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Cosa tiene in vita la "vulgata": dubbi e considerazioni

 

Maurizio Barozzi (29 novembre 2012)   

 

 

Se andiamo a ben guardare la negazione di una morte di Mussolini e la Petacci in luogo e orario diversi da quelli indicati dalla "storica versione" ovvero la "vulgata" di Walter Audisio & Co., come la definì lo storico Renzo De Felice, poggia sostanzialmente su alcune congetture che, semplificando, possono racchiudersi in quanto ci ebbe a dire un noto ricercatore storico di cui omettiamo il nome perchè le sue osservazioni furono confidenziali.

In pratica costui ci fece notare che nella supposizione di una uccisione di Mussolini e la Petacci in orario antimeridiano e in luogo diverso da quello poi indicato dalla "vulgata" (fucilazione alle ore 16,10 davanti al cancello di Villa Belmonte, in Giulino di Mezzegra) quindi una versione alternativa che implicherebbe, oltre ad una successiva "finta" fucilazione di due cadaveri, anche la sceneggiata di un breve corteo di un uomo e una donna presunti Mussolini e la Petacci, scortati poco prima da uomini armati che li conducevano alla macchina in fondo alla piazzetta con il Lavatoio per portarli alla fucilazione, pesano due dubbi non indifferenti:

1. resta difficile immaginare che i dirigenti del PCI dell'epoca si misero ad architettare e mettere in atto tutta questa messa in scena (finto corteo e finta fucilazione);

2. una uccisione di Mussolini e la Petacci al mattino, non sarebbe potuta passare inosservata agli abitanti del circondario Bonzanigo, Mezzegra, Azzano, e quindi con il tempo ci sarebbero dovute essere svariate confidenze, tanto più da parte di alcuni sfollati in quei luoghi che poi, con la fine della guerra, ritornarono ai loro paesi di origine. Ma questo, tranne la famosa rivelazione di Dorina Mazzola del 1996, non è accaduto.

In particolare il racconto di Dorina Mazzola, al tempo residente a circa 100 metri in linea d'aria dalla casa dei De Maria dove, verso l'alba erano stati nascosti Mussolini e Clara Petacci, la quale raccontò di aver assistito ad alcuni episodi che mostravano una uccisione di Mussolini tra le ore 9 e le 10 nel cortile sotto casa dei De Maria ed una uccisione della Petacci, intorno al mezzogiorno, proprio dietro casa sua in un tratto a prato verso la congiunzione di via del Riale con la via Albana [1], questa rivelazione, dicevamo, avrebbe dovuto avere qualche riscontro, tra la gente del posto, cosa che invece non è avvenuta.

Queste osservazioni sono pertinenti e abbisognano di essere attentamente considerate perchè sono gli unici appigli a cui disperatamente si attacca una "vulgata" oramai sconfessata in tutto e per tutto.

Premettiamo subito che non è attraverso eventuali testimonianze o confidenze, tra l'altro rese più che altro a giornalisti e ricercatori storici, senza i crismi di una vera e propria deposizione con tanto di responsabilità penali, che oramai a distanza di tanto tempo si possa risolvere il mistero di quella morte e neppure con delle congetture e supposizioni sia pure suffragate da elementi interessanti.

La "vulgata", oramai, è letteralmente stata confutata da un paio di prove oggettive ed una di tipo indiziario, ma molto concreta, che indicano senza ombra di dubbio alcuno che Mussolini non venne fucilato alle 16,10 davanti al cancello di Villa Belmonte, ma precedentemente da qualche altra parte. Purtroppo non possiamo esattamente sapere con quali modalità e da parte di chi. Queste "prove" quindi, prescindono da ogni altra valutazione e da ogni possibile testimonianza e attestano definitivamente una morte antimeridiana di Mussolini.

Diamone un sommario accenno perchè sono prove, che unite poi a tante altre prove di carattere indiziario, contraddizioni e incongruenze nelle relazioni che compongono la "vulgata", diventano un insieme di elementi schiaccianti che ne dimostrano inequivocabilmente la falsità.

 

1. Prima prova oggettiva: il giaccone indosso al cadavere di Mussolini.

Nel 2006 studi peritali, eseguiti da una equipe del Prof. Giovanni Pierucci presso il celebre Istituto di Medicina Legale di Pavia, facendo uso di strumenti e tecniche computerizzate, hanno confermato precedenti osservazioni "ad occhio" che indicavano il giaccone con maniche raglan, visibile in foto e filmati di Piazzale Loreto e indosso al cadavere di Mussolini allacciato fin quasi al collo, privo di fori o strappi quali esiti di una fucilazione. [2]

Il giaccone risulta intatto e i colpi da armi da fuoco si trovano solo sulla maglietta bianca di salute a mezze maniche. Altri particolari, inoltre, evidenziati dalle tecniche digitali, indicano che alcuni colpi furono sparati da distanza molto ravvicinata

 

il giaccone la maglietta intima

 

Quindi Mussolini, attinto in vita da ben nove colpi di arma da fuoco, non fu fucilato con quel giaccone indosso. Di quei colpi 4 finirono quasi sulla spalla sinistra, altri due, uno alto sopra claveare e uno più basso parasternale, presero il petto sulla destra, un altro, per giunta fuoriuscito, attinse il braccio destro. Infine uno al collo, sottomentoniero, forse ritenuto nel corpo e uno al fianco dx, fuoriuscito dal gluteo.

Molti di questi colpi avrebbero dovuto produrre bruciature, fori o strappi su quel giaccone.. Invece non risulta niente di tutto questo e la ipotetica possibilità che quel giaccone sia stato cambiato da indosso al cadavere dopo che la sera, fu buttato sul camion con gli altri cadaveri dei fucilati, ovvero durante il viaggio di ritorno a Milano è una vera amenità secondo la quale, dovremmo supporre che nel mucchio dei cadaveri insanguinati che giacevano su quel camion, qualcuno decise che alla salma del Duce, forse poco elegante, sarebbe stato meglio sostituirgli il cappotto, cosa oltretutto non di certo agevole visto il rigor mortis del cadavere.

