia diretta, assurgendo invece al ruolo di eminenza grigia e di oracolo in seno alla DC. Senza rendere palese e senza far pesare troppo la sua autorità egli potè imporre una leadership politica, rifiutata a parole ma accettata nei fatti da tutto il carrozzone cattolico. Parallelamente, su un piano culturale, le teorie fanfaniane segnarono profondamente le concezioni dossettiane in materia di riforme sociali ed economiche, che sono tuttora la base culturale della sinistra, e non solo di essa, nella DC.
In questo modo la continua erosione delle formule di governo non ha travolto l'uomo di Arezzo che, esauritasi la segreteria Forlani, tornava in prima persona all'attacco come segretario del partito, avendo pesantemente fallito la scalata alla presidenza. Dopo la parentesi centrista di Andreotti, la ripresa del centro-sinistra era ormai un aborto vivente. La già ambigua impostazione che sosteneva la strategia politica del vecchio centro-sinistra kennedyano era venuta progressivamente a mancare del tutto, lasciando il posto all'empirismo, ed esponendo la DC al logoramento delle alleanze e alla instabilità politica, prodotti dalla critica radicale. Contando su una affermazione di prestigio in sede elettorale Fanfani si irrigidì sulla questione del divorzio, rifiutando lo svincolamento offerto dal PCI con un progetto di legge a mezza via tra «si» e «no». Di qui la seconda sconfitta fanfaniana, quella per il referendum, che doveva essere invece lo strumento per ridimensionare i socialisti, catturandoli nuovamente alla logica di potere che, in nome dei vantaggi concreti, aveva già portato il PSI ad abbandonare le proprie ambizioni riformistiche. La strada del compromesso con Berlinguer, che taglierebbe fuori la sinistra radicale, PSI in testa, evidentemente non è perseguibile senza rischiare anche un irrigidimento della destra anticomunista, e soprattutto non rientra nei canoni distensivi. Oggi Fanfani critica la «enterite» con i comunisti, anche a livello di amministrazione locale, e continua a contrastare i tentativi di Berlinguer, sempre più moderati. Rischia però di ingrossare il fronte radicale, il quale tramite l'eterno Amendola e il flirt PCI-industriali, continua le pressioni sui comunisti con la prospettiva del grande partito di democrazia laica.

Vaticano e americani
Per togliere spazio alla opposizione interna e salvare almeno nominalmente l'unità del partito Fanfani ha rigettato l'ipotesi di rapporti preferenziali sia con il PSI sia con il PCI. Questo tentativo di difendere il ruolo egemone della DC rispetto alle altre forze del regime ha il suo ostacolo maggiore nella crescente influenza della sinistra radicale, influenza che si esplica ancora a livello di costume e di penetrazione ideologica e limitatamente alle grandi città, ma che potrebbe alla lunga raggiungere i centri cruciali dei potere politico ed economico. Si tratta di un braccio di ferro di riflesso a quello tra Vaticano ed USA, o almeno tra Vaticano ed alcune frange dell'establishment americano, e poiché entrambi gli antagonisti agiscono in funzione contraria agli interessi del popolo italiano il prevalere dell'uno o dell'altro non implica un miglioramento della situazione politica, in Italia.

Moderati e radical-progressisti
Dopo aver bloccato l'intesa tra cattolici e comunisti, gli ambienti radical-progressisti d'oltreoceano, nerbo del partito democratico, potrebbero sostenere in Italia un mutamento al vertice, simile a quelli che hanno scosso la Francia e la Germania, mutamento che porterebbe se non alla fine dell'egemonia cattolica, certamente al tramonto della vecchia classe politica che fin qui la ha gestita, e cioè degli uomini della restaurazione antifascista di 30 anni fa. Contro questa ipotesi sta però la dimostrata capacità di resistenza dei moderati le clientele dei quali sono ancora, tutto sommato, ben radicate, e la riaffermazione in alcuni paesi dell'area mediterranea (vedi la Grecia) dell'egemonia moderata sulla sinistra radicale.

Il "bluff" fanfaniano
Funzionerà ancora una volta la tattica, ormai usuale per la DC, di superare gli ostacoli politici stemperando le posizioni cioè nel nostro caso portando i radicali su scelte moderate? È un fatto che Amintore Fanfani abbia bluffato nell'indicare le scadenze della auspicata (da lui) ripresa democristiana: l'azione parlamentare e le elezioni di giugno; la prima si è arenata poco elegantemente sull'affare della RAI, le seconde dovrebbero sancire un calo elettorale della DC, a meno di una ripresa in grande stile della violenza di regime. Quante bombe ci separano da giugno?


