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Facciamo chiarezza una volta per tutte: Mussolini si suicidò?

 

Maurizio Barozzi    

 

Il 28 aprile 2012, con un articolo su "Libero Quotidiano.It": "La verità sulla morte del Duce: Mussolini si avvelenò col cianuro" e sotto titolo "Parlano due importanti testimoni: Benito, ormai in coma, fu poi finito dal carceriere Giuseppe Frangi", il giornalista storico Roberto Festorazzi ha riproposto, sia pure al solo titolo informativo, una vecchia tesi circa un possibile suicidio di Mussolini in alternativa alla oramai totalmente inaffidabile "Vulgata" del tristemente famoso Walter Audisio alias colonnello Valerio.

Cerchiamo, una volta per tutte, di fare chiarezza su questa ipotesi del suicidio che spesso ritorna a galla impegnando, come in questo caso, anche firme di un certo prestigio come quella di Festorazzi, un autore che negli ultimi anni ha avuto il merito di contestare e divergere da pò tutta la "Vulgata" (fucilazione pomeridiana alle 16,10 davanti al cancello di Villa Belmonte in Giulino di Mezzegra) oramai, ottusamente e sconclusionatamente difesa (chissà perché?) solamente da ambienti vicini a quell’Istituto di Storia Contemporanea di Como e da epigoni della vecchia area comunista.

Di un possibile suicidio di Mussolini se ne parlò per la prima volta negli anni ’60 quando un autore, certo Marcello Trinali, la prospettò nel suo libro "Un colpo di pistola in casa De Maria", Ed. Semerano 1966. In questo caso però il Trinali ritenne che Mussolini si era sparato con la sua pistola una Glisenti che, si disse, ma non era dimostrato, non gli era stata sequestrata al momento del suo arresto a Dongo.

Altri ipotizzarono anche, in alternativa, che la pistola gli era stata segretamente fornita dal Luigi Canali il capitano Neri uno dei partigiani che lo portarono nella casa dei De Maria a Bonzanigo. Tutte ipotesi però fantasiose, prive di riscontri concreti.

Oggi, comunque, avendo ben presente la planimetria delle ferite pre mortali sul corpo di Mussolini, ben nove, si dovrebbe ritenere, per esclusione, che il Duce tentò di suicidarsi sparandosi un colpo al cuore il che, data la contorsione che avrebbe dovuto compiere con la mano che impugnava la pistola, ci sembra alquanto assurdo. Comunque sia questa ipotesi, alquanto campata in aria (anche il fatto stesso che qualcuno concesse a Mussolini di possedere un arma, mettendo a repentaglio la vita dei due partigiani lasciati di guardia) finì poi nel dimenticatoio.

Anni addietro l’ipotesi suicidio, e questa volta ritenuto attraverso una capsula di cianuro, venne invece ripresa, più seriamente, dall’amico e compianto prof. Alberto Bertotto, purtroppo scomparso nel novembre dello scorso anno.

Il prof. Bertotto, dopo aver prodotto, a questo proposito, diversi articoli fini per pubblicare un libro che ebbe un certo successo: "La morte di Mussolini una storia da riscrivere", P.D.C. Editori 2008.

Anche in questo caso però l’autore non potè portare prove concrete e oggettive per suffragare la sua ipotesi, soprattutto perché andarono deluse le sue speranze di poter trovarne conferma in certi referti medici che si supponeva fossero conservati negli Stati Uniti dove si era analizzato una parte del cervello di Mussolini e si pensava che potessero essere state trovate tracce residuali di un decesso a causa del cianuro.

In ogni caso riassumiamo brevemente l’ipotesi suicidio con il cianuro prospettata dal prof. Bertotto nel suo libro.

In questa ipotesi, nella prima m

attinata di quel 28 aprile 1945, nella casa dei De Maria a Bonzanigo dove, intorno alle 5 erano stati nascosti Mussolini e Clara Petacci, Claretta Petacci si fece accompagnare ai servizi esterni alla casa in quanto indisposta (mestruazioni). Mussolini, rimasto solo in stanza, avrebbe aperto una protesi dentaria che portava nell’arcata dentaria superiore e ruppe la capsula di cianuro che, si ipotizza, gli sarebbe forse stata donata da Hitler a Rastenburg, il 20 luglio 1944 durante il loro incontro (non si sa però quando poi se la sarebbe fatta impiantare e da chi).

Il cianuro però non diede l’effetto sperato determinando comunque un Mussolini agonizzante e in preda a convulsioni.

