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i quaderni di

Controcorrente

 

Perchè l'astensione dal voto

Giugno 1976

roma    via  paolo villari, 27

editrice smiarca

stampa. del grosso - via g. govone, 15

dimensioni: cm. 17,5 X 25 * pagine n° 8

 

 

La fine della 6ª legislatura e le elezioni anticipate sono un episodio dello scontro tra i diversi gruppi di potere del regime democratico.
Questa premessa -che dimostriamo appresso- è il motivo di fondo del nostro invito alla astensione dal voto. Chi vota non esprime infatti un consenso su qualche idea o su una volontà politica, collabora semplicemente ad una guerra psicologica in cui la posta in gioco -vinta in partenza- è la conservazione dei privilegi vecchi e nuovi acquisiti dalle forze straniere che manovrano la classe dirigente italiana, da trent'anni a questa parte.
Chi vota non compie un atto di libertà ma un gesto di conformismo e di ossequio agli individui che hanno fatto del Paese la terra di manovra della chiesa, della mafia, delle industrie e del capitale straniero, livellandoci al rango di colonia delle superpotenze, soffocando così la prima e fondamentale libertà di una comunità di uomini. Quella di essere padroni del proprio destino. Di essa il trentennio democratico ha fatto smarrire il senso, offrendo in cambio un benessere artificioso che finisce dove comincia la logica del profitto e del mercato, col risultato di disgregare il tessuto unitario -il sangue, le tradizioni, i fini comuni- che rende popolo una somma di individui.
Il tuo voto non decide nulla; conferisce soltanto una parvenza di legalità ad una crociata ignobile per i posti di favore. Ma poiché il ritornello della fiducia nei partiti non è più una ragione convincente per nessuno, gli uomini del regime danno corpo -per convincerti- al ricatto della paura, ai fantasmi rossi e neri, accecando le coscienze e scatenando gli italiani gli uni contro gli altri con le vecchie trappole dell'antifascismo e dell'anticomunismo, e col gioco infame delle bombe e dei morti ammazzati, fomentato e sfruttato dal regime stesso.
Per distogliere l'attenzione dai problemi reali. Per dare credito -grazie alla sottomissione di tutti i mezzi di informazione- a false contrapposizioni tra i partiti che, dal MSI al PCI, cooperano al mantenimento del regime e che. dal MSI al PCI, rappresentano in realtà le diverse facce di uno stesso disegno politico, voluto e sorretto da forze extranazionali (USA, URSS, Vaticano).
Ai problemi reali il regime è incapace di dare risposta. Mancano anche le prime e più elementari strutture della vita sociale e civile, oggi come trent'anni fa. Lo stesso clima di allora, quello dell'asservimento allo straniero gestito da un'accolita di mezze figure, continua a gravare sull'Italia.

 

 

