ANNO II * n. 5/6 *
Maggio/Giugno 1975
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16,5 X 22 * pagine n° 16 |
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Sommario:
* Hanno vinto?
* Una «rivoluzione» telecomandata
* Tre note sul vicinoriente
* Saggistica: Indocina (1ª parte)
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INTERNI
HANNO VINTO?
OVVERO COME TI RADICALIZZO IL COMUNISTA
Le elezioni regionali di giugno, contrariamente al clamore suscitato,
non hanno portato ad una "vittoria" delle sinistre capace di smuovere
l'egemonia cattolica. Esse anzi hanno confermato la tendenza alla
accentuazione della penetrazione delle forze radicali all'interno del
paese, sulla scia di analoghi avvenimenti internazionali che possiamo in
ultima analisi far risalire alla decisione delle centrali d'oltre oceano
di rilanciare la «nuova frontiera» di memoria kennediana, in vista di
una affermazione democratica alle presidenziali del '76 (vedi l'articolo
sul Portogallo).
Tornando a noi dunque, risultato più radicale che comunista. Questo
dovrebbe far riflettere le molte cassandre stonate che preconizzano la
comunistizzazione d'Italia. Il PCI, infatti, se può ritenersi
soddisfatto di essere uscito dalla quarantena in cui lo aveva relegato
il centrosinistra con la cattura dei socialisti alla logica del potere
democristiano, ha conseguito questa affermazione (che, considerato
l'assorbimento dei voti dei gruppuscoli, del vecchio PSIUP, e quelli dei
tiepidi pronti a cambiare sponda in qualunque momento, non è né
eclatante né eccezionale) grazie alla strategia e alla penetrazione
radicale. Essa opera sugli uomini delle Botteghe Oscure già dagli anni
'60, gli anni della espansione radical-progressista, che aveva allora in
Italia il suo leit-motiv nel «grande partito di democrazia laica»
agitato da quell'Ugo La Malfa che ancora oggi imposta sulla frenesia
atlantista il congresso del suo partito (alla faccia di Mazzini).
L'operazione tendeva, secondo i suoi mentori, a scalzare la DC dalle
proprie posizioni di strapotere e realizzare le riforme di struttura che
il centrosinistra (il quale andava perdendo sempre più l'ideologizzazione
radicale, ripiegandosi in senso moderato, e siamo all'epoca della
scissione socialista) mostrava di non voler mai attuare.
RIFORME: UN'ARMA IN MANO AL REGIME
È bene a questo punto riaffermare che le riforme (revisione del
Concordato, divorzio, regioni, ristrutturazione economica e sociale,
ecc.) -realizzate lentamente e balordamente- anche se ispirate a criteri
più fattivi ed efficaci, non avrebbero intaccato come non hanno
intaccato le radici su cui il regime poggia. Non avrebbero portato, come
non hanno portato. ad un miglioramento delle condizioni di vita dei
lavoratori, ma tuttalpiù ad una nuova sferzata di consumismo e di
borghesizzazione del proletario (ammesso che ancora esista) oltre a
ulteriori sacche di disoccupazione e sottoccupazione. Si aggiunga che,
sventolando la bandiera della giustizia sociale -anche se il vessillo è
blasfemo in mano ai neocapitalisti, la gente ci crede- il regime
acquista maggior rispettabilità, anestetizzando sempre più profondamente
la coscienza delle classi, sistematicamente escluse dalla gestione della
cosa pubblica e dalle decisioni politiche, dietro il paravento della
democrazia dei partiti, e quindi per colpa di Fanfani & soci ma con la
complicità determinante di Berlinguer & compagni.
L'ASSE CATTOLICI-COMUNISTI
Possiamo anzi affermare che il vero cardine dell'attuale regime è l'asse
cattolici-comunisti. Esso inizia con le gesta di un agente sovietico
chiamato Palmiro Togliatti, che torna in Italia dopo esserne fuggito
anni prima ed usa il pugno di ferro contro i fascisti sconfitti (le
leggi trucibalde di "Ercoli" ministro ne danno una idea), ed il guanto
di velluto con i preti che rialzano la cresta (la svolta moderata di
Salerno e la tacita approvazione dell'art. 7 della Costituzione sul
Concordato). Ma Stalin decide di lasciare l'occidente europeo agli
americani, e da Yalta telefona ai generali dell'Armata Rossa di fermarsi
ed aspettare gli americani -dall'altra parte- prima di lanciarsi contro
Berlino. I comunisti si trovano relegati ad un ruolo di appoggio al
regime, fuori del governo, ed è la loro maledizione politica.
RADICALI E BOTTEGHE OSCURE
Abbiamo schematizzato in un numero precedente le vicende successive, ed
il ruolo di Ingrao (dialogo coi cattolici) e di Amendola (unità delle
sinistre). Arrivando al presente è molto probabile che una nuova ascesa
radicale segni la vittoria del "radicale" Amendola, cioè la ripresa dei
vecchio progetto lamalfiano.
Va però considerato che buona parte del vertice del partito mostra di
non gradire il gioco radicale, al punto d'avere tentato fino all'ultimo
di evitare il referendum, forse per paura di una affermazione cattolica,
certo per non offrire una vittoria alla sinistra laica. Ma socialisti e
radicali sono consapevoli della portata storica della unità della
sinistra in Italia, anche se una forte presenza elettorale del PCI non è
certo un elemento a favore dell'ammorbidimento delle posizioni politiche
ed ideologiche di quest'ultimo verso la "nuova sinistra" laica e
progressista. Anche se, dunque, il lavoro in comune con i comunisti non
può sfociare nell'unità a breve scadenza resta la funzione (assolta
egregiamente dalla stampa mondadoriana ed agnelliana) di spingere il PCI
su posizioni sempre più radicaleggianti. A tale funzione lavora a pieno
ritmo il PSI, vero portavoce della volontà radicale e sionista in
Italia, che va sempre più ponendosi come gruppo di potere economico e
politico, contraltare alla DC.
