L'esecuzione
Libero Tronocozzo (25/10/2014)
Era passata ormai più di una
settimana da quando li avevano fotografati l’ultima volta, dopo aver
messo nelle loro mani la copia di un quotidiano locale, ed a questo
punto né lui né Parker, anche se avevano fino ad allora evitato di
parlarne, si facevano troppe illusioni sulla loro sorte. Erano da poco
meno di un mese nelle mani dei ribelli ed a quanto pareva – dato il
troppo tempo trascorso - le trattative per il loro rilascio
non erano andate a buon fine; perché questo fosse accaduto non
avrebbe saputo dirlo con certezza: eccessivamente alto il prezzo del
riscatto richiesto? Rifiuto del loro governo a trattare con dei
terroristi? Scarso impegno da parte dei negoziatori, tutto sommato
contenti che i colloqui si arenassero, mostrando al mondo intero
l’inutilità del dialogo con questi fanatici? Scrollò le spalle,
rinunciando all’analisi della situazione, che rivestiva, ormai,
un’importanza del tutto relativa, e bevve un lungo sorso dal recipiente
di terracotta, contenente un’acqua melmosa, prima di porgerlo a Parker;
il suo compagno bevve a sua volta, gemendo come sempre quando era
costretto ad un pur minimo movimento.
Pensò allora di dare
un’occhiata alla ferita; s’inginocchiò accanto a Parker, che giaceva sul
pavimento di terra con la schiena poggiata contro una parete della
piccola baracca dove erano rinchiusi, e gli fece cenno di denudarsi la
gamba; Parker obbedì, digrignando i denti e continuando a fissare il
nulla davanti a sé, con la fronte imperlata da grosse gocce di sudore
che con cadenza irregolare raggiungevano la punta del naso e di lì si
tuffavano nel vuoto, per contribuire ad ampliare un’umida macchia scura
sulla ruvida camicia militare. “E’ finita, vero, capo?” gli chiese senza
guardarlo e subito si rispose da solo, aggiungendo con un aspro sorriso:
“Siamo arrivati al termine del viaggio”. “Non è detto, non è detto”
disse lui ostentando sicurezza ed iniziando a disfare la fasciatura.
“Ancora non è detto. Può ancora succedere di tutto; ho visto altre
situazioni che sembravano senza uscita e poi si sono risolte” dichiarò,
continuando con attenzione a rimuovere le bende intrise di sangue
rappreso e rendendosi amaramente conto che lui stesso, per primo, non
riponeva eccessiva fiducia nelle proprie affermazioni.
Parker - che lui
considerava quasi come un figlio per la differenza di età, la
condivisione di numerose azioni e le molteplici occasioni in cui aveva
fornito al ragazzo il sostegno della propria matura esperienza - era
stato ferito quando, già catturati e disarmati, dopo essersi scambiati
furtivi cenni d’intesa, avevano tentato una fuga impossibile
approfittando di un momento di presunta disattenzione dei loro rapitori;
la fitta e rabbiosa sequenza di colpi sparati verso di loro aveva subito
reso evidente l’assurda inadeguatezza del loro disperato proposito: lui
era rimasto miracolosamente illeso appiattendosi istantaneamente sul
terreno, ma Parker era stato
colpito alla gamba; Brown era invece morto sul colpo senza un grido,
crivellato dai proiettili; il corpulento Allen con un rantolo prolungato
era lentamente crollato al suolo dove, sdraiato su un fianco, era
rimasto ansimante ad osservare incredulo la macchia rossa che si
allargava sulla sua camicia, all’altezza dell’addome; immediatamente
raggiunti e circondati erano stati selvaggiamente percossi e –loro due
soltanto- ricondotti alla base; il morto era stato lasciato dov’era
caduto ed a fargli compagnia avevano lasciato anche Allen, le cui