SCUOLA

LA MANOVRA ELETTORALE
Da vari anni è in atto in Italia uno scontro politico basato né su un'idea né su un programma, ma sulla lotta per la gestione del potere. Il problema della scuola è stato affrontato solo in questo contesto, come risposta moderata ai colpi di coda con i quali le forze radicali cercano l'inserimento nel meccanismo di controllo delle strutture del regime (esercito, magistratura, informazione, industria di Stato, ecc.). La scuola è una di queste strutture. Serve per condizionare la formazione dei giovani nel senso voluto, tramite la falsificazione storica, il livellamento culturale e le tecniche di imbonimento dei cervelli teorizzate dai santoni della psicologia e delle scienze sociali. Il controllo della scuola è, dunque, uno strumento di potere. I decreti di Malfatti, vellicando e snaturando l'esigenza di partecipazione e di rinnovamento dei giovani, approdano proprio alla sterilizzazione delle istanze di svecchiamento, canalizzandole sui binari di un parlamentarismo impotente, lo stesso che quasi dieci anni fa la ventata contestativa sembrava aver spazzato per sempre.
Da qui la vacuità di significato di fronte alla crisi della scuola degli organismi previsti dalla riforma. Elevare la scuola a strumento di formazione e di ricerca non è possibile, per mancanza di mezzi e per carenza di volontà politica, sottoposti al «gap» tecnologico, e ridotti come siamo al ruolo di consumatori materiali e culturali dei prodotti d'oltreatlantico. Creare i mezzi e la volontà politica non rientra negli scopi del regime, la cui ideologia presuppone la perpetuazione della inferiorità culturale e scientifica degli italiani, rispetto ai protettori americani.

Finalità elettoralistica
Dunque, tutto finirà in un mare di chiacchiere? Non proprio. La DC, firmataria dei decreti delegati, si è mossa da tempo e in maniera massiccia, mobilitando le parrocchie, i sindacati autonomi, e la CISL-scuola (vedi le manovre scissionistiche al suo interno). Il voto nella scuola rappresenta per il partito cattolico un sondaggio sulla propria penetrazione nell'ambito giovanile, in vista del ruolo che potranno avere nelle prossime elezioni i diciottenni neovotanti per volontà fanfaniana. Sulla finalità elettoralistica, con le manovre da sottoscala di prammatica, si è prontamente adeguato il fermento di tutti i partiti che hanno messo da parte qualsiasi scadenza pur di inserirsi nel gioco. Così il PCI, che ha preferito, ancora una volta, allo scontro la contrattazione e il patteggiamento in seno agli organi di gestione. Così i socialisti, che hanno presentato liste pur dichiarandosi ufficialmente astensionisti, catturando anche le frange extraparlamentari più sensibili all'influenza radicaleggiante del partito di De Martino. Così a destra, non è stato difficile coinvolgere il MSI, da sempre fanalino di coda elettorale dei cattolici, con l'eterno refrain anticomunista.
La manovra è però praticamente fallita. La bassissima percentuale di votanti tra i giovani, nonostante la mobilitazione dell'apparato dei partiti e la propaganda televisiva, ha infatti evidenziato la sfiducia giovanile rispetto agli strumenti di partecipazione falsi e demagogici della riforma. Questa sfiducia è ancora un atteggiamento istintivo più che una presa di coscienza politica ma non può essere contrabbandata per qualunquismo come tentano di fare i moderati, né per extraparlamentarismo arrabbiato. È un dato di fatto: ne tengano conto gli zelatori del parlamentarismo.

La sinistra astensionista
Per quanto riguarda invece le frange astensioniste della sinistra, a parte la miseria morale e l'infantilismo politico che le distingue, è evidente la loro funzione di valvola di sfogo del regime, e di braccio violento del mondo radical-progressista che le controlla: lo stesso mondo che ha sposato il neocapitalismo illuminato del nord in sede economica, ed il giacobinismo borghese in sede culturale. I radicalucci e i rimasticatori della critica marxiana non escono dagli schemi del regime e dalle sue false antitesi, perché non hanno superato i miti egualitaristici e paraborghesi all'ombra dei quali la rivolta giovanile degli anni '60 potè essere snaturata in senso riformistico, oltre ad essere sfruttata a livello politico in chiave antieuropea, cioè contro la leadership antiatlantica di un De Gaulle, e contro la possibilità di autonomia economica continentale che allora si intravedeva, allontanata grazie al sindacalismo luddista dell'autunno '69, a tutto vantaggio della industria americana all'epoca in crisi sui mercati esteri. L'esigenza di un profondo rinnovamento della scuola resta quindi un argomento aperto, così come permangono le contraddizioni della società consumistica che fornirono il terreno alla «contestazione globale», quando non aveva ancora acquisito gli schemi radicali e marxisti.