PORTOGALLO
UNA "RIVOLUZIONE" TELECOMANDATA
Dopo l'esaurimento del vecchio regime salazariano, l'ascesa dei
militari portoghesi rappresenta l'adeguamento al nuovo corso
radical-progressista della leadership statunitense
Per poter comprendere le recenti fasi della politica portoghese occorre
inquadrare il ruolo delle forze che si contendono l'egemonia politica in
seno al nuovo regime. Altrettanta importanza riveste la cornice
internazionale, in cui rientrano le contrapposizioni interne al
Portogallo, cornice che vede la sempre più netta affermazione della
strategia radicale, ispirata in America dal composito mondo del partito
della "nuova frontiera", punto di incontro degli interessi sionisti e
mafiosi, di quelli dell'alta finanza monopolistica, del capitalismo
illuminato, dei tecnocrati harvardiani, con relativa appendice culturale
e propagandistica negli intellettuali "liberata", nei santoni della «new
left», e nelle grandi centrali di informazione e manipolazione della
opinione pubblici.
RITORNO ALLA «NUOVA FRONTIERA»?
Frutto della strategia radicale è senza dubbio il momento di incertezza
della leadership americana sull'occidente. dopo il susseguirsi di
scandali riguardanti la CIA, dopo il precedente eclatante del Watergate
nixoniano, l'impasse della politica kissingeriana del passo dopo passo,
e il ridimensionamento nel sudest asiatico.
Proprio in questo contesto avvennero improvvise la «rivoluzione dei
garofani», la successiva uscita di scena del generale Spinola, suo
iniziale protagonista, e la conseguente ascesa delle forze che ora si
scontrano nel paese lusitano, vale a dire il partito socialista di
Soares, il partito comunista di Cunhal, e il MFA (Movimento delle Forze
Armate). Con il controllo sull'esecutivo e sulla presidenza americana da
parte delle forze radicali e sioniste è iniziata una fase di mutamenti
al vertice più o meno indolori nei paesi affiliati alla NATO: l'asse
tecnocratico Giscard-Schmidt tra Parigi e Bonn con la liquidazione
dell'eredità gollista in Europa, la nuova democrazia greca con le sue
due facce, radical-progressista e moderata, riassumibili in Papandreu e
Caramanlis; l'ascesa della sinistra laica in Italia. Il Portogallo, dopo
mezzo secolo di dittatura salazariana e caetaniana e di politica
coloniale in Africa (assai fastidiosa per le multinazionali) non è
sfuggito all'attacco delle forze radicali, le quali dall'epoca del
trinomio Kennedy-Papagiovanni-Kruscev cominciarono ad insinuarsi nei
gangli del potere con l'intento oggi riuscito di estromettere le
correnti di stampo borghese e conservatore espresse dal vecchio
capitalismo e dalla Chiesa, al fine di impiantare un sistema basato sul
neocapitalismo illuminato, quale si è pienamente realizzato oltre
oceano. La strategia radicale prevedeva anzitutto l'attacco e la
penetrazione verso l'esercito, struttura portante del vecchio regime,
tramite la utilizzazione dei comunisti, come già -ma in tutt'altra
situazione- era avvenuto in Grecia con Markos. Si è così favorita
l'infiltrazione di elementi estremisti tra la truppa (come sta ora
accadendo in Italia) e l'imbonimento in senso pacifista dei quadri. A
tale proposito certa stampa ha pubblicato un presunto piano sovietico su
scala internazionale, che definisce le fasi della conquista del potere
da parte dei vari PC. L'affare sembra piuttosto un espediente dei
radicali per logorare sul piano propagandistico le posizioni comuniste.
La lenta opera di penetrazione radicale ha sortito clamorosamente i suoi
effetti col capovolgimento del vecchio regime, logorato da cinquant'anni
di potere e ormai esauritosi storicamente. Mentre il vertice del MFA
dava il suo appoggio al PCP, certo della scarsa forza elettorale dei
partiti e di una grossa percentuale di schede bianche, la base delle
forze armate decretava il successo dei socialisti di Soares, sfilando
con i garofani nei fucili.
LE TRE CORRENTI DEI MILITARI
La posizione ideologica dei militari non è tra le più chiare, e sono
note le divergenze in seno al MFA. Da una parte i «terzomondisti» che in
qualche modo si rifanno alle esperienze afroasiatiche e latinoamericane,
probabilmente senza intuirne il limite piccolo-nazionalista, di miopia
politica e di incapacità rivoluzionaria, dall'altra parte gli
«europeisti» che puntano direttamente su un Portogallo occidentalizzato,
aggregato alle strutture colonialistiche americane, e si muovono quindi
nell'area moderata, infine gli ortodossi di sinistra, i quali si
ispirano al modello dei paesi dell'est, modello improponibile anche per
il Cremlino, alle soglie di Gibilterra e delle Azzorre, data la esigenza
primaria affermata da Breznev di continuare la distensione, cioè la
politica dei blocchi.
