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La polemica (ridicola) circa "la Divina Commedia" quale testo razzista
 

AA.VV.      

 

la NOTA di Maurizio Barozzi

 

Riportiamo qui appresso alcuni brevi articoli quali reazioni all'accusa di razzismo sollevata contro la Divina Commedia, testo che qualche buontempone vorrebbe bandire dalle scuole perchè giudicato razzista e antisemita.

La questione è talmente ridicola che io stesso ho voluto fare una specie di "provocazione" scrivendo da più parti che, a ben vedere, se consideriamo l'ideologia neoradicale, illuminista e ultra egualitaria che permea la società moderna ed è alla base degli input e delle delibere delle Istituzioni e Organizzazioni mondialiste, questo richiesta è logica e coerente a quel pensiero e tutto al più si può rilevare che per essere veramente coerenti, l'ostracismo andava esteso anche alla Bibbia e a tutta l'esegesi talmudica, testi in cui il razzismo è palese (o il razzismo è solo quello antisemita?).

Oltretutto, quando parliamo di cultura modernista non stiamo parlando di qualcosa di esclusivo, circoscritto, ma stiamo parlando di una cultura che guida le direttive degli Istituti europei e mondialisti sui temi della razza, della sessualità o meglio unisexsualità, dell'egualitarismo degli esseri umani, ecc.

Provocazione a parte, però,  poniamoci una domanda: come è nata questa provocazione sulla Divina Commedia, cosa si prefigge di ottenere?

È indubbio che chi l'ha progettata sapeva benissimo le reazioni che avrebbe causato, ma probabilmente ha considerato che il dibattito e il confronto che si sarebbe aperto avrebbe portato acqua al suo mulino. Per arrivare a cosa? Riflettiamoci, mettendo il tutto anche in relazione con un altra faccenda quella delle assurde accuse di antisemitismo al libro di Andrea Giacobazzi, una mera ricerca storica che attesta e pubblica documenti su certi rapporti che si ebbero tra fascismo, nazionalsocialismo e sionismo.

Il fatto che ci siano stati questi attacchi, pretestuosi e fuori luogo, dimostra come si stanno sempre più forzando i tempi  per instaurare una vera e propria Santa Inquisizione atta a stroncare, punire e reprimere tutto quello che non è condiviso da Lorsignori.

Maurizio Barozzi

 

da Alessandro Mezzano


Via la divina commedia dalle scuole??...
«È uno scandalo -si legge nell'articolo di Gherush92- che i ragazzi, in particolare ebrei e mussulmani, siano costretti a studiare opere razziste come "la Divina Commedia", che nell'invocata arte nasconde ogni nefandezza. Antisemitismo, islamofobia, antiromani, razzismo devono essere combattuti cercando un alleanza fra le vittime storiche del razzismo proprio su temi e argomenti condivisi come la diversità culturale. La continuazione di insegnamenti di questo genere rappresenta una violazione dei diritti umani e la evidenziazione della natura razzista e antisemita del nostro paese di cui il cristianesimo costituisce l'anima. Le persecuzioni antiebraiche sono la conseguenza dell'antisemitismo cristiano che ha il suo fondamento nei Vangeli e nelle opere che ad esso si ispirano, come "la Divina Commedia". Deve essere messo in evidenza il legame culturale e tecnico-operativo con i vari tentativi di esclusione e di sterminio, fino alla Shoah. Certamente "la Divina Commedia" ha ispirato "i Protocolli dei Savi Anziani di Sion", le leggi razziali e la soluzione finale. Chiediamo, pertanto, al Ministro della Pubblica Istruzione, ai Rabbini e ai Presidi delle scuole ebraiche, islamiche ed altre di espungere la Divina Commedia dai programmi scolastici ministeriali»
Della serie: «la mamma dei pirla é sempre incinta»...

Secondo questo stesso criterio di "Gherush92" sarebbe doveroso cancellare dall'insegnamento e dalla disponibilità di lettura dei giovani anche "la Bibbia", il "Thalmud" ed il "Corano" che sono molto, ma molto più razzisti de "la Divina Commedia" e che invece sono esaltati addirittura come «parola di Dio», quel Dio che, in aperta contraddizione, é anche definito, negli stessi testi razzisti «il padre buono di tutti gli uomini».
 