IL QUADRO INTERNAZIONALE
Gli avvenimenti che hanno portato alla decisione di sciogliere anticipatamente le camere non sono che le ultime, ma non definitive, battute della lotta tra le diverse componenti del regime democratico.
Non va dimenticato che la politica italiana vive di vita riflessa nei confronti degli USA, e che i mutamenti interni all'Italia derivano in ultima analisi dai contraccolpi dei mutamenti di equilibrio tra i gruppi di vertice d'oltreatlantico. Nel nostro caso la fine dell'amministrazione Nixon e il colpo di mano del Watergate (estate '73) sancirono l'ascesa degli ambienti americani radicalprogressisti, ascesa che precedette puntualmente il rilancio politico e ideologico della sinistra italiana.
Veniva così posto in discussione l'antico equilibrio immobilista che aveva caratterizzato il centrosinistra in Italia grossomodo dal '65 al '73. Sulla base di quell'equilibrio la DC era riuscita a porsi come mediatore privilegiato degli Stati Uniti, e a condizionare la sinistra italiana, annacquandone le velleità riformistiche in cambio dei vantaggi concreti derivanti dalla gestione del potere in condominio (socialisti), e relegando i comunisti in una posizione di appoggio al regime fuori del governo.
Nella nuova situazione, si accentua la frattura tra la DC, espressione della egemonia vaticana sul Paese e del blocco moderato, e le forze dell'area radicale ispirate al modello della democrazia americana fondato su ben diverse radici neogiacobine e radical progressiste.
Riteniamo utile a questo punto analizzare il quadro politico internazionale che ha generato la frattura in seno al regime democratico in Italia.
Chi sono i conservatori e i radicali in America? In sintesi, da una parte i "centristi" del partito repubblicano, la destra nazionalista, i gruppi oltranzisti del Pentagono, gli ambienti economici protezionistici, il residuo capitalismo agricolo del sud; dall'altra i tecnocrati del partito democratico, l'alta finanza monopolistica, gli intellettuali giacobini e le teste d'uovo "liberal", il neocapitalismo illuminato.
Questi due gruppi di potere interpretano le due facce della politica americana. La necessità di fondo di controllare e mantenere il dominio sul mondo industrializzato è il loro comune denominatore interpretato però ideologicamente in maniera diversa e sorretto politicamente da due diverse strategie. Quella conservatrice pone i rapporti tra superpotenze sotto il segno della forza e della concorrenza politica, difendendo pragmaticamente gli interessi americani con interventi opportuni di volta in volta senza preoccuparsi di una strategia a lungo termine, purché sia salvo l'equilibrio internazionale. Quella progressista sublima la politica di potenza per la difesa dell'impero nella convergenza ideologica col partner sovietico, dando alla politica distensiva un valore assoluto di supporto del colonialismo USA sorretto dalla esportazione ideologica (il mito della libertà e del consumismo) e dalla utilizzazione delle nazioni egemonizzate come mercato da invadere (indicative al riguardo le recenti vicende del dollaro).
Poiché per la intrinseca struttura politica e sociale dell'America, il dinamismo economico e il progressismo sono il suo motore storico, è facile comprendere come siano proprio i radicali e i progressisti i veri interpreti della leadership colonialista americana, mentre i conservatori -che hanno espresso tutti i presidenti repubblicani- gestiscono il potere nei periodi di riflusso, di difesa delle conquiste, di riconversione dell'industria bellica, e di isolazionismo commerciale.
Rispetto a questo dato una politica d'attacco sui mercati esteri abbinata ad una concezione radicalprogressista del ruolo degli USA nell'ordine mondiale manca dall'epoca della "nuova frontiera" kennedyana.
L'asse Kennedy-Kruscev, che aveva in Giovanni XXIII il suo fulcro, fu infatti dovuto alla convergenza ideologica in chiave radicale tra USA e URSS. Dopo le fucilate di Dallas i gruppi radicali USA hanno perso il controllo diretto della Casa Bianca. Tredici anni -dal '63 a oggi- e tre presidenti -Johnson, Nixon, Ford- hanno portato avanti una linea di tipo conservatore che ha abbassato il ruolo della distensione dalla funzione di copertura ideologica del colonialismo USA-URSS a quella di supporto di una politica di potenza staticamente intesa.
Su questa diversa impostazione della leadership USA si innesta una parallela frattura in seno al sionismo, con la divisione tra i sostenitori di una politica israeliana piccolo-nazionalista e supercolonialista animati dal sogno messianico di fare d'Israele un solo stato dal Nilo all'Eufrate, e il nucleo più potente dell'ebraismo, inserito nella società americana, che all'intransigenza teocratica dei primi antepone la ragione di stato dell'impero USA, cioè il controllo sulla politica e sull'economia americana e quindi dell'intero mondo industrializzato.
Ricordiamo qui che i moderati del sionismo hanno avuto nel segretario di Stato Kissinger la loro tromba ufficiale, dando una impronta decisiva alla politica conservatrice di Nixon prima e di Ford poi, e che d'altro canto ugualmente determinante è il ruolo svolto dagli ambienti più intransigenti dell'ebraismo americano circa la fine di Nixon, il ridimensionamento di Kissinger, e i tentativi di ripresa dell'ala radicale americana, che garantirebbe una maggiore libertà di manovra ai falchi di Tel Aviv, ai vertici progressisti dell'Europa occidentale (Schmidt, Giscard, Soares), e dunque alle sinistre radicalizzate in Italia.

