ANNO II * n. 3/4 *
Marzo/Aprile 1975
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Sommario
* La manfrina del regime
* Sadat a testa bassa
* Le contraddizioni di sua maestà
* Penne all'arrabbiata
* Hai il cuore tenero, zio Sam
* Socialisti:
testa di ponte dell'occidentalismo
* Vietnam 30 anni dopo
* America-latina:
fine delle prospettive rivoluzionarie
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INTERNI
LA MANFRINA DEL REGIME
Le alterne vicende del braccio di ferro tra partito cattolico,
sinistra radicale e comunisti
Esauriti i congressi dei partiti di governo (DC e PRI) e del massimo
partito di opposizione (il PCI) siamo ormai in pieno clima
pre-elettorale. Lo conferma puntualmente la ripresa in grande stile del
gioco infame delle bombe e degli assassini; gli «opposti estremismi»
devono continuare, nonostante l'eclissi di Rumor e Taviani, fin qui i
più esperti amministratori della violenza di regime. Il metodo della
paura per imbrigliare l'elettorato moderato evidentemente ha fatto
scuola, né potremmo suggerirne uno più efficace. Ma quale giudizio darà
lo storico futuro su una classe politica che può tirare avanti solo
grazie a metodi simili? Intanto, a giudicare dalle reazioni
dell'opinione pubblica, lo scopo sembra raggiunto: l'emorragia a
sinistra del partito cattolico sarà compensata da un recupero di voti a
destra, e i comunisti (cugini stretti dei liberticidi portoghesi, come
non si stanca di strillare la propaganda Spes) avranno un aumento di
voti comunque non eclatante che non permetterà loro di smuovere
l'egemonia cattolica.
Ciò posto cerchiamo di schematizzare più diffusamente la situazione.
FINE DEL CENTROSINISTRA
Sebbene continui la proposizione del centrosinistra come formula di
governo per mancanza di alternative possibili, l'epoca del
centrosinistra è finita, nel senso che si sono esauriti i supporti
ideologico-politici che lo avevano sostenuto. Essi erano: una forte
presenza radicale in campo internazionale (l'asse
Kennedy-Roncalli-Kruscev); la necessità per la DC -siamo intorno alla
metà degli anni '60- di catturare i socialisti al fine di allargare la
base di sostegno del governo, e contemporaneamente di separare
definitivamente i socialisti stessi dal PCI, col che il ricordo dei
«fronti popolari» poteva tranquillamente restare sui libri di storia.
Alla distensione kennedyana, dovuta alla convergenza ideologica in
chiave radicale tra USA e URSS, succedeva però un nuovo tipo di intesa,
basata sulla collaborazione utilitaristica, che pone i rapporti tra
superpotenze sotto il segno della forza e della concorrenza politica,
ciò che veniva a precludere la possibilità di estendere al PCI la
manovra democristiana già attuata nei confronti dei socialisti. Di qui
il fallimento della ipotesi di «repubblica conciliare», il cui successo
sembrava assicurato all'epoca del pontificato di Giovanni XXIII.
L'ascesa del repubblicano Nixon ha in seguito eliminato ogni illusione
di una ripresa radicale dopo la parentesi johnsoniana, sancendo la
vittoria della linea «socialdemocratica» (non nel senso italiano del
termine, che va esteso a tutto lo schieramento conservatore mondiale),
la stessa linea che aveva prodotto la scissione socialista in Italia,
cioè la separazione dei social-radicali dai conservatori saragattiani.
I COMUNISTI SI ALLINEANO
Il PCI restava dunque isolato, ed il fallimento della «repubblica
conciliare» ha pesato non poco ai suoi quadri, in particolare al
filo-sovietico Longo. Dopo la fine di Togliatti a Yalta non fu difficile
per i sovietici distogliere i successori dal revisionismo radicale di
«Ercoli», anche se continuò l'esaltazione delle «vie nazionali»
(Jugoslavia, Romania, Cecoslovacchia) come cavallo di battaglia del PCI
e come credenziale di governo. Ma dopo i fatti di Praga si presentò
netta l'alternativa di rifiutare o accettare l'egemonia di Mosca. La
ribellione non offriva prospettive: ribelli al Cremlino i comunisti
italiani perdevano interesse politico anche per Paolo VI, che non aveva
abbandonato la speranza di tornare ago della bilancia USA-URSS, cercando
nel contempo nuova linfa nell'ONU e nel Terzo Mondo, per realizzare con
essi, come ipotesi di ripiego, il sogno neotemporalista che Washington e
Mosca avevano infranto all'epoca giovannea.
Al PCI non restava che adeguarsi. La sfavorevole contingenza
internazionale poteva essere affrontata da un partito rivoluzionario,
non da un apparato (seppur bene organizzato) di moderati. Si consideri a
tale proposito, sul piano ideologico, la matrice culturale paraborghese
del comunismo italiano (la formazione e il costante riferimento a
Gobetti e più ancora a Croce, di Togliatti e Gramsci), e sul piano
storico, la massima espressione dell'azione comunista: la resistenza.
Come ha sempre confutato Amadeo Bordiga agli ex-compagni, essa ha
portato in ultima analisi alla affermazione di un tipo di borghesia in
sostituzione di un altro, sempre a spese della classe operaia, e, come
ammette lo stesso Ferruccio Parri, essa deve considerarsi fallita
rispetto alle aspirazioni che si proponeva. Quando il segretario del PCI
parla oggi dell'attività della sinistra italiana nel trentennio
democristiano come di una «tappa della rivoluzione democratica e
antifascista» dimostra di non possedere il senso del ridicolo.