 

da Enrico Galoppini
 

Se questo non è "razzismo", che cos'è?

Se uno prende un mitra e una tanica di benzina, entra in un'abitazione privata, fa una strage e poi dà fuoco ai cadaveri di donne, vecchi e bambini trucidati, che cosa pensate dovrebbe esser fatto una volta acciuffato l'autore della carneficina?

In un mondo arcaico che non è neppure più immaginabile tanto l'uomo si è progressivamente invigliacchito (quello, insomma, che non prevedeva tutta questa ipocrisia leguleia di scappatoie fatte solo per chi se le può permettere), l'autore di un gesto simile dovrebbe essere messo a disposizione dei parenti delle vittime. Ma in un mondo almeno normale dovrebbe essere consegnato alle autorità locali, le quali dovrebbero poi applicare, dopo un processo, le leggi vigenti in materia, quali che siano.

Ma questo ormai non è un mondo normale. Non è normale perché si sta trasformando in un gigantesco, planetario, campo di battaglia.

Dove a battagliare, per «l'esportazione della democrazia», «la lotta al terrorismo», il «bene dell'umanità» e altre frattaglie moralistiche sono gli eserciti occidentali, USA in testa, seguiti incondizionatamente dai loro "alleati": i compagni di merende, sovente consanguinei, Inghilterra e Israele; le nazioni occupate militarmente nel 1945 (che per qualche decennio han proseguito a fare le "furbette"); quelle annesse al sistema "occidentale" tramite il "processo di unificazione europea" (tipico caso l'Europa dell'Est); quelle in cui al posto di statisti (uomini col senso dello Stato) sono stati messi dei burattini (la Francia: da un De Gaulle a un Sarkozy); ultime, in ordine di tempo, quelle nazioni islamiche uscite smaccatamente allo scoperto in occasione della "Primavera araba".

Ora, i popoli dei territori -in rapido e progressivo aumento- sui quali opera questo "Esercito del Bene" (sempre in guerra contro "il Male"!) sono in pratica espropriati della loro legge e possono essere sottoposti a qualsiasi angheria da parte dei suddetti rappresentanti della Bontà e della Moralità universali. Non possono mai far valere le leggi vigenti per i comuni cittadini di quel Paese, in nessun caso, perché gli appartenenti all'"Esercito del Bene" -sollevati dalla giurisdizione ordinaria- dispongono della proverbiale "licenza di uccidere".

Ma i soliti fabbricanti di opinioni ci dicono che «in guerra vigono altre regole», che per le "basi militari all'estero" (comprese quelle USA/NATO sul territorio italiano, dove non sono rari i casi di delitti compiuti da personale delle suddette basi rimasti impuniti) vi sono degli "accordi" eccetera… Ma la sostanza di tutti questi bei giri di parole che escono dalla bocca di rinnegati del loro popolo è solo una: che un omicidio non è più considerato un omicidio e l'autore -esponente del "Bene"- la fa regolarmente franca. E tutto perché il concetto di giustizia viene strapazzato oltre ogni decenza: tutto dipende da chi fa cosa, non dalla cosa in sé. Nemmeno se è impossibile spacciare il delitto per un "errore", perché se uno esce nottetempo dalla propria base e va a fare una carneficina di persone inermi colte nel sonno, la cosa la si può rivoltare finché si vuole, ma risulterà sempre impossibile spacciarla per una "operazione militare" terminata con una "tragica fatalità".

Già la solfa degli "errori" ritualmente addotti a scusante è particolarmente nauseabonda, ma in questo ultimo caso di strage premeditata compiuta da (uno o più?) militari americani di stanza in Afghanistan, il disgusto non è più descrivibile a parole.

Obama è "scioccato" (e ti pareva), i capi della "missione" promettono l'immancabile "inchiesta" (che non porta mai a nulla), il burattino Karzai dice che "pretende chiarimenti" (sull'aumento del suo stipendio?).