Al di là del ridicolo di una ipotesi del genere, resta il fatto che non esistono eventuali ricordi di un cambio di giaccone al cadavere durante il viaggio di ritorno verso Piazzale Loreto, confidenze che avrebbero dovuto pervenire da Audisio, Lampredi, Mordini, Landini e Mario Ferro, oltre agli uomini del plotone dell'Oltrepò pavese (circa 12), cioè tutti coloro che riportarono a Milano i 18 fucilati ammucchiati sul quel camion

Ma oltretutto la perizia di Pavia ha evidenziato, su la maglietta bianca di salute, aloni di polvere incombusta e di microparticelle che ogni colpo d'arma da fuoco deposita sul corpo colpito se lo sparo vi arriva direttamente da una distanza non superiore ai 50 cm.!

Di fronte a questa prova, a dir poco schiacciante, del "giaccone imperforato", non c'è nulla da obiettare: Mussolini venne buttato in terra al cancello di Villa Belmonte già morto e precedentemente rivestito con quel giaccone, cosicché saltano definitivamente tutti i riferimenti di luogo e di tempo indicati dalla "vulgata".

 

2. Seconda prova oggettiva: lo stivale destro

Le immagini di Piazzale Loreto, mattinata di domenica 29 aprile 1945, mostrano lo stivale destro di Mussolini aperto e rovesciato sul piede.

Il testo d'epoca di Renato Salvadori: "Nemesi" [3] ci dice che quello stivale aperto venne già notato, la sera del 28 aprile, al caricamento dei cadaveri sul camion al bivio di Azzano.

Walter Audisio, nelle sue relazioni, segnala lo stivale, come "sdrucito" o "rotto", al piede di Mussolini in casa De Maria, ma la sua è una evidente bugia inserita per "colorire" il suo balordo racconto, avendo egli (o chi per lui) notato quel particolare, al piede del cadavere.

Egli, infatti, ignorava che non si trattava di una semplice sdrucitura, ma della lampo di chiusura saltata al tallone e quindi, volendo denigrare Mussolini, evidenziandone la sua smania di essere liberato, ci aggiunse che questi vi camminava svelto e spedito per quei viottoli scoscesi che poi, bugia tra le bugie, avrebbero dovuto essere in salita.

 

gli stivali

 

Ma lasciamo perdere queste amenità di Audisio perché il rilievo oggettivo di quello stivale, (foto a lato), ci dimostra che Mussolini non poteva muoversi normalmente per essere condotto alla macchina che lo aspettava in fondo alla piazzetta con il Lavatoio in Largo della Valle e in ogni caso, quei pochi testimoni che hanno sbirciato quel "corteo" avrebbero sicuramente notato questo particolare, cosa che invece non è avvenuta.

La possibilità che la chiusura lampo si sia rotta durante il caricamento dei cadaveri prelevati al cancello di Villa Belmonte è molto remota, anzi assurda (una "lampo" del genere non salta in una stivale allacciato ai piedi di un cadavere, nè questo stivale può facilmente sfilarsi. Salta solo se viene maldestramente forzata per aprirlo o per chiuderlo) e comunque nessuno l'ha segnalato, così come nè i coniugi De Maria, nè il Cantoni Sandrino (l'altro teste, il Frangi Lino, presente in casa, morì pochi giorni dopo) hanno mai fatto cenno che Mussolini si era rotto lo stivale in casa (particolare questo che sarebbe stato sicuramente riferito).

Se pertanto lo stivale dx al piede del cadavere del Duce presentava questa anomalia, è ovvio che la saracinesca di chiusura venne forzata e si ruppe tra il dopo l'uccisione di Mussolini al mattino e prima di scaricare il suo cadavere alle 16,10 davanti al cancello di Villa Belmonte per inscenare una finta fucilazione.

Quindi questo stivale non solo smentisce Audisio, ma dimostra anche la messa in scena che fu mostrata a qualche occasionale astante di quei posti che vide passare il corteo di un uomo e una donna, scortati da uomini armati, condotti alla macchina sulla piazzetta del Lavatoio. [4]

Quei pochi testimoni, infatti, che verso le 16 del 28 aprile 1945 sbirciarono il passaggio di un uomo ed una donna scortati da uomini armati, non hanno però anche indicato che l'uomo si trascinava con uno stivale aperto.

Ergo, quei due non erano Mussolini e la Petacci!

Queste due prove oggettive che smentiscono una fucilazione al cancello di Villa Belmonte sono schiaccianti e definitive. [5]

 

- Prova indiziaria: La balistica della fucilazione smentisce la "vulgata".

Premessa: per ricostruire la dinamica balistica di quella fucilazione, abbiamo purtroppo solo la descrizione diagnostica delle ferite fatta dal prof. Cattabeni in sede di necroscopia all'obitorio di via Ponzio a Milano, nonchè le foto delle ferite visibili sulle salme di Mussolini e la Petacci.

Non abbiamo però elementi per stabilire il calibro delle pallottole, nè la descrizione dei tramiti interni che consentano di specificare metrica e inclinazioni di tiro e neppure abbiamo l'analisi del vestiario.

Di fronte a queste carenze non si può indicare una dinamica balistica precisa, ma solo avanzare non meno di un paio di attendibili ricostruzioni valendosi del verbale di Cattabeni, delle fotografie e della comune esperienza nella balistica per le armi da fuoco.