Tornando al nostro discorso, i comunisti riuscirono successivamente ad
uscire dall'isolamento e a guadagnare una relativa libertà di movimento
rispetto a Mosca, grazie al funambolismo di Berlinguer, l'uomo della
seconda ondata che non è stato partigiano, succeduto al vecchio Longo
alla testa del partito. Egli ha ripreso la proposta che Pietro Ingrao
predicava almeno dal 1965, cioè il dialogo con i cattolici, non solo con
le frange del dissenso ma con il grosso partito cattolico, tirando fuori
la questione vecchia della collaborazione DC-PCI sotto l'etichetta nuova
del «compromesso storico», che è poi il punto di arrivo della lunga
azione di fiancheggiamento iniziata tre decenni prima da Togliatti con
la svolta moderata di Salerno e con il tacito appoggio all'articolo 7
sui Patti del Laterano.
LA RISPOSTA RADICALE
L'attuale strategia del compromesso è un pesante limite alla
penetrazione radicale in seno al partito comunista, penetrazione che ha
la sua punta di diamante in Giorgio Amendola, eterno sostenitore della
creazione di un «partito Unico dei lavoratori» su cui catalizzare tutta
la sinistra e scalzare la DC dalle sue posizioni di potere. Infatti
proprio la sinistra neogiacobina, la sinistra democratica non comunista,
in una parola la sinistra radicale, che va dai socialisti agli
extraparlamentari, legata ai circoli democratici e sionistici americani,
ha intaccato la egemonia cattolica, con la lenta opera di penetrazione
ideologica sul piano del costume e della «way of life», con la conquista
di talune strutture portanti del regime (magistratura, polizia,
industria della cultura di massa), e con l'inserimento in tutte le
altre, specie in quelle dell'economia nazionale (industria di Stato,
Fiat), un tempo feudo incontrastato della DC. La fortuna di questa
sinistra radicale è stata diversa, e a volte opposta, rispetto a quella
comunista. Così l'avvento della distensione kennedyana lanciò i radicali
fino al governo con la DC, ma bloccò i comunisti; l'ascesa dei
conservatori in Russia e in America ha indotto il Vaticano a porgere la
mano ai comunisti (non certo per carità cristiana!) tagliando fuori i
radicali, anche se in seguito su quest'ultima strategia si è inserita la
vittoria radicale per il divorzio, vittoria che il PCI ha cercato di
evitare fino all'ultimo, e alla quale si è dovuto associare a naso
storto per l'impuntatura del senatore Fanfani, che ha rifiutato la
mediazione comunista intesa ad allontanare il referendum, memore forse
del voltafaccia delle Botteghe Oscure in occasione delle elezioni
presidenziali.
Questo per chiarire la differenza tra comunisti e radicali, differenza
che smonta l'alibi ideologico dalla destra, il cui anticomunismo
viscerale non coglie il legame tra sinistra democratica italiana e «new
left» americana, e accomuna in un solo calderone i «servi di Mosca» per
poter giustificare l'asservimento (di essa destra) alle direttive del
conservatorismo d'oltreatlantico.
DUE VIE PER IL VATICANO
Il minuetto tra socialradicali, clericoconservatori, comunisti, e
destra, continua. Al momento attuale non presenta però uno svolgimento
chiaro, risentendo della situazione di incertezza internazionale. Dopo
il tramonto di Nixon l'attuale fase della leadership USA non può che
rappresentare un periodo di transizione. Verso l'ascesa di quali forze?
Probabilmente verso una ripresa del partito democratico negli «States»,
che costituirebbe la base di partenza per il rilancio della «nuova
frontiera», cioè della solidarietà ideologica USA-URSS con una forte
ripresa del controllo americano sull'Occidente in chiave
radical-progressista. L'ipotesi alternativa comporterebbe la vittoria
delle frange isolazioniste americane, ma va considerato che nell'attuale
momento di disfatta politica nel Sud-est asiatico e di stasi diplomatica
nel Vicinoriente, gli USA hanno tutto l'interesse a reagire, riprendendo
saldamente in mano le redini. Dunque una prolungata fase di isolamento
segnerebbe lo sfaldamento dell'intero castello neocolonialista
americano, con le ripercussioni, sfavorevoli agli USA, sui rapporti con
i sovietici, che è facile immaginare.
In entrambi i casi il Vaticano potrebbe imbastire una collaborazione con
il PCI. In chiave radical-progressista, dopo una radicalizzazione dei
comunisti stessi, tale da lasciare tranquilli gli americani (vedi il
rifiuto della pregiudiziale antiatlantica emerso al 14° Congresso del
PCI, e l'opera diplomatica del comunista ebreo Segrè verso gli USA). In
chiave socialdemocratica e conservatrice, qualora il papato riuscisse a
porsi come forza neutrale rispetto agli attuali protettori americani,
rispolverando il sogno neotemporalista di cui dicevamo sopra, per cui il
PCI sarebbe preferibile alla sinistra radicale, più nettamente laicista.
Anche qui la lenta intesa tra massoneria -una delle maggiori forze
ideologiche radicali- e gesuiti (vedi l'abbraccio tra l'ex gran maestro
prof. Giordano Gamberini e padre Giovanni Caprile) indica nella prima
ipotesi la più probabile.
MONDO ARABO
SADAT A TESTA BASSA
L'impasse del segretario di Stato americano e la scomparsa del sovrano
saudita, che garantiva a «mister Kiss» col suo prestigio uno spazio di
manovra, hanno portato il presidente egiziano, legato al carro USA, in
un vicolo cieco. Per mascherare la crisi il traditore si fa polemico...