Le contrapposizioni spesso pesanti tra queste correnti non hanno
comunque portato ad una rottura netta, che segnerebbe probabilmente lo
sgretolarsi dell'intero potere militare, salvo una improbabile notte dei
lunghi coltelli in salsa latina. Sembra quindi che il MFA punti per il
momento a mantenere la situazione cristallizzata per un periodo di
tre-cinque anni, come sancito col patto dell'11 aprile, obbligando i
partiti ad un ruolo subordinato ed all'accettazione preventiva del
progetto costituzionale ancora non realizzato. Il ridimensionamento dei
partiti si basa sul presupposto, non certo marxista, che la rivoluzione
non è pienamente sentita dal popolo, il quale non è ancora maturo per
gestirla, e quindi essa va portata avanti da chi ne ha compreso la
portata, cioè dal vertice del MFA.
CUNHAL E SOARES
Il partito comunista di Alvaro Cunhal è l'unico che sia riuscito a porsi
in posizione privilegiata con il MFA, per l'influenza sui sindacati e
per la propria chiarezza ideologica. Essa va ricercata nello stalinismo,
da cui l'antagonismo con i socialisti, interpreti tramite il leader
Soares di un sottile gioco ispirato dalle centrali radicali americane di
cui parlavamo. Come tutti i partiti socialisti europei, ricettacolo di
sionisti e faccendieri di interessi radicali, anche il partito
socialista portoghese assolve al ruolo di braccio occulto della nuova
sinistra americana. Probabilmente Soares intende strumentalizzare i
comunisti in chiave estremistica, per poi potersi presentare come il
solo garante del progresso e del benessere economico. La
nazionalizzazione delle compagnie di assicurazioni e delle banche, il
tentativo di eliminazione del latifondismo, la proibizione al partito
cattolico di presentarsi alle elezioni, la tacitazione del giornale
"Repubblica" definito da Cunhal un ostacolo alla rivoluzione, il rifiuto
opposto agli USA circa la utilizzazione delle Azzorre come basi in caso
di conflitto vicinorientale, ci indicano un braccio di ferro, oltre che
tra comunisti e socialisti, tra essi e le strutture ancora in piedi del
vecchio regime. Il risultato del braccio di ferro riguarda il futuro
prossimo portoghese.
MONDO ARABO
TRE NOTE SUL VICINORIENTE
1) l'accordo CEE-Israele
L'11 maggio a Bruxelles è stato firmato un nuovo accordo tra i Nove e
Israele, in sostituzione di quello del '70. Pur essendo di natura
commerciale, esso comprende disposizioni destinate a dare impulso alla
cooperazione economica e tecnica, ed ha implicazioni politiche a
vantaggio dei sionisti, permettendo loro tra l'altro di superare il
raffreddamento dei rapporti con l'Europa seguito alla guerra del kippur,
proprio in un momento di disaccordo tra falchi e colombe nel fronte
sionista internazionale che poteva isolare Tel Aviv. Risulta quindi
evidente l'influenza sionista sui paesi europei, disposti ad
autodanneggiarsi pur di sostenere economicamente Israele. Il ministro
degli Esteri Allon, firmatario per la parte israeliana, non ha nascosto
la propria soddisfazione, aggiungendo che il suo paese continua ad
aspirare all'associazione completa con la Comunità.
Parlavamo di autodanneggiamento. L'accordo prevede una graduale
riduzione delle tariffe doganali europee per i prodotti israeliani
(ottenuti, è bene non dimenticarlo, dalla terra araba) fino alla totale
abolizione dei dazi per il 1° luglio !977, mentre da parte israeliana
l'eliminazione delle barriere doganali sarà scaglionata in due tappe con
tempi molto più lunghi, fino al gennaio 1985. Per il settore agricolo il
paese più colpito e proprio l'Italia, costretta a schiacciare sotto le
ruote dei camion i propri agrumi invenduti per comprare quelli
israeliani. Lo stato ebraico può invece disporre di un mercato di 250
milioni di abitanti che già nel 1971 aveva fornito ad Israele il 54%
delle importazioni ed assorbito il 39% delle esportazioni. Lo stesso
mercato di 250 milioni di abitanti che, quando si trattava di acquistare
il petrolio dagli arabi senza la mediazione americana e senza il super
profitto delle «sette sorelle» ebraiche, si è prontamente tirato
indietro, in nome della fedeltà atlantica, cioè dell'asservimento a chi
ci rapina. C'è da augurarsi che questo nuovo smacco ai paesi arabi e
all'Europa, illumini quanti si illudono di combattere il sionismo
prescindendo da un discorso ideologico globale, senza vedere cioè in
esso una forza che trascende i limiti geografici dello stato d'Israele,
senza capire che la lotta va impostata ben al di la di qualche
rivendicazione territoriale.
2) gli scontri in Libano
La situazione libanese e indicativa del la volontà sionista di
eliminazione della guerriglia palestinese. La politica del passo dopo
passo continua. I palestinesi si vedono opposti gli uomini della Falange
Libanese del cristiano maronita Pierre Gemayel, che la fondo nel 1936
all'insegna del trinomio «Dio, Patria, Famiglia» comune a vari movimenti
di retroguardie nazionalistica, specie nell'America Latina. Se la
falange spagnola, estromessi gli elementi rivoluzionari che la
fondarono, è approdata attraverso un lungo processo di involuzione alla
condizione di campo di manovra di preti e moderati, la falange libanese,
nata conservatrice, è attualmente una organizzazione inquadrata dalla
CIA.