LE COMPONENTI DEL REGIME DEMOCRATICO
Nella pagina precedente abbiamo esaminato, nelle sue grandi linee, il quadro internazionale che ha portato, dalla fine del '73 in poi, al rilancio della sinistra, radicalprogressista in tutto il mondo occidentale.
Fu in quel periodo che i circoli più avanzati della politica americana diedero il loro appoggio al composito fronte radicalprogressista che si era formato in Italia, con una comune strategia d'attacco contro la egemonia democristiana e moderata. Scavalcando gli schemi partitici, tale fronte comprende: i gruppi della sinistra laica (socialisti in testa, alcune correnti repubblicane e la sinistra liberale), certe frange dissenzienti del mondo cattolico, l'extraparlamentarismo di sinistra, il partito di Pannella; e di riflesso il PCI.
Un equivoco piuttosto diffuso porta a considerare i comunisti come la forza trainante di questo schieramento. Ciò è forse vero in termini di forza numerica e di apparato organizzativo, ma è certamente falso per quanto riguarda la decisione delle scelte politiche, che vede sistematicamente la strumentalizzazione del PCI a rimorchio della sinistra radicalprogressista.
Contrariamente a quanto si afferma da destra dunque, socialradicali e soci non sono il ponte verso Mosca, ma rappresentano nell'ambito delle forze americaniste la punta di diamante neoilluminista, la filiazione della nuova sinistra americana, di cui ripetono i temi e l'ideologia.
Poiché molti -chi per paura, chi perché ci crede- prospettano l'ipotesi del PCI ai governo come un evento formidabile capace di cambiare la faccia dell'Italia, riteniamo utile puntualizzare l'argomento.
In tutta la sua storia nel trentennio democratico il PCI ha oscillato tra due diverse sollecitazioni politiche d'alleanza coi cattolici da una parte, l'unità della sinistra in chiave radicale dall'altra), senza mai assumere un ruolo autonomo. Il prevalere dell'una o dell'altra scelta è stato infatti sempre determinato da elementi esterni, cioè dal mutevole atteggiamento dell'asse Vaticano-USA.
Dopo aver sostenuto nell'immediato dopoguerra il regime imposto dagli Stati Uniti, con la svolta moderata di Salerno, con la tacita approvazione dell'art. 7 della costituzione sul concordato, e con la partecipazione di Togliatti al governo, il comunismo italiano si vide rinchiuso nel ghetto a causa del conservatorismo centrista della DC degli anni '50, nella situazione internazionale della guerra fredda.
Scomparso Stalin, il decennio successivo apriva la strada alla "nuova frontiera", all'ascesa in America del radicale Kennedy e alla convergenza ideologica con Giovanni XXIII e con Kruscev. In questo clima nacque in Italia il centrosinistra, con la cattura dei socialisti alla logica del potere democristiano, al fine di allargare la base di sostegno del governo. Si affermava definitivamente, dietro questa operazione politica, il nuovo vangelo consumista e neocapitalista importato dall'America radicale, mentre proprio in quegli anni il passaggio irreversibile dalla civiltà contadina al boom dell'industrializzazione irrobustiva l'opera di disgregazione della società italiana, perseguita dalle forze radicali e oggi realizzata completamente: il trionfo della logica del profitto e dell'opportunismo, la degradazione dei valori naturali e del costume, in una parola la americanizzazione dell'Italia.
Il PCI, dopo avere accolto il costituzionalismo borghese, l'interclassismo, e il riformismo, anestetizzando sempre più profondamente la coscienza delle classi sistematicamente escluse dalla gestione della cosa pubblica, si apriva allora alla cultura neoilluminista e al mito del progresso indefinito, e -sul piano politico- finiva col trovarsi egemonizzato dalle forze radicalprogressiste, di esse divenendo la massa di manovra e subendone le iniziative politiche.
La socialdemocratizzazione del PCI, il suo ruolo di ala marciante del progressismo, la accettazione dei grandi temi ideologici del laicismo, rappresentarono il prezzo pagato per uscire dall'isolamento. In termini politici, la rottura dell'isolamento si concretizzò nella prospettiva di un accordo con i cattolici (la "repubblica conciliare"), il cui successo sembrava assicurato vivente papa Roncalli. Di nuovo però la contingenza internazionale si rivelava sfavorevole per i comunisti italiani.
