Italia - Repubblica - Socializzazione

 

da "La Cittadella"

Di Garibaldi (e d'altro)

Elio A. Sorìa   

 

Centocinquanta anni fa (5 maggio 1860) partiva da Quarto la spedizione dei Mille. L'anniversario, rientrato nelle controverse celebrazioni per i 150 anni dello Stato nazionale unitario(1861-2011), ha suscitato, al pari di tutte le anzidette celebrazioni, umori e malumori di vario genere, con in primo piano le intemperanze volgari, insieme antigaribaldine e antinazionali, del leghismo del Nord e del nostalgismo neoborbonico del Sud. Come al solito, è ritornato a farsi sentire il leitmotiv del finanziamento occulto, britannico e massonico, dell'impresa di Garibaldi, da sempre cavallo di battaglia della propaganda antiunitaria. Non sarà forse inutile, allora, che anche "La Cittadella", quale rivista di studi storici particolarmente attenta al tema dell'unità nazionale, scriva brevemente qualcosa tanto su Garibaldi quanto sui suoi finanziatori.
Giuseppe Garibaldi è il personaggio storico dell'Italia degli ultimi due secoli più noto e più amato in tutto il mondo. Le sue due doti caratteriali fondamentali: il coraggio e il disinteresse personale, e il suo principio politico basilare: la libertà dei popoli, sono universalmente noti e riconosciuti, tranne che, oggi, presso una rumorosa minoranza di italiani, la quale trova soprattutto nella leggenda nera costruita dai gesuiti nell'800 (magna pars di tale leggenda le accuse -false- di portare i capelli lunghi per coprire l'onta di un orecchio mozzatogli in Sudamerica come ladro di cavalli e di aver condotto navi addette al trasporto di schiavi) alimento per una presunta obiettiva ricostruzione "revisionista" della storia del Risorgimento.
In Garibaldi si può trovare di tutto, lo si può cucinare e lo si è cucinato in salsa di destra e di sinistra, proto-fascista e proto-antifascista, monarchica e repubblicana. A noi interessa sapere che fu certamente un uomo valoroso e onesto, che ebbe una visione virile e guerriera della vita di cui voleva rendere partecipi tutti gli italiani (scrisse: «I miei primi maestri furori due preti; e credo l'inferiorità fisica e morale della razza italica provenga massime da tale nociva costumanza»; e ancora: «Amanti della pace, del diritto, della giustizia - è forza nonostante concludere coll'assioma d'un generale americano: La guerra es la verdadera vida del hombre!»); che fu un grande estimatore di Roma antica («Il gigante di tutte le grandezze umane, passate, presenti, e future" la chiamava contrapponendola al «regno dei pigmei» delle moderne potenze straniere); che voleva un'Italia unita e grande nel nome e nello stile di Roma (dal suo testamento: «Potendo, e padrona di se stessa, l'Italia deve proclamarsi Repubblicana, ma non affidar la sua sorte a cinquecento dottori, che dopo averla assordata con ciarle, la condurranno a rovina. Invece scegliere il più onesto degli italiani e nominarlo dittatore temporaneo, e con lo stesso potere che avevano i Fabi e i Cincinnati. Il sistema dittatoriale durerà sinché la nazione italiana sia più educata a libertà, e che la sua esistenza non sia più minacciata da potenti vicini. Allora la dittatura cederà il posto a regolare governo repubblicano»); che unì a tutto ciò anche un consapevole sentimento metafisico (l'anima è «particella dell'Eterno» destinata a ricongiungersi a Dio «seminatore di mondi»), dando alla sua potente personalità moderna, tanto assetata di antico da desiderare che il suo corpo fosse alla fine arso su una pira funebre al modo dei guerrieri omerici, un volto "tradizionale" ben colto tra i più sensibili dei propri uomini («Per me l'antico, quel che non è più è tutto...; e se Garibaldi non fosse un'antichità non l'avrei seguito» dirà il giovane studente pavese Telesforo Catoni) e che no sfuggì affatto agli Indù in lotta per l'indipendenza e l'unità della Madre India (G. B. Tilak: «Garibaldi è il Ràstrabhakta Vira [l'eroe nazionale] che prepara il sacrificio nello Homakunda [la buca] dove si accende il fuoco rituale»; Lâlâ Lajpat Râi: è «il più grande eroe dell'Italia» e i suoi resti fremono perché non è stato loro permesso di essere arsi «al modo dell'ultimo rito degli Ari»).