Il Libano che ha tra i paesi arabi una cultura e una struttura sociale
che bene si adatta allo stile di vita occidentale, da anni vissuto sotto
l'ala protettrice americana, è però forse il solo paese confinante con
Israele che abbia mantenuto dopo la guerra dei '67 alcune posizioni
strategiche favorevoli in caso di conflitto, il che unito alla presenza
di centinaia di migliaia di profughi palestinesi, è per gli israeliani
un serio problema. Attraverso bombardamenti sulla popolazione inerme e
intimidazioni terroristiche gli israeliani hanno costantemente tenuto
sotto pressione l'opinione pubblica libanese e influenzato l'opinione
dei molti governi succedutisi in Libano, in senso antipalestinese. In un
clima di questo genere è evidentemente balenata nella mente dei banditi
di Tel Aviv l'idea di infliggere un colpo mortale alla rivoluzione
palestinese, cercando di ripetere quel che avvenne nel famigerato
settembre nero del 1970 nella Giordania di Hussein.
La prospettiva che in una ipotetica conferenza i palestinesi (la
presenza dei quali a Ginevra sembra garantita dalla Russia dopo i
colloqui di Arafat al Cremlino) partecipassero umiliati da un intervento
militare dell'esercito libanese era una prospettiva molto fascinosa per
gli israeliani. Non se la sono lasciata sfuggire. Attraverso la CIA la
funzione di accendere la miccia è stata affidata alla falange di Gemayel.
Quest'ultimo fin dal febbraio scorso si fece promotore di una violenta
crociata antipalestinese recepita e condivisa specie negli ambienti
della destra cristiana. Gli scontri cruenti hanno provocato centinaia di
morti e la pronta reazione della guerriglia, senza dare i risultati
sperati dai manovratori sionisti.
La situazione permane instabile nonostante i compromessi e le mediazioni
di parte araba. Il tentativo sionista di liquidare per sempre la
rivoluzione palestinese non è certo l'ultimo, e si ripeterà alla
prossima occasione favorevole, sfruttando anche il limite moderato di
Arafat che sembra deciso a portare l'OLP su posizioni vicine a Sadat,
l'unica preoccupazione del quale è di far uscire l'Egitto dalla lotta
araba contro Israele.
3) gli incontri Ford-Sadat a Salisburgo
Il 1° e 2 giugno a Salisburgo il presidente americano Gerald Ford e
quello egiziano Anwar es Sadat hanno avuto una serie di colloqui
giudicati costruttivi dalle due parti. Ford e Sadat pur non annunciando
accordi particolari hanno comunque confermato concordi che i loro
governi procederanno insieme nella ricerca delle soluzioni alla politica
vicinorientale. Ford, giunto a Salisburgo dopo il placet sovietico alla
politica americana sancito nei colloqui di Vienna tra Kissinger e il
ministro degli Esteri sovietico Gromiko, è deciso a consolidare la
politica USA nel Mediterraneo, e può ritenersi soddisfatto. Gli USA
infatti sono riusciti a mettere in piedi un «fronte avanzato arabo» tra
quei paesi che, ormai decisi ad ammettere e garantire la esistenza di
Israele, si sono completamente votati alla politica yankee. Tale fronte
può praticamente comprendere l'Egitto, l'Arabia Saudita, la Giordania, e
in parte la Siria, che essendo sotto la sfera sovietica ha avuto
evidentemente la direttiva da Mosca di associarsi alla politica
egiziana. Lo «step by step» di Kissinger comincia a dare i suoi frutti,
ed Israele può finalmente dormire sonni tranquilli? Mentre anche da
parte russa si inizia a notare una certa apertura verso Israele
(l'adesione russa alla tesi israeliana su una preparazione «più
concreta» della conferenza di Ginevra è indicativa al riguardo), è da
notare che contrariamente a quanto avvenuto ai tempi di Nixon, la
politica americana di apertura verso i paesi arabi moderati non ha
provocato l'isolamento di Israele. Anzi il presidente Ford era stato
esortato con una lettera firmata da 76 senatori americani (25
repubblicani e 51 democratici) ad un atteggiamento decisamente
filoisraeliano, e ciò a un anno e mezzo di distanza dalle elezioni
presidenziali ha indubbiamente la sua importanza.
Restano ormai in piedi soltanto due ostacoli contro una completa
vittoria della ingerenza USA e del colonialismo d'Israele, per giunta
con l'accettazione araba moderata. La presenza della guerriglia
palestinese e il tentativo di costruzione di un fronte unito dei paesi
oltranzisti e rivoluzionari, che pare delinearsi sotto la leadership
libica. L'Irak che sta attraversando una crisi nei rapporti con la Siria
sembrerebbe schierarsi in tal senso, così pure i settori migliori della
rivoluzione palestinese. La riuscita di questo fronte può definirsi un
tentativo per una ripresa rivoluzionaria contro Israele, prima della
completa liquidazione di tutte le speranze di lotta.
PRECISIAMO
La faccia tosta con cui la stampa radicale ha accolto la
caduta della città vietnamita di Saigon, ribattezzata città
di Ho Chi Minh, ultimo epilogo di una «giusta causa» secondo
il metro di giudizio illuminato che divide appunto le guerre
in giuste o sbagliate, ovvero, aggiungiamo noi, in quelle
che non toccano gli interessi sionisti e in quelle che
invece li toccano da vicino, tale faccia tosta dicevamo ha
fatto cadere certa stampa in una macroscopica
contraddizione. È noto infatti come essa sia impegnata a
diffondere e sostenere la tesi secondo cui, lo stato di
Israele è una realtà storica acquisita per cui è da stolti
prospettare una sua cancellazione dalle carte geografiche
del Vicino Oriente. Ergo i milioni di profughi palestinesi
potranno al più accontentarsi di formare uno stato in esilio
o dovranno rassegnarsi a restare dei senza patria.