Alla distensione kennedyana (vedi pagine precedenti) succedeva attorno alla metà degli anni '60, una politica americana conservatrice (Johnson), che veniva a precludere la possibilità di estendere al PCI la manovra vaticana già attuata nei confronti dei socialisti. L'ascesa del repubblicano Nixon eliminava successivamente ogni illusione di una ripresa radicale dopo la parentesi johnsoniana, sancendo la vittoria della linea conservatrice sulla scena internazionale, la stessa linea che produceva in Italia il rinnovato isolamento del PCI e la scissione socialista tra i radicali (Lombardi, DC Martino, Mancini) e i conservatori saragattiani.
Una possibilità di uscita che riproponeva il problema del dialogo con i cattolici si offerse per il PCI alle elezioni presidenziali del dicembre '66. Il ventilato appoggio alla candidatura Fanfani, che allora non era ritenuto un integralista, ma un uomo vicino alla sinistra, fu ritirato per timore dei mutamenti istituzionali (repubblica presidenziale) a lui attribuiti. Ancora una volta il PCI fu il garante della stabilità moderata, votando il candidato ufficioso dei dorotei, Saragat.
Il pencolamento tra radicali e cattolici continuava così all'interno del partito, cristallizzandosi nelle persone di Amendola, eterno amplificatore delle manovre radicali, e di Ingrao, sostenitore del dialogo con i cattolici, non con le frange del dissenso ma con il grosso partito cattolico. Una certa frizione tra queste due tendenze si ebbe nel '68 dopo i fatti di Praga. Si presentava allora l'alternativa netta di rifiutare l'egemonia di Mosca, secondo la linea dei radicali, o accettarla, come sostenevano i burocrati ortodossi. Ribellandosi al Cremlino, i comunisti italiani avrebbero perso interesse politico -e i filocattolici del PCI lo sapevano- anche per Paolo VI.
Il papa infatti non aveva mai abbandonato la speranza di realizzare un antico sogno neotemporalista del Vaticano, che prevede lo sganciamento dagli USA e la gestione del potere in prima persona su posizioni autonome, sogno che all'epoca giovannea aveva assunto la veste della repubblica conciliare. Il Vaticano cercava quindi di tornare ago della bilancia USA-URSS, e il PCI, fuori dei suoi legami internazionali, non avrebbe più avuto valore politico rispetto a questo disegno.
Al PCI non restava che adeguarsi. La sfavorevole situazione internazionale poteva essere affrontata da un partito rivoluzionario, non da un apparato, seppur bene organizzato, di moderati.
Con l'avvento degli anni '70 e l'ascesa alla segreteria di Berlinguer si accentuava l'impostazione moderata della politica comunista. Dietro lo slogan delle «grandi alleanze democratiche» si nasconde, su un piano culturale e ideologico, l'eliminazione del marxismo a favore della sociologia di scuola americana, della psicanalisi, dei temi della decadenza borghese, mentre l'analisi economica si svolge sullo stesso terreno del neocapitalismo, con proposte di correttivi e di programmazione senza intaccare il sistema. Su questa via gli economisti del PCI si trovano sempre più a ricalcare le orme dei santoni del pensiero radicale e dei loro seguaci in Italia (vedi le polemiche dei vari Ruffolo, Sylos-Labini, Forte, Modigliani, Napoleoni), proponendo la collaborazione della classe operaia con il capitale, con buona pace di Carlo Marx, della dittatura del proletariato e dei paventatori del pericolo comunista.
Grazie al funambolismo di Berlinguer il PCI assume la difesa dei ceti medi, facendosi partito d'ordine, e si afferma nei circoli dell'industria non monopolista, vantandosi di essere la forza indispensabile per fare funzionare questo regime. Ed ha ragione. Come potrebbero campare in Italia i preti, gli americani e i capitalisti, se non avessero i comunisti a garantire a sinistra la stabilità del regime. Come farebbero a controllare le masse, e a intimorire i tiepidi alle elezioni, se non esistesse un complice così fidato.
Di fronte alla crisi democristiana Berlinguer, cercando di scavalcare i radicali una volta per tutte, rispolverava la questione vecchia della collaborazione DC-PCI sotto l'etichetta nuova del "compromesso storico", che è poi il punto di arrivo della lunga azione di fiancheggiamento iniziata tre decenni prima da Togliatti. La piega assunta dagli eventi negli ultimi tre anni ha però riportato l'iniziativa nelle mani delle forze radicalprogressiste, costringendo ancora una volta il PCI ad adeguarsi alla loro strategia.