Tutto ciò basta e avanza per giustificare il nostro apprezzamento per il Generale del Volturno e il Cincinnato di Caprera. Ma a rafforzarlo, spiritualmente, viene anche il sapere che a lui giovinetto in visita col padre nell'Urbe forse il Genio di Roma (da lui poi esplicitamente chiamato in causa durante la gloriosa repubblica del 1849: «Lì, liberamente, nell'aula stessa ove si adunavano i vecchi tribuni della Roma dei Grandi, eravamo adunati noi, non indegni forse degli antichi padri nostri, se presieduti dal genio, ch'essi ebbero la fortuna di conoscere, e di acclamare sommo!») suggerì il compito futuro (Jessy Withe Mario: «Lasciò la città eterna col culto di Roma nel cuore, e nelle lunghe ore che passava taciturno e meditabondo tra l'immenso mare e l'infinito cielo fu tormentato da voci arcane che sussurravano a lui: sotto quei ruderi giace l'Italia sepolta viva, a te a te risuscitarla! ridestarla col soffio della libertà»). Giuliano Kremmerz, il grande ermetista padre della Fratellanza di Myriam, che di Garibaldi, poi iniziato al Rito Antico e Primitivo di Mizraim seu Aegypti, doveva aver sentito parlare pure da Giustiniano Lebano, anch'egli Maestro d'Ermetismo e patriota risorgimentale, scrisse: «L'eroe Nizzardo in mezzo ai suoi pareva un ispirato e forse lo fu per un buon pezzo».
Che tutto questo costituisca un'aggravante, perfino una "prova schiacciante" di ogni nequizia, per la storiografia antirisorgimentale di professorine cattoliche e inacidite cui non sarà parso vero di vedersi fare la pubblicità dei propri "saggi" da un presidente del consiglio che cita libri solo se qualche furbetto gli suggerisce di farlo, non ci importa affatto. Però, come già anticipato, ci si lasci toccare l'argomento "finanziamento della spedizione dei Mille". Lo storico G. Di Vita ha dedicato a tale tema un saggio obiettivo già nel 1988: sì, tali finanziamenti ci furono, e arrivarono da Edimburgo tramite canali massonici. E allora? Tutti i movimenti rivoluzionari e indipendentistici hanno, da sempre, approfittato delle guerre calde e fredde fra Stati e/o Imperi per cercare aiuti finanziari, militari, diplomatici, anche attraverso canali massonici (v. la storia dell'OLP del "fratello" Arafat, ad es.). I cattolici antinazionali si preoccupino di raccontarci come sono stati finanziati e supportati in tutti i modi leciti e illeciti il sindacato polacco antisovietico di Solidarnosc e le secessioni croate e slovene (dai contenuti non solo anti-serbi ma anche anti-italiani) dalla Jugoslavia, invece di far le pulci alla spedizione dei Mille di centocinquanta anni fa! E i leghisti e i neoborbonici ci raccontino anch'essi di certe loro strane amicizie, su cui ora sorvoliamo. Quanto ai dubbi sollevati persino sulle qualità militari di Garibaldi e del suo esercito di volontari, in nome delle navi inglesi a Marsala o dei soldi con cui sarà pur stato comprato qualche funzionario e generale borbonico (ma questi perché si facevano comprare? e se il fatto fosse tanto vero da essere stato decisivo per la caduta del Regno delle Due Sicilie, che Regno solido e sano era mai quello in cui il novanta per cento delle élites politiche e militari si faceva comprare dagli "invasori"?), sta di fatto che sui campi di battaglia, da Calatafimi al Volturno, gli inglesi non c'erano, e come scrive l'onesto Di Vita (cioè proprio quello che parla del finanziamento da Edimburgo): «Ma la vittoria delle Camicie Rosse fu italiana soltanto - purtroppo contro altri Italiani [...] Von Moltke, capo del formidabile Stato Maggiore prussiano, che di queste cose se ne intendeva, ebbe a dire che la battaglia del Volturno era stata condotta in maniera tattica esemplare».