condizioni apparivano disperate; mentre si allontanavano, brutalmente
sospinti dai loro aguzzini, lo udirono singhiozzare ed invocare pietà;
nonostante la palese disapprovazione degli uomini che lo scortavano, i
quali a motivo di ciò presero a picchiarlo con maggiore accanimento, si
era fermato e voltato a guardare per un’ultima volta Allen, che con
sforzi sovrumani strisciava lentamente verso di loro, piagnucolando ed
offrendo tutti i suoi beni terreni a chi non lo avesse abbandonato,
condannandolo a morire per dissanguamento; schiacciato dalla tragica
consapevolezza di non poterlo soccorrere in alcun modo, aveva ripreso la
marcia augurandosi che le sofferenze del suo commilitone finissero in
fretta. Sebbene fosse amareggiato per la sua imminente ed atroce morte,
non riusciva a perdonargli la debolezza dimostrata di fronte al nemico;
un soldato, secondo lui, aveva l’obbligo morale di mantenere in ogni
circostanza un contegno dignitoso; implorare misericordia costituiva,
oltre che un’azione sciocca e vana – essendo ben nota la totale assenza
di umanità di quegli assassini – una mancanza di carattere a suo
giudizio inammissibile per un combattente; al punto di aver lui stesso
provato vergogna per il comportamento indecoroso di cui era stato
testimone e che, probabilmente, aveva smisuratamente alimentato negli
stessi nemici - convinti che essi
fossero solo dei mercenari, attratti dal denaro ma privi di ideali - il
disprezzo nei loro confronti; no, Allen non era affatto morto come si
conviene ad un vero soldato.
Alla fioca luce di
una sporca e debole lampadina che pendeva dal soffitto esaminò con
attenzione la ferita di Parker; anche se superficiale, non essendo stata
curata a dovere per l’assenza di medicinali adatti, questa presentava
un’estesa infezione, interessata
dalla presenza di abbondante secrezione purulenta; la cute intorno alla
ferita appariva di un’intensa colorazione nerastra, la qual cosa non
lasciava presagire nulla di buono; l’ulteriore mancanza di medicazioni
adeguate e di igiene avrebbero potuto causare in tempi estremamente
rapidi –se ne rendeva perfettamente conto- complicazioni imprevedibili.
Si alzò e si avvicinò
alla porta, cominciando a tempestarla di pugni, mentre Parker lo
osservava con tangibile indifferenza; dopo qualche secondo si udirono
dei rumori dall’altra parte, poi fu fatto scorrere il chiavistello ed
attraverso lo spiraglio della porta socchiusa apparve un gigante
barbuto, ricoperto da un caffetano verde sbiadito e con un mitra a
tracolla. “Ho bisogno di disinfettante” disse sillabando le parole nella
speranza di essere capito. “Alcool. Disinfettante e garze pulite. Devo
pulire la ferita” aggiunse, accennando con un movimento del capo in
direzione di Parker; poi ebbe un’ispirazione improvvisa: cavò
dall’interno di una scarpa il suo orologio, che fino a quel momento era
sfuggito alle numerose perquisizioni, e lo consegnò al carceriere
raccomandandogli: “Portami dell’alcool”. Il gigante non manifestò in
alcun modo di aver compreso la richiesta e si limitò ad intascare il
prezioso oggetto, a scuotere il capo con un sorriso soddisfatto ed a
richiudere la porta. “Luridi animali! Bastardi schifosi!
Trogloditi!” inveì allora serrando i pugni e cominciando a camminare
avanti e indietro nell’angusto spazio a disposizione, come gli accadeva
spesso di fare per dare sfogo alla propria rabbia impotente. Lo sguardo
di Parker lo seguiva con un’espressione che si sarebbe detta divertita,
se l’inconsueta fissità non avesse denunciato la presenza di un intimo
ed insopprimibile terrore.