All’accorrere della Petacci e dei due guardiani (Giuseppe Frangi Lino e Guglielmo Cantoni Sandrino) si comprende subito quanto è accaduto ad un Mussolini a letto in maglietta di salute e mutandoni di lana.

Uno dei guardiani riesce a comunicare con qualche dirigente comunista (come abbia fatto è un altro bel problema) ed avrebbe avuto immediatamente l’ordine di finire il Duce per attestare comunque una giustizia «in nome del popolo italiano».

Altra variante asserisce invece che fu il Lino Giuseppe Frangi a prendere impulsivamente questa iniziativa (sia in un caso che nell’altro, alcune attestazioni diranno che il Frangi ebbe poi a vantarsi di aver ucciso il Duce con il suo mitra).

Mussolini comunque, ipotizza sempre il Bertotto, viene portato fuori casa, o morto perché ucciso nella stessa stanza oppure ancora vivo, ma agonizzante, trascinandolo per le mutande, cosa questa che sarà attestata dalla slabbratura di questo indumento (ma non dei soprastanti pantaloni), visibile a Piazzale Loreto.

Più probabile, comunque, è che Mussolini verrà finito fuori casa, nel cortile, a colpi di mitra e pistola ed anche la Petacci, forse più tardi, verrà ammazzata (all’aperto visto che indossava la pelliccia) con una sventagliata di mitra alla schiena come attestano i fori nello schienale della pelliccia stessa.

Il prof. Bertotto sarebbe stato incuriosito a questa ipotesi da una confidenza ricevuta da un altro scrittore Athos Agostini, genovese, un sensitivo, il quale asserì che intorno alla metà degli anni Settanta, mentre si trovava in vacanza sul lago di Como, ebbe una esperienza psichica: gli apparve infatti Mussolini che gli raccontò ciò che avvenne in casa De Maria.

Questo Agostini ne restò impressionato, ma la cosa finì lì. Molto tempo dopo, negli anni Duemila, durante una trasmissione su Raitre vide però un filmato dove, dei medici americani, asserivano che nel cervello di Mussolini erano state rinvenute tracce di cianuro. Purtroppo non è stato possibile rintracciare quel filmato, ma solo un altro testimone che ricorda di averlo visto. E anche questa speranza sfuma.

Sommando il tutto, l’ipotesi del suicido con il cianuro, scrisse Bertotto, potrebbe avere questi appigli:

- alcuni elementi che sembrano confermare che Mussolini aveva una protesi dentaria.

- la slabbratura dei mutandoni, ipotizzata dall’azione meccanica di un trascinamento di peso del corpo di Mussolini dalla stanza al cortile;

- i fori delle pallottole che hanno attinto Mussolini e che moderne indagini sulle foto dimostrerebbero che questi fori sono solo sulla maglietta di salute e non sugli altri vestiti;

- le ferite procurate da proiettili con traiettoria dall’alto in basso con esecutore ed esecutato evidentemente non sullo stesso piano e probabilmente in preda a movimenti convulsi.

Oltre ovviamente a tutti quegli altri indizi, che ben conosciamo, che indicano un Mussolini ucciso semi svestito e quindi rivestito da morto in stato di rigor mortis.

Viene anche riportata una testimonianza di Elena Curti, figlia naturale del Duce e presente, con lui, nella famosa autoblinda fermata a Musso il mattino del 27 aprile 1945. Successivamente catturata venne imprigionata a Dongo. Orbene, la Curti a suo tempo rilasciò al Secolo XIX di Genova questa testimonianza:

«una persona mi disse che mio padre aveva cercato di uccidersi e che gli avevano sparato mentre rantolava. All’epoca non gli credetti, perché sapevo che non aveva armi con sé. E poi avevo saputo della fucilazione».

Al tempo la Curti, quindi, non diede troppo peso a questa rivelazione, ma oggi ha ricordato che a fargliela fu Ettore Manzi, un carabiniere che gli disse anche di essere stato presente quella mattina a Bonzanigo.

Che l’autopsia del cadavere di Mussolini, eseguita dal prof. Mario Cattabeni la mattina del 30 aprile 1945 all’obitorio di Milano, non riporti elementi tali che possano far sospettare un suicidio con il cianuro viene giustificato dal Bertotto con il fatto che, questi elementi, abbisognano di analisi particolari che ovviamente, quel giorno non vennero fatte.