Le violente e volgari accuse rivolte dal presidente egiziano al
colonnello libico Gheddafi, hanno costituito assieme all'assassinio di
re Feisal le note salienti della politica vicinorientale di questi
ultimi tempi. Per ricercare le ragioni dell'accanimento della classe
dirigente egiziana nel portare avanti la polemica, occorre fare alcune
considerazioni.
ALLE STRETTE
Il machiavellismo politico di Sadat, che a ragione può essere annoverato
assieme a Hussein di Giordania tra i grandi traditori della causa araba,
è attualmente alle strette. Bisognoso di aiuti economici, militari e
diplomatici, Sadat dopo l'offuscamento di Kissinger e la scomparsa di
Feisal è venuto a trovarsi isolato. Da qualche anno infatti l'Egitto è
impegnato in una lenta opera di riavvicinamento agli USA che ha avuto
vari aspetti. Dal consolidamento dei rapporti diplomatici, alla
accettazione di aiuti e di investimenti economici, fino alla
liquidazione in senso tecnocratico e liberista, delle riforme socialiste
e nazionali di Nasser, in modo da liberare la strada ai capitali e alla
tecnologia americani. Se nel marzo 1972 Sadat poteva affermare che: «gli
americani sono ipocriti ed incoerenti e noi non tratteremo con loro
poiché la loro posizione è identica a quella israeliana» soltanto due
anni più tardi, nel marzo del 1974, con un voltafaccia degno di lui
affermava che: «... grazie agli sforzi di Kissinger il loro
atteggiamento ci è diventato favorevole attraverso la ricerca della pace
e di un regolamento pacifico. Perciò è d'obbligo avere un atteggiamento
filo americano da parte nostra».
Ultimamente la politica di Sadat era se non direttamente ispirata da
Kissinger; in ogni caso allineata su posizioni filo-americane. Non
potendosi concepire un improvviso ritorno dell'egemonia russa in Egitto
la politica filo-americana di Sadat è divenuta irreversibile, a meno di
una sua caduta. Per questo egli è pronto a qualsiasi cedimento nei
riguardi di Israele pur di conseguire un accordo che gli garantisca
qualche decennio di pace e permetta di lanciare l'Egitto verso uno
sviluppo industriale, legandolo così inevitabilmente ai capitali
americani e quindi agli interessi sionisti.
Tale politica presenta comunque aspetti di difficile attuazione. In
primo luogo Israele.
Dopo la guerra del Kippur i sionisti non hanno dimenticato di essere
stati ridimensionati sul piano militare e sono ansiosi di una riuscita.
In ogni caso le concessioni che sono disposti a fare agli arabi sono
perlomeno ridicole e la presenza della rivoluzione palestinese non può
essere liquidata con qualche promessa o con soluzioni parziali. In
secondo luogo gli USA dopo il Watergate attraversano un periodo di
debolezza diplomatica dovuta anche alle divergenze interne del sionismo
internazionale, che, è bene non scordarlo, controlla da secoli la
politica USA. In questo quadro gli Stati Uniti d'America non sono
attualmente nelle migliori condizioni per offrire a Sadat le garanzie
necessarie.
UN DIVERSIVO POLEMICO
Un passo falso di Sadat o un imprevisto potevano mettere in discussione
tutta la politica del Cairo. E l'imprevisto c'è stato. La battuta
d'arresto nell'attività diplomatica di Kissinger e l'improvvisa
scomparsa del monarca saudita, avvenimenti forse legati fra loro più di
quanto non si creda. Privato della copertura di Feisal che con il suo
prestigio interno al mondo arabo garantiva a Sadat lo spazio entro cui
manovrare, quest'ultimo non ha potuto fare altro che raggiungere un
frettoloso accordo con la Siria cercando nel contempo di stornare
l'attenzione dell'opinione pubblica interna e di guadagnare tempo
proprio con la polemica con Gheddafi. In questo particolare momento la
Libia di Gheddafi, pur se isolata, può svolgere un ruolo importantissimo
e pernicioso per il moderatismo di Sadat.
Non si dimentichi che in un altro momento delicato, esattamente nel 1973
prima della «guerra da operetta», Gheddafi aveva dato prova di grande
abilità riuscendo ad isolare Israele nel contesto dei paesi afro-arabi,
con positive ripercussioni sul piano diplomatico internazionale. Sadat
quindi sa bene che la sua influenza e le sue possibilità politiche sono
direttamente proporzionali all'offuscarsi della stella del presidente
libico.
Difficile è fare previsioni a breve o lunga scadenza. Ancora non appare
chiaro cosa gli Stati Uniti abbiano chiesto in cambio dell'abbandono
delle loro posizioni in Indocina, ma se come contropartita essi si sono
riservati il medioriente non è escluso che gli avvenimenti prendano una
piega violenta; i due settori infatti sono sempre stati strettamente
legati tra di loro nella politica dei blocchi e delle aree calde, nelle
quali scaricare le tensioni.