In ogni caso trattasi di ipotesi molto concrete espresse in tempi diversi, pur con alcuni distinguo e riserve, da esperti di medicina legale come il dott. Aldo Alessiani del tribunale di Roma (anni '80 che addirittura ipotizzò una sequenza di spari, con pistola e mitra, durante una colluttazione tutta svoltasi in casa), il prof. Giovanni Pierucci a Pavia (1996 e 2006) e il prof. Pierluigi Baima Bollone a Torino (2005). [6]

Sappiamo che Audisio, nelle sue confuse e contraddittorie relazioni, alla fin fine, indicò di aver sparato un massimo di 10 colpi, uno dei quali di grazia con la pistola. [7] Noi comunque dobbiamo partire dal fatto che il cadavere di Mussolini presenta 9 ferite premortali, causate da 9 colpi ovvero 8 che lo attinsero (l'incertezza nasce dal fatto che il colpo al braccio potrebbe poi essere anche entrato nel tronco o viceversa), sia nell'emisoma destro che in quello sinistro. Di queste nove ferite, la più alta trovasi in zona sotto mentoniera, mentre la più bassa attinse il fianco destro fuoriuscendo dal gluteo; l'avambraccio dx presenta una ferita con foro di uscita. Alcune ferite fanno supporre una ravvicinatezza di spari e il loro insieme mostra una geografia distanziata con poli direzionalità di tiro. Inoltre la conformazione difforme delle ferite, come appare in foto elettronicamente elaborate, alcune più piccole e altre poco più ampie (sull'emisoma destro), alcune rotonde e altre un poco ovali, lasciano intuire due calibri diversi, che è ragionevole indicare in un 7,65 e in un calibro 9 corto e alcuni spari con traiettoria un poco obliqua.

 

i colpi premortali che attinsero Mussolini

 

Fori in entrata:

1. colpo pre-mortale sull'avambraccio destro parte interna (margine ulnare);

2. colpo al di sopra della spina iliaca, (esce dal gluteo dx).

3. colpo in parasternale destra, 3 cm. sotto della clavicola dx;

4. colpo sopra clavicolare destro senza ledere la clavicola sottostante;

5. colpo sottomentoniero sul piano detto sopra-joideo (pallottola forse ritenuta);

6. 7. 8. 9. gruppo di quattro fori alquanto concentrati al di sotto della clavicola, rosa di raffica di mitra;

?. ?. Dubbio di due ulteriori colpi premortali non certi, ma forse possibili all'altezza dell'addome e con distanza di sparo alquanto ravvicinata (rilievo dell'equipe del prof. G. Pierucci a Pavia. non essendo però stati forniti ulteriori particolari tecnici in merito, è preferibile ignorare questo rilievo).

 

Fori in uscita:

A. uscita di 1.

B. uscita di 2 con una certa traiettoria dall'alto (entrata) in basso (uscita).

C. sono fori di uscita di 3. e 4.

D. sono i fori di uscita di 6. 7. 8. e 9.

?. incertezza sul foro di uscita relativo al colpo N. 5.

 

Ed ancora, alcuni colpi paiono sparati con inclinazione dall'alto verso il basso, traiettorie che teoricamente, potrebbero anche essere ascritte a inclinazione della vittima in avanti al momento degli spari, ma considerando il piano stradale sul quale dicesi era posizionato Audisio, di circa 15 cm. più basso rispetto a quello del cancello di Villa Belmonte dove era posizionato Mussolini, la giustificazione si complica.

Possiamo invece ragionevolmente ipotizzare, pur non potendo avere certezze assolute in merito, una esecuzione con almeno due sparatori: uno con mitra, leggermente defilato rispetto al bersaglio e l'altro con pistola posizionato frontalmente sulla destra di Mussolini.

È anche possibile una sequenza in due tempi: prima un ferimento al fianco e forse al braccio durante una fase di colluttazione e poi i sette spari finali con il bersaglio in piedi. Teoricamente, i sette colpi tra spalla, collo e torace, potrebbero anche provenire da una sola arma.

La Petacci, viceversa, venne attinta da una raffica di mitra alla schiena e forse, da uno o due colpi di pistola al petto (una o due pallottole calibro 9 corto furono recuperate nella salma durante la riesumazione del cadavere, ma non si ha certezza se vennero sparate in vita o post mortem). Le foto delle ferite "in uscita" sul petto e la sua pelliccia perforata nello schienale sono eloquenti. Una morte della donna questa che non può rapportarsi ai sia pur confusionari resoconti della "Vulgata" che la fece rientrare nella stessa fucilazione in cui fu ucciso il Duce.

 

cadavere della Petacci con indicati i colpi in uscita o in entrata sul petto. Non tutti sono premortali

 

Possiamo ragionevolmente ipotizzarne che la Petacci venne raggiunta in vita, dai tre ai cinque colpi e questo fatto, considerando quelli che raggiunsero Mussolini, splafonerebbe il numero massimo di colpi indicato da Audisio (10, di cui uno però di grazia). Di conseguenza ci sarebbe una sola possibilità per giustificare la "vulgata": la Petacci, abbracciata al Duce, colpita alla schiena da una scarica di mitra che trapassandola attinge anche Mussolini. Ma questa possibilità è alquanto remota. Le ferite, infatti, su Mussolini, è difficile ch siano derivate dai colpi che presero la Petacci perché è alquanto problematico far collimare le traiettorie tra i due corpi in piedi ed inoltre, in tal caso, la rosa di quattro colpi, quasi sulla spalla sinistra di Mussolini sarebbe stata molto più svasata. Quella rosa, infatti, fu prodotta da uno sparo non superiore ai 50 cm. di distanza, forse meno, mentre se avesse dovuto prima attingere anche la Petacci si dovrebbe considerare almeno un metro, oltre alle possibili deviazioni impresse dal corpo della donna, con tutte le conseguenze balistiche del caso.

La versione di Audisio, Lampredi e Moretti, e aggiungiamoci anche, l'autista Geninazza quindi, attestante un solo tiratore che farebbe fuoco da tre passi (sic!), oltre due metri, è la più improbabile ad essersi verificata, perché l'insieme delle circostanze e le modalità di esecuzione considerate, tendono ad escluderlo.

Quindi, se i tiratori della fucilazione sono stati almeno in due [8], vengono smentite tutte le versioni di Audisio, Lampredi, Moretti e Geninazza e soprattutto si rivela in tutta la sua assurdità e mistificazione la famosa Relazione riservata al partito di Lampredi del 1972. [9]

 

 

Stabilito tutto questo vediamo adesso i due quesiti posti all'inizio.

 

Possibile che fu organizzata una "finta fucilazione" pomeridiana per la quale fu anche necessario mettere in atto la farsa di un breve corteo con due presunti Mussolini e Petacci impersonati da chi sa chi?