Bertotto comunque riteneva che vi erano delle tracce, non ben specificate, relative agli archivi italiani e americani che si dice avrebbero offerto, se non altro, l’esistenza di alcuni indizi. Attivandosi in questo senso egli pensava di aver trovato delle tracce tramite una anziana archivista dell’Aip (Army Institute of Pathology, ora Walter Reed Army Medical Center Institute di Washington), oggi ultra ottantenne e che desidera mantenere l’incognito, la quale avrebbe rivelato una strana coincidenza: essa ricorderebbe che «nel 1945 le passò per le mani uno strano documento: la carta copiativa di un referto istopatologico, senza numerazione progressiva e non assemblata in un blocco, contraddistinta da una sigla e affiancata dalla seguente diagnosi: "chemical poisoning", avvelenamento da agenti chimici, e "bioptic material: brain (il cervello)».

Trattavasi di un cadavere di un uomo nato prima del 1900, e morto per colpi di arma da fuoco. Stranamente però: «non c’era il numero della piastrina di riconoscimento, segno che il cadavere non era di un militare americano, né di un veterano; né poteva essere la vittima di un omicidio comune, perché nel caso ci sarebbe stata la sigla D. A. (district attorney, il procuratore che a volte chiedeva una mano ai medici dell’ospedale). C’era invece, nello stesso cassetto, una busta con scritto "Overseas (oltreoceano)».

Poteva trattarsi di un referto riferito a Benito Mussolini? Forse, ma non è certo, anzi a noi sembra alquanto improbabile e comunque sia più avanti di così il Bertotto non è potuto andare.

E veniamo ai nostri giorni quando, come accennato, il giornalista storico Roberto Festorazzi ha ripreso questa ipotesi, aggiungendovi un paio di testimonianze.

Per prima quella di un tal Giuseppe Turconi, oggi novantenne, che vive tuttora a Villaguardia, il paese di Lino Frangi uno dei carcerieri di Mussolini in casa De Maria.

Il Turconi avrebbe riferito dopo tanti anni una confidenza che avrebbe ricevuto, dopo una diecina di giorni dai fatti, dalla Lia De Maria. Questa gli disse «che aveva preparato qualcosa da mangiare per Mussolini e la Petacci e che il Duce le aveva chiesto di assaggiare la pietanza perché temeva di essere avvelenato. Poi, qualche ora più tardi, quando capì che per lui non c’era più nulla da fare, Mussolini ingerì del veleno inserito nella capsula di un dente. La De Maria disse che era successo tutto nella camera da letto in cui avevano pernottato. Seppe anche che la Petacci era stata uccisa in un secondo tempo, qualche ora dopo, in un prato sottostante la chiesa di Mezzegra, in frazione Bonzanigo».

La seconda testimonianza, riportata da Festorazzi, non è altro che quella di Elena Curti e della confidenza che ebbe tanti anni addietro da Ettore Manzi, classe 1908, un carabiniere che salvò la vita a decine di prigionieri fascisti detenuti nella caserma dell’Arma (tra cui la stessa Curti.

Riassunto tutto questo, vediamo adesso però ché, pur con una riserva che più avanti illustreremo, non crediamo all’ipotesi suicidio con il cianuro.

Intanto bisogna essere consci del fatto che non ci sono elementi concreti per poter convalidare un suicidio di Mussolini con il cianuro.

La slabbratura dei mutandoni per trascinamento di un corpo morto, le ipotesi balistiche circa i colpi che attinsero il Duce da vivo e il fatto che Mussolini portasse una protesi dentaria, sono tutti elementi concreti, ma che possono benissimo essere letti in un altro contesto dinamico, fermo restando che attestano sicuramente una morte avvenuta in modo completamente diverso da quello descritto da Walter Audisio nelle sue balorde relazioni.

Oltretutto nessuno ha mai confidato che Mussolini avesse ricevuto da Hitler una capsula di cianuro, nè che la portasse in una protesi dentaria; eppure qualcuno dovrebbe pur avergliela installata, ma nessuno ha mai fatto trapelare qualcosa. In definitiva questa della capsula di cianuro in un dente finto ci sembra una ipotesi formulata sul nulla.

I particolari poi su un famoso e rimasto segreto referto americano che attesterebbero, per Mussolini, un suicidio con il cianuro riscontrabile dall’analisi di parte del suo cervello, non hanno avuto alcun riscontro, quindi purtroppo valgono meno di niente.

La testimonianza di quel Giuseppe Turconi, riportata dal Festorazzi, ci sembra strampalata, un misto di possibili verità, come per esempio la morte differita, rispetto a Mussolini, della Petacci e un misto di assurdità che sono circolate in tutti questi anni.