Qualche tempo dopo si
udirono varie voci provenienti dall’esterno e qualcuno si mise ad
armeggiare intorno alla porta, che venne completamente spalancata
consentendo l’irruzione dell’abbagliante luce diurna che ferì gli occhi
dei prigionieri, assuefatti da molto tempo alla semioscurità
dell’interno. Due individui in tuta mimetica entrarono, lo afferrarono
per le braccia e lo trascinarono all’esterno –lasciandogli appena il
tempo di gridare a Parker di stare tranquillo e che sarebbe andato tutto
bene-, costringendolo a camminare su un impervio percorso in salita,
verso un agglomerato di basse costruzioni in legno dov’era, supponeva,
il loro quartier generale. Si arrestarono in un piazzale gremito di
uomini armati, dove i due che lo scortavano lo lasciarono libero ma, a
titolo precauzionale, gli posero un guinzaglio di corda intorno al
collo; lo sospinsero quindi
alla presenza di un individuo seduto in terra, il cui corpo magro ed
ossuto era avvolto da una candida tunica ornata di elaborati ricami
dorati; le guance incavate, la lunga barba scura attraversata da fili
argentei, gli occhi nerissimi ed ispirati gli conferivano un aspetto
ascetico che contrastava vivamente col bazooka che costui teneva
poggiato sulle ginocchia. Gli si rivolse in un inglese stentato: “Il
vostro governo, amico mio, non sembra interessato alla vostra sorte: vi
ha abbandonato al vostro destino, amico mio. Noi però ti offriamo una
possibilità di salvezza. Sarai libero se denunci le manovre messe in
atto dagli imperialisti contro il nostro popolo; dovrai condannare la
rapina delle nostre risorse, le false motivazioni usate per aggredirci,
i crimini compiuti dai vostri mercenari”. Fece una pausa, poi continuò,
con un lampo di crudele arroganza nello sguardo: “A conclusione di
tutto, per dimostrare di essere sinceramente pentito, dovrai eseguire la
nostra sentenza: tagliare la gola del tuo compagno, giudicato colpevole
per i misfatti commessi contro la nostra gente.” Gli chiese infine con
sardonica cortesia se avesse capito tutto perfettamente e prese ad
osservarlo, cercando di intuire l’impressione prodotta dalle sue parole
ed attendendo con impassibile calma la sua risposta. Si accorse che
molti dei presenti stavano registrando il colloquio con telefonini e
telecamere e si concentrò per preparare quello che, con tutta
probabilità, era destinato a divenire l’ultimo discorso della sua vita e
che sarebbe stato udito e visto da milioni di persone; doveva mostrarsi
all’altezza della situazione, far vedere a tutti quei selvaggi come
sapeva morire un cittadino del mondo libero: anche sua moglie ed i suoi
ragazzi lo avrebbero visto e voleva sopra ogni cosa che fossero
orgogliosi di lui. Ripensò per un attimo con nostalgia alla sua bella
casa in riva al lago, a sua moglie ancora giovane e piacente, alle rare
serate passate con i figli davanti alla televisione a vedere la partita
o narrando loro delle sue missioni in giro per il mondo, con l’innocente
aggiunta, a volte, di qualche esagerazione che rendesse più avventuroso
il racconto; si sentì sopraffatto dalla commozione e decise di scacciare
quei ricordi, per dedicarsi interamente all’accurata scelta delle parole
che stava per pronunciare.
