Italia - Repubblica - Socializzazione

Controcorrente

ANNO II * n. 3/4 * Marzo/Aprile 1975

 

quindicinale iscritto al numero 15326 del registro stampa presso il Tribunale di Roma il 2 gennaio 1974 - direttore responsabile Romolo Giuliana - spedizione in abbonamento postale gruppo II - pubblicità inferiore al 70% - stampato in proprio - editrice SMIARCA srl - in caso di mancato recapito restituire al mittente: via P. Villari 27 - 00184 Roma

dimensioni: cm. 16,5 X 22 * pagine n° 24

 

Sommario


* La manfrina del regime


* Sadat a testa bassa


* Le contraddizioni di sua maestà


* Penne all'arrabbiata


* Hai il cuore tenero, zio Sam


* Socialisti:

testa di ponte dell'occidentalismo


* Vietnam 30 anni dopo


* America-latina:

fine delle prospettive rivoluzionarie
 


 

INTERNI

 

LA MANFRINA DEL REGIME
Le alterne vicende del braccio di ferro tra partito cattolico, sinistra radicale e comunisti

Esauriti i congressi dei partiti di governo (DC e PRI) e del massimo partito di opposizione (il PCI) siamo ormai in pieno clima pre-elettorale. Lo conferma puntualmente la ripresa in grande stile del gioco infame delle bombe e degli assassini; gli «opposti estremismi» devono continuare, nonostante l'eclissi di Rumor e Taviani, fin qui i più esperti amministratori della violenza di regime. Il metodo della paura per imbrigliare l'elettorato moderato evidentemente ha fatto scuola, né potremmo suggerirne uno più efficace. Ma quale giudizio darà lo storico futuro su una classe politica che può tirare avanti solo grazie a metodi simili? Intanto, a giudicare dalle reazioni dell'opinione pubblica, lo scopo sembra raggiunto: l'emorragia a sinistra del partito cattolico sarà compensata da un recupero di voti a destra, e i comunisti (cugini stretti dei liberticidi portoghesi, come non si stanca di strillare la propaganda Spes) avranno un aumento di voti comunque non eclatante che non permetterà loro di smuovere l'egemonia cattolica.
Ciò posto cerchiamo di schematizzare più diffusamente la situazione.

FINE DEL CENTROSINISTRA
Sebbene continui la proposizione del centrosinistra come formula di governo per mancanza di alternative possibili, l'epoca del centrosinistra è finita, nel senso che si sono esauriti i supporti ideologico-politici che lo avevano sostenuto. Essi erano: una forte presenza radicale in campo internazionale (l'asse Kennedy-Roncalli-Kruscev); la necessità per la DC -siamo intorno alla metà degli anni '60- di catturare i socialisti al fine di allargare la base di sostegno del governo, e contemporaneamente di separare definitivamente i socialisti stessi dal PCI, col che il ricordo dei «fronti popolari» poteva tranquillamente restare sui libri di storia.
Alla distensione kennedyana, dovuta alla convergenza ideologica in chiave radicale tra USA e URSS, succedeva però un nuovo tipo di intesa, basata sulla collaborazione utilitaristica, che pone i rapporti tra superpotenze sotto il segno della forza e della concorrenza politica, ciò che veniva a precludere la possibilità di estendere al PCI la manovra democristiana già attuata nei confronti dei socialisti. Di qui il fallimento della ipotesi di «repubblica conciliare», il cui successo sembrava assicurato all'epoca del pontificato di Giovanni XXIII.
L'ascesa del repubblicano Nixon ha in seguito eliminato ogni illusione di una ripresa radicale dopo la parentesi johnsoniana, sancendo la vittoria della linea «socialdemocratica» (non nel senso italiano del termine, che va esteso a tutto lo schieramento conservatore mondiale), la stessa linea che aveva prodotto la scissione socialista in Italia, cioè la separazione dei social-radicali dai conservatori saragattiani.

I COMUNISTI SI ALLINEANO
Il PCI restava dunque isolato, ed il fallimento della «repubblica conciliare» ha pesato non poco ai suoi quadri, in particolare al filo-sovietico Longo. Dopo la fine di Togliatti a Yalta non fu difficile per i sovietici distogliere i successori dal revisionismo radicale di «Ercoli», anche se continuò l'esaltazione delle «vie nazionali» (Jugoslavia, Romania, Cecoslovacchia) come cavallo di battaglia del PCI e come credenziale di governo. Ma dopo i fatti di Praga si presentò netta l'alternativa di rifiutare o accettare l'egemonia di Mosca. La ribellione non offriva prospettive: ribelli al Cremlino i comunisti italiani perdevano interesse politico anche per Paolo VI, che non aveva abbandonato la speranza di tornare ago della bilancia USA-URSS, cercando nel contempo nuova linfa nell'ONU e nel Terzo Mondo, per realizzare con essi, come ipotesi di ripiego, il sogno neotemporalista che Washington e Mosca avevano infranto all'epoca giovannea.
Al PCI non restava che adeguarsi. La sfavorevole contingenza internazionale poteva essere affrontata da un partito rivoluzionario, non da un apparato (seppur bene organizzato) di moderati. Si consideri a tale proposito, sul piano ideologico, la matrice culturale paraborghese del comunismo italiano (la formazione e il costante riferimento a Gobetti e più ancora a Croce, di Togliatti e Gramsci), e sul piano storico, la massima espressione dell'azione comunista: la resistenza. Come ha sempre confutato Amadeo Bordiga agli ex-compagni, essa ha portato in ultima analisi alla affermazione di un tipo di borghesia in sostituzione di un altro, sempre a spese della classe operaia, e, come ammette lo stesso Ferruccio Parri, essa deve considerarsi fallita rispetto alle aspirazioni che si proponeva. Quando il segretario del PCI parla oggi dell'attività della sinistra italiana nel trentennio democristiano come di una «tappa della rivoluzione democratica e antifascista» dimostra di non possedere il senso del ridicolo.
Tornando al nostro discorso, i comunisti riuscirono successivamente ad uscire dall'isolamento e a guadagnare una relativa libertà di movimento rispetto a Mosca, grazie al funambolismo di Berlinguer, l'uomo della seconda ondata che non è stato partigiano, succeduto al vecchio Longo alla testa del partito. Egli ha ripreso la proposta che Pietro Ingrao predicava almeno dal 1965, cioè il dialogo con i cattolici, non solo con le frange del dissenso ma con il grosso partito cattolico, tirando fuori la questione vecchia della collaborazione DC-PCI sotto l'etichetta nuova del «compromesso storico», che è poi il punto di arrivo della lunga azione di fiancheggiamento iniziata tre decenni prima da Togliatti con la svolta moderata di Salerno e con il tacito appoggio all'articolo 7 sui Patti del Laterano.