Secondo costui la De Maria gli avrebbe raccontato di aver preparato una pietanza per Mussolini, ma questi temendo di essere avvelenato (ma come, doveva avvelenarsi lui stesso e temeva di essere avvelenato?!!) aveva chiesto di assaggiare la pietanza. Poi invece qualche ora più tardi (quante? Diciamo due?) Mussolini si sarebbe proprio avvelenato. La Petacci, infine sarebbe stata uccisa da un altra parte ancora più tardi.

Intanto è poco credibile che dei furbi contadini come i De Maria, imbeccati e probabilmente minacciati dagli autori della sceneggiata del pomeriggio al cancello di Villa Belmonte su ciò che dovevano o non dovevano dire, solo dieci giorni dopo quei fatti, vadano a raccontare, questa storia totalmente diversa dalla "storica versione" al sig. Turconi e ai suoi amici venuti a trovarla.

Gli orari poi, riportati in questo racconto, sono contraddittori, inattendibili, fanno slittare troppo la sequenza degli avvenimenti di quella mattinata. Dovremmo pensare che la De Maria abbia preparato da mangiare verso mezzogiorno o poco prima, poi Mussolini avrebbe ingerito il cianuro circa due ore dopo e ancora dopo sarebbe stata uccisa la Petacci; di fatto arriviamo in orario prossimo all’arrivo di Audisio, verso le 16, e questa tempistica non appare credibile. Insomma una testimonianza che non ci sembra serio prendere in considerazione.

Della testimonianza di Elena Curti, teste attendibilissimo, invece, bisogna tenerne conto anche se la signora, oggi ultra ottantenne, riferisce cose che gli sono state confidate dal carabiniere Ettore Manzi e quindi semmai la possibile verità del racconto sta nel Manzi, deceduto nel febbraio del 2011 e il cui figlio dice di non saperne nulla.

A questo proposito ho parlato personalmente con la Curti, e lei stessa non ha parlato di cianuro. Dice che il Manzi gli confidò che quella mattina Mussolini aveva tentato di suicidarsi. Con che cosa? Non si sà. Possiamo ipotizzare con un cocktail di medicine che la Petacci aveva in una borsetta. In questo caso è anche possibile che poi venne portato in cortile e li finito a colpi di mitra in stato pietoso, ma non preagonico.

A questa ipotesi possiamo anche lasciare uno spazio di possibilità, perché, come più avanti diremo, si può anche accordare con la importante e decisiva testimonianza di Dorina Mazzola, al tempo residente a Bonzanigo, la quale dalla sua finestra, a valle di casa dei De Maria, vide da lontano un uomo calvo e in canottiera bianca scendere a piccoli e claudicanti passettini verso il cortile dove poi ci furono gli spari.

Tornando ora, però, ad un possibile suicidio di Mussolini con il cianuro, vi sono anche altri importanti particolari che lo smentiscono.

Il primo particolare è un racconto del milite Otello Montermini, presente nella colonna di Mussolini poi fermata a Musso, che fungeva anche da barbiere del Duce.

Montermini riferì nel dopoguerra che il pomeriggio del 26 aprile 1945, mentre Mussolini si trovava isolato tra Menaggio e Grandola, in attesa di una colonna armata di fascisti che doveva venire da Como, ma che invece non si vedeva, dopo aver fatto la barba ad uno stanco e assonnato Duce, questi gli chiese con uno strano tono se, in qualche modo e all’occorrenza, egli sarebbe stato disposto ad ucciderlo.

Il secondo particolare parla di un altro tentativo di suicidio del Duce, avvenuto alcune ore più tardi quando, intorno alle 2 di notte, oramai del 27 aprile, quando arrivò a Menaggio un Pavolini, purtroppo senza la promessa scorta armata. Il sergente Giorgio Franz del gruppo corazzato "Leonessa" della GNR, che era presente, riferì anni dopo di aver assistito sia pure confusamente e parzialmente ad una brevissima scena, dove il Duce in stanza sembra che si portò una piccola pistola alla tempia, ma venne preceduto e fermato proprio da Pavolini che irruppe dentro, urlando: «Duce, no!».

È vero che siamo in presenza di racconti d’epoca, ma se vi dovessimo dar credito dovremmo assolutamente escludere che Mussolini aveva una capsula di cianuro in una protesi dentaria perché, in tal caso, non avrebbe di certo avuto bisogno di cercare altri mezzi per suicidarsi.