Per capire quanto è accaduto bisogna considerare che vi era, da parte di coloro che avevano organizzato la sbrigativa eliminazione di Mussolini, la evidente necessità di presentare in un certo modo, inappuntabile e corretto, due morti verificatisi al mattino, di cui una, quella di una donna, alquanto fuori luogo e proditoria.

Da quel poco che si è potuto ricostruire, probabilmente al mattino del 28 aprile 1945 erano incorsi degli imprevisti, dapprima nella stanza dove erano rinchiusi Mussolini e la Petacci e poi in strada mentre si stava trasferendo da qualche altra parte la donna che invece fu colpita da una raffica alla schiena.

Fatto sta che queste due morti assumevano l'aspetto di due esecuzioni gangsteriche e mettevano in crisi le progettate esecuzioni "in nome del popolo italiano" di Mussolini e degli altri gerarchi, esecuzioni tra l'altro alquanto forzate in ambito ciellenista stiracchiando quel famoso articolo 5, comma secondo, del decreto sulla "Amministrazione della giustizia" del CLNAI.

Una brutta storia per l'agiografia resistenziale che si sarebbe dovuta propagandare e soprattutto far pesare negli equilibri di potere che comprendevano anche il PCI e si sarebbero instaurati a guerra finita.

Ma tutto questo forse era il meno perchè la situazione era anche più complessa e delicata.

Premettiamo una considerazione: tranne qualche eccezione, in ambito resistenziale (CLNAI rappresentante al nord del governo del Sud e CVL sua struttura militare) la morte sbrigativa di Mussolini stava bene quasi a tutti, sebbene non tutti erano disposti ad andarla ad eseguire e molti altri facevano o fecero poi il pesce in barile.

Tuttavia, questa eliminazione, era resa alquanto problematica sia per il coinvolgimento delle forze che nelle località del comasco si erano impossessate di Mussolini e ci tenevano alla gestione del celebre prigioniero (CLN comasco e lo sparuto gruppo della 52a Brigata Garibaldi), ma soprattutto dal come si sarebbe poi presentata la faccenda agli Alleati.

È un fatto che in sede armistiziale e poi anche successivamente, erano stati sottoscritti dal governo del Sud precisi impegni per una consegna di Mussolini agli Alleati.

Per altri versi, sappiamo bene che per gli inglesi era forse molto più congeniale una sbrigativa eliminazione del Duce. Max Salvadori Paleotti, ufficiale italo-inglese di collegamento tra gli Alleati e il CLN, una volta venuto a sapere della cattura di Mussolini, aveva fatto presente alle autorità del CLNAI che loro potevano disporre del prigioniero fino a quando non fossero arrivate le truppe Alleate ad imporre la loro amministrazione AMG. Come sottolineò Renzo De Felice, si trattava di un sottile invito a farlo subito fuori.

Gli americani, viceversa, apparentemente lo volevano catturare vivo, magari per gestirlo in uno di quei loro famosi processi farsa da baraccone. Ci sono però molti indizi, oltre che evidenti considerazioni, che ci dicono che, forse proprio all'ultimo momento, arrivarono alle missioni statunitensi protese alla ricerca di Mussolini, ordini segreti di lasciarlo in mano ai partigiani. Lo strano modo in cui si mosse una delle missioni americane più vicina alle località del comasco, quella di lento pede Emilio D'Addario, non falli quindi solo per errori o ritardi di questo ufficiale.

Alcune ricerche storiche ci dicono che c'erano almeno due missioni seriamente inviate a catturare Mussolini, una a prenderlo vivo, e l'altra a lasciarlo eliminare. Poco importa sapere se questa distinzione è esatta, perchè la sostanza di quei fatti non cambia.

Portiamoci ora a Milano, dove al Comando generale del CVL, installatosi in via Brera a Palazzo Cusano, passano quei dirigenti partigiani che decisero la sorte di Mussolini. Da Raffaele Cadorna, comandante, sia pure più che altri nominale del CVL, a Luigi Longo numero due del PCI, vice comandante del CVL e comandante delle Brigate Garibaldi e tutti gli altri esponenti del famigerato Comitato insurrezionale antifascista: il comunista Emilio Sereni, il socialista Sandro Pertini e l'azionista Leo Valiani, tutti decisissimi ad eliminare il Duce.

Valiani, inoltre, sappiamo che era in servizio del SOE, l'intelligence britannica, mentre Longo ovviamente si muoveva dietro il consenso che arrivava da Mosca. A questo proposito dobbiamo anche considerare una certa "collusione" tra Togliatti e ambienti del Vaticano (Giovanbattista Montini, capo dei servizi segreti della Santa Sede) e una forte cooperazione del PCI, durante la guerra civile, con la Intelligence britannica.

Tutto questo, quindi, per dire che la sorte di Mussolini era scontata, ma chi in Milano, quella sera del 27 aprile, la stava predisponendo, non possiamo sapere se conosceva o meno tutte le segrete intenzioni degli Alleati sul Duce e quindi doveva pur tener conto degli impegni sottoscritti per una sua consegna o del fatto che Mussolini poteva anche essere preso da qualche missione Alleata e sfuggire alla morte. Una preoccupazione questa, soprattutto da parte di Longo e Pertini, di cui ci sono molti riscontri.

Ma come accennato, ancor più importante è il fatto che quella morte, politicamente, si sarebbe sicuramente proiettata nell'immediato futuro, e quindi la si doveva presentare in un certo modo a tutte le componenti della Resistenza e agli Alleati.

Le prime dovevano esservi coinvolte per fargli accettare e avallare, anche se a cose fatte, quella eliminazione sbrigativa e i secondi, a prescindere dalle loro vere e segrete intenzioni, si doveva fare in modo che non avessero reazioni troppo negative.

Gli Alleati, infatti, pur standogli segretamente bene quella eliminazione, avrebbero anche potuto ufficialmente protestare per la mancata osservanza degli impegni sottoscritti in sede armistiziale e quindi far pesare la cosa nella definizione della guerra in Italia.