Bene, la caduta -a seguito della lotta di popolo vittoriosa
dei vietcong- del regime di Van Thieu (senza parlare della
fine della Cambogia di Lon Nol) non ha insegnato nulla alla
stampa radicale, e la stessa sorte dei governi fantoccio
indocinesi potrebbe toccare in un futuro che ci auguriamo il
più vicino possibile allo stato sionista di Israele.
A nostro avviso infatti, purché ci sia una volontà politica
aliena da compromessi e una irriducibile certezza di
vittoria, come è stato appunto il caso del Vietnam e della
Cambogia, nessuna superfetazione storica o nessuno stato
imposto con la violenza delle armi possono considerarsi
storicamente acquisiti e immutabili.
Per tornare al discorso sui pennivendoli, adusi a dipingere
gli israeliani come i novelli pionieri creatori del giardino
nel deserto, essi non hanno neppure minimamente pensato che
si potesse cogliere un parallelismo fra le guerre di popolo
delle due realtà indocinese e palestinese. E in effetti la
tesi dei pionieri invincibili della vanga e del fucile da
opporsi agli arabi codardi e straccioni ha fatto breccia in
molti ambienti, specialmente in quelli di destra stante
l'alto grado di imbecillità che li caratterizza.
Si può cogliere di nuovo una analogia con il Vietnam circa
il quale appunto la stampa e la propaganda tanto cara agli
ambienti di destra (si ricordi il famoso film dei «berretti
verdi») avevano dipinto i soldati yankees come i nuovi
centurioni, mentre alla prova dei fatti essi si sono
rivelati per quello che sono sempre stati, ovvero dei
mediocri soldati e dei pessimi combattenti.
Considerando poi ciò che gli ebrei nel corso dei secoli,
sparsi nei ghetti di tutto il mondo, sono sempre stati,
riteniamo utile spendere qualche parola per puntualizzare
alcuni dati di fatto.
In primo luogo quella dei contadini-soldati abitanti dei
kibbuzim è una leggenda da sfatare. Essi infatti
costituiscono appena poco più dell'1,5% della popolazione
israeliana. In realtà la struttura sociale di Israele vede
il predominio assoluto delle attività terziarie svolte da
commercianti e sensali.
In secondo luogo un'altra leggenda da sfatare è quella che
dipinge come «pionieri» gli ebrei che lasciati i paesi di
origine hanno tentato i rischi e l'avventura sionista. Anche
qui la realtà è ben diversa. Infatti tali «pionieri» sono
sempre stati assistiti massicciamente sia dagli ebrei della
diaspora che dagli USA. In particolare le banche ebraiche
Rothschild, Kuhm-Loeb and Co., Wassermann, Warbrer ecc.
hanno riversato milioni di dollari su Israele.
E sempre in tema di aiuti non si dimentichi come, con la
colossale menzogna dei «sei milioni di ebrei morti» gli
israeliani hanno rapinato alla Germania Federale (la
Repubblica Democratica Tedesca più realista si è rifiutata
di versare un solo centesimo) a iniziare dal 1952 più di un
miliardo di dollari.
Considerando infine che più del 70% della bilancia attiva di
Israele (mentre quella passiva gode di facilitazioni
particolari) è costituito da rimesse e aiuti provenienti
dall'estero, Israele più che stato sottosviluppato andrebbe
definito «stato assistito». |
UN LIBRO DIFFICILE
L'amico P. F. Altomonte, autore di opere filosofiche e politiche, che ci
avevano fatto registrare la profondità e varietà della sua cultura e le
non comuni sue doti di studioso e di pensatore, ha presentato
recentemente un nuovo libro: "Per una tridirezionalità dello spirito
come nuovo metro di valore".
Ingegnere, architetto, pittore e pubblicista Altomonte, con questa nuova
fatica, affronta e risolve in modo rivoluzionario il problema dei
rapporti tra individuo e società e tra individuo e Stato. Come sempre,
Altomonte avvince, impegna, e quasi costringe il lettore alla ricerca,
alla rimeditazione e all'«aggiustamento» delle proprie concezioni.
In questo senso il libro di Altomonte è un libro difficile. Opera di
critica filosofica, nella quale però la parte propriamente critica ha -a
nostro avviso- una funzione strumentale, quasi di supporto ad
enunciazioni personali, originalissime; enunciazioni che, per una sorta
di interno dinamismo, dal campo della speculazione si proiettano nella
prassi. In sostanza, l'esigenza di «un nuovo metro di valore» non viene
assunta quale mero motivo d'indagine, sibbene diviene elemento
essenziale per la fondazione dello «Stato di popolo».
Attendiamo perciò da Altomonte la traduzione, in termini di attualità
politica, del contenuto delle sue intuizioni filosofiche.
SAGGISTICA
INDOCINA: STORIA DI UNA GUERRA DI
POPOLO
(1ª parte)
genesi e principi della rivoluzione vietnamita
Quando intorno al 1862 i francesi intrapresero la
campagna di colonizzazione dell'Indocina, che si protrasse fino al 1895,
le organizzazioni statali indigene erano ormai in completo declino. Gli
ultimi sovrani di quello che fu il fastoso impero delle dinastie dei
Tran e dei Le, vengono uno dopo l'altro scalzati dai troni, cedendo il
passo alla casta dei colonialisti francesi.
Le strutture amministrative del «vecchio colonialismo», allo scopo di
perpetuare lo spogliamento delle risorse economiche locali destinate poi
all'esportazione, dovevano negare in primo luogo qualsiasi autonomia
politica interna ed altresì imporre ai popoli assoggettati privazioni e
rinunce tali da abbrutirli sul piano morale e materiale.