LA RISPOSTA RADICALE
L'attuale strategia del compromesso è un pesante limite alla penetrazione radicale in seno al partito comunista, penetrazione che ha la sua punta di diamante in Giorgio Amendola, eterno sostenitore della creazione di un «partito Unico dei lavoratori» su cui catalizzare tutta la sinistra e scalzare la DC dalle sue posizioni di potere. Infatti proprio la sinistra neogiacobina, la sinistra democratica non comunista, in una parola la sinistra radicale, che va dai socialisti agli extraparlamentari, legata ai circoli democratici e sionistici americani, ha intaccato la egemonia cattolica, con la lenta opera di penetrazione ideologica sul piano del costume e della «way of life», con la conquista di talune strutture portanti del regime (magistratura, polizia, industria della cultura di massa), e con l'inserimento in tutte le altre, specie in quelle dell'economia nazionale (industria di Stato, Fiat), un tempo feudo incontrastato della DC. La fortuna di questa sinistra radicale è stata diversa, e a volte opposta, rispetto a quella comunista. Così l'avvento della distensione kennedyana lanciò i radicali fino al governo con la DC, ma bloccò i comunisti; l'ascesa dei conservatori in Russia e in America ha indotto il Vaticano a porgere la mano ai comunisti (non certo per carità cristiana!) tagliando fuori i radicali, anche se in seguito su quest'ultima strategia si è inserita la vittoria radicale per il divorzio, vittoria che il PCI ha cercato di evitare fino all'ultimo, e alla quale si è dovuto associare a naso storto per l'impuntatura del senatore Fanfani, che ha rifiutato la mediazione comunista intesa ad allontanare il referendum, memore forse del voltafaccia delle Botteghe Oscure in occasione delle elezioni presidenziali.
Questo per chiarire la differenza tra comunisti e radicali, differenza che smonta l'alibi ideologico dalla destra, il cui anticomunismo viscerale non coglie il legame tra sinistra democratica italiana e «new left» americana, e accomuna in un solo calderone i «servi di Mosca» per poter giustificare l'asservimento (di essa destra) alle direttive del conservatorismo d'oltreatlantico.

DUE VIE PER IL VATICANO
Il minuetto tra socialradicali, clericoconservatori, comunisti, e destra, continua. Al momento attuale non presenta però uno svolgimento chiaro, risentendo della situazione di incertezza internazionale. Dopo il tramonto di Nixon l'attuale fase della leadership USA non può che rappresentare un periodo di transizione. Verso l'ascesa di quali forze? Probabilmente verso una ripresa del partito democratico negli «States», che costituirebbe la base di partenza per il rilancio della «nuova frontiera», cioè della solidarietà ideologica USA-URSS con una forte ripresa del controllo americano sull'Occidente in chiave radical-progressista. L'ipotesi alternativa comporterebbe la vittoria delle frange isolazioniste americane, ma va considerato che nell'attuale momento di disfatta politica nel Sud-est asiatico e di stasi diplomatica nel Vicinoriente, gli USA hanno tutto l'interesse a reagire, riprendendo saldamente in mano le redini. Dunque una prolungata fase di isolamento segnerebbe lo sfaldamento dell'intero castello neocolonialista americano, con le ripercussioni, sfavorevoli agli USA, sui rapporti con i sovietici, che è facile immaginare.
In entrambi i casi il Vaticano potrebbe imbastire una collaborazione con il PCI. In chiave radical-progressista, dopo una radicalizzazione dei comunisti stessi, tale da lasciare tranquilli gli americani (vedi il rifiuto della pregiudiziale antiatlantica emerso al 14° Congresso del PCI, e l'opera diplomatica del comunista ebreo Segrè verso gli USA). In chiave socialdemocratica e conservatrice, qualora il papato riuscisse a porsi come forza neutrale rispetto agli attuali protettori americani, rispolverando il sogno neotemporalista di cui dicevamo sopra, per cui il PCI sarebbe preferibile alla sinistra radicale, più nettamente laicista. Anche qui la lenta intesa tra massoneria -una delle maggiori forze ideologiche radicali- e gesuiti (vedi l'abbraccio tra l'ex gran maestro prof. Giordano Gamberini e padre Giovanni Caprile) indica nella prima ipotesi la più probabile.