La strategia, messa in atto da Luigi Longo, quella di mettere tutti di fronte ad un atto di guerra oramai compiuto, si concretizzo nello spedire ad eseguire le prescritte fucilazioni Walter Audisio, attestato colonnello Valerio del CVL, ispettore al Comando, comunista, ma rappresentante di tutte le forze della resistenza e con tanto di ordine del Comando stesso. Audisio, coadiuvato da Aldo Lampredi Guido, alto dirigente comunista e aiutante di Longo al CVL e con segreti compiti "di partito" (cioè obbligare i comunisti del comasco ad ubbidire), partì come noto intorno alle 6,30 del mattino da Milano, meta Dongo via Como, con un plotone di circa 12 partigiani, più due loro comandanti, messogli a disposizione dal CVL. Una esemplare fucilazione in piazza, in nome del popolo italiano, da eseguirsi in quel di Dongo, avrebbe risolto la cosa, tanto più che Audisio sarebbe passato prima dalle autorità cielleniste di Como dove avrebbe presentato le sue credenziali e fatti accettare da tutti gli ordini ricevuti.

Gli americani avrebbero pur potuto protestare, ma alla fin fine avrebbero dovuto accettare quell'atto unanime, interno, di guerra posto in essere da una Resistenza e le sue legittime strutture politiche e militari, che loro, bene o male avevano riconosciuto, finanziato e armato.

Come sappiamo però Mussolini, verso l'alba, era stato nascosto a circa 21 Km. da Dongo, in località segreta (Bonzanigo, in casa dei contadini De Maria).

Frattanto tra le ore 6 e 7 del mattino arrivarono in federazione Comunista a Como Michele Moretti Pietro, commissario politico e Luigi Canali Neri, capo di stato maggiore della 52a Brigata Garibaldi, che riferirono appunto ai dirigenti comunisti di aver nascosto il Duce in luogo segreto e che la faccenda era al corrente anche del comandante Pier Bellini delle Stelle, Pietro, un elemento non comunista e degli autisti utilizzati nella bisogna. Si disse ai due partigiani della 52a Brigata Garibaldi, che bisognava avvertire Milano e attendere ordini, come raccontarono Giovanni Aglietto della federazione comunista, Lampredi e Moretti.

Possiamo dare comunque per scontato che questa informazione fu telefonata a Milano al PCI. Qui Longo, informato di quanto sopra, come logico che sia, avrà subito preso le sue precauzioni predisponendo di spedire sul posto qualcuno affinché la situazione Mussolini fosse tenuta sotto controllo e che nessuna sorpresa in loco e nessuna "forza" divergente se lo potesse andare a prendere, sottraendolo magari alla prevista eliminazione. Che questo "qualcuno" sia partito al mattino da Milano o meglio ancora furono date precise disposizioni agli stessi dirigenti della Federazione comunista di Como (Dante Gorreri e Giovanni Aglietto) o ancora si fece conto sulla presenza di Aldo Lampredi Guido che doveva essere arrivato con Audisio in Prefettura a Como, non possiamo saperlo, ma è certo che "qualcuno" verso le 9 arrivò a Bonzanigo per prendere in mano la situazione e magari predisporre le cose in attesa che Audisio, sbrigate le sue incombenze nella Prefettura di Como (che andarono alquanto per le lunghe) e arrivato a Dongo e imposti i suoi ordini anche al comando locale della 52a Brigata Garibaldi, potesse tranquillamente fucilare tutti, compreso Mussolini, in piazza. Al limite, avrebbe anche potuto andarlo a fucilare, esemplarmente e in pubblico, nella stessa località della Tremezzina dove si trovava.

Sappiamo però che le cose andarono diversamente, molto diversamente, perchè nella stanza dove erano rinchiusi Mussolini e la Petacci si verificò l'imprevisto, quello probabilmente di una reazione di Mussolini e della donna, quindi una colluttazione e il ferimento del Duce al fianco e forse al braccio.

A questo proposito la confidenza di Savina Santi, la vedova di Guglielmo Cantoni Sandrino (uno dei due partigiani che erano di guardia a Mussolini in quella casa), un racconto fatto a febbraio del 1996, prima ancora che si conoscesse la testimonianza di Dorina Mazzola e alla presenza di varie persone e da lei sottoscritto, svela tutta questa faccenda. Ha raccontato la Santi che il marito ebbe a dirgli:

«Mussolini e la Petacci non sono stati uccisi nel pomeriggio e davanti al cancello di Villa Belmonte. Mio marito mi disse che quella mattina lui si trovava di guardia alla stanza dove c'erano i prigionieri, quando vide salire le scale Michele Moretti e altri due partigiani che non aveva mai visto nè conosciuto. I tre gli ordinarono di restare sul pianerottolo fuori della stanza ed entrarono nel locale. Mio marito, restando sul pianerottolo, udì uno dei tre che diceva: «adesso vi portiamo a Dongo per fucilarvi», e un altro gridare: «No, vi uccidiamo qui!». Poi mio marito udì altre voci concitate, le urla della donna e colpi d'arma da fuoco» (vedesi: G. Pisanò, "Gli ultimi 5 secondi di Mussolini", Il Saggiatore 1996).

I partigiani giunti a Bonzanigo in quelle prime ore di mattina finirono per trovarsi quindi con il Duce ferito e forse anche con la Petacci colpita al volto come attestano delle contusioni premortali che si intuiscono dalle foto del suo cadavere.

Forse impulsivamente, forse affrettatamente, fatto sta che decisero lì per lì di uccidere il Duce nel cortile dello stabile. Del resto un Mussolini in quelle condizioni sarebbe stato alquanto problematico presentarlo a Dongo per una esecuzione esemplare in pubblico.

Fu tutto questo insieme di avvenimenti repentini e imprevisti che impose poi la sceneggiata di una finta fucilazione al pomeriggio davanti al Cancello di Villa Belmonte, fucilazione da eseguirsi di nascosto, dopo aver bloccato tutti gli accessi al posto, come dimostrato da varie testimonianze dei residenti.

Ora, già il fatto che Mussolini risultava fucilato di nascosto e alla chetichella stranamente al petto, mentre invece i suoi seguaci a Dongo furono rabbiosamente fucilati alla schiena e anche davanti a donne bambini, era una discrasia non da poco, ma far apparire così, alla chetichella e dal "nulla", quei cadaveri davanti a quel cancello, non è che era molto convincente.