 

manifesti della contestazione


COMUNICATO

In merito all'attività di una agenzia di informazione a titolo "Controcorrente", curata dal partito radicale, di cui dà notizia il "Quotidiano dei lavoratori" del 22 dicembre 1974, diffidiamo chiunque dal voler accreditare parentele che non esistono, ed avvisiamo i lettori che trattasi di un caso di omonimia, nulla avendo in comune la suddetta testata con la linea politica e con la battaglia del nostro periodico mensile "Controcorrente" con unica sede in via Pasquale Villari, 27 - 00184 Roma.
La Direzione


POTERE OCCULTO


SIONPACIFISMO
Per quanto suffragate da motivazioni umanitarie e religiose, le teorie pacifistiche costituiscono un ben misero alibi quando -come oggi- due terzi dell'umanità è sottoalimentata o muore di fame e quando il 20% degli esseri umani consuma l'80% delle risorse della terra (gli americani, poco più del 6%, da soli ne consumano la metà). In nome di nessuna religione e di nessun ben inteso senso di umana solidarietà è lecito giustificare e concorrere al consolidamento di un tale stato di ingiustizia. La realtà politica internazionale non lascia alternative: conformarsi ad essa e restare oggetto della politica altrui, oppure elevarsi con tutti i mezzi (la guerra compresa) a soggetto della propria politica. Questa è la prima e fondamentale libertà: la libertà delle scelte, la libertà di essere se stessi, che precede la litania di diritti, intesi come tranquillità personale, degli ideologi radicali i quali riducono la libertà alla spontaneità animale e al benessere purchessia anche a prezzo del servilismo.

Incoerenza o infamia?
L'incoerenza dunque costituisce la caratteristica fondamentale di ogni pacifismo. Esso inoltre cresce su un terreno umano ed ideologico (non violenza, obiezione, giustificazioni religiose) ben poco omogeneo. Dal calderone spesso emergono gli idealisti, i sognatori e gli ingenui, non sempre ignobili e, perciò stesso, innocui se ad essi non si affiancassero i vili e i cialtroni, e soprattutto quei «pacifisti» che a queste caratteristiche ne uniscono una inequivocabile: quella dei bari. Tali i sostenitori del «neutralismo armato ma non troppo», i banditori delle «fasce smilitarizzate» e i propugnatori dell'armamento «solo a scopo di difesa», preti, radicali, socialisti, comunisti, massoni e quanti altri sono strumentati dal sionismo internazionale.
Tenuto conto che gli USA e l'URSS impiegano circa il 40% dei rispettivi bilanci giganteschi per scopi militari (Israele ha superato il 50% per molti anni) nei sionpacifisti l'incoerenza si unisce mostruosamente all'infamia. Seguendo una strategia tipica dell'attivismo sionista essi mirano allo scardinamento delle strutture economiche, politiche e militari delle nazioni ove operano, le quali devono quindi subire le ingerenze e sottostare alle direttive delle superpotenze. Tale risultato è perseguito con l'arma del ricatto e della suasione, della violenza e dell'oro, con la pressione politica, con l'imbonimento propagandistico tramite la grande stampa e le centrali di informazione. Così sul piano della cultura di massa costoro agitano impuri miti utopico-ideologici che, nel contesto di un mondo in rapida trasformazione e ormai prigioniero delle mode programmate, sembrano assumere lo aspetto di novità e un valore rivoluzionario. È il perpetuarsi dell'antica tragicommedia massonica. Infatti, la parvenza rivoluzionaria scopre immancabilmente contenuti retrivi e conservatori.

Il sionismo e l'atomica
È recente una manifestazione della ipocrisia di questi figuri. Erano trascorsi solo pochi giorni dalla dichiarazione ufficiale di Israele di disporre di armi atomiche, quando nel corso di una conferenza stampa tenutasi a Roma il 9 dicembre '74, l'ebreo Schaerf illustrava una lettera sottoscritta da altrettanti 139 fisici «italiani», diretta al nostro ministro degli Esteri: «L'impegno da parte dei paesi non militarmente nucleari a non acquisire la capacità di effettuare esplosioni nucleari a scopo pacifico deve restare un elemento fondamentale del trattato, che perderebbe altrimenti ogni efficacia». Ribadita così la necessità di non dilazionare la ratifica del diktat atomico russo-americano, i 140 fisici si sono resi interpreti di una sollecita smentita del suddetto ministro circa talune voci secondo le quali -orribile a dirsi- lo stato italiano avrebbe in corso l'approntamento di ordigni nucleari. A prescindere dal fatto che, senza rimuovere le condizioni di sudditanza e di fragilità politica ed economica in cui si trova l'Italia, l'ipotesi di una atomica fatta in casa è puramente ridicola, non una parola è stata spesa dai fisici «italiani» contro il monopolio atomico degli USA e dell'URSS (forse perché nelle mani degli ebrei Breznev e Kissinger?); non un accenno alla atomica israeliana (recentemente ammessa ma esistente da almeno sette anni) è stato fatto da questi valentuomini, gli stessi pronti a scagliarsi contro gli esperimenti nucleari francesi.
Gli sforzi di parte sionista per perpetuare il dominio atomico russo-americano sul mondo sono del resto la naturale conseguenza dell'impegno ebraico alla realizzazione della prima bomba atomica americana, culminata il 16 luglio del 1945 con l'esplosione di Alamagordo. Impegno che -è storicamente certo- fu determinante.