EVOLUZIONE DI UN TRADIMENTO - PARLA SADAT:
12 NOVEMBRE 1970
«Quando il nostro ministro degli esteri ha visitato l'Italia e la
Spagna, ha sentito dei discorsi che gli USA avevano trasmesso. A dir
poco questi discorsi erano delle menzogne, chiare menzogne»
«Gli USA, non si limitano a sostenere le menzogne di Israele e non hanno
cominciato soltanto una grande campagna psicologica contro di noi, bensì
un'azione di preclusione e di sabotaggio alle riunioni delle grandi
nazioni»
3 GENNAIO 1971
«Gli USA hanno approfittato del cessate il fuoco, degli incidenti di
Giordania e dei cupi giorni successivi, mentre noi stavamo nel lutto,
per esercitare la più forte pressione con l'anima di un commerciante
senza scrupoli»
4 GENNAIO 1971
«Noi non ritireremo alcun missile dal fronte, qualunque siano le
circostanze»
8 GENNAIO 1971
«Noi non ci siamo indeboliti politicamente, al contrario, con la
Rivoluzione Libica e quella Sudanese è chiaro a chiunque abbia un minimo
di buon senso, che la nazione araba non morirà»
10 GENNAIO 1971
«La Rivoluzione Libica era un colpo per gli USA, perché essi non avevano
previsto questa rivoluzione filo-egiziana»
11 GENNAIO 1971
«Gli USA, offrono il materiale bellico ed intendono umiliarci».
«Gli USA sanno perfettamente che fu il presidente americano a dare
inizio alla guerra del '67 e noi non lo dimenticheremo»
11 GENNAIO 1971
«Gli USA pretendono concessioni da parte nostra ed io dichiaro che
questa è una posizione opportunista e meschina»
28 MARZO 1971
«La Rivoluzione Libica e quella Sudanese, hanno capovolto i piani del
nemico»
30 MARZO 1972
«Gli americani sono ipocriti ed incoerenti e noi non tratteremo con
loro, poiché la loro posizione è identica a quella israeliana»
28 MARZO 1974
Interrogato sulla buona volontà degli USA, Sadat ha detto: «Nel 1967
essi erano completamente dalla parte israeliana, ma nel 1973 e grazie
agli sforzi di Kissinger il loro atteggiamento ci è diventato favorevole
attraverso la ricerca della pace e di un regolamento pacifico. Perciò è
d'obbligo avere un atteggiamento filo-americano da parte nostra»
PROFILI: FEISAL
LE CONTRADDIZIONI DI SUA MAESTÀ
L'equivoco tra tradizione islamica e moderatismo politico aveva portato
il vecchio monarca su posizioni filo-occidentaliste, ma la sua
dimensione carismatica dava ugualmente fastidio allo Scià e a Kissinger.
Non è facile inquadrare in modo adeguato la figura di Feisal, lo
scomparso monarca saudita, per alcuni aspetti contraddittori tra la sua
personalità, i presupposti ideologici che la sorreggevano, e le
emanazioni politiche che ne scaturivano.
Figlio del leggendario Abdel Aziz, Feisal (che in lingua araba significa
«spada» quasi ad indicare una origine guerriera) salì al trono nel
novembre del 1964, per una congiura di palazzo al posto del dissoluto
fratello Ibn Saud.
Custode dei luoghi santi dell'Islam, dopo la morte di Nasser il re
saudita non tanto per merito della sua politica che era direttamente
ispirata da Washington, quanto per le sue doti personali, potè assurgere
al ruolo, insieme con Gheddafi, di capo carismatico del mondo islamico.
Ma a differenza di quest'ultimo, portatore di una dimensione ideologica
propria tradotta in concrete realizzazioni all'interno della Libia, re
Feisal non è mai riuscito ad esprimere, aldilà di un certo anticomunismo
viscerale, una reale alternativa all'occidentalismo e al marxismo.
Invano egli aveva cercato di ancorarsi al conservatorismo tradizionale
islamico, facendo propria la massima che la tradizione islamica fa
risalire ad Alì, genero di Maometto: «Allah ha maledetto gli innovatori
e quanti offrono loro asilo», senza riuscire ad intuire che per la sua
stessa portata universale tale tradizione non è comprimibile in un
contenuto politico grettamente retrivo, ma è invece suscettibile di una
manifestazione storica in senso rivoluzionario, unitamente alla
tradizione e alla spiritualità europea, sulla via della libertà dei
popoli mediterranei dal marxismo e dall'occidentalismo, supporti
ideologici ed armi politiche dei sionismo.
LA PENETRAZIONE OCCIDENTALISTA
In Arabia il consumismo e l'occidentalismo sono penetrati in profondità
nelle strutture socio-economiche del paese: le Cadillac hanno sostituito
il cammello, e la borghesia del petrolio manda i figli a studiare in
Inghilterra e negli States, con il risultato di occidentalizzare la
cultura della classe dirigente; la presenza del petrolio come unica
risorsa lega il paese ad uno sviluppo illogico ed estraneo alla cultura
islamica perché condizionato ed imposto dai paesi occidentali. In questa
situazione evidentemente il restare fedele a certi principi e a una
certa tradizione, senza neanche tentare di influire sul processo storico
della nazione, non è sufficiente.
IBRIDISMO
Feisal aveva solamente cercato di proporsi come simbolo e come esempio
di uno stile di vita, era nemico di qualsiasi apertura laica o
democratica, non beveva, non fumava, non giocava: era religiosissimo.
Quando aveva cercato di adeguarsi ai tempi lo aveva fatto goffamente;
cinque anni fa permise l'installazione della prima emittente televisiva,
provocando la ribellione dei gruppi più fanatici che lo misero in
imbarazzo.
Il risultato è stato in definitiva quello di dar vita ad un ibrido
connubio tra una struttura sociale tipicamente occidentale e consumista
e il patrimonio islamico del mondo arabo. Tale ibridismo ha prodotto i
suoi effetti anche nella distribuzione del potere.