Dunque, allo stato delle attuali conoscenze, ogni ipotesi di suicidio, con una fantomatica casula di cianuro, dovrebbe essere razionalmente scartata.

Possiamo, tutto al più lasciare aperta, una piccola possibilità teorica che quella mattina Mussolini avesse tentato il suicidio con degli improvvisati barbiturici.

Ma quello che resta fermo ed oramai assodato, anche perché confermato da varie testimonianze e dalle perizie retrospettive eseguite sulle foto e filmati delle salme di Mussolini e la Petacci sono le testimonianze della scomparsa signora Dorina Mazzola, all’epoca diciannovenne residente a poco più di cento metri, in linea d’aria, a valle di casa dei De Maria e quella della signora Savina Santi in Cantoni la vedova di Guglielmo Cantoni Sandrino, uno dei carcerieri di Mussolini in quella casa.

Entrambe le testimonianze, mai smentite e riportate nel libro di Giorgio Pisano "Gli ultimi cinque secondi di Mussolini", Ed. Il Saggiatore 1996, attestano quanto segue.

La signora Dorina Mazzola raccontò di aver udito, intorno alle 9 del 28 aprile, un paio di colpi di pistola provenienti da casa De Maria. Quindi, dalla finestra di casa sua, vide scendere un uomo calvo con la sola maglietta di salute a mezze maniche, che si trascinava a piccoli e difficoltosi passetti verso il cortile dello stabile, fuori della sua portata visiva. Nel frattempo udì una donna, affacciatasi ad un finestrone della casa, strillare e chiedere aiuto, ma ricacciata dentro a viva forza, oltre a strilli e lamenti dei coniugi De Maria. Poi una sparatoria nel cortile.

La Mazzola infine assistette anche, proprio dietro casa sua e intorno alle 12, all’uccisione proditoria di una giovane donna che camminava davanti ad un gruppo di partigiani e che seppe poi trattarsi di Claretta Petacci.

La signora Santi invece diede altri particolari alquanto precisi:

«Mussolini e la Petacci non sono stati uccisi nel pomeriggio e davanti al cancello di Villa Belmonte. Mio marito mi disse che quella mattina lui si trovava di guardia alla stanza dove c’erano i prigionieri, quando vide salire le scale Michele Moretti e altri due partigiani che non aveva mai visto nè conosciuto. I tre gli ordinarono di restare sul pianerottolo fuori della stanza ed entrarono nel locale. Mio marito, restando sul pianerottolo, udì uno dei tre che diceva: "adesso vi portiamo a Dongo per fucilarvi", e un altro gridare: "No, vi uccidiamo qui!". Poi mio marito udì altre voci concitate, le urla della donna e colpi d’arma da fuoco..., ma non so dove li hanno uccisi con certezza, credo però che lo sappia un altra persona che ebbe la confidenza da mio marito».

Dunque ricapitolando: intorno alle 9 del mattino, mentre Audisio ignaro si trovava a litigare con quelli del CLN in Prefettura a Como, un paio di individui venuti da fuori, accompagnati da Michele Moretti, salirono nella stanza dove erano il Duce e la Petacci. Erano gli elementi spediti da Longo affinché prendessero sotto controllo Mussolini nascosto in quella casa, se necessario lo fucilassero subito, ma preferibilmente lo gestissero e controllassero in attesa che Audisio, compiute le sue incombenze, potesse fucilarlo pubblicamente.

È chiaro che invece la rabbiosa irruzione in camera determinò la reazione di Mussolini e della Petacci e il Duce, a seguito di una colluttazione, rimase ferito al fianco e forse al braccio e fu quindi finito nel cortile dello stabile. Essendo oramai impresentabile per una esecuzione che doveva apparire come atto unanime della "giustizia ciellenista", mentre invece così aveva il sapore di una esecuzione gangsterica, i due cadaveri vennero nascosti nell’Albergo Milano, ubicato nella sottostante via Albana e poi alle 16,10 si mise in atto la messa in scena con Audisio, al cancello di Villa Belmonte, mimando una finta esecuzione.

Il fatto però che il Duce, ucciso in canottiera al mattino, era stato gettato in terra davanti a quel cancello rivestito con un giaccone inusuale, che risulta imperforato cioè privo di colpi, strappi o bruciature quali esito di una fucilazione, ha tradito inequivocabilmente gli autori della finta fucilazione.

 

Maurizio Barozzi      
       

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