 

il vero volto del pacifismo



Il "brain trust" giudaico
Lise Meitner e Otto Frisch, due scienziati ebrei emigrati in Danimarca, carpirono i risultati del lavoro dei tedeschi Hahn e Strassmann sulla scissione del nucleo dell'uranio mediante neutroni, nel quadro di una massiccia attività spionistica alleata, evidenziata dalla distruzione dei laboratori per l'acqua pesante in Norvegia. Successivamente Niels Bohr polarizzò sull'energia atomica l'interesse dei fisici americani in un convegno del gennaio 1939. In seguito un altro ebreo, il padre della relatività Albert Einstein, assistito da Leo Szilard e Eugene Wigner, interessò al problema Alexander Sachs, consigliere economico della Lehman brothers Sachs, che aveva compreso le dimensioni economiche del «big business», riuscì a convincere Roosevelt. Nell'affare (due miliardi di dollari in valuta del '42-'45) si inserirono alcune grosse società in mano ebraica, la Westhinghouse, la General Electric, la Union Carbide, la Standard Oil e la Du Pont de Nemours.
Controllata da ebrei anche l'avanguardia scientifica in campo atomico del laboratorio di Fisica dell'Università di Roma a via Panisperna: il gruppo di Enrico Fermi. Fermi era sposato ad una ebrea. Bruno Pontecorvo ed Emilio Segrè lo erano direttamente. Nel 1938 Fermi e Segrè fuggirono in America proprio quando Ettore Maiorana, un catanese che con Arnaldi e Rasetti completava il gruppo, scompariva in circostanze rimaste misteriose. Poi Pontecorvo (la distensione «ante litteram» nel nome del sionismo internazionale!) passò con i sovietici che nel '63 lo gratificarono del premio Lenin. Meno bene andò invece al suo correligionario tedesco Klaus Fuchs, che lavorò sull'atomica USA mantenendo contatti con Mosca e fu condannato come spia sovietica. Ancora parteciparono al "brain trust" giudaico Samuel King Allison di Chicago e il più famoso Robert Julius Oppenheimer che si inserì in una fase cruciale della ricerca nel 1940, seguito dal futuro Nobel Isaac Isidor Rabi.
Disse Truman: «La bomba atomica è troppo pericolosa per essere abbandonata ad un mondo senza legge (...) Spetta a noi assumerne la custodia allo scopo di impedirne l'impiego abusivo e per far sì che questa nuova potenza possa essere utilizzata per il bene dell'umanità». Dietro queste parole, a metà tra la mascheratura demagogica e l'arroganza, secondo il tipico stile puritano yankee, stava la volontà di egemonizzare il mondo occidentale, compresa la Gran Bretagna di Churchill che, convinto dei suoi diritti di guerra, sottoscriveva a Potsdam il ricatto americano al Giappone e la fine dell'Inghilterra come potenza.

Il diktat nucleare
Tre settimane dopo Alamagordo l'atomica tornava ad esplodere, questa volta non sui deserti del Messico sud-orientale ma sulle città giapponesi. Il colonialismo russo-americano potè spartirsi il mondo in zone d'influenza riuscendo nei successivi 30 anni, cioè a tutt'oggi, a perpetuare quella spartizione con un diktat nucleare, noto in Italia sotto la eufemistica definizione di "Trattato di Non Proliferazione", che vieta la ricerca e l'uso della energia atomica ai paesi firmatari, i quali la «delegano» agli USA e all'URSS. In questo modo le superpotenze hanno accresciuto il divario tecnologico tra esse e l'Europa ed il Giappone, proprio in una fase storica di avvento della energia nucleare come fonte energetica base, alternativa al petrolio, ergendosi contemporaneamente a gendarmi armati (atomicamente) dei loro privilegi economici, politici e militari sul resto del mondo.
Israele quindi è tra noi più di quanto non si veda e non si creda. Israele è radicato nelle strutture stesse dello stato italiano come in quelle degli altri stati europei e svolge con efficienza il compito di tenere permanentemente assoggettato il Continente al sionismo di cui gli USA e l'URSS sono le manifestazioni più appariscenti.
È chiaro pertanto che, se si vuole veramente la pace nel Mediterraneo, non bisogna soltanto combattere lo stato di Israele, quale entità artificiosa ed usurpatrice di altrui millenari diritti, ma s'impone lo smascheramento e l'impedimento di ogni attività sionista negli stati europei e mediterranei, fuori da deleteri atteggiamenti razzistici, spesso suscitati e sfruttati dagli israeliani stessi come strumento di pressione psicologica e materiale sugli ebrei della «diaspora» per indurli a trasferirsi in Palestina (clamorosa una ammissione in tal senso resa alcuni anni fa da Abba Eban).
Se l'autonomia degli stati europei costituisce il presupposto irrinunciabile per giungere all'indipendenza del Continente la neutralizzazione del sionismo annidato in ciascuno di essi è la condizione preliminare per ogni serio passo politico volto al raggiungimento di tale autonomia.