Di tutto questo, gli artefici di quegli avvenimenti, ne dovettero tener conto ed ecco quindi che si mise in atto anche la farsa di due soggetti, lui infagottato in un cappottone o un mantello, con i baveri alzati e in testa qualcosa, le testimonianze sono discordanti, e lei con una pelliccia indosso e un cappotto in mano o viceversa, per farli passare quali Mussolini e la Petacci in vita condotti alla fucilazione.

Questa messa in scena, però, venne tradita da due "sviste". La prima che l'uomo camminava normalmente, mentre invece avrebbe dovuto, quantomeno, trascinare una gamba visto che il suo stivale destro non si sarebbe potuto chiudere e l'altra, se sono vere alcune testimonianze riferite da una "relazione" del tempo e da quanto ha poi riportato anche l'agente americano Lada Mocarsky, che entrambi avevano ai piedi "stivali da equitazione". [10] Ora la donna che indossava questi stivali, tutto poteva essere, meno che la Petacci.

Ecco quindi spiegato il come e il perchè si rese necessaria tutta quella messa in scena.

 

Possibile che, nè per la testimonianza di Dorina Mazzola, al tempo residente a circa 100 metri in linea d'aria da casa De Maria che assistette ad avvenimenti che indicavano una morte antimeridiana e differita del Duce e della Petacci, nè confidenze simili sono mai pervenute dai residenti del luogo? Possibile che nessuno ha mai visto e udito qualcosa in merito?

 

Questo è veramente un bel problema che potremo anche spiegarlo in qualche modo, ma oggi, a sessantasette anni di distanza da quei fatti, non si possono più conseguire certezze assolute.

Diciamo intanto che la letteratura in argomento, prodotta dal dopoguerra in avanti, ci mostra testimonianze del posto, dirette o indirette che siano, spesso inattendibili, in tutto o in parte (al tempo queste testimonianze erano spesso anche ben remunerate), dati sbagliati a non finire, ecc., tramandatisi con molta leggerezza da uno scrittore all'altro che li ha ripresi e riprodotti senza attenta verifica.

Comunque, in genere, prendiamo per buone queste testimonianze e chiediamoci, in sostanza, cosa ci stanno a dimostrare?

Essenzialmente due cose: primo, che vennero sbirciati da qualche residente del posto due persone, un uomo e una donna che nessuno ha potuto esattamente riconoscere, scortati da qualche altro uomo armato, che venivano condotti verso la piazzetta con il Lavatoio dove poi furono fatti salire su una macchina nera che scese per via XXIV maggio. Poco dopo si udirono gli spari di quella che fu poi annunciata a tutti come la fucilazione di Mussolini e la Petacci che giacevano cadaveri ai piedi del Cancello. Ovviamente quel "corteo" fu da tutti messo in relazione con la fucilazione di Mussolini.

Secondo, che fin dal mattino vi erano spari sulle colline sovrastanti e voci ricorrenti di una caccia a fascisti, spie o generali fuggiaschi e a questo proposito si erano chiuse tutte le vie di accesso, al circondario Azzano, Bonzanigo, Mezzegra, compresi gli ingressi e le uscite nelle ville del posto. Piccoli posti di blocco, inoltre, poco prima della "fucilazione pomeridiana (avvenuta circa alle 16,10), precludevano il normale passaggio per via XXIV maggio. La stessa "vulgata" recita che Audisio & Co., giunti a quel cancello, si predisposero di guardia sulla curva superiore e su quella inferiore della via, e cacciarono via anche gli abitanti di Villa Belmonte che in quei momenti si avvicinarono al cancello. In questo contesto due testimonianze di due signore [11] che dichiararono di aver visto da vicino, le fasi della fucilazione e persino udito le frasi pronunciate in quei frangenti, sono palesemente inattendibili o meglio frutto di suggestione e di un immaginario collettivo prodottosi in loco successivamente.

Oggi poi, dopo sessantasette anni da quei fatti e una pluriennale ripetizione della "vulgata" nell'ottica della agiografia resistenziale, non c'è alcuna garanzia che l'asserito «io c'ero», oppure «chi c'era mi ha detto», siano veramente attendibili e non, magari, racconti di riporto, fatti propri, riprendendoli da altri, ma soprattutto molti racconti sinceri e in buona fede, sono anche frutto di una mistificazione che al tempo fu messa in atto per gli abitanti di quelle località.

Per cercare almeno di comprendere cosa è veramente accaduto in tutto questo tempo, dobbiamo per prima cosa considerare che in quelle zone ha sempre aleggiato un clima terribile e pluriennale di minacce, amplificate anche dal fatto che nel dopoguerra nel comasco ci furono circa 400 tra omicidi e sparizioni. Recentemente un ricercatore storico, Pierangelo Pavesi, tra l'altro convinto della fucilazione pomeridiana e assiduo frequentatore di quelle località della Tremezzina, ha comunque riportato nel suo libro "Sparami al petto!" Edizioni del Faro 2012, di ricordare che a 55 anni da quei fatti e a 20 anni dalla sua morte il nome di Martino Caserotti, temuto comandante partigiano locale, incute ancora paura.

Ma se non bastassero i ricordi dei ricercatori e giornalisti storici che hanno per anni bazzicato quelle località riscontrando una forte omertà ambientale, laddove si ponevano domande, un interessante servizio, nel 2008 mandato in onda dalla TV Espansione di Como, dal giornalista Emanuele Caso e con interviste in quei luoghi, come Mezzegra, ha evidenziato due particolari importantissimi:

primo, che a suo tempo la gente venne zittita (testuali parole dell'allora vicesindaco di Mezzegra Vittorio Bianchi) e già solo questa affermazione dimostra la falsità della "vulgata" altrimenti, è ovvio, non ci sarebbe stato alcun motivo per "zittire" la gente (qualunque sia il senso che si voglia dare alle parole dell'allora vicesindaco di Mezzegra, il verbo "zittire" implica l'azione esercitata da qualcosa o qualcuno) e, secondo poi, l'osservazione che, oggi come oggi, dopo tutti questi anni e i ricambi generazionali, la gente del posto ha perduto l'orientamento su quei fatti.