Reggendosi prevalentemente sui prodotti che davano le piantagioni, il
regime coloniale ricava larghi profitti nel campo delle esportazioni.
L'incremento e il ribasso della produzione vengono alternati a seconda
della richiesta d'esportazione; quindi, la manodopera deve essa stessa
avvicendare periodi di lavoro intenso con altrettanti periodi di
inattività. La politica economica del regime non lasciava peraltro molte
prospettive: lavorare per il colonialismo, mettendo i poderi dei piccoli
proprietari terrieri indigeni al suo pieno servizio, oppure indebitarsi
con le oligarchie agrarie locali asservite ai colonialisti, sotto il
rischio costante della confisca delle terre. Inoltre, le banche francesi
(Banca d'Indocina, Credito Fondiario, ecc.), dopo aver fatto sfruttare
interamente le piantagioni, collocano i capitali indigeni nelle mani
degli esportatori. Tale politica impedisce, proprio perché non rientrava
negli interessi dell'amministrazione coloniale, uno sviluppo industriale
omogeneo. Le uniche industrie esistenti riguardano la costruzione delle
vie di comunicazione tra le città portuali e l'entroterra agricolo.
A causa della cattiva razionalizzazione delle acque, dovuta allo scarso
numero di impianti per l'irrigazione, le inondazioni delle terre si
succedono a lunghi periodi di siccità. Superfluo dire a questo punto
come l'elemento indigeno resistesse agli stenti spesso in condizioni
disumane.
Tuttavia, ovunque un sistema coloniale abbia radicato le proprie
strutture di potere, esso ha sempre posto le premesse per il suo
rovesciamento. Coincidendo con un allargamento delle comunicazioni
interne, gli scambi economici determinano la rottura delle antiche
barriere che separano le città dalle campagne, dando origine ad una
acculturazione di popoli, i quali si rivelano strettamente legati in un
destino comune. Sorgono così nei principali centri urbani le prime
organizzazioni nazionaliste, composte perlopiù da esponenti della
nascente borghesia illuminata, il cui intento è di spingere il
Protettorato sulla via delle riforme, basando le richieste su un
ammodernamento delle strutture feudali interne a proprio vantaggio.
LE DUE VIE MODERATE DEL NAZIONALISMO
In seno ai movimenti nazionalisti, si mette in luce la linea di un
letterato buddista, Phan Boi Chan, secondo il quale la via per giungere
ad una certa autonomia interna andava ricercata nella pressione di forze
esterne non occidentali sul colonialismo francese, affinché si decidesse
a concedere alcune libertà politiche, pur senza limitare il potere di
decisione dell'amministrazione locale, la cui giurisdizione sul suolo
indocinese era messa fuori discussione.
Secondo Chan a dirigere tali pressioni doveva essere il Giappone, che
aveva dimostrato con la vittoria sulla Russia nel 1905 a Port Arthur
come una nazione asiatica equiparandosi tecnologicamente agli
occidentali, fosse in grado di sconfiggere anche una potenza europea.
Più interessante la tesi di Phan Chan Trinh, un letterato laico di Hanoi,
che vedeva invece nella presa di coscienza delle masse e nella
trasformazione delle strutture politiche e sociali dell'Indocina, le
giuste condizioni per acquisire qualunque economia, nell'ambito sempre
del Protettorato francese. Scriveva Trinh nel 1907: «... se il
Protettorato volesse gradualmente lavorare per risollevarci ed
assicurarci i benefici della tranquillità, questa sollecitudine
troverebbe una felice rispondenza nell'affetto del popolo, e a quel
punto l'unico timore degli Annamiti sarebbe di vedere la Francia
abbandonare l'Annam a se stesso», non comprendendo forse che i francesi
non avrebbero mai concesso gli strumenti per una limitazione del proprio
potere.
Dal contesto di tali posizioni è facile rilevare come sia Chan che Trinh
escludano l'ipotesi di una lotta per l'indipendenza totale dal
colonialismo, da conseguire dopo una lunga guerra di liberazione.
Seppure in entrambe le posizioni pullulassero tendenze aperte verso le
nuove esigenze della società indocinese (ambedue erano antimonarchici),
permanevano in esse i limiti di un moderatismo a sfondo riformista.
Un gruppo di associazioni commerciali indigene rispondono, malgrado
tutto, positivamente all'invito di Trinh sulla collaborazione degli
indocinesi con il Protettorato, e nell'aprile del 1907 sorge ad Hanoi un
Centro politico-culturale, il Dong Kinh Nghia Thuc, il quale si prefigge
di innalzare le masse incolte ad un livello di educazione tale da far
prendere loro coscienza degli effettivi problemi che travagliano la
regione annamita e del modo per fronteggiarli. Inizialmente, anche se
con alcune riserve, le autorità francesi sembrano disposte ad accettare
un piano di riforme presentato dal DKNT, ma quando questo cominciava ad
ingrandire il proprio peso politico e la propria sfera d'influenza
economica, il Protettorato lo chiuderà definitivamente nel dicembre
dello stesso anno, prendendo il pretesto (ridicolo se si pensa alle
premesse del tutto moderate di tali primi gruppi nazionalisti) da un
presunto colpo di stato organizzato dalle formazioni politiche degli
studenti di Hanoi, al quale il DKNT non sarebbe rimasto estraneo. Anche
sul piano economico le associazioni commerciali interne attenuano la
loro attività per la concorrenza schiacciante delle società finanziarie
francesi.