Ma in mezzo a questa bancarotta morale resta un fatto che nessun commentatore "autorevole" rileva: sono stati uccisi in maniera deliberata, per puro sfogo, degli esseri umani, con famiglie, un vissuto, speranze... Le stesse, in fondo, dei nostri "scarrafoni tanto belli a mamma sua", che se cadono in mano di qualche "terrorista" diventano un caso nazionale da sottoporre a martello -a colazione, pranzo e cena- ad un'opinione pubblica completamente inebetita da un "patriottismo" sempre più "americano".

Inebetita e anche ipocrita, perché mentre la stessa "opinione pubblica occidentale" è fatta oggetto di un rituale e peloso 'catechismo antirazzista' per silenziare e tacciare d'immoralità ogni sensata critica al "Villaggio globale" e alla "Società multietnica" (compresa quella che ricorre a ferrei ragionamenti economici), le stesse sentinelle anti-discriminazione non provano alcun sussulto morale quando è proprio il "razzismo", la pretesa d'incarnare una "superrazza" opposta a dei "subumani" da "civilizzare", alla base di stragi come l'ultima operata in Afghanistan da militari americani. Ma non c'è di che meravigliarsi, quando anche i campioni del "pacifismo" non battono ciglio ma raccolgono solertemente firme per «mettere fine alle violenze», prima in Libia, poi in Siria e dopo ancora dove il loro Badrone indirizzerà l'esecrazione mediatica e arcobalenista.

Adesso proveranno a giustificare l'ennesimo gesto criminale ai danni di innocenti sostenendo che si tratta d'un soldato -poverino- particolarmente stressato… E che dire degli afghani? Saranno un tantino stressati o no, visto che siamo nel 2012 e che gli occidentali l'hanno invaso nel 2001? Mentre stuoli di psicologi s'interrogano sul logorio del militare occidentale impegnato in "terreno ostile", nessun luminare di questa pseudo-scienza propone una riflessione su come si sentiranno persone sottoposte a bombardamenti, rastrellamenti, violenze, paure, privazioni, lutti, menomazioni fisiche ed abusi d'ogni tipo da oltre dieci anni. Ma non c'è di che sorprendersi, se ci si ricorda che all'indomani dell'11 settembre sempre alcuni strizzacervelli nostrani in gran voga sollevarono più volte il problema dei «poveri bambini occidentali traumatizzati» dopo la visione in TV del crollo delle Torri gemelle!

Si noti che magari si tratta degli stessi bambini lobotomizzati dai videogiochi a tema bellico, nei quali il "cattivo" è sovente -guarda un po' che caso- il "terrorista islamico". Così poi uno da grande, nella sua mente addestrata alla semplificazione e al manicheismo esasperato, quando in cerca di un "lavoro sicuro" si arruolerà in eserciti che assomigliano sempre più alle guardie della banca o del supermercato, si troverà a maneggiare gingilli devastanti ma 'asettici' nella loro ipertecnologia che gli daranno la sensazione di ammazzare sempre i soliti "cattivi" che s'agitavano sullo schermo del computer quand'era piccolo, non proverà alcuno scrupolo nel passare dal virtuale al reale.

Tutti i responsabili, in frangenti simili, fanno di tutto per farla franca, sviare l'attenzione, camuffare l'accaduto, giustificare, indorare la pillola e, nei casi più spregevoli, passarci pure bene con qualche frase ad effetto sui "risarcimenti". A volte si trova un capro espiatorio, ma per un breve lasso di tempo, poiché non può essere stabilito il pericoloso precedente per cui un "occidentale" è "colpevole" di alcunché nei confronti di un "selvaggio". Eppure resta il fatto -sommamente ignorato- che quelle persone che dormivano al riparo della loro casa e che non minacciavano nessuno non ci sono più.

Ma dicevamo che questo non è un mondo normale. Peggio, è malato fradicio nella misura in cui si è fissato di essere "moderno" e "progressista".