 


MONDO ARABO


SADAT A TESTA BASSA
L'impasse del segretario di Stato americano e la scomparsa del sovrano saudita, che garantiva a «mister Kiss» col suo prestigio uno spazio di manovra, hanno portato il presidente egiziano, legato al carro USA, in un vicolo cieco. Per mascherare la crisi il traditore si fa polemico...
Le violente e volgari accuse rivolte dal presidente egiziano al colonnello libico Gheddafi, hanno costituito assieme all'assassinio di re Feisal le note salienti della politica vicinorientale di questi ultimi tempi. Per ricercare le ragioni dell'accanimento della classe dirigente egiziana nel portare avanti la polemica, occorre fare alcune considerazioni.

ALLE STRETTE
Il machiavellismo politico di Sadat, che a ragione può essere annoverato assieme a Hussein di Giordania tra i grandi traditori della causa araba, è attualmente alle strette. Bisognoso di aiuti economici, militari e diplomatici, Sadat dopo l'offuscamento di Kissinger e la scomparsa di Feisal è venuto a trovarsi isolato. Da qualche anno infatti l'Egitto è impegnato in una lenta opera di riavvicinamento agli USA che ha avuto vari aspetti. Dal consolidamento dei rapporti diplomatici, alla accettazione di aiuti e di investimenti economici, fino alla liquidazione in senso tecnocratico e liberista, delle riforme socialiste e nazionali di Nasser, in modo da liberare la strada ai capitali e alla tecnologia americani. Se nel marzo 1972 Sadat poteva affermare che: «gli americani sono ipocriti ed incoerenti e noi non tratteremo con loro poiché la loro posizione è identica a quella israeliana» soltanto due anni più tardi, nel marzo del 1974, con un voltafaccia degno di lui affermava che: «... grazie agli sforzi di Kissinger il loro atteggiamento ci è diventato favorevole attraverso la ricerca della pace e di un regolamento pacifico. Perciò è d'obbligo avere un atteggiamento filo americano da parte nostra».
Ultimamente la politica di Sadat era se non direttamente ispirata da Kissinger; in ogni caso allineata su posizioni filo-americane. Non potendosi concepire un improvviso ritorno dell'egemonia russa in Egitto la politica filo-americana di Sadat è divenuta irreversibile, a meno di una sua caduta. Per questo egli è pronto a qualsiasi cedimento nei riguardi di Israele pur di conseguire un accordo che gli garantisca qualche decennio di pace e permetta di lanciare l'Egitto verso uno sviluppo industriale, legandolo così inevitabilmente ai capitali americani e quindi agli interessi sionisti.
Tale politica presenta comunque aspetti di difficile attuazione. In primo luogo Israele.
Dopo la guerra del Kippur i sionisti non hanno dimenticato di essere stati ridimensionati sul piano militare e sono ansiosi di una riuscita. In ogni caso le concessioni che sono disposti a fare agli arabi sono perlomeno ridicole e la presenza della rivoluzione palestinese non può essere liquidata con qualche promessa o con soluzioni parziali. In secondo luogo gli USA dopo il Watergate attraversano un periodo di debolezza diplomatica dovuta anche alle divergenze interne del sionismo internazionale, che, è bene non scordarlo, controlla da secoli la politica USA. In questo quadro gli Stati Uniti d'America non sono attualmente nelle migliori condizioni per offrire a Sadat le garanzie necessarie.

UN DIVERSIVO POLEMICO
Un passo falso di Sadat o un imprevisto potevano mettere in discussione tutta la politica del Cairo. E l'imprevisto c'è stato. La battuta d'arresto nell'attività diplomatica di Kissinger e l'improvvisa scomparsa del monarca saudita, avvenimenti forse legati fra loro più di quanto non si creda. Privato della copertura di Feisal che con il suo prestigio interno al mondo arabo garantiva a Sadat lo spazio entro cui manovrare, quest'ultimo non ha potuto fare altro che raggiungere un frettoloso accordo con la Siria cercando nel contempo di stornare l'attenzione dell'opinione pubblica interna e di guadagnare tempo proprio con la polemica con Gheddafi. In questo particolare momento la Libia di Gheddafi, pur se isolata, può svolgere un ruolo importantissimo e pernicioso per il moderatismo di Sadat.
Non si dimentichi che in un altro momento delicato, esattamente nel 1973 prima della «guerra da operetta», Gheddafi aveva dato prova di grande abilità riuscendo ad isolare Israele nel contesto dei paesi afro-arabi, con positive ripercussioni sul piano diplomatico internazionale. Sadat quindi sa bene che la sua influenza e le sue possibilità politiche sono direttamente proporzionali all'offuscarsi della stella del presidente libico.
Difficile è fare previsioni a breve o lunga scadenza. Ancora non appare chiaro cosa gli Stati Uniti abbiano chiesto in cambio dell'abbandono delle loro posizioni in Indocina, ma se come contropartita essi si sono riservati il medioriente non è escluso che gli avvenimenti prendano una piega violenta; i due settori infatti sono sempre stati strettamente legati tra di loro nella politica dei blocchi e delle aree calde, nelle quali scaricare le tensioni.