IL PRIMO MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO
In tal modo, seguendo la strada della legalità colonialista, si
dimostrano fallaci i tentativi di approdare ad una, anche minima,
autonomia politica. Solo il Viet Nam Quoc Dan Dang (il partito nazionale
dell'Annam, di recente formazione e operante nella clandestinità),
avendo intuito le scarse vie di successo di un'azione legalitaria, esige
l'evacuazione dei francesi dal territorio e l'indipendenza totale dell'Indocina.
L'occasione propizia per il VNQDD è data dalla crisi finanziaria
mondiale del '29 che porta inevitabilmente uno sconvolgimento anche in
Indocina. Il crollo dei prezzi manda in rovina migliaia di coltivatori e
impone un forte calo dell'occupazione nei rami operaio ed impiegatizio.
Di fronte allo squilibrio economico, il regime non è in grado nemmeno di
praticare delle riforme di dettaglio, dei palliativi. Le correnti
d'opposizione, che sino ad allora avevano pressato il regime da diversi
punti di vista e in chiave moderata, si fondono strategicamente, dando
vita ovunque a dei tumulti. Il VNQDD, approfittando dei larghi consensi,
assurge al ruolo di coordinatore dei disordini, e dà un'impronta
notevole all'insurrezione contro il Protettorato. Nel febbraio del '30 a
Yen-bai, scatena una vera e propria battaglia contro i francesi e in
seguito alla sconfitta, rientrato nella clandestinità, continuerà per un
certo tempo la guerriglia armata.
Alcuni dei massimi esponenti del partito, però, cadono sul suolo di
Yen-bai, mentre altri sono arrestati e giustiziati sulla piazza. Con la
morte dei suoi capi, questo che fu il maggiore movimento rivoluzionario
degli anni trenta, politicamente antiriformista e nazionalista anche se
non certo di stretta osservanza ideologica, a poco a poco si sfalderà e
i membri superstiti andranno ad ingrossare le file delle organizzazioni
che decideranno le sorti della liberazione dell'Indocina dal vecchio e
nuovo colonialismo.
Proprio in quei giorni, intanto, si associa alle rivolte scoppiate in
tutta la regione, il movimento della gioventù rivoluzionaria (Thanh Nien),
fondato a Canton nel 1925 e guidato da Nguyen Ai Quoc, il futuro Ho Chi
Minh. Nei territori occupati, il Thanh Nien installa i " Consigli
Provvisori della Rivoluzione ", forti soprattutto nella città di Nghe-an
e in molti villaggi dell'Ha-thinh. Nuovamente le forze militari del
regime, meglio addestrate ed armate riescono a riconquistare i territori
perduti.
Al QUOC E I MODERATI RIFORMISTI
Dopo questa serie di rivolte a catena, le organizzazioni del
nazionalismo moderato si fanno accalappiare dalle allettanti proposte in
senso riformista del regime, che vedendo l'impossibilità di proseguire
una politica di repressione militare, istituisce degli organismi
rappresentativi costituiti anche da elementi indigeni. Questo
atteggiamento certamente demagogico risente indubbiamente dell'ascesa
nella madrepatria del Fronte Popolare di Leon Blum.
I poteri del "Gran Consiglio degli interessi economici e finanziari" e
del "Consiglio Coloniale della Cocincina", le due più importanti camere
di rappresentanza, sono detenuti direttamente dai francesi, seppure in
maniera marginale posti di potere siano adesso occupati dai moderati
nazional-borghesi indocinesi nelle camere dei rappresentanti del popolo
del Tonchino e dell'Annam.
Nell'inverno del '30, Ai Quoc fonda il partito comunista vietnamita,
sorto dal disciolto Thanh Nien. Egli è persuaso, in contrasto con le
illusioni dei moderati riformisti, che la formazione di camere elettive
per la rappresentanza sia insufficiente a garantire un progressivo esodo
dei colonialisti dalla regione, esodo non prospettato affatto dai
francesi. Ottimista invece sulla creazione di un grande movimento
anticolonialista, Ai Quoc, che ormai viene chiamato dai suoi seguaci Ho
Chi Minh, dà il via al processo di unificazione delle forze
autenticamente indipendentistiche, riunendo nel novembre del 1939 sotto
il "fronte unito antimperialista dei popoli d'Indocina" vaste frange di
trotzkisti, di vecchi esponenti del VNQDD e di sette religiose come la
Cao-Dai e la Hoa-Hao. I rapporti di forza all'interno del FUAPI sono a
favore del partito di Ho Chi Minti, che nel frattempo ne aveva cambiato
l'etichetta con quella di partito comunista indocinese, sancendo la
propria volontà di riunire sotto una unica sigla le forze rivoluzionarie
a stesso indirizzo in opera non solo in Vietnam ma anche nel Laos e in
Cambogia.
LE "TESI POLITICHE"
L'articolazione del programma del PCI si imperniava su una lotta globale
contro l'ingerenza straniera; l'amministrazione coloniale doveva essere
sostituita da un governo rivoluzionario di popolo:
1) Abbattere l'imperialismo francese, il feudalismo e i proprietari
terrieri;
2) Istituire un governo popolare;
3) Confiscare le terre dei proprietari fondiari stranieri e indigeni e
delle chiese, rimettendole al servizio dei piccoli e medi coltivatori,
serbandone il diritto di proprietà al governo rivoluzionario;
4) Nazionalizzare le grandi società controllate dai capitalisti
stranieri;
5) Abolire le imposte e le tasse attualmente in vigore e creare
un'imposta progressiva;
6) Decretare la giornata lavorativa di otto ore, migliorando il tenore
di vita;
7) Fare dell'Indocina un paese completamente indipendente e riconoscere
il diritto dei popoli all'autodeterminazione;
8) Approntare un esercito di popolo;
9) Promuovere la parità dei sessi;
10) Appoggiare l'Unione Sovietica ed allearsi con i movimenti
rivoluzionari delle colonie e delle semicolonie.