Feisal aveva infatti il suo più intimo collaboratore nel fratello Fahd,
attuale eminenza grigia del regime, le cui grandi passioni sono le carte
e la vita mondana. La classe dirigente saudita, composta da membri delle
tribù devote alla monarchia, parenti della casa reale, e militari della
guardia selezionati dai servizi di sicurezza della CIA, è profondamente
influenzata dal contatto con la cultura e la politica anglo-americana.
Gli USA lo avevano legato alla propria politica prima ancora che con la
CIA e i servizi segreti, con la trappola dell'anticomunismo. Non si
dimentichi che l'Arabia durante la seconda guerra mondiale aveva
funzionato da base alleata ed era stata anche una preziosa piattaforma
durante la guerra di Corea. Fu solo per la presenza minacciosa di
Israele che l'Arabia aveva ricercato un ruolo proprio sia pure limitato.
Feisal vedeva giustamente nel comunismo una manifestazione occulta del
sionismo ed un pericolo per il mondo islamico. Ma gli sfuggiva
completamente che anche l'occidentalismo, specialmente nella sua
dimensione consumista e nella sua cultura neo-illuminista, è un altro
aspetto del sionismo e costituisce un pericolo mortale per la tradizione
islamica.
Invece che ricercare ed imporre una terza via, egli aveva finito per
accettare la politica del «male minore», ammesso che la democrazia
radical-progressista e occidentalista sia veramente un male minore
rispetto allo statalismo marxista e sovietico.
La conseguenza è stata che egli era divenuto un cane da guardia degli
interessi yankees nel Vicino Oriente. Magari un cane da guardia nobile e
che abbaiava al padrone ma pur sempre un gendarme di interessi estranei
e contrari a quelli del popolo arabo.
Re Feisal fu un moderato e questo, in una situazione storica in cui
Israele perpetua i frutti della sua politica colonialista con la forza
della potenza militare, basta a mettere in luce la sua miopia politica e
storica e le sue responsabilità relative al mantenimento dello status
quo. Su un solo punto fu intransigente, e anche recentemente lo aveva
ripetuto a Kissinger: quello di rivendicare agli arabi a tutti i costi
la parte araba di Gerusalemme con la grande moschea, che è poi la zona
della città ove gli ebrei più hanno trasformato e costruito, per rendere
irreversibile l'annessione e porre gli arabi davanti al fatto compiuto.
Fedele amico dei regimi moderati quale il Kuwait, gli sceiccati del
Golfo Persico, lo Yemen del Nord, l'Egitto ma soprattutto la Giordania
al cui re Hussein aveva consigliato di massacrare i palestinesi nel
famigerato «settembre nero» del 1970, per una sorta di contraddizione
storico-politica, aveva finito per diventare l'avversario di un altro
interprete degli interessi americani: lo Scià di Persia. Molto
probabilmente proprio queste contraddizioni ultimamente hanno ostacolato
la politica americana del «passo dopo passo» e della liquidazione delle
rivendicazioni arabe nei confronti di Israele. In questo contesto il
presidente egiziano Sadat risultava più utile di Feisal per il giuoco
USA, essendo più malleabile e pronto a rinunciare a qualsiasi
rivendicazione per il miraggio di qualche contentino territoriale
agitato da Kissinger e poi negato da Israele. Certamente la personalità
e la figura carismatica di Feisal avevano influenza sul mondo arabo, e
tale influenza poteva ritorcersi in modo non gradito agli USA, come nel
caso dell'ultimo tentativo di costituire una coalizione anti-iraniana
nella penisola araba, che mal si conciliava con l'impostazione
perseguita di concerto da Kissinger e dallo Scià.
Non è certamente un caso che negli ultimi venticinque anni nel
Vicinoriente nessun re, presidente o ministro è stato ucciso per motivi
personali o da folli irresponsabili ma sempre per cause politiche. Da
Razmara (1951), a re Feisal d'Irak con il principe ereditario Novri Said
(1958), da re Abdallah di Giordania (1951), a Majali (1960) premier
giordano, al generale Kassem (1963) presidente dell'Irak, fino a Mansour
(1965) premier dell'Iran, l'assassinio è stata sempre un'arma politica.
A nostro avviso l'assassinio di re Feisal non sfugge a questa logica.
LE CONSEGUENZE
Consideriamo un momento le conseguenze politiche della sua scomparsa.
Appare evidente come gli USA se ne siano avvantaggiati. La coppia che
governa attualmente l'Arabia difatti appare senz'altro più manovrabile
del vecchio re. Kaled Ibn Abdel Aziz, fratello e successore di Feisal,
malato di cuore e operato in America un anno fa, non ambiva a governare
né ha la personalità adatta ad un tale compito. Fahd, 53 anni, anch'egli
fratello del defunto monarca, e suo ex braccio destro, attuale primo
ministro e ministro dell'interno, famoso, come abbiamo detto, per le
perdite al casinò e per le notti brave sulla Costa Azzurra, appare
condizionabile.
La tecnocrazia petrolifera che fa capo a Yamani, ministro del petrolio,
laureatosi ad Harvard, privata della guida di Feisal subirà
inevitabilmente uno scivolamento su posizioni di allineamento alla linea
voluta da Washington e Teheran. Arabia e Iran, primi due produttori di
petrolio, si scontravano in seno all'OPEC, la lega dei paesi produttori,
proprio per l'irrigidimento di Feisal contro lo Scià, impegnato in un
faraonico piano di industrializzazione che lo legava al capitale e alla
tecnologica americani. Appare anche probabile il realizzarsi di un
processo centrifugo in seno agli emirati del Golfo Persico, e il
risorgere delle lotte e delle rivalità intestine, che faranno proprio il
gioco dell'Iran, contro cui Feisal aveva indirizzato la politica degli
emiri.