EVOLUZIONE DI UN TRADIMENTO - PARLA SADAT:

12 NOVEMBRE 1970
«Quando il nostro ministro degli esteri ha visitato l'Italia e la Spagna, ha sentito dei discorsi che gli USA avevano trasmesso. A dir poco questi discorsi erano delle menzogne, chiare menzogne»
«Gli USA, non si limitano a sostenere le menzogne di Israele e non hanno cominciato soltanto una grande campagna psicologica contro di noi, bensì un'azione di preclusione e di sabotaggio alle riunioni delle grandi nazioni»

3 GENNAIO 1971
«Gli USA hanno approfittato del cessate il fuoco, degli incidenti di Giordania e dei cupi giorni successivi, mentre noi stavamo nel lutto, per esercitare la più forte pressione con l'anima di un commerciante senza scrupoli»

4 GENNAIO 1971
«Noi non ritireremo alcun missile dal fronte, qualunque siano le circostanze»

8 GENNAIO 1971
«Noi non ci siamo indeboliti politicamente, al contrario, con la Rivoluzione Libica e quella Sudanese è chiaro a chiunque abbia un minimo di buon senso, che la nazione araba non morirà»

10 GENNAIO 1971
«La Rivoluzione Libica era un colpo per gli USA, perché essi non avevano previsto questa rivoluzione filo-egiziana»

11 GENNAIO 1971
«Gli USA, offrono il materiale bellico ed intendono umiliarci».
«Gli USA sanno perfettamente che fu il presidente americano a dare inizio alla guerra del '67 e noi non lo dimenticheremo»

11 GENNAIO 1971
«Gli USA pretendono concessioni da parte nostra ed io dichiaro che questa è una posizione opportunista e meschina»

28 MARZO 1971
«La Rivoluzione Libica e quella Sudanese, hanno capovolto i piani del nemico»

30 MARZO 1972
«Gli americani sono ipocriti ed incoerenti e noi non tratteremo con loro, poiché la loro posizione è identica a quella israeliana»

28 MARZO 1974
Interrogato sulla buona volontà degli USA, Sadat ha detto: «Nel 1967 essi erano completamente dalla parte israeliana, ma nel 1973 e grazie agli sforzi di Kissinger il loro atteggiamento ci è diventato favorevole attraverso la ricerca della pace e di un regolamento pacifico. Perciò è d'obbligo avere un atteggiamento filo-americano da parte nostra»
 

 


PROFILI: FEISAL


LE CONTRADDIZIONI DI SUA MAESTÀ
L'equivoco tra tradizione islamica e moderatismo politico aveva portato il vecchio monarca su posizioni filo-occidentaliste, ma la sua dimensione carismatica dava ugualmente fastidio allo Scià e a Kissinger.
Non è facile inquadrare in modo adeguato la figura di Feisal, lo scomparso monarca saudita, per alcuni aspetti contraddittori tra la sua personalità, i presupposti ideologici che la sorreggevano, e le emanazioni politiche che ne scaturivano.
Figlio del leggendario Abdel Aziz, Feisal (che in lingua araba significa «spada» quasi ad indicare una origine guerriera) salì al trono nel novembre del 1964, per una congiura di palazzo al posto del dissoluto fratello Ibn Saud.
Custode dei luoghi santi dell'Islam, dopo la morte di Nasser il re saudita non tanto per merito della sua politica che era direttamente ispirata da Washington, quanto per le sue doti personali, potè assurgere al ruolo, insieme con Gheddafi, di capo carismatico del mondo islamico.
Ma a differenza di quest'ultimo, portatore di una dimensione ideologica propria tradotta in concrete realizzazioni all'interno della Libia, re Feisal non è mai riuscito ad esprimere, aldilà di un certo anticomunismo viscerale, una reale alternativa all'occidentalismo e al marxismo. Invano egli aveva cercato di ancorarsi al conservatorismo tradizionale islamico, facendo propria la massima che la tradizione islamica fa risalire ad Alì, genero di Maometto: «Allah ha maledetto gli innovatori e quanti offrono loro asilo», senza riuscire ad intuire che per la sua stessa portata universale tale tradizione non è comprimibile in un contenuto politico grettamente retrivo, ma è invece suscettibile di una manifestazione storica in senso rivoluzionario, unitamente alla tradizione e alla spiritualità europea, sulla via della libertà dei popoli mediterranei dal marxismo e dall'occidentalismo, supporti ideologici ed armi politiche dei sionismo.

LA PENETRAZIONE OCCIDENTALISTA
In Arabia il consumismo e l'occidentalismo sono penetrati in profondità nelle strutture socio-economiche del paese: le Cadillac hanno sostituito il cammello, e la borghesia del petrolio manda i figli a studiare in Inghilterra e negli States, con il risultato di occidentalizzare la cultura della classe dirigente; la presenza del petrolio come unica risorsa lega il paese ad uno sviluppo illogico ed estraneo alla cultura islamica perché condizionato ed imposto dai paesi occidentali. In questa situazione evidentemente il restare fedele a certi principi e a una certa tradizione, senza neanche tentare di influire sul processo storico della nazione, non è sufficiente.