MONDO ARABO

IL RICATTO OCCIDENTALISTA
Non c'è dubbio che le vicende politiche del Vicino Oriente in questi ultimi mesi siano state condizionate dalle ripetute minacce di intervento militare formulate da Ford e Kissinger e amplificate dal Dipartimento di Stato. Gli arabi abbassino il prezzo del petrolio, oppure gli Stati Uniti di fronte alla crisi economica che li minaccia saranno indotti all'atto di forza; questo il succo del discorso. Dopo una girandola di interviste e di smentite, di proclami e di mezze frasi, diffusa ad arte faceva il giro del mondo una serie di foto di reparti speciali yankees che si addestravano nel deserto della California. L'allarme, rafforzato da ulteriori allusioni kissingeriane, nel Vicino Oriente è stato notevole e ancora non se ne è spenta l'eco. Né si è attuato quello che poteva essere il contraccolpo positivo di tutta la questione, cioè la realizzazione di un fronte comune antiamericano da parte araba. È avvenuto il contrario, quello che si aspettavano gli USA: il ripensamento dei governi arabi moderati sui recenti atteggiamenti critici da essi manifestati nei confronti degli americani.

La minaccia americana
A nostro avviso le centrali statunitensi scatenando questa «guerra dei nervi» non si ripromettevano né la realizzazione di un intervento armato sui pozzi arabi, né puntavano esclusivamente, e comunque non era il loro scopo principale, ad ottenere un immediato abbassamento del prezzo del greggio. L'ultimo vertice viennese dell'OPEC infatti aveva già sancito il blocco del prezzo per nove mesi, e con la svalutazione mondiale calcolata attorno al 9% annuo la concessione era soddisfacente per gli Stati Uniti.
La manovra era dunque politica. Mirava e mira tuttora a fini politici a lunga scadenza, vale a dire al consolidamento dell'influenza americana sul Vicino Oriente. Per una regola convalidata da trent'anni di politica dei blocchi, i paesi che non si oppongono concretamente e decisamente alle mire egemoni della Casa Bianca finiscono inevitabilmente per cadere sotto l'influenza di Washington. Può sembrare una generalizzazione ma è una verità pura e semplice. Prima regola per gli USA quindi, smorzare le opposizioni. Per quanto riguarda poi il ventilato «blitz», la minaccia si smonta da sola. Il fatto stesso che si siano fatte trapelare notizie, per giunta gonfiate, dimostra che l'intento era più intimidatorio che concreto. Che l'intervento militare non sia da escludere, in assoluto e, comunque, per un futuro più o meno lontano, è un fatto, ma che esso possa realizzarsi nell'attuale quadro distensivo non pare probabile, a meno di un tacito accordo col partner sovietico. Saremmo ad una Cecoslovacchia alla rovescia, con la differenza che Praga '68 era un paese «a sovranità limitata» in mano russa per decisione antica e riconosciuta da Washington, mentre il Vicino Oriente (come il sud-est asiatico) è uno dei punti di attrito, necessari per la gestione della tensione mondiale, tra USA ed URSS; una zona dove il gioco di influenze non è mai stato chiarito definitivamente; che è calda e tale deve restare, proprio per giustificare la necessità della presenza dei due gendarmi armati che, in un mondo pacificato totalmente, non avrebbero ragione di esistere. (Ecco dunque che le litanie umanitarie e pacifiste di cui si ammantano russi ed americani sono completamente ipocrite).
Per quanto riguarda l'effetto sul gioco petrolifero della manovra americana, esso rientra nel disegno attuato tramite le fonti di informazione mondiale, teso a dipingere i paesi produttori di petrolio, quindi in primo luogo gli arabi, come i maggiori responsabili della crisi energetica mondiale. Il discorso, nell'attuale periodo di recessione economica, fa indubbiamente presa sulla logica emotiva dell'uomo della strada e su quella beota dell'opinione pubblica internazionale. Si minimizza la responsabilità (pesante) delle «sette sorelle» sulla crisi dell'energia. Indirettamente poi l'astio diffuso contro gli arabi si risolve, col ritornello della solidarietà occidentale agitato da Kissinger, nella simpatia verso Israele che non potrebbe altrimenti sperare di riscuotere consensi negli ambienti «progressisti», stante la politica di rapina di Tel Aviv.
Una dimostrazione lampante dell'assenza di rischi insormontabili sul fronte del petrolio per gli americani, è il livello di profitto delle multinazionali che controllano il mercato dell'oro nero, profitto che ha raggiunto negli ultimi tempi il livello più alto che la storia ricordi. Il pericolo, per gli USA, è un altro: l'accettazione, specie da parte europea, del metodo della trattativa diretta con i paesi produttori scavalcando i protettori statunitensi, nonostante le pressioni di «Superkraut» per la costituzione di un cartello dei paesi consumatori sotto l'egida e la leadership statunitense.