Unica nota positiva si può trarre in prospettiva. Eliminato l'equivoco
tra tradizione islamica e moderatismo politico che Feisal incarnava, se
i paesi arabi più intransigenti riusciranno a costituire un fronte
comune in senso antiamericano, gli USA in futuro nei momenti delicati
non potrebbero contare sull'autorità di una figura carismatica per il
controllo della situazione.
PENNE ALL'ARRABBIATA
Nessuna organizzazione palestinese ha rivendicato la
paternità dell'operazione condotta contro il consolato generale di
Israele a Johannesburg, eppure i gazzettieri del regime, pronti a
manovrare la penna quando si tratta di solidarizzare con la causa
sionista, non hanno esitato ad imbastire una montatura basata sullo
standard che vuole gli ebrei vittime innocenti e i guerriglieri
palestinesi belve sanguinarie.
Quando poi è risultato che il «feroce terrorista» era un agente
israeliano del servizio di sicurezza, lo si è trasformato nel solito
«folle irresponsabile».
Il ministro degli esteri israeliano Allon ha dichiarato: «se la civiltà
non liquiderà il terrorismo, il terrorismo liquiderà la civiltà»,
dimostrando di avere la memoria corta. Ha dimenticato forse il genocidio
sulla pelle degli arabi a Deir Yassin, a Gaza, a Kafr Quasem e nelle
altre decine di villaggi che hanno visto all'opera i criminali della
banda Stern e soci, che siedono oggi al parlamento israeliano (l'on.
Stern ci ricorda tanto Moranino)?
Tornando ai nostri gazzettieri di destra e di sinistra, perché non ci
raccontano che fine hanno fatto i dodici agenti del Mossad, il servizio
segreto israeliano, autori dell'assassinio di Wael Zwaiter a Roma, e
della eliminazione di altri arabi uccisi con lo stesso metodo in tutta
Europa?
Nel corso dell'ultima battaglia in Vietnam, che ha visto l'avanzata
irrefrenabile delle forze rivoluzionarie e la rotta precipitosa verso il
sud degli uomini di Van Thieu, gli americani, sconfitti nel ruolo ad
essi tanto caro di «sentinella dell'Occidente», non hanno trovato di
meglio che assumere quello, vecchio ma sempre efficace, del coccodrillo
pietoso, organizzando, papà Ford in testa, ponti aerei di salvezza
(operazione nota sotto la speciosa definizione di «babies life»), e
dimostrando tutto sommato una faccia di bronzo da fare invidia ai
giornalisti de "il Messaggero".
A giudicare dal piagnisteo sulla sorte dei vietnamiti c'è da pensare
seriamente che gli yankees ignorino, nonostante l'elevato livello
tecnologico, che le bombe uccidono anche se sono «made in USA», e il
sospetto si rafforza considerando la disinvoltura con la quale le hanno
sganciate a suo tempo sul Giappone e sull'Europa. O forse, chissà, da
quando se n'è andato Nixon sono diventati tutti buoni.
Di fatto assistiamo allo strano spettacolo di intere famiglie, tutte
disgustosamente sane, che all'arrivo dei profughi vietnamiti si
contendono l'adozione dei piccoli orfani terrorizzati ed emaciati.
- Istinti umanitari - biascicano stancamente gli ingenui.
- Senso di colpa - sentenziano gravemente gli epigoni di Freud.
- America - diciamo noi. Con le sue contraddizioni, le sue
sfaccettature, il suo eclettismo, ma una matrice comune: l'inciviltà.
PORTOGALLO
SOCIALISTI: testa di ponte
dell'occidentalismo
La vittoria del partito socialista alle elezioni svoltesi recentemente
in Portogallo -le prime dopo mezzo secolo di regime salazariano- non
rappresenta una sorpresa, né è la prima fase di un processo capace di
portare a sostanziali mutamenti dell'attuale assetto politico.
Riservandoci di approfondire in un prossimo numero la questione
portoghese, ci limitiamo a trarre talune considerazioni urgenti.
La prospettiva dei socialisti al potere non rappresenta certo una svolta
in senso rivoluzionario, o tale da rendere il Portogallo critico nei
confronti del monopolio USA-URSS.
Basterebbe esaminare la storia dei partiti socialisti per rendersi conto
di come essi agiscano in funzione occidentalista e reazionaria e non
rappresentino, oggi, una alternativa politica. L'abbandono di ogni
programma rivoluzionario e l'accettazione dei termini di base del
sistema democratico-parlamentare, con la conseguente scelta di operare
unicamente entro lo spazio del sistema, formano la caratteristica di
fondo che accompagna ed accompagnerà sempre l'azione politica dei gruppi
socialisti.
Si veda l'atteggiamento di condanna del leader socialista portoghese nei
confronti della proposta comunista di un sindacato unico, accolta dal
MFA e sancita sul piano legislativo ed esecutivo; un pluralismo
sindacale come lo vorrebbero Soares, socialdemocratici ed episcopato,
non controllato da volontà politica autonomista, favorirebbe senza
dubbio la strumentalizzazione dei movimenti sindacali da parte del
capitalismo americano (non dimentichiamo il maggio francese e l'autunno
caldo italiano).
Se è dunque vero che i comunisti sono legati a doppio filo con Mosca,
anche se Alvaro Cunhal ha dichiarato: «... il Portogallo è membro
dell'Alleanza Atlantica, e niente cambierà», rimane sintomatico il fatto
che i socialisti sono contrari ad ogni svolta non gradita agli ambienti
neo-radicali e sionisti americani.