IBRIDISMO
Feisal aveva solamente cercato di proporsi come simbolo e come esempio di uno stile di vita, era nemico di qualsiasi apertura laica o democratica, non beveva, non fumava, non giocava: era religiosissimo.
Quando aveva cercato di adeguarsi ai tempi lo aveva fatto goffamente; cinque anni fa permise l'installazione della prima emittente televisiva, provocando la ribellione dei gruppi più fanatici che lo misero in imbarazzo.
Il risultato è stato in definitiva quello di dar vita ad un ibrido connubio tra una struttura sociale tipicamente occidentale e consumista e il patrimonio islamico del mondo arabo. Tale ibridismo ha prodotto i suoi effetti anche nella distribuzione del potere.
Feisal aveva infatti il suo più intimo collaboratore nel fratello Fahd, attuale eminenza grigia del regime, le cui grandi passioni sono le carte e la vita mondana. La classe dirigente saudita, composta da membri delle tribù devote alla monarchia, parenti della casa reale, e militari della guardia selezionati dai servizi di sicurezza della CIA, è profondamente influenzata dal contatto con la cultura e la politica anglo-americana.
Gli USA lo avevano legato alla propria politica prima ancora che con la CIA e i servizi segreti, con la trappola dell'anticomunismo. Non si dimentichi che l'Arabia durante la seconda guerra mondiale aveva funzionato da base alleata ed era stata anche una preziosa piattaforma durante la guerra di Corea. Fu solo per la presenza minacciosa di Israele che l'Arabia aveva ricercato un ruolo proprio sia pure limitato.
Feisal vedeva giustamente nel comunismo una manifestazione occulta del sionismo ed un pericolo per il mondo islamico. Ma gli sfuggiva completamente che anche l'occidentalismo, specialmente nella sua dimensione consumista e nella sua cultura neo-illuminista, è un altro aspetto del sionismo e costituisce un pericolo mortale per la tradizione islamica.
Invece che ricercare ed imporre una terza via, egli aveva finito per accettare la politica del «male minore», ammesso che la democrazia radical-progressista e occidentalista sia veramente un male minore rispetto allo statalismo marxista e sovietico.
La conseguenza è stata che egli era divenuto un cane da guardia degli interessi yankees nel Vicino Oriente. Magari un cane da guardia nobile e che abbaiava al padrone ma pur sempre un gendarme di interessi estranei e contrari a quelli del popolo arabo.
Re Feisal fu un moderato e questo, in una situazione storica in cui Israele perpetua i frutti della sua politica colonialista con la forza della potenza militare, basta a mettere in luce la sua miopia politica e storica e le sue responsabilità relative al mantenimento dello status quo. Su un solo punto fu intransigente, e anche recentemente lo aveva ripetuto a Kissinger: quello di rivendicare agli arabi a tutti i costi la parte araba di Gerusalemme con la grande moschea, che è poi la zona della città ove gli ebrei più hanno trasformato e costruito, per rendere irreversibile l'annessione e porre gli arabi davanti al fatto compiuto.
Fedele amico dei regimi moderati quale il Kuwait, gli sceiccati del Golfo Persico, lo Yemen del Nord, l'Egitto ma soprattutto la Giordania al cui re Hussein aveva consigliato di massacrare i palestinesi nel famigerato «settembre nero» del 1970, per una sorta di contraddizione storico-politica, aveva finito per diventare l'avversario di un altro interprete degli interessi americani: lo Scià di Persia. Molto probabilmente proprio queste contraddizioni ultimamente hanno ostacolato la politica americana del «passo dopo passo» e della liquidazione delle rivendicazioni arabe nei confronti di Israele. In questo contesto il presidente egiziano Sadat risultava più utile di Feisal per il giuoco USA, essendo più malleabile e pronto a rinunciare a qualsiasi rivendicazione per il miraggio di qualche contentino territoriale agitato da Kissinger e poi negato da Israele. Certamente la personalità e la figura carismatica di Feisal avevano influenza sul mondo arabo, e tale influenza poteva ritorcersi in modo non gradito agli USA, come nel caso dell'ultimo tentativo di costituire una coalizione anti-iraniana nella penisola araba, che mal si conciliava con l'impostazione perseguita di concerto da Kissinger e dallo Scià.
Non è certamente un caso che negli ultimi venticinque anni nel Vicinoriente nessun re, presidente o ministro è stato ucciso per motivi personali o da folli irresponsabili ma sempre per cause politiche. Da Razmara (1951), a re Feisal d'Irak con il principe ereditario Novri Said (1958), da re Abdallah di Giordania (1951), a Majali (1960) premier giordano, al generale Kassem (1963) presidente dell'Irak, fino a Mansour (1965) premier dell'Iran, l'assassinio è stata sempre un'arma politica. A nostro avviso l'assassinio di re Feisal non sfugge a questa logica.

LE CONSEGUENZE
Consideriamo un momento le conseguenze politiche della sua scomparsa. Appare evidente come gli USA se ne siano avvantaggiati. La coppia che governa attualmente l'Arabia difatti appare senz'altro più manovrabile del vecchio re. Kaled Ibn Abdel Aziz, fratello e successore di Feisal, malato di cuore e operato in America un anno fa, non ambiva a governare né ha la personalità adatta ad un tale compito. Fahd, 53 anni, anch'egli fratello del defunto monarca, e suo ex braccio destro, attuale primo ministro e ministro dell'interno, famoso, come abbiamo detto, per le perdite al casinò e per le notti brave sulla Costa Azzurra, appare condizionabile.
La tecnocrazia petrolifera che fa capo a Yamani, ministro del petrolio, laureatosi ad Harvard, privata della guida di Feisal subirà inevitabilmente uno scivolamento su posizioni di allineamento alla linea voluta da Washington e Teheran. Arabia e Iran, primi due produttori di petrolio, si scontravano in seno all'OPEC, la lega dei paesi produttori, proprio per l'irrigidimento di Feisal contro lo Scià, impegnato in un faraonico piano di industrializzazione che lo legava al capitale e alla tecnologica americani. Appare anche probabile il realizzarsi di un processo centrifugo in seno agli emirati del Golfo Persico, e il risorgere delle lotte e delle rivalità intestine, che faranno proprio il gioco dell'Iran, contro cui Feisal aveva indirizzato la politica degli emiri.
Unica nota positiva si può trarre in prospettiva. Eliminato l'equivoco tra tradizione islamica e moderatismo politico che Feisal incarnava, se i paesi arabi più intransigenti riusciranno a costituire un fronte comune in senso antiamericano, gli USA in futuro nei momenti delicati non potrebbero contare sull'autorità di una figura carismatica per il controllo della situazione.
 