Occidentalismo e arabismo
In conclusione è questo per il Vicino Oriente un momento dì riassestamento che vede purtroppo le ideologie dell'occidentalismo ormai largamente diffuse negli stati arabi. L'ultima politica egiziana, dal viaggio di Nixon in poi, ne è un esempio con i risultati che è facile prevedere. È proprio attraverso l'occidentalismo ed i suoi modelli di sviluppo legati alla logica del consumismo che gli USA riescono a trovare la chiave per entrare nel cuore della politica araba. L'occidentalismo è penetrato in profondità nelle strutture socio-economiche della gran parte dei paesi arabi, condizionandone la possibilità di azione unitaria e legandoli -divisi- al gioco delle superpotenze, anche attraverso l'erosione del costume e della morale tradizionale del mondo arabo. Questa penetrazione nella sfera della cultura e della civiltà islamica è quanto mai grave, più dell'asservimento politico e del ricatto economico sul petrolio, perché solo puntando sulla comune matrice ideologica e religiosa, l'Islam, il popolo arabo potrà avviare e realizzare un processo unitario che lo elevi ad una dimensione di autonomia prima morale e poi politica, economica, e militare dal neocolonialismo di Washington e di Mosca, neocolonialismo che foraggia e sostiene a livello mondiale l'aggressore sionista. Se si esclude il piano ideologico-religioso la spinta unitaria e rivoluzionaria non ha basi politiche adeguate, ed anzi proprio sul terreno dell'intrigo di palazzo e del piccolo nazionalismo dinastico fu possibile strumentare quella spinta verso fini del tutto diversi, ieri ad opera degli inglesi, oggi dei russi e americani alleati.


GRECIA

MODERATI AL POTERE
Il nuovo regime greco subentrato a quello dei militari ha mosso gli ultimi passi sulla via della normalizzazione, qualificandosi nettamente in senso moderato. Artefice ed orchestratore il vecchio leader conservatore Costantino Caramanlis, che ha saputo sfruttare in pieno l'aura di salvatore della patria e di restauratore della democrazia delle giornate di luglio, gestendo da mattatore la duplice chiamata alle urne per le elezioni e per il referendum istituzionale. Stabilita con due soli mesi di preavviso la consultazione popolare del 17 novembre ha sancito la minimizzazione della opposizione, ancora in fase di riorganizzazione, e l'isolamento seppur parziale di Andrea Papandreu, grazie soprattutto alla nuova legge elettorale su misura che ha permesso a Caramanlis di assicurarsi, con poco più della metà dei voti, quasi tre quarti del Parlamento.
Il referendum istituzionale inoltre ha decretato la sconfitta della monarchia (solo il 30,8% di "si"), confermando il voto popolare del '73 con Papadopulos al potere, voto che rese definitiva la frattura tra i colonnelli e i monarca, iniziata col controcolpo del dicembre '67, e prolungatasi su toni sempre meno contenuti durante l'esilio di Costantino, in un primo momento apparentemente rassegnato al ruolo dorato di protagonista dei rotocalchi mondani. Nonostante l'opposizione ai golpisti del '67 la corona non è riuscita ad ottenere di inserirsi nella serie di scossoni al vertice operati da Washington sul governo di Atene. Come nel '67 gli USA preferirono ai generali del re gli "uomini nuovi" della Fenice per bloccare i radicali papandreisti, così hanno oggi rispolverato la vecchia classe governativa moderata dei Caramanlis e dei Cannellopulos, e mantenuto Costantino fuori gioco. Caramanlis ha cosi assunto una posizione "super partes" che è valsa a conservargli l'appoggio della destra classica (armatori e forze armate) senza alienargli troppo l'opposizione. Non sembra infatti che la scelta repubblicana greca, sebbene il Pasok di Papandreu ne sia stato il più forsennato sostenitore, sia anche una scelta radicale, ed una qualificazione in chiave moderata del no alla monarchia potrà facilmente passare tramite la nuova Costituzione e, a più breve termine, attraverso l'investitura presidenziale di Can-nellopulos o di un altro esponente della vecchia guardia.

Decomposizione spontanea
Il rinnovamento di vertice greco presenta dunque gli elementi tipici delle operazioni di chirurgia politica, che gli Stati Uniti di tanto in tanto realizzano sui paesi occidentali egemonizzati. Il passaggio dalla dittatura militare al legalitarismo dal piglio autoritario del leader di Nuova Democrazia è stato favorito dagli agenti del colonialismo americano già ispiratori di re Costantino prima, e di Papadopulos e Ghizikis poi. Lo dimostra la continuità moderata dei regimi alternatisi ad Atene. Compreso il governo civile attuale, figlio di quello della scorsa estate che è stato chiamato dai militari e ha mantenuto un generale a capo dello Stato. Checché ne dica Papandreu siamo di fronte ad un processo di decomposizione spontanea, non ad una rivolta popolare.