Il problema della valutazione dei "ricordi" dei residenti in quei luoghi, però, non è così semplice ed anche se sappiamo benissimo che, non sono rari i casi di località dove vigeva un certo clima ed un "potere" minaccioso e incontrollato, mai nessuno ha spifferato qualcosa per far luce su episodi cruenti, tutta la faccenda ha comunque dell'incredibile e razionalmente prevede due sole risposte: nessuno ha rivelato niente di divergente da una morte pomeridiana, perché non c'era niente da rivelare; oppure ci sono dei gravi motivi, delle situazioni ambientali che hanno determinato questo pluriennale silenzio.

La prima eventualità, che confermerebbe la "vulgata", la escludiamo subito per il semplice motivo che non soltanto le prove oggettive precedentemente esposte, ma anche tutta una serie di indizi e dati di fatto, che qui non è il caso di riportare, dimostrano che la fucilazione pomeridiana al cancello di Villa Belmonte è un falso storico.

Per la seconda eventualità, per la quale propendiamo, aggiungendoci anche le testimonianze in buona fede di chi ha visto alcune scene, senza sapere che erano "truccate", occorre considerare quella che abbiamo chiamato "omertà ambientale", un silenzio a volte appena rotto da confidenze alquanto problematiche, che però non può essere spiegato soltanto con il terrore che aleggiava su la gente del posto.

Nel nostro caso, infatti, il solo "terrore" non è sufficiente a spiegare tutto, anche perché pur "qualcosa", dai residenti del posto, è stata riferita.

A nostro avviso, il silenzio pluridecennale e la scarsa "utilità", diciamo così, di alcuni racconti che pur si sono raccolti sul posto, si sono determinati soprattutto perché, al tempo, i residenti vennero confusi e fuorviati da una serie di repentini e subdoli avvenimenti, quali una mistificazione della realtà, per cui, da una parte si agì di nascosto e dall'altra pur si fece "vedere" e "udire", a qualche occasionale paesano in strada, quello che si volle far "vedere" e "udire". Questa mistificazione, unita a voci false sparse in giro, alla eccitazione ed esaltazione di quella giornata che rimase storica, con il passare degli anni finì per procurare nei ricordi della gente una specie di "allucinazione" collettiva.

Sebbene (testimonianza Mazzola) ci fosse stato chi avesse visto o addirittura partecipato o comunque saputo di avvenimenti diversi da quelli che raccontava la "vulgata", in particolare il trambusto e gli spari nel cortile sotto casa dei De Maria e la morte di una donna, la Petacci, intorno al mezzogiorno, d'altro canto altri avevano pur assistito, verso le 16, al breve corteo di un uomo e una donna scortati da uomini armati verso la piazza con il Lavatoio e molti altri, poco dopo, avevano udito gli spari della "fucilazione" e visto poi i due cadaveri ai piedi del cancello di villa Belmonte.

Nella esaltazione delle voci incontrollate, compresa quella che Mussolini e la sua donna erano stati fucilati davanti a quel cancello ed ivi giacevano cadaveri, si imposero le versioni che vennero poi divulgate, assieme alla agiografia resistenziale di quegli avvenimenti.

Oltretutto anche il fatto che quella regione prese poi a rifiorire socialmente nel clima post liberazione, spinsero psicologicamente un po' tutti a non guastare il quadro agiografico e a non esporsi o esporre i propri familiari, con dubbi e critiche di sorta.

Chi "sapeva" ha taciuto, per convenienza o per paura, mentre la maggioranza che conosceva più che altro quello che gli avevano voluto far credere, non poteva che rivelare i fatti e i particolari che gli avevano fatto "vedere" o gli avevano raccontato, aumentando la confusione.

Ecco quindi spiegati i due quesiti posti ad inizio articolo. Ci rendiamo conto che, in questo caso, anche noi abbiamo dovuto far uso di congetture e deduzioni, seppur suffragate da elementi concreti, ma del resto le uniche prove oggettive, a cui oggi ci si può riferire per risolvere quel mistero, sono quelle da noi precedentemente esposte e che smentiscono, a prescindere, la "vulgata". Il resto sono più che altro chiacchiere.

 

Maurizio Barozzi 

 

NOTE

 

 

[1] Vedesi: Giorgio Pisanò, "Gli ultimi cinque secondi di Mussolini", Ed. Il Saggiatore 1996.

[2] Vedere: F. Andriola: "Morte Mussolini: una macabra messa in scena" - Rivista Storia in Rete maggio 2006. Ancor più dettagliato, da un punto di vista delle immagini, è anche il documentario in DVD di Storia in Rete: "Mussolini una morte da riscrivere" - Ed. 2011.

I colpi solo sulla maglietta bianca intima e il giaccone o pastrano imperforato, sono stati confermati anche dal medico legale prof. Costantino Ciallella, Università la Sapienza di Roma, intervistato nella trasmissione di Rai Tre "La Grande Storia" del 6 luglio 2012.

[3] R. Salvadori: "Nemesi, dal 23 al 28 aprile '45. Documenti e testimonianze sulle ultime ore di Mussolini B.", Gnocchi Editore, Milano, 1945

[4] Chi sbirciò quel breve corteo per la piazzetta del Lavatoio (Largo della Valle), riferisce di un uomo, presunto "Mussolini", rimpannucciato in un pastrano o un mantello militare con i baveri alzati e in testa un berretto o cappello o un casco da lavoratore calato sugli occhi, se non delle bende o specie di passamontagna. La donna (la Petacci non poteva conoscerla nessuno da quelle parti) venne vista con il cappotto indosso e la pelliccia in mano o viceversa. Alcuni dicono che entrambi questi due personaggi avevano ai piedi degli stivali tipo da equitazione. Nessuno quindi può attestare con cognizione di causa che erano proprio il Duce e la Petacci.