PENNE ALL'ARRABBIATA

Nessuna organizzazione palestinese ha rivendicato la paternità dell'operazione condotta contro il consolato generale di Israele a Johannesburg, eppure i gazzettieri del regime, pronti a manovrare la penna quando si tratta di solidarizzare con la causa sionista, non hanno esitato ad imbastire una montatura basata sullo standard che vuole gli ebrei vittime innocenti e i guerriglieri palestinesi belve sanguinarie.
Quando poi è risultato che il «feroce terrorista» era un agente israeliano del servizio di sicurezza, lo si è trasformato nel solito «folle irresponsabile».
Il ministro degli esteri israeliano Allon ha dichiarato: «se la civiltà non liquiderà il terrorismo, il terrorismo liquiderà la civiltà», dimostrando di avere la memoria corta. Ha dimenticato forse il genocidio sulla pelle degli arabi a Deir Yassin, a Gaza, a Kafr Quasem e nelle altre decine di villaggi che hanno visto all'opera i criminali della banda Stern e soci, che siedono oggi al parlamento israeliano (l'on. Stern ci ricorda tanto Moranino)?
Tornando ai nostri gazzettieri di destra e di sinistra, perché non ci raccontano che fine hanno fatto i dodici agenti del Mossad, il servizio segreto israeliano, autori dell'assassinio di Wael Zwaiter a Roma, e della eliminazione di altri arabi uccisi con lo stesso metodo in tutta Europa?
Nel corso dell'ultima battaglia in Vietnam, che ha visto l'avanzata irrefrenabile delle forze rivoluzionarie e la rotta precipitosa verso il sud degli uomini di Van Thieu, gli americani, sconfitti nel ruolo ad essi tanto caro di «sentinella dell'Occidente», non hanno trovato di meglio che assumere quello, vecchio ma sempre efficace, del coccodrillo pietoso, organizzando, papà Ford in testa, ponti aerei di salvezza (operazione nota sotto la speciosa definizione di «babies life»), e dimostrando tutto sommato una faccia di bronzo da fare invidia ai giornalisti de "il Messaggero".
A giudicare dal piagnisteo sulla sorte dei vietnamiti c'è da pensare seriamente che gli yankees ignorino, nonostante l'elevato livello tecnologico, che le bombe uccidono anche se sono «made in USA», e il sospetto si rafforza considerando la disinvoltura con la quale le hanno sganciate a suo tempo sul Giappone e sull'Europa. O forse, chissà, da quando se n'è andato Nixon sono diventati tutti buoni.
Di fatto assistiamo allo strano spettacolo di intere famiglie, tutte disgustosamente sane, che all'arrivo dei profughi vietnamiti si contendono l'adozione dei piccoli orfani terrorizzati ed emaciati.
- Istinti umanitari - biascicano stancamente gli ingenui.
- Senso di colpa - sentenziano gravemente gli epigoni di Freud.
- America - diciamo noi. Con le sue contraddizioni, le sue sfaccettature, il suo eclettismo, ma una matrice comune: l'inciviltà.
 


PORTOGALLO

SOCIALISTI: testa di ponte dell'occidentalismo
La vittoria del partito socialista alle elezioni svoltesi recentemente in Portogallo -le prime dopo mezzo secolo di regime salazariano- non rappresenta una sorpresa, né è la prima fase di un processo capace di portare a sostanziali mutamenti dell'attuale assetto politico.
Riservandoci di approfondire in un prossimo numero la questione portoghese, ci limitiamo a trarre talune considerazioni urgenti.
La prospettiva dei socialisti al potere non rappresenta certo una svolta in senso rivoluzionario, o tale da rendere il Portogallo critico nei confronti del monopolio USA-URSS.
Basterebbe esaminare la storia dei partiti socialisti per rendersi conto di come essi agiscano in funzione occidentalista e reazionaria e non rappresentino, oggi, una alternativa politica. L'abbandono di ogni programma rivoluzionario e l'accettazione dei termini di base del sistema democratico-parlamentare, con la conseguente scelta di operare unicamente entro lo spazio del sistema, formano la caratteristica di fondo che accompagna ed accompagnerà sempre l'azione politica dei gruppi socialisti.
Si veda l'atteggiamento di condanna del leader socialista portoghese nei confronti della proposta comunista di un sindacato unico, accolta dal MFA e sancita sul piano legislativo ed esecutivo; un pluralismo sindacale come lo vorrebbero Soares, socialdemocratici ed episcopato, non controllato da volontà politica autonomista, favorirebbe senza dubbio la strumentalizzazione dei movimenti sindacali da parte del capitalismo americano (non dimentichiamo il maggio francese e l'autunno caldo italiano).
Se è dunque vero che i comunisti sono legati a doppio filo con Mosca, anche se Alvaro Cunhal ha dichiarato: «... il Portogallo è membro dell'Alleanza Atlantica, e niente cambierà», rimane sintomatico il fatto che i socialisti sono contrari ad ogni svolta non gradita agli ambienti neo-radicali e sionisti americani.
In definitiva, finché i socialisti resteranno tra i protagonisti, il colonialismo yankee-sionista avrà a disposizione un sicuro e fedele alleato per le proprie manovre.