Velleità indipendentistiche
Perché gli americani hanno liquidato i militari? Il cambiamento di guardia si è reso necessario per gli USA nel contesto della crisi cipriota, sfruttata da Washington per ristabilire l'equilibrio con i due fondamentali alleati mediterranei, Grecia e Turchia, entrambi inclini da tempo a velleità indipendentistiche inammissibili da parte americana, specie alle soglie di Israele.
Parliamo di velleità perché il piccolo nazionalismo, pur con venature terzomondiste, di un Papadopulos non avrebbe potuto in nessun caso surrogare una reale leadership autonomista, che per essere tale deve darsi un contenuto rivoluzionario di scelta di civiltà. Resta il fatto che pur con tali limiti il colonnello era divenuto pericoloso per gli USA, al punto di trovarsi sostituito al potere da militari più ossequiosi dei canoni atlantisti, i quali a loro volta hanno assolto il ruolo di cuscinetto verso il ritorno di un regime civile moderato, imperniato oggi come dieci anni fa su Caramanlis.
Dopo aver permesso che la mina cipriota fosse innescata con l'azione di Sampson e la fuga di Makarios, Kissinger -con una procedura da governatore coloniale- dava vita al "golpe telefonico" che avrebbe segnato la fine del settennato militare, facendo leva sulla fedeltà americana della 3ª Armata greca a Larissa, e chiudeva successivamente gli occhi sulla controffensiva turca in piena Conferenza di Ginevra. L'eventualità di un successo militare dell'Ankara è valsa infatti come arma di ricatto per stemperare l'impennata greca della uscita militare dalla NATO. Ma aldilà della iniziativa per Cipro, l'abbandono dei militari in Grecia rientra in una scelta americana a più ampio respiro, evidenziata dal parallelo tramonto di Caetano in Portogallo, e soprattutto dal "nuovo corso" europeo con i vertici tecnocratici e moderati-riformisti di Parigi e Bonn succeduti a Pompidou e Brandt. Nel quadro di questa scelta radical-progressista, che risente dell'ascesa democratica negli "States", il ripristino del gioco partitico in Grecia, che dopo i fatti di Lisbona restava l'unico paese a regime autoritario facente parte della NATO, è senza dubbio un elemento a favore del colonialismo USA e della sua libertà di manovra, come ha appunto dimostrato la vittoria del partito moderato alle elezioni.
Né appare credibile l'ipotesi prospettata da destra, ed anche da talune sfere militari della NATO, che i sovietici, "costretti" ad abbandonare Alessandria, "amoreggiano" con la Turchia e con la Jugoslavia, recuperabile al Patto di Varsavia dopo la morte di Tito, alla ricerca di una massiccia espansione nel Mediterraneo orientale. I fatti sono ben diversi. I sovietici lasciarono l'Egitto di buon accordo coi compari della 6ª Flotta, nel quadro dell'impegno russo-americano nel Vicino Oriente e nel Mediterraneo su una politica di accurato contrappeso, fatta di concessioni e contropartite, e infatti il fianco meridionale della NATO non è certo crollato. Semmai potrebbe concretizzarsi, con la gestione in condominio tra USA ed URSS della tensione tra arabi e israeliani, una apertura mediterranea dei russi, bilanciata da concessioni agli USA nel sud-est asiatico (vedi le crisi di Thieu e Lon Noi).

Somma algebrica
La somma algebrica sarebbe in ogni caso uguale a zero, senza cioè un vantaggio solo di Washington o solo di Mosca, ma con il rafforzamento di entrambe. Il fatto è che gli ambienti occidentalisti, e quelli oltranzisti in particolare, hanno bisogno di pompare il pericolo rosso per giustificare l'asservimento alle direttive americane, così come ad est, ad esempio, viene gonfiato il fantasma del revanscismo tedesco.
La eventualità di prospettive autonomistiche da parte greca era stata del resto già sviata dagli USA, convogliando l'ondata antiamericana durante la crisi di Cipro verso scelte di allineamento con gli organismi comunitari. Se ci fosse stata una rottura netta con gli Stati Uniti, la Grecia di Karamanlis, Mavros e Averoff -tutti uomini privi di dimensione rivoluzionaria- ora comunque destinata ad imboccare la porta d'ingresso del Consiglio d'Europa, che è anche quella di servizio del Dipartimento di Stato.