In definitiva, finché i socialisti resteranno tra i protagonisti, il
colonialismo yankee-sionista avrà a disposizione un sicuro e fedele
alleato per le proprie manovre.
SUDEST ASIATICO
Vietnam - 30 anni dopo
La sconfitta dell'esercito di Thieu e l'abbandono del Vietnam da parte
americana, segnano forse la fine delle ingerenze colonialiste nella
regione. Di fronte alla crisi militare che li ha visti sempre più
pesantemente battuti dalla guerra di popolo vietnamita, gli USA in tutti
i modi hanno cercato di contenere il conflitto nei limiti di un focolaio
da alimentare o soffocare secondo le necessità, amministrando così la
tensione in condominio con il partner sovietico. In questo quadro essi
promossero una situazione di «né pace né guerra», sancita dagli accordi
di Parigi del gennaio '73, restando chiaro che un inasprimento del
conflitto in Indocina avrebbe avuto immediate ripercussioni nel
Vicinoriente, essendo i due settori collegati nel gioco delle
contropartite tra USA e URSS.
Hanoi e il Governo rivoluzionario provvisorio (GRP), nel corso dei due
anni trascorsi dal congelamento del conflitto stabilito a Parigi, hanno
dimostrato di non voler subire le manovre russo-americane. Lo stesso
principe Sianuk aveva previsto la fragilità del compromesso parigino,
sostenendo all'epoca che l'intera questione indocinese era suscettibile
di nuove esplosioni, e che si sarebbe dovuto ricominciare tutto da capo.
Le forze nordvietnamite e il GRP, prima di sferrare l'ultima offensiva
contro Saigon hanno riconfermato il rifiuto di negoziare con un governo
completamente legato alle direttive della Casa Bianca. Con Thieu al
potere dunque gli USA non avrebbero mai conseguito una penetrazione
politico-diplomatica nell'area nordvietnamita e non sarebbe loro restata
quindi che la via dell'escalation militare per una soluzione forte,
stabilizzando di riflesso la situazione vicinorientale su posizioni
moderate dopo un compromesso con l'URSS.
L'istituzionalizzazione della tensione tra Israele e paesi arabi ha
evidentemente pesato in senso opposto. La libertà di manovra USA in seno
al mondo arabo, garantita dalla progressiva e sempre più completa
rinuncia sovietica alla leadership sui paesi arabi dell'epoca
nasseriana, ha avuto la sua contropartita nella decisione americana di
abbandonare le posizioni nel sudest asiatico. Di qui il voltafaccia di
Ford che dopo aver promesso aiuti finanziari li ha concessi a metà, per
sbarazzarsi dell'ormai inutile generale Thieu, del quale si compie la
sorte: usato e sfruttato da tre presidenti americani egli fugge in abiti
borghesi dalla capitale assediata per rifugiarsi nell'isola dei
dittatori falliti. Il benservito è giunto comunque troppo tardi.
Probabilmente Ford aveva interesse a sgombrare la strada per liquidare
il conflitto e imporre nuovamente il possibilismo guerra-pace prima
della vittoria militare avversaria, in attesa di una ripresa della
politica americana in senso aggressivo, che per la limitata dimensione
politica dell'uomo e per la debolezza interna non può essere oggi
realizzata. La sconfitta americana nel sudest asiatico era ormai
accettata dal Congresso e anche dal Dipartimento di Stato. Assicuratisi
la collaborazione sovietica e certi che i cinesi, ormai disponibili al
dialogo, non avrebbero tentato di forzare la situazione, agli americani
non restava che ritirarsi in buon ordine, salvando la faccia il più
elegantemente possibile.
AMERICA LATINA
FINE DELLE PROSPETTIVE RIVOLUZIONARIE
«Gli Stati Uniti sembrano destinati dalla
provvidenza ad affliggere con la miseria l'America Latina,
in nome della libertà»
Simon Bolivar |
«La rivoluzione è un fatto specifico di ogni popolo e sarebbe dannoso
tentare di esportarla». Agli inizi del 74 Leonid Breznev, in visita
all'Avana, teneva al leader cubano Castro questo discorso, senza dubbio
graditissimo a Kissinger, riaffermando la volontà di condizionare
l'attività del regime cubano, bloccandolo nel riformismo interno e
nell'allineamento ai canoni distensivi. Il «socialismo cubano» di Fidel
Castro si è infatti dimostrato del tutto insufficiente a promuovere una
emancipazione dei popoli latinoamericani dal controllo politico
russo-americano, mentre appare chiara la volontà di riprendere i
contatti con gli USA tramite gli Stati latinoamericani moderati che
hanno la maggioranza nell'OEA (l'organizzazione degli Stati
latino-americani, ispirata da Washington). È la vittoria del moderatismo
di Fidel sull'intransigenza rivoluzionaria intuita e testimoniata da
Ernesto Guevara. Il «Che» infatti aveva compreso i limiti sia
dell'internazionalismo a sfondo cosmopolita del marxismo, sia delle «vie
nazionali» del revisionismo fideliano, sentendo la necessità di un
superamento di tali posizioni, sulla scia dell'esperienza vietnamita,
cioè di un fronte limitato ad una precisa area geopolitica in cui i
motivi nazionali, in senso etnico e non puramente geografico, possano
fungere da cemento di una aggregazione anticolonialista rivoluzionaria,
consentendo anche una più organica opera di penetrazione politica e
militare.
