Il buon soldato
Libero Tronocozzo (6/9/2015)
Ancora
oggi, a distanza di così tanto tempo, nelle notti solitarie in cui il
mio sguardo di vecchio resta incatenato alla brace del camino, dove le
fiamme muoiono con bagliori crepitanti mentre i miei ricordi danno corpo
alle lugubri ombre che danzano incerte sulle pareti, mi capita sovente
di pensare a lui; ed immancabilmente mi pongo l’interrogativo al quale
non ho mai trovato risposta: chi tra noi due sia stato miglior soldato.
Il sentiero
s’inerpicava ripido e sdrucciolevole per la pioggia abbondante che
cadeva da molte ore; ad una ventina di metri da noi, sulla sommità del
colle, un nero ulivo dai rami contorti si stagliava contro il cielo
livido, malamente rischiarato dalle ultime luci del crepuscolo. Mi
chiesi come mai volesse condurmi lassù per ammazzarmi, ma prima che
provassi a rispondere inciampai un’altra volta e finii nuovamente con la
faccia nel fango, essendo le mie mani saldamente legate dietro la
schiena.
Com’era successo già
in precedenza il mio nemico, un omaccione dotato di una forza
considerevole, mi aiutò tra mille imprecazioni a rimettermi in piedi,
afferrando con la mano sinistra il dorso del mio cappotto; con la destra
impugnava saldamente il fucile, col quale ricominciò a sospingermi in
avanti, cacciandomi con regolarità impietosa il calcio dell’arma tra le
costole.
Levai la bocca aperta
al cielo, augurandomi che la pioggia cancellasse l’acre impasto di
fango, lacrime e sangue responsabile dei violenti conati di vomito che
mi squassavano il petto. Sperai di non cadere più, ritenendo che il
dolore risultante sarebbe stato insostenibile per il mio corpo
martoriato, e procedetti con la maggiore cautela possibile, date le
circostanze; caddi invece altre due volte, la seconda delle quali il mio
accompagnatore fu costretto a sollevarmi di peso, rinunciando a
qualsiasi forma di collaborazione da parte mia. Per un attimo ebbi paura
che volesse finirmi là, nel fango, poi lo sentii imprecare e lo
ringraziai in cuor mio. Appena rimesso in piedi cercai di ricordare
quante volte secondo la tradizione fosse caduto Cristo lungo la Via
Crucis, ma non essendo ferrato nella materia rinunciai immediatamente al
mio proposito. Pensai che era bello che piovesse, che anche il cielo
piangesse con me per la mia imminente e prematura dipartita.
Attraverso la fitta
cortina di lacrime e pioggia vidi, tragicamente vicino, il tronco
dell’ulivo, e capii che ero giunto al termine del viaggio; una
formidabile manata sulla schiena dolorante mi mandò infatti a sbattere
contro l’albero; ebbi la forza di voltarmi verso il mio carnefice, poi
scivolai gemendo lungo il tronco, chiusi gli occhi ed attesi.
D’improvviso seppi
che dovevo lottare ancora, con tutte le armi disponibili; quando
spalancai gli occhi c’era già il fucile spianato contro di me, e
l’energumeno stava prendendo la mira; gli gridai, con quanto fiato mi
restava in gola: “Aspetta! Non merito di finire così! Non è giusto!”.
Mentre urlavo agitavo convulsamente le gambe verso di lui, sorretto in
tale sforzo titanico dalla debole illusione che questo potesse
trattenerlo dal premere il
grilletto.
Rimase infatti
qualche attimo esitante, mi guardò con curiosità ed abbassò lentamente
l’arma: seppi allora che avrei potuto cavarmela. Gli parlai di quella
sporca guerra che entrambi eravamo costretti a combattere, pur non
avendovi alcun interesse personale; gli parlai della sposa e dei figli,
delle vedove e degli orfani, dei genitori anziani e senza conforto, del
lavoro e delle speranze, della vecchiaia serena; gli dissi che una vita
in più o in meno non avrebbe mutato l’esito dello scontro, che al
contrario il rimorso per un’azione malvagia avrebbe potuto amareggiare
tutta la sua esistenza futura. Gli parlai della pietà e dell’amore,
della differenza abissale tra le azioni di un uomo e quelle di un
vigliacco. Gli dissi tutto questo più volte e in tutti i toni, fui
supplichevole e persuasivo, cercai con maestria le parole più adatte,
come un attore consumato atteggiai il volto alla speranza ed alla
disperazione.
Quando tacqui,
un’espressione stupita aveva scalfito il suo volto granitico: mise il
fucile in spalla, estrasse da qualche parte un coltello, si avvicinò e
cominciò a tagliare le corde che mi serravano i polsi. Lo sentii
ansimare ed imprecare per tutto il tempo che dedicò a questa operazione;
alla fine arretrò di qualche passo, mi fissò negli occhi ed emise un
grugnito rantoloso di commiato.
Aspettai che si
voltasse, poi cavai dallo stivale sinistro la pistola che tenevo
nascosta, mirai con accuratezza estrema il centro della sua schiena
ampia e feci fuoco. Libero Tronocozzo
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