A porre in discussione l'egemonia della DC, mettendone in crisi il sistema di potere, era stata infatti la sinistra radicalprogressista. I mezzi usati per questa manovra furono i seguenti.
1) L'opera di infiltrazione negli istituti del regime (grande industria, sindacati, magistratura, enti pubblici, banche, forze armate, amministrazione locale), che era in atto da anni, ma mai in dimensioni tanto vaste e senza che la critica radicale emergesse così nettamente. Se per tre lustri i socialisti si erano accontentati di gestire il potere e di rubare in condominio coi cattolici, le posizioni raggiunte portavano ora i radicali a tentare l'attacco diretto alle strutture fondamentali del potere moderato.
2) II sostegno a tale strategia d'attacco offerto dalla grande stampa progressista, che deteneva ormai il monopolio editoriale: "Panorama"; "l'Espresso"; "il Mondo"; "l'Europeo", "il Messaggero", secondo quotidiano italiano, che proprio in quel periodo passava nelle mani della sinistra neogiacobina, cui si aggiungerà poi la "Repubblica" di Scalfari; il settimanale "Tempo", il quale iniziò allora il mutamento di linea che lo avvicinerà alla sinistra manciniana. A tale grande stampa, dominata da Mondadori e Agnelli, si affiancano i fogli della sinistra extraparlamentare ("Lotta Continua", "Manifesto", ecc), quelli di "cultura alternativa" dei circoli intellettuali-progressisti di "Astrolabio", "Tempi Moderni", "Monthly Review", ecc), e l'editoria radicale specialistica dalla economia pura alla pornografia (Feltrinelli, Etas-Kompass, ecc).
3) L'erosione del predominio culturale cattolico e l'affermazione del costume e delle mode improntate alla "american way of life", tramite la suddetta stampa, i movimenti d'opinione radicali (divorzio, femministe, omosessuali, obiezione di coscienza, aborto, droga), l'industria cinematografica e della cultura di massa, l'industria legata al consumismo, interessate alla ristrutturazione della società e della morale borghese.
4) La strategia della tensione "parte II". Se negli anni precedenti la cosiddetta strategia della tensione era servita ai settori moderati per cucire le smagliature del potere attraverso i ricatti e le intimidazioni (all'ombra della lotta per la presidenza prima, e della teoria degli opposti estremismi poi), a partire dal '73 prese consistenza un'altra strategia, quella delle piste nere e degli attentati cruenti che nella loro "incomprensibile follia" venivano attribuiti alle destre, ma servivano in realtà per coinvolgere la DC, accusata dai radicali di incapacità nel prevenire e di collusione con molti personaggi e ambienti di destra. In questo quadro rientrano: l'attentato di Bertoli del maggio '73 (quattro morti), la montatura del golpe fasullo cui seguirono arresti nelle alte sfere delle forze armate e del SID, la bomba di Brescia del maggio '74 (sedici morti), l'attentato al treno Italicus nell'agosto '74 (dodici morti), la messa sotto accusa dei servizi segreti italiani sulla scia di analoghi avvenimenti negli USA nei confronti della CIA, e la loro ben orchestrata ristrutturazione.
5) I grossi scandali (dal petrolio alla Lockheed) anch'essi ispirati dagli USA, che hanno coinvolto la classe dirigente della DC e di altri partiti moderati.
La prima avvisaglia del rilancio della sinistra radicalprogressista si ebbe nel maggio '74 quando col referendum sul divorzio gli ambienti cattolici, nonostante l'alleanza con la destra missista, uscirono decisamente sconfitti dalla prova elettorale.
Sull'affare del divorzio si era creata una frattura in seno agli ambienti vaticani. L'ispiratore del referendum fu infatti il senatore Fanfani, all'epoca segretario della DC, sostenuto dall'ala più intransigente della curia (Benelli, Palazzini), alla ricerca di una affermazione elettorale per imporre, da posizioni di forza, una qualificazione del centrosinistra in chiave nettamente moderata. Tramite questa strategia d'urto si voleva bloccare la crescente influenza delle forze radicali. A questo disegno si opponeva però l'ala filoradicale della curia (Casaroli, Villot) che impose un estremo tentativo di mediazione. Anche il PCI che, come abbiamo visto, era alla ricerca di uno sganciamento dalla strategia radicale, aveva tutto l'interesse ad evitare una affermazione della sinistra laicista, e offrì al Vaticano un progetto di legge a mezza via tra "si" e "no" per aggirare la questione e rendere inutile il referendum. Ma Fanfani, forte del mandato di palazzo Giustiniani e per rancore contro i voltafaccia comunisti circa l'appoggio alla sua candidatura presidenziale, si irrigidì, imponendo la crisi del terzo governo Rumor e stabilendo con un colpo di stato silenzioso la data del referendum. Di fronte al fatto compiuto la Conferenza Episcopale e le Botteghe Oscure si dovettero schierare sugli opposti fronti.