Oltre alle testimonianze riportate nel libro dall'autore, vedere: "Rapporti all'OSS dell'agente americano Lada Mocarski", rivista Atlantic Monthly, Boston dicembre 1945; Angela Bianchi "Rapporto al CLN di Como (Maggio 1945)", Corriere della Sera 22.9.1995; Testimonianza scritta di Roberto Remund, visibile in: http://www.larchivio.org/xoom/remund.htm; Testimonianza Palma Monti, in Viganò M.: "Un istintivo gesto di riparo" - Palomar N. 2, 2001

[5] Una diversa modalità di morte è d'altronde evidente, altrimenti ben difficilmente si spiegherebbe il fatto che a Mussolini, ritenuto il criminale di guerra numero due, fu riservata l'"onorevole" concessione di essere ucciso con tiro al petto e in discrezione, mentre invece poco dopo a Dongo, gli altri fascisti si pretese rabbiosamente di fucilarli alla schiena e davanti a donne e bambini!

[6] Vedere: Alessiani A., "Il teorema del verbale 7241", reperibile on line in: http://www.larchivio.org/xoom/alessiani.htm; Consulenza del prof. Giovanni Pierucci, riportata in Pisanò G.: "Gli ultimi cinque secondi di Mussolini", il Saggiatore 1996; Perizia equipe prof. Pierucci a Pavia, in: Storia in Rete maggio 2006; Baima Bollone P. L.: "Le ultime ore di Mussolini", Mondatori 2005.

[7] Non consideriamo qui un ulteriore rilievo evidenziato dalla perizia dell'equipe del prof. Pierucci a Pavia, quello che avrebbe individuato ulteriori due colpi premortali all'altezza dell'addome (cosa questa che farebbe ulteriormente saltare per aria la "vulgata") in quanto non sono stati forniti particolari tecnici precisi.

[8] Nel 2007 il regista Carlo Lizzani, autore del film "Mussolini ultimo atto", del 1974, che tanto aveva contribuito a divulgare la "Vulgata" nell'immaginario collettivo ha, grazie a Dio, finito per affossarla laddove, nel suo libro di memorie "Il mio lungo viaggio nel secolo breve", Einaudi 2007, ha reso noto che Sandro Pertini, un pezzo da novanta della Resistenza, subito dopo aver visto il film, e scontento di come era stato descritto il suo personaggio, gli scrisse una lettera nella quale affermò: «... e poi non fu Audisio a eseguire la "sentenza", ma questo non si deve dire oggi».

[9] Per la Relazione Lampredi, resa da questi riservatamente al PCI nel 1972, si noti quanto segue: avendo Lampredi attestando in Audisio il vero e unico sparatore, ne consegue che egli ebbe a mentire al suo partito che, oltretutto, doveva sapere benissimo come erano andati i fatti essendo, tra l'altro, ancora vivi (nel 1972) Audisio, Moretti, Longo, Dante Gorreri, Giovanni Aglietto, Mario Ferro e altri, tutti attori compartecipi a quelle vicende. Di fatto Lampredi avrebbe mentito a sè stesso!

Può accadere che in una versione resa pubblica si possa mentire, per opportunità politica o altro, ma non in una relazione privata e "riservata" al proprio partito che conosce bene i fatti: sarebbe una situazione da manicomio, assurda. Essendo questo, evidentemente, impossibile, dobbiamo ritenere che quella "Relazione" era un ulteriore espediente da utilizzare in caso di necessità ovvero di totale naufragio delle versioni di Audisio. Rimase invece negli archivi del partito fino al 1996.

[10] Vedesi: Angela Bianchi, "Rapporto al CLN di Como (Maggio 1945)", Corriere della Sera 22.9.1995; "Rapporti all'OSS dell'agente americano Lada Mocarski", rivista Atlantic Monthly, Boston dicembre 1945;

[11] Trattasi del racconto di Edvige Rumi, di Gravedona, fatto a Marino Viganò e da lui riportato in: "Un Istintivo gesto di riparo": nuovi documenti sull'esecuzione di Mussolini (28 aprile 1945)», pubblicato sulla rivista "Palomar" N. 2 del 2001. E quindi del racconto fatto da una certa Rainoldi Marta e riportato in: P. Pavesi: "Sparami al petto!", Edizioni del Faro 2012. Entrambi questi racconti pretendono di attestare la presenza di queste due donne, la Rumi addirittura con il marito e altri, talmente nei pressi dell'esecuzione tanto da sentire nitidamente le frasi profferite, in particolare dalla Petacci. Le circostanze di quell'evento, come venne preparato, come ci si mise di guardia per tenere la strada sgombra, smentiscono però questi racconti, frutto forse di autosuggestioni maturate nel tempo.

A questi racconti si può assimilare le testimonianze dell'autista Giovanbattista Geninazza che portò Audisio e gli altri a Bonzanigo con la 1100 nera. Questo autista che già si rende inattendibile per un paio di episodi precedenti, a cui lui dice di avervi partecipato, ma invece non risulterebbe proprio, sembra un altro caso Lonati, quel partigiano che assicurò di aver ucciso lui il Duce, assieme ad un fantomatico John, ufficiale inglese. Comunque sia per le due donne e per il Geninazza ci sentiamo di escludere che fossero dei semplici mitomani, e propendiamo invece per il fatto che furono fuorviati, ingannati e poi suggestioni. Le minacce e il tempo trascorso fecero il resto. In ogni caso, non è possibile fare una ricostruzione precisa di quanto è accaduto, perchè non conosciamo l'esatta "scena del crimine" in cui si svolsero quei repentini avvenimenti. Quanto riferito dalla "vulgata", non solo è contraddittorio, ma non è neppure attendibile. Audisio non arrivò inaspettato a Bonzanigo, non scelse il luogo dell'esecuzione sul momento strada facendo, non aveva bisogno di mettere di guardia ai lati della via, come disse, l'autista Geninazza e il Moretti, perchè tutto era stato predisposto e altri partigiani del posto e di fuori stavano collaborando. Addirittura una voce, sparsa, forse intorno alle 14, aveva svuotato le case del circondario dicendo che Mussolini sarebbe passato prigioniero nella sottostante strada statale.

Lo stesso Geninazza che invece disse di essere stato a ridosso di Audisio, mentre questi sparava a Mussolini, non è attendibile, ma non possiamo neppure sapere dove lo avevano parcheggiato in quei momenti e cosa realmente vide.

        

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