“Noi siamo soldati,
non siamo assassini.” esordì con voce ferma e forte volgendo intorno uno
spavaldo sguardo di sfida. “Ho capito perfettamente cosa volete da me,
ma uccidere un uomo inerme, per giunta un amico, è l’ultima cosa che
intendo fare; perché, lo ripeto, noi non siamo assassini…” Si fermò
ammutolito per l’improvvisa visione: la ragazza con l’abito giallo e gli
occhi verde smeraldo era passata velocemente dietro due miliziani in
prima fila, proprio davanti a lui, scomparendo subito tra la folla; ma
quella frazione di secondo era stata sufficiente perché lui la
riconoscesse con assoluta certezza: era proprio la stessa ragazza che,
insieme ad un suo commilitone, aveva prima stuprato e poi ucciso durante
il rastrellamento in un villaggio, quasi un anno prima… Com’era
possibile che fosse qui, ora? Si rese conto che tutti si aspettavano che
continuasse e riprese a parlare: “Noi portiamo la pace, la giustizia…”
Ma cosa diavolo ci faceva, a pochi passi da lui, con le braccia
conserte, la testa imbrattata di sangue ed un’espressione severa sul
volto, quel vecchio che qualche tempo fa era uscito di corsa dal suo
tugurio in fiamme con le mani alzate e che lui aveva centrato in fronte
con un colpo magistrale, guadagnandosi la meritata fama di miglior
tiratore della compagnia? Si passò una mano sul volto sudato e cercò
ancora una volta di riprendere il filo del discorso interrotto, ma la
sua attenzione fu stavolta assorbita interamente dalla vista di un
ragazzetto esile, accovacciato tra le gambe di un gruppo di miliziani
alla sua destra; lo si notava subito perché si passava ripetutamente,
con una frenesia rabbiosa, uno straccio sulla faccia bagnata, senza
peraltro ottenere risultati apprezzabili: sul suo volto continuava
infatti a colare ininterrottamente del liquido giallognolo, come poté
verificare lui stesso quando, osservandolo con particolare accuratezza,
capì di colpo chi fosse: si trattava del più giovane membro di una
famiglia, sterminata durante un bombardamento, sui cadaveri della quale
aveva orinato, diversi mesi prima, posando per una foto ricordo di
gruppo, tra la spensierata e chiassosa ilarità di tutto il suo reparto.
Distolse lo sguardo e s’impose di continuare, rendendosi conto con
fastidio che le sue frasi smozzicate potevano indurre tutti a sospettare
che fosse in preda ad una incontrollabile paura: “Noi rappresentiamo la
civiltà ed il progresso, voi la barbarie…”; ma non riusciva a sgombrare
i suoi pensieri dalle persistenti immagini della ragazza, del vecchio,
del giovinetto, che pareva possedessero la fantastica facoltà di
impedirgli di concludere sensatamente i suoi ragionamenti, bloccando
sulle sue labbra le frasi che si accingeva a proferire e confondendo
fatalmente, nella sua mente, i concetti che aveva intenzione di
esprimere; si rammaricò immensamente per questo suo inaspettato
insuccesso, avendo la chiara consapevolezza che questo intervento
costituiva il suo ultimo atto pubblico sulla scena del mondo, e fu
costretto a terminare frettolosamente, con gli occhi rivolti al suolo ed
un tono di voce così sommesso da poter essere udito soltanto da coloro
che gli stavano accanto, quasi parlando a se stesso: “La guerra è
questo, è una sporca faccenda… Voi non siete migliori di me…”; la frase
si estinse in un mormorio incomprensibile e non riuscì ad aggiungere
altro, chiudendosi in un assorto
mutismo mentre grosse lacrime di rassegnata disperazione gli sgorgavano
irrefrenabili e copiose dagli occhi arrossati, precipitando tra i peli
della barba incolta. Ad un cenno dell’individuo con la tunica bianca,
che lo aveva ascoltato attentamente sfoggiando un sorriso beffardo, fu
costretto ad inginocchiarsi nella sabbia, mentre qualcuno, dopo averlo
liberato del cappio che gli serrava la gola, si curava diligentemente di
legargli con la stessa corda le mani dietro la schiena.
Essendosi sparsa con
notevole velocità la notizia della sua imminente esecuzione, dalla
moltitudine radunata sul piazzale, bramosa di godere del macabro
spettacolo, si levarono in un’assordante confusione urla, spari,
invettive. Abbracciò con lo sguardo tutta quella massa ululante che lo
circondava di odio, imponendosi di conservare fino alla fine un
atteggiamento sereno e dignitoso. Fu pertanto con autentico sgomento che
vide la folla aprirsi inaspettatamente e, nel corridoio che si era così
formato, avanzare verso di lui Parker: camminava zoppicando vistosamente
e strascicando goffamente la gamba ferita, ma con risoluta
determinazione; il coltello dalla larga lama che stringeva saldamente
nella mano destra rifletteva a tratti, con bagliori rossastri, il sole
che tramontava alle sue spalle. Libero Tronocozzo
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