Lo stesso Paolo VI, in bilico tra la strategia fanfaniana é l'entente con i radicali diede il nihil obstat al referendum, spinto da monsignor Benelli il quale aveva agitato lo spettro di una secessione cattolica a destra, e affascinato dalla possibilità di risolvere a suo favore, dopo l'eventuale vittoria sul divorzio, il negoziato per il concordato. Ma, di fronte allo smacco elettorale del 12 maggio, Papapaolo dovette ritirare la benedizione a Fanfani.
Un anno dopo il pittore aretino si vide quindi appoggiato solo parzialmente dalla Chiesa per le elezioni del 15 giugno, mentre dall'altra parte le forze radicalprogressiste riuscivano nuovamente a condizionare l'intera sinistra, compreso il PCI che vedeva sfumare la "strategia del compromesso". L'unità della sinistra veniva garantita dall'attacco comune contro la DC di Fanfani, e portava i radicali ad una nuova affermazione elettorale. A questo punto però papa Montini non ha potuto essere d'accordo col filoradicale Villot, restando impressionato e decidendo l'appoggio in extremis alla segreteria Fanfani. Per questo fu necessaria ai dorotei una affannosa sequela di intrighi al vertice per liquidare Fanfani al consiglio de del luglio '75.
La DC, attaccata da più parti, si racchiuse su se stessa, impossibilitata a rinnovare l'incontro con i socialisti. Il PSI infatti, legato ai circoli progressisti yankee, svolgeva un ruolo di punta nella strategia radicale e non era più condizionabile con l'allettamento del potere come negli anni passati.
Dopo il 15 giugno i radicali erano così riusciti a creare due schieramenti contrapposti (le sinistre da una parte, la DC dall'altra) e il centrosinistra poteva dirsi defunto, anche se le reticenze e il velato appoggio dei comunisti fecero camminare per un altro anno il cadavere. L'equilibrio immobilista del regime aveva perso la sua stabilità, riflettendo la crisi interna al partito cattolico. Al congresso nazionale del marzo '76 -azzoppati i "cavalli di razza" Moro e Fanfani- la DC lancia l'uomo nuovo Zaccagnini che sconfigge di stretta misura il fanfaniano Forlani. Si ripete in effetti all'interno della DC la divisione in seno al Vaticano: da una parte, gli integralisti mirano ad un nuovo scontro frontale; dall'altra, attraverso Zaccagnini e il rinnovamento ideologico di cui egli sarebbe portatore, i filoradicali cercano di porsi su un piano di concorrenzialità con le sinistre. Secondo la tradizione moderata, si è arrivati subito dopo il congresso al compromesso tra i due gruppi, espresso nell'accordo di Zaccagnini con andreottiani, dorotei e fanfaniani, rendendosi necessario trovare quella che fu poi definita una "formazione elettorale".
Di fronte alla manovra trasformista tentata da Zaccagnini, e poiché il PCI mostrava segni di collusione col nuovo segretario e con la "DC rinnovata", le forze radicalprogressiste uscivano allo scoperto e estremizzavano la situazione puntando decisamente alle elezioni anticipate, ricattando la DC con lo scandalo Lockheed, e impegnando i comunisti in una nuova crociata laica col falso problema dell'aborto, che bruciava il flessibile Zaccagnini costretto all'irrigidimento.
Il partito comunista si trovava travolto dagli eventi. Respinto dalla DC, che a causa della ricucita unità interna si mostrava contraria ad una troppo marcata apertura a sinistra, e sull'aborto si era schierata col MSI, e incalzato dai radicali del partito socialista, che minacciavano di scavalcarlo a sinistra, per il PCI si ripeteva la posizione di stallo del divorzio: impotente ad evitare lo scontro e costretto al rimorchio dei radicali.
In questo clima e con il ricatto dello scandalo Lockheed -orchestrato (vedi il ruolo di primo piano giocato dal senatore democratico Church) dagli ambienti sionisti e radicali americani- che minacciava di aprire una crisi istituzionale colpendo in prima persona il presidente Leone, la situazione politica italiana si cristallizzava, rendendo necessarie anche alla DC, come arma di difesa, le elezioni politiche anticipate, volute dai radicalprogressisti come arma di attacco fin dalla sortita di DC Martino del gennaio '76.