Le "Tesi Politiche" saranno oggetto di revisione, e lo stesso Ho ne
abolirà alcuni punti. La primitiva posizione filo-sovietica permarrà, in
mancanza di altre forze d'appoggio alla rivoluzione indocinese, fino
all'ascesa della Cina di Mao Tze ad un ruolo di primaria importanza nel
contesto dei rapporti di forza internazionali, Offrendo all'azione di Ho
un sostegno non indifferente. È interessante constatare al riguardo come
Ho Chi Minh avesse superato, dopo il piccolo-nazionalismo dei borghesi
riformisti, anche l'internazionalismo a sfondo cosmopolita (nonostante
la necessità tattica di appoggiarsi alla Russia), battendo In breccia i
sognatori occidentali del socialismo universale.
L'internazionalismo di Ho, precorrendo la lucida visione rivoluzionaria
di Ernesto Guevara, è la ricerca della partecipazione alla lotta
anticolonialista del maggior numero possibile di forze nell'ambito di
una grande area geopolitica nazionale (nel caso nostro, l'Indocina), ove
sia possibile far leva su motivi nazionalistici ed etnici di lingua, di
sangue e di tradizioni comuni per conquistare alla causa la popolazione,
e contemporaneamente conseguire un appoggio economico concreto da parte
cinese, impossibile per una lotta settoriale.
La divisa marxista del «vietnamita Ho» è il risultato di una
terminologia inadeguata -per cui chi non è capitalista è marxista- che
la propaganda occidentalista ha potuto diffondere, falsificando la
necessità tattica per i vietnamiti di assicurarsi delle alleanze e delle
solidarietà in campo sovietico. Di conseguenza, sotto la divisa, sono
presenti uno spirito rivoluzionario ed un corpo coraggioso, entrambi
lontani dall'animo patetico ed umanitario del romanticismo sociale caro
all'intellighenzia di casa nostra, e da quello truculento della
«sovranità limitata» moscovita.
Ho Chi Minh rimarrà costantemente un rivoluzionario, forse di tipo
machiavellico, che per conseguire i propri scopi è disposto anche ad
indossare una divisa diversa da quella della sua anima.
LA GUERRA RIVOLUZIONARIA
L'esperienza acquisita durante le insurrezioni del '30, fa riflettere
l'uomo intorno ai metodi ed ai princìpi dell'azione rivoluzionaria.
Dimostratesi fallimentari le iniziative della guerriglia, che si
proponeva di scalzare il colonialismo a breve scadenza, Ho Chi Minh di
contro preconizza il sorgere della guerra rivoluzionaria. Nel 1939
afferma: «La guerra rivoluzionaria deve svolgersi su tutti i piani:
militarmente, bisogna condurre una guerra di lunga durata alfine di
sviluppare costantemente forze all'inizio limitate; politicamente,
bisogna realizzare l'unità nazionale, isolando i colonialisti;
economicamente, si deve elevare il tenore di vita della popolazione e
rendersi autosufficienti; culturalmente, è necessario cancellare le
tracce della cultura coloniale ed edificarne una nazionale, scientifica
e popolare. La guerra di lunga durata dovrà passare attraverso tre fasi:
guerra difensiva, guerra di resistenza (in modo da equilibrare le
forze), e controffensiva generale. In ciascuna fase la guerriglia deve
essere combinata, a differenti livelli, con una guerra di movimento».
LA GUERRA DEL PACIFICO
Nel dicembre del '41, l'episodio di Pearl Harbor è l'inizio del
conflitto mondiale nel Pacifico.
L'Indocina, come del resto gli altri paesi del sud-est asiatico, ne
rimane coinvolta; i nipponici la occupano quasi immediatamente
instaurando l'indipendenza dal colonialismo europeo.
Malgrado i giapponesi avessero dato alle popolazioni locali alcune
libertà, come ad esempio la costituzione di un governo presieduto
dall'imperatore indigeno Bao-Dai di stanza a Huè, la antica città
capitale dell'impero, e pur avendo concesso alle organizzazioni
nazionaliste una certa libertà di movimento a patto che esse avessero
collaborato con i generali di Hirohito, ciò non soddisfaceva gli
indocinesi, i quali aspiravano ormai ad ottenere senza mezze misure
l'indipendenza.
È questo il periodo in cui Nguyen Ai Quoc detto Ho Chi Minh fonda il
Viet Minh (Lega per l'indipendenza del Vietnam) a Pac-bo. Verso la fine
del 1944, è il solo a combattere gli occupatori tramite un "Esercito di
propaganda e di liberazione", sotto la guida di Vo Nguyen Giap, che si
affermerà come uno dei più esperti ed abili strateghi della guerra
rivoluzionaria.
Al termine del conflitto mondiale, la situazione in Indocina è quanto
mai favorevole alle forze rivoluzionarie, le quali, sfruttando la grossa
incrinatura prodotta dalla guerra nel regime coloniale francese,
porteranno a compimento la propria missione infliggendo al primo, ma non
ultimo, nemico l'umiliante sconfitta nel campo militare di Dien Bien Phu.
Segue al prossimo numero:
LA PRIMA GUERRA
D'INDOCINA
* Inizio delle ostilità
* Situazione nel Laos e in Cambogia
* La guerra d'Indocina dal '47 al '52
* L'epilogo di Dien Bien Phu
* Gli accordi di Ginevra |
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