USA-URSS

LA DISTENSIONE CONTINUA
Il 4 febbraio è ricorso il trentesimo anniversario della conferenza di Yalta. Trent'anni di gestione in condominio dell'egemonia sull'intero globo dei vincitori russo-americani. Trent'anni di dominio incontrastato, pur nel vario evolvere del processo di avvicinamento tra Est e Ovest, di un impero bipolare con dimensioni planetarie, senza precedenti storici, il quale per trent'anni è riuscito a vanificare le aspirazioni e bloccare le azioni dei paesi che hanno tentato di assumere un proprio ruolo autonomo sulla scena internazionale, dallo spirito di Bandung a De Gaulle, Nasser, Castro, Peron, Tito, fino alla liquidazione di Jobert e Carrero Bianco, ultimi epigoni europei, con pesanti limiti moderati, della volontà di rifiuto del colonialismo di Washington e Mosca.
L'effetto della affermazione della mentalità distensiva in Europa è sotto i nostri occhi: l'emarginazione e l'indebolimento morale, politico, militare ed economico del Continente, ormai irreversibili, a meno di un totale rovesciamento degli equilibri internazionali. L'ipotesi atterrisce la nostra classe politica che nell'asservimento ai due gendarmi di Yalta vede ancora oggi la possibilità di campare indisturbata. Logica quindi la ridda di voci allarmate per la scaramuccia tra Casa Bianca e Cremlino seguita al braccio di ferro tra emigrazione degli ebrei sovietici e limitazione della esportazione americana. Meglio la servitù che uno scontro tra superpotenze; questo il risultato psicologico del clima apocalittico da terza guerra mondiale montato dai gazzettieri del regime di tutte le parrocchie di destra e di sinistra.

Il "giallo Breznev"
Numerosi i profeti balordi del passaggio da Breznev ai «duri» della politica sovietica (marxisti ortodossi e militari riuniti). «Uno Stalin con i baffi sopra gli occhi» si dice del segretario del PCUS, dimenticando che è stato egli il vero artefice della ostpolitik brandtiana nel 1970 -ostpolitik che ha rappresentato forse il maggior veicolo di penetrazione economico-ideologica dell'occidentalismo verso l'Est- e ancora egli con Nixon l'orchestratore del passaggio dalla vecchia distensione di marca kennedyana, al nuovo verbo della cooperazione, sancito dai colloqui estivi di Mosca del 1972.

L'iniziativa americana
Imboccata questa strada i sovietici si sono legati agli americani oltre che politicamente ed ideologicamente (come aveva già fatto Kruscev) anche e soprattutto economicamente. La industrializzazione dell'URSS non ha potuto fare a meno dell'esportazione e della tecnologia americana. In questo quadro va considerata la decisione del Congresso, su iniziativa del partito democratico e contro la volontà di Ford e del Dipartimento di Stato, di limitare a 300 milioni di dollari il credito della Export-Import Bank verso Mosca per i prossimi quattro anni, credito che dal 1973 ad oggi si era avvicinato al mezzo miliardo di dollari. La stizzita reazione di Mosca contro «la intollerabile ingerenza negli all'affari interni sovietici» per usare le parole della "Tassa", non è quindi dovuta alla questione dell'emigrazione ebraica, che il senatore Jackson ha fatto esplodere pubblicamente rivelando il carteggio con Kissinger e presentando al Congresso un emendamento ricattatorio nei confronti dei sovietici, per accattivarsi ulteriormente le simpatie del sionismo americano; e che comunque si sarebbe esaurita nel giro di poco tempo, essendo oltre 100.000 gli ebrei russi che hanno varcato la frontiera fino allo scorso anno. Si trattava quindi di reagire ad una più generale situazione regressiva nella quale Mosca si era cacciata dopo la fine di Nixon per avere subìto le iniziative americane.
Dopo aver lasciato la mano libera agli americani nel sud-est asiatico per il disimpegno militare e per il controllo della crisi politica del vecchio regime di Thieu, i russi non hanno preteso condizionamenti di qualche importanza neanche nel Mediterraneo, prima per l'affare di Cipro e poi per la tensione vicinorientale, rinunciando a perseguire un proprio vantaggio favorendo così indirettamente le manovre di Kissinger. A ciò si aggiunga il nulla di fatto del viaggio egiziano di Gromiko e la riconfermata fiducia di Sadat nella strategia dello «step and step», il passo dopo passo, del segretario di Stato americano, invece di una ripresa della Conferenza di Ginevra, caldeggiata dai sovietici proprio perché darebbe loro modo di inserirsi direttamente nella partita mediterranea.

La risposta sovietica
Con il "giallo Breznev" e la denuncia del "Trade Reform Act" (il trattato commerciale USA-URSS), preceduta da una dura nota di Gromiko a Washington, sta prendendo corpo la ricerca da parte sovietica di uno spazio di manovra internazionale. Indubbiamente il peso raggiunto dai burocrati e dai tecnocrati, emersi con la nuova politica economica filoamericana, e dalle Forze Armate, che hanno un rappresentante nel Politburo, si è fatto sentire, pur non riuscendo ad eludere e scavalcare il controllo decisionale del vertice politico. Mentre Kissinger riprende la sua attività di commesso viaggiatore del sionismo internazionale, in Israele si ingrossa il numero delle voci favorevoli alla Conferenza, contro la tendenza gradualista americana, troppo fiacca per Tel Aviv, e contro un irrigidimento arabo, che sarebbe reso impossibile da una trattativa multilaterale. E al Cairo non ci si dichiara più contrari a sedersi al tavolo della pace. Forse nel Vicino Oriente si prepara la contropartita sovietica per pareggiare nuovamente il conto russo-americano e ricucire la solidarietà distensiva.

 

Leonid Breznev