A questo punto la situazione può essere così schematizzata:
— La DC, varata la sua "formazione elettorale" con Moro a capo del governo dimissionario, Zaccagnini alla segreteria, e l'immortale Fanfani alla presidenza del partito, cerca di impostare la guerra di carta elettorale come scelta tra essa stessa e il PCI, montando il solito ricatto della paura per recuperare voti al centro (PSDI) e riacquisire definitivamente i residui "voti dati in prestito" a destra, in modo di perpetuare l'egemonia moderata tramite un accordo su posizioni intermedie coi radicalprogressisti. È da interpretarsi in questo senso la porta lasciata aperta, nonostante tutto, al PSI. La falsità della posizione democattolica è evidente ove si consideri la richiesta di voti a destra con le solite suggestioni anticomuniste, per attuare poi una politica di stemperamento degli estremismi e di collaborazione con la sinistra.
— Il PCI, preso atto della inattualità del compromesso storico, sacrificato dai radicali sull'altare dell'unità delle sinistre, si è associato a naso storto alla prospettiva di parte socialista del governo di emergenza, che avrebbe come tenue matrice comune l'alibi antifascista (trent'anni dopo siamo al Chi!). Mostrando intera la sua anima moderata, il PCI non ha intenzione di incrinare l'egemonia democristiana, e questo mostra la mancanza di significato reale della cosiddetta alternativa di sinistra, che è in realtà un coacervo di forze politiche tenute insieme dalla volontà colonialista americana espressa nella strategia radicalprogressista. Dentro o fuori il governo, il PCI è al potere quanto gli basta, e non da oggi, e cerca di attestarsi in una posizione possibilista tra radicalprogressisti e cattolici. Le polemiche accese contro la DC non escono dal campo degli espedienti propagandistici e delle parole, come prova l'atteggiamento ambiguo tenuto dal PCI circa l'intervento del papa sul tema dell'aborto, criticato invece aspramente dalla sinistra laicista.
— Il Psi oppone alla DC un netto rifiuto di collaborazione per il futuro, a meno di un allargamento del governo ai comunisti, assumendo la veste di paladino dell'intera sinistra. In realtà i socialisti cercano solo la cattura definitiva del PCI alla logica radicalprogressista, per eliminare la possibilità di un incontro diretto tra comunisti e cattolici, che taglierebbe fuori il Psi e i partiti laici. Inoltre il cambio della guardia dal moderatismo de al governo delle sinistre, caldeggiato dai radicali del PSI non senza dissensi (Nenni), permetterebbe agli USA di perpetuare il controllo economico e politico sull'Italia con alleati più consoni agli eventuali nuovi canoni radicalprogressisti della politica americana dopo Ford. Dietro i discorsi a vuoto sulla libertà democratica, di cui il PSI, si erge a garante, sta quindi la faccia progressista dell'oppressione, più permissiva ma più insidiosa di quella clericale.
— I partiti laici minori (PRI, PSDI, PLI) -in un quadro politico ben lontano dalle socialdemocrazie di tipo europeo, ove forze analoghe esprimono precisi interessi produttivistici- non hanno significato se non come alleati di complemento delle diverse coalizioni di governo.
— La destra missista, dopo aver appoggiato per anni sottobanco la DC, offrendogli un margine di sicurezza nelle situazioni difficili, appare sempre più isolata in una prassi politica fatta di improvvisazione e di piccole idee, ponendosi come massimo scopo di assurgere al rango degli alleati di complemento.
Ridotta al ruolo di corrente di destra della DC, essa deve rendere al partito cattolico lo spazio politico che le era stato concesso nella particolare situazione politica neocentrista del '72, e viene sfruttata come valvola di sfogo per gonfiare il pericolo neofascista, col risultato di dissipare le energie degli epigoni del nazionalismo e di ingaglioffire la gioventù, alimentando la falsa antitesi antifascismo-anticomunismo.
Ciò posto, aspettarsi dalle elezioni una soluzione messianica dei problemi italiani è, prima che alibistico, idiota. Perché i mutamenti politici non derivano dalla volontà popolare, ma sono predeterminati dalle centrali del potere. Perché recandosi alle urne la gran parte degli italiani vuole illudersi di avere assolto alle proprie responsabilità politiche e storiche, mentre in realtà evade il principale dovere verso se stessi e verso la comunità.

 

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