SUDEST ASIATICO

Vietnam - 30 anni dopo
La sconfitta dell'esercito di Thieu e l'abbandono del Vietnam da parte americana, segnano forse la fine delle ingerenze colonialiste nella regione. Di fronte alla crisi militare che li ha visti sempre più pesantemente battuti dalla guerra di popolo vietnamita, gli USA in tutti i modi hanno cercato di contenere il conflitto nei limiti di un focolaio da alimentare o soffocare secondo le necessità, amministrando così la tensione in condominio con il partner sovietico. In questo quadro essi promossero una situazione di «né pace né guerra», sancita dagli accordi di Parigi del gennaio '73, restando chiaro che un inasprimento del conflitto in Indocina avrebbe avuto immediate ripercussioni nel Vicinoriente, essendo i due settori collegati nel gioco delle contropartite tra USA e URSS.
Hanoi e il Governo rivoluzionario provvisorio (GRP), nel corso dei due anni trascorsi dal congelamento del conflitto stabilito a Parigi, hanno dimostrato di non voler subire le manovre russo-americane. Lo stesso principe Sianuk aveva previsto la fragilità del compromesso parigino, sostenendo all'epoca che l'intera questione indocinese era suscettibile di nuove esplosioni, e che si sarebbe dovuto ricominciare tutto da capo.
Le forze nordvietnamite e il GRP, prima di sferrare l'ultima offensiva contro Saigon hanno riconfermato il rifiuto di negoziare con un governo completamente legato alle direttive della Casa Bianca. Con Thieu al potere dunque gli USA non avrebbero mai conseguito una penetrazione politico-diplomatica nell'area nordvietnamita e non sarebbe loro restata quindi che la via dell'escalation militare per una soluzione forte, stabilizzando di riflesso la situazione vicinorientale su posizioni moderate dopo un compromesso con l'URSS.
L'istituzionalizzazione della tensione tra Israele e paesi arabi ha evidentemente pesato in senso opposto. La libertà di manovra USA in seno al mondo arabo, garantita dalla progressiva e sempre più completa rinuncia sovietica alla leadership sui paesi arabi dell'epoca nasseriana, ha avuto la sua contropartita nella decisione americana di abbandonare le posizioni nel sudest asiatico. Di qui il voltafaccia di Ford che dopo aver promesso aiuti finanziari li ha concessi a metà, per sbarazzarsi dell'ormai inutile generale Thieu, del quale si compie la sorte: usato e sfruttato da tre presidenti americani egli fugge in abiti borghesi dalla capitale assediata per rifugiarsi nell'isola dei dittatori falliti. Il benservito è giunto comunque troppo tardi. Probabilmente Ford aveva interesse a sgombrare la strada per liquidare il conflitto e imporre nuovamente il possibilismo guerra-pace prima della vittoria militare avversaria, in attesa di una ripresa della politica americana in senso aggressivo, che per la limitata dimensione politica dell'uomo e per la debolezza interna non può essere oggi realizzata. La sconfitta americana nel sudest asiatico era ormai accettata dal Congresso e anche dal Dipartimento di Stato. Assicuratisi la collaborazione sovietica e certi che i cinesi, ormai disponibili al dialogo, non avrebbero tentato di forzare la situazione, agli americani non restava che ritirarsi in buon ordine, salvando la faccia il più elegantemente possibile.
 


AMERICA LATINA


FINE DELLE PROSPETTIVE RIVOLUZIONARIE

 

«Gli Stati Uniti sembrano destinati dalla provvidenza ad affliggere con la miseria l'America Latina, in nome della libertà»


Simon Bolivar


«La rivoluzione è un fatto specifico di ogni popolo e sarebbe dannoso tentare di esportarla». Agli inizi del 74 Leonid Breznev, in visita all'Avana, teneva al leader cubano Castro questo discorso, senza dubbio graditissimo a Kissinger, riaffermando la volontà di condizionare l'attività del regime cubano, bloccandolo nel riformismo interno e nell'allineamento ai canoni distensivi. Il «socialismo cubano» di Fidel Castro si è infatti dimostrato del tutto insufficiente a promuovere una emancipazione dei popoli latinoamericani dal controllo politico russo-americano, mentre appare chiara la volontà di riprendere i contatti con gli USA tramite gli Stati latinoamericani moderati che hanno la maggioranza nell'OEA (l'organizzazione degli Stati latino-americani, ispirata da Washington). È la vittoria del moderatismo di Fidel sull'intransigenza rivoluzionaria intuita e testimoniata da Ernesto Guevara. Il «Che» infatti aveva compreso i limiti sia dell'internazionalismo a sfondo cosmopolita del marxismo, sia delle «vie nazionali» del revisionismo fideliano, sentendo la necessità di un superamento di tali posizioni, sulla scia dell'esperienza vietnamita, cioè di un fronte limitato ad una precisa area geopolitica in cui i motivi nazionali, in senso etnico e non puramente geografico, possano fungere da cemento di una aggregazione anticolonialista rivoluzionaria, consentendo anche una più organica opera di penetrazione politica e militare.