II Colonialismo delle multinazionali
Perché dunque la «via guevariana» non ha mai avuto successo in America
Latina? Anzitutto per la mancanza di un appoggio economico-militare
quale quello cinese al Vietnam, e poi per la presenza del colonialismo
economico delle multinazionali, che sfruttano sapientemente a proprio
vantaggio le rivalità piccolo-nazionaliste tra i paesi latino-americani,
riuscendo a legare la loro economia alle proprie strutture: in questo
senso gli USA favoriscono l'espansione industriale, cioè come sbocco
agli investimenti del grosso capitale sionista (Anaconda, ITT, United
Fruit), senza mai permettere una reale autonomia economica. Se è dunque
vero che in certe zone del subcontinente americano (Bolivia, Brasile)
sussiste una spaccatura netta tra l'oligarchia asservita agli USA, e la
massa degli straccioni, senza la stratificazione sociale intermedia
tipica dei paesi occidentali, spaccatura che rende attuabili delle forme
di guerra rivoluzionaria impensabili in un paese industrializzato, è
anche vero che il controllo americano è difficilmente superabile: si
pensi al colonialismo agricolo-industriale della United Fruit, che ha
fatto coniare il termine di «repubblica delle banane» per indicare un
paese soggetto agli Stati Uniti. Quando in Guatemala nel 1954 il
presidente Jacobo Arbenz, reo di avere attuato una riforma agraria che
minacciava di espropriare le piantagioni della United Fruit, fu
rovesciato con uno dei tanti golpe programmati dalla Casa Bianca, la
United Fruit era proprietaria dell'unica ferrovia del paese, dell'unico
impianto telegrafico pubblico, dell'unico porto sull'Atlantico.
John Moors Cabot, allora aiuto del segretario di Stato per gli affari
inter-americani era un grande azionista della United Fruit; Henry Cabot
Lodge, allora ambasciatore americano all'ONU, faceva parte del consiglio
di amministrazione della United Fruit; Walter Bedell Smith, direttore
della CIA prima di Alien Dulles, dopo la fine di Arbenz divenne
direttore generale della United Fruit; Alien Dulles, allora direttore
della CIA, era stato direttore generale della United Fruit; Foster
Dulles, segretario di Stato americano, era stato per molti anni il
consulente legale della United Fruit.
IL TRUST DEL RAME
Più recentemente le vicende del Cile, sono state illuminanti. Fin dalle
sue origini come Stato, la storia del Cile è legata al rame. Dal 1818 al
1896 gli inglesi monopolizzano lo sfruttamento del metallo, passando poi
la mano agli americani. Inizia così il «trust» dell'Anaconda e della
Kennecott. Nel 1924 solo lo 0,8% del reddito della Kennecott entra nelle
casse dello Stato cileno: 8 dollari al Cile, 1.000 agli USA. Durante il
secondo conflitto mondiale, in piena «politica del buon vicinato», il
governo di Washington stabilisce un prezzo politico del rame a 11,77
cent per libbra. Grazie alle sovvenzioni governative le società
americane possono vendere a 27 cent (quasi la quotazione ufficiale della
Borsa di Londra) ma pagano il Cile a 11,77. Santiago perde così mezzo
miliardo di dollari. La storia si ripete durante la guerra di Corea;
questa volta il prezzo politico costa 300 milioni di dollari al Cile.
Nel 1966 Londra fissa il prezzo ufficiale a 60 cent. Gli USA, non
contenti di impedire al Cile la raffinazione del metallo estratto dal
suolo cileno, impongono 36 cent. Un ennesimo giro di vite sarà attuato
con la politica protezionistica nixoniana del ferragosto 71. Gabriel
Valdes, cancelliere del democristiano Frei, sostiene nel '63 che per
ogni dollaro investito nell'economia cilena, gli USA ne ottengono almeno
cinque di profitto. Nel 1966 Frei vara una nazionalizzazione a lungo
termine del 51% dell'Anaconda e della Kennecott. In questo modo
l'aumento della produzione e la modernizzazione delle attrezzature sono
pagate col denaro cileno, mentre permangono le franchigie fiscali e
l'assenza di controllo amministrativo sulle due società. La
«cilenizzazione» costa al Cile un miliardo di dollari. In questo clima
Allende vince le elezioni del settembre 1970; egli si illude di
sconfiggere il capitalismo umanizzandolo, e intanto rifiuta l'indennizzo
per le società americane espropriate, chiedendo anzi 400 milioni di
dollari per gli eccessivi profitti. Una scelta politica che non potrà
sostenere per il suo limite moderato, lo stesso che ha consentito lo
svirilimento del castrismo, e che porterà Allende ad affidarsi ai
militari, autocondannandosi.
La «longa manus» del trust del rame non si limita ad operare
nell'America Latina. Da noi, ad esempio, è recente l'attacco contro
l'ente minerario di Stato sferrato dalle forze radicalsocialiste nel
quadro della scalata alle partecipazioni statali, da trent'anni in mano
democristiana. Dietro l'affare EGAM (esploso proprio quando si stavano
concludendo gli accordi con Perù, Zambia e Zaire per l'importazione
diretta di minerale, destinato alla nuova raffineria di Gela) è
possibile vedere lo zampino di Agnelli, legato alle forze economiche
radical-progressiste e vecchio amico dei Rothschìld. La dinastia
bancaria ebraica di Francia infatti controlla con l'americana Anaconda
il mercato dell'oro rosso, ed il presidente della Fiat è ben lieto di
fare un favore ai Rothschìld, aggredendo chi si era azzardato a
scavalcarli. Ma non gli ha insegnato nulla Enrico Mattei!
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