Von Moltke, ovvero la Prussia: altro bell'argomento! Questa nostra rivista è stata di recente sospettata di essere poco romana e poco italiana perché non incline a suonare trombe antigermaniche che ci riportano al 1914, Se non le suoniamo, noi che pure abbiamo ampiamente celebrato la Grande Guerra (si vedano i nn. 17 e 30), è perché le sentiamo fuori tempo e stonate. E fuori tempo e stonate lo sarebbero state peraltro anche 150 anni fa.
Nel marzo 1903, a Torino, il tedesco, già prussiano, signor Franz Muller, "cavaliere della Corona di Prussia", viene riconosciuto anche "cavaliere della Corona d'Italia" con il nome di Francesco Muller. I meriti italiani di questo prussiano non erano però molto chiari. L'anno dopo un giornale torinese lo ricorderà come giunto in Italia «verso il 1861» nelle vesti di «rappresentante di un fabbricante di armi bianche di Solingeh», e dunque fornitore d'armi tanto per il Regio Esercito che per i volontari garibaldini. Sennonché nel 1861, anno di nascita del Regno d'Italia, Garibaldi era già stato da mesi "dimissionato" da Vittorio Emanuele (il 9 novembre 1860 era partito per Caprera) e quindi qualche conto non tornava. Cosa nascondeva quell'improbabile rifornimento di armi ai Mille «verso il 1861»? Una verità non facilmente confessatale, e cioè che in Italia il Muller era già venuto nel 1853, ponendo base a Torino ed iniziando a tessere una rete di contatti, comprendente anche Garibaldi, per conto del governo prussiano, interessato a favorire e disciplinare la rivoluzione italiana contro gli interessi tanto francesi che austriaci. Così rivelerà nelle sue memorie il nipote di Muller, il buon Arminio Muller, che svela anche il ruolo dell'avo Franz/Francesco nella stessa spedizione dei Mille.
Muller è in Italia per assicurare armi all'impresa siciliana. Sono pronte 15mila buone carabine. Ma Arminio Muller spiega che «una parte andò perduta per sequestro». Franz non è solo uno spregiudicato agente segreto. Egli ha viva ammirazione per Garibaldi e ne condivide anche l'affiliazione massonica. Il nipote Arminio chiarisce che delle sue forniture d'armi «è particolarmente notevole per valore morale e per rischio, quella che egli fece a Garibaldi per la spedizione dei Mille». Nel 1874 Franz/Francesco Muller è ancora tra i sostenitori economici del libro "I Mille" di Giuseppe Garibaldi. E una lettera autografa del "16 Settembre 1877", testimonia che lo stesso Giuseppe Garibaldi chiede fraternamente proprio a Francesco Muller, suo "Grandma" (Gran Maestro), di occuparsi della "cremazione" del proprio "cadavere", che poi fu impedita dal Governo italiano.
La medaglia che la Massoneria Universale della Comunione Italiana dona a Muller a Torino per celebrare «quaranta anni di strenua ed indefessa operosità» calcola un tempo che va dal 1863 al 1903: il tempo precedente deve essere taciuto. Ma questo prima ci spiega tante cose, non ultima il discorso su Garibaldi pronunciato al banchetto massonico di Coburgo per il Solstizio d'estate del 1864, in cui «si riafferma l'amore di Garibaldi per la Germania e dei fratelli tedeschi per l'eroe dei Due Mondi, Gran Maestro della massoneria italiana», nonché lo stupefacente contenuto di una lettera pubblica di Garibaldi ai fratelli tedeschi: «II Mondo manca di un popolo-guida, non per dominarlo ma per condurlo sulla via del dovere, che non è altra cosa che la fraternità delle nazioni e il rovesciamento delle barriere dell'egoismo […] questo primo posto potrebbe essere preso dalla Nazione Germanica. Il carattere serio e filosofico del vostro popolo sarebbe una garanzia di fiducia e di stabilità per l'avvenire di tutti».