II Colonialismo delle multinazionali
Perché dunque la «via guevariana» non ha mai avuto successo in America Latina? Anzitutto per la mancanza di un appoggio economico-militare quale quello cinese al Vietnam, e poi per la presenza del colonialismo economico delle multinazionali, che sfruttano sapientemente a proprio vantaggio le rivalità piccolo-nazionaliste tra i paesi latino-americani, riuscendo a legare la loro economia alle proprie strutture: in questo senso gli USA favoriscono l'espansione industriale, cioè come sbocco agli investimenti del grosso capitale sionista (Anaconda, ITT, United Fruit), senza mai permettere una reale autonomia economica. Se è dunque vero che in certe zone del subcontinente americano (Bolivia, Brasile) sussiste una spaccatura netta tra l'oligarchia asservita agli USA, e la massa degli straccioni, senza la stratificazione sociale intermedia tipica dei paesi occidentali, spaccatura che rende attuabili delle forme di guerra rivoluzionaria impensabili in un paese industrializzato, è anche vero che il controllo americano è difficilmente superabile: si pensi al colonialismo agricolo-industriale della United Fruit, che ha fatto coniare il termine di «repubblica delle banane» per indicare un paese soggetto agli Stati Uniti. Quando in Guatemala nel 1954 il presidente Jacobo Arbenz, reo di avere attuato una riforma agraria che minacciava di espropriare le piantagioni della United Fruit, fu rovesciato con uno dei tanti golpe programmati dalla Casa Bianca, la United Fruit era proprietaria dell'unica ferrovia del paese, dell'unico impianto telegrafico pubblico, dell'unico porto sull'Atlantico.
John Moors Cabot, allora aiuto del segretario di Stato per gli affari inter-americani era un grande azionista della United Fruit; Henry Cabot Lodge, allora ambasciatore americano all'ONU, faceva parte del consiglio di amministrazione della United Fruit; Walter Bedell Smith, direttore della CIA prima di Alien Dulles, dopo la fine di Arbenz divenne direttore generale della United Fruit; Alien Dulles, allora direttore della CIA, era stato direttore generale della United Fruit; Foster Dulles, segretario di Stato americano, era stato per molti anni il consulente legale della United Fruit.

IL TRUST DEL RAME
Più recentemente le vicende del Cile, sono state illuminanti. Fin dalle sue origini come Stato, la storia del Cile è legata al rame. Dal 1818 al 1896 gli inglesi monopolizzano lo sfruttamento del metallo, passando poi la mano agli americani. Inizia così il «trust» dell'Anaconda e della Kennecott. Nel 1924 solo lo 0,8% del reddito della Kennecott entra nelle casse dello Stato cileno: 8 dollari al Cile, 1.000 agli USA. Durante il secondo conflitto mondiale, in piena «politica del buon vicinato», il governo di Washington stabilisce un prezzo politico del rame a 11,77 cent per libbra. Grazie alle sovvenzioni governative le società americane possono vendere a 27 cent (quasi la quotazione ufficiale della Borsa di Londra) ma pagano il Cile a 11,77. Santiago perde così mezzo miliardo di dollari. La storia si ripete durante la guerra di Corea; questa volta il prezzo politico costa 300 milioni di dollari al Cile. Nel 1966 Londra fissa il prezzo ufficiale a 60 cent. Gli USA, non contenti di impedire al Cile la raffinazione del metallo estratto dal suolo cileno, impongono 36 cent. Un ennesimo giro di vite sarà attuato con la politica protezionistica nixoniana del ferragosto 71. Gabriel Valdes, cancelliere del democristiano Frei, sostiene nel '63 che per ogni dollaro investito nell'economia cilena, gli USA ne ottengono almeno cinque di profitto. Nel 1966 Frei vara una nazionalizzazione a lungo termine del 51% dell'Anaconda e della Kennecott. In questo modo l'aumento della produzione e la modernizzazione delle attrezzature sono pagate col denaro cileno, mentre permangono le franchigie fiscali e l'assenza di controllo amministrativo sulle due società. La «cilenizzazione» costa al Cile un miliardo di dollari. In questo clima Allende vince le elezioni del settembre 1970; egli si illude di sconfiggere il capitalismo umanizzandolo, e intanto rifiuta l'indennizzo per le società americane espropriate, chiedendo anzi 400 milioni di dollari per gli eccessivi profitti. Una scelta politica che non potrà sostenere per il suo limite moderato, lo stesso che ha consentito lo svirilimento del castrismo, e che porterà Allende ad affidarsi ai militari, autocondannandosi.
La «longa manus» del trust del rame non si limita ad operare nell'America Latina. Da noi, ad esempio, è recente l'attacco contro l'ente minerario di Stato sferrato dalle forze radicalsocialiste nel quadro della scalata alle partecipazioni statali, da trent'anni in mano democristiana. Dietro l'affare EGAM (esploso proprio quando si stavano concludendo gli accordi con Perù, Zambia e Zaire per l'importazione diretta di minerale, destinato alla nuova raffineria di Gela) è possibile vedere lo zampino di Agnelli, legato alle forze economiche radical-progressiste e vecchio amico dei Rothschìld. La dinastia bancaria ebraica di Francia infatti controlla con l'americana Anaconda il mercato dell'oro rosso, ed il presidente della Fiat è ben lieto di fare un favore ai Rothschìld, aggredendo chi si era azzardato a scavalcarli. Ma non gli ha insegnato nulla Enrico Mattei!