Se più tardi, nel '70-'71, al tempo della guerra franco-prussiana, il Generale combatté con i francesi contro i prussiani (strappando addirittura loro le insegne del 61° reggimento "Pomerania" nella vittoriosa terza battaglia di Digione), lo fece in nome dei suoi ideali repubblicani, e non perché pregiudizialmente antitedesco, come ben dimostra la sua opposizione, nel 1867, ad una vergognosa intesa franco-italiana contro la Prussia a cui stava pensando il nostro governo; opposizione manifestata inviando a Bismarck il seguente messaggio: «Sono pronto a morire sui sette colli prima di permettere che l'Italia combatta contro la Prussia, la generosa alleata che le ha dato Venezia».
Combattiamo certamente l'odio degli italiani immemori o degeneri verso Garibaldi, ma anche quello seminato da italiani che pensano irresponsabilmente che Garibaldi ci abbia chiesto di avere eternamente in sospetto i tedeschi per chissà quale oscura atavica inimicizia insormontabile tra i nostri due popoli, quando invece l'Eroe dei Due Mondi ci ha lasciato il compito di una lotta senza tregua verso tutti quei nostri difetti che nel corso della storia permisero anche a popoli e stati germanici di dominarci in modo diretto o indiretto; difetti che mai potranno essere cancellati finché ci si illuderà che al di qua delle Alpi splende ancora e sempre il sole del diritto e della civiltà e al di là di esse la ferocia barbarica di Teutoburgo e del vincitore di quella battaglia, Arminio.
In merito al quale ultimo -celebrato dal famoso monumento eretto in Vestfalia nel 1875 sotto Guglielmo I e avente, similmente alle lodi romantiche di von Kleist ed Heine, un moderno significato anti-francese e non anti-italiano (la spada di Arminio è infatti rivolta ad ovest, verso la Francia; mentre il concorso internazionale per l'epigrafe in latino che doveva ornare il monumento fu vinto da un latinista italiano]), come ben sanno gli studiosi seri di miti politici-, non si dovrebbe infine conoscere solo il giudizio del "minore" Velleio Patercolo, ma anche quello del sommo Tacito (Ann., II, 88), che così, sine ira ac studio, con intelligenza da antropologo e da storico, calò il sipario sulla vicenda del principe ribelle: «Senza alcun dubbio, egli fu il liberatore della Germania, colui che sfidò il popolo romano non al principio della sua potenza, come avevano fatto altri re e generali, ma nel momento più splendido del suo impero; se ebbe incerta fortuna nelle battaglie, uscì invitto dalla guerra. Morì a trentasette anni, dopo dodici anni di signoria. Si canta di lui ancora presso le barbare genti, non si parla di lui negli annali dei Greci, poiché costoro non ammirano che le proprie cose, meno celebrato di quanto sarebbe giusto da noi Romani, che esaltiamo gli antichi fatti, e non ci curiamo di ciò che avviene ai nostri tempi».


Elio A. Sorìa
 


Bibliografia e sitografia


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- S. Consolato, "II Risorgimento come sviluppo della storia sacra di Roma", in "Politica Romana", nn. 4/1998, 5/1999, 6/2000-2004.
- S. Consolato, "II Risorgimento 'Ario' dell'Italia e dell'India", in "Politica Romana", n. 6/2000-2004.
- P. Fenili, "Il numero Otto gli piacerà di più - Risposta a Sandro Consolato", in "Politica Romana", n. 8/2008-2009:
- A. A. Mola, a cura di, "La liberazione d'Italia nell'opera della Massoneria", Atti del Convegno di Torino 24-25.10.1988, Bastoni; Foggia 1990.
- A. Pellicciari, "Risorgimento da riscrivere. Liberali e massoni contro la Chiesa", Ares, Milano 2004.
- A. Pellicciari, "I panni sporchi dei Mille. L'invasione del Regno delle Due Sicilie", Milano, Liberal 2003.
- http://www.fabrianoedintorni.it/lettori/franz muller/index.asp