Che cosa si può dire di sensato ai familiari delle vittime in casi simili? Che in fondo è un pegno necessario perché bisogna «esportare la democrazia»? Che bisogna fare la «guerra al terrorismo»? Che la «pace nel mondo» richiede questi sacrifici? Si può raccontare sempre la favola dell'«errore» o della «giustizia» che inevitabilmente farà il suo "corso" (cioè verso la palude del nulla)?

Si può credere ancora a questi signori quando predicano che il "razzismo" è la discriminazione sulla base del colore della pelle? E l'ONU, questa paladina della lotta al "razzismo", non trova nulla di strano? A cosa serve spendere fiori di quattrini in commissioni, convegni, campagne eccetera se poi stragi di povera gente passano in cavalleria?

Quale macchia portavano queste ennesime vittime del "Progresso" da diffondere con la forza? Di essere rimaste "indietro" rispetto ad un mondo molto più "avanti"? Di essere più "povere" -quindi colpevoli, per la mentalità economicista- rispetto ad un mondo "ricco"?

A me pare che se c'è qualcosa da temere e deprecare è questa pretesa d'avere in poppa il "senso della storia", di essere il "faro del Progresso", d'incarnare la "volontà divina", che si traduce nel disprezzo per tutti gli altri che per un motivo o l'altro non sono percepiti "come noi": se questo non è "razzismo", che cos'è?

 

 

da Roberto Sestito

Dante e i Fedeli d'Amore

Premessa

L'organizzazione (giudaica) Gherush92, consulente dell'ONU, ha dichiarato "Dante antisemita e islamofobo. La Divina Commedia va tolta dai programmi scolastici". Ne ha dato notizia nei giorni scorsi il "Corriere della sera", riportando le affermazioni di questa benemerita setta mondialista nell'articolo seguente: http://www.corriere.it/cultura/12_marzo_12/divina-commedia-eliminare-gherush92_674465d8-6c4e-11e1-bd93-2c78bee53b56.shtml . Non è il caso di ribattere alle ridicole accuse di soggetti che vomitano parole sotto l'usbergo dell'ONU per infamare la figura e l'opera del Sommo Poeta, sommo non soltanto per aver "inventato" la lingua italiana, ma per aver dato all'umanità l'opera poetica più "divina" che uomo possa concepire.

Desideriamo ribadire la nostra "fedeltà d'amore" per Dante pubblicando la "lettura" che presentammo  alcuni anni fa all'Istituto Italiano di Cultura di  San Paolo in occasione dell'inaugurazione dei corsi di letteratura italiana. È uno scritto dedicato allo studio di Reghini sui Fedeli d'Amore e in cui il pitagorico fiorentino dimostra che il cristianesimo di Dante era di facciata, mentre sotto «il velame delli versi strani» Dante non faceva che affermare una visione imperialista e pagana, confermata dal fatto che il "maestro" che elesse e a sua guida nella Commedia non è il patriarca Abramo, o  il profeta Maometto  o il giudeo convertito Paolo di Tarso, ma il pagano, imperialista e romano Virgilio.

Roberto Sestito

 

 Nel 1928 Arturo Reghini, fiorentino come Dante, attirava l'attenzione degli studiosi della Divina Commedia sull'opera di Luigi Valli "Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d'Amore", libro che inaugurava, nel campo degli studi danteschi, una nuova, interessante e affascinante via di ricerca sulla lingua del sommo poeta e sulla misteriosa setta esistita a Firenze nel XIII secolo.

Citando ampi brani dello scritto di Arturo Reghini intitolato: "Il linguaggio segreto dei fedeli d'amore" apparso sulla rivista UR con lo pseudonimo Pietro Negri, ci occuperemo di un argomento che oggi come allora ha avuto scarsi approfondimenti, nonostante abbia suscitato e continui a suscitare in Italia e in Europa una varietà di commenti e a sollevare appassionati dibattiti. Come avviene in casi come questi, da una parte troviamo gli scettici che reagiscono irritati di fronte alle novità e i negazionisti  per partito preso, dall'altra i ricercatori assetati di verità: in una riedizione in chiave moderna dei guelfi e ghibellini essi si combattono senza esclusioni di colpi.

Lo stesso Luigi Valli, nel 1926 (due anni prima della pubblicazione del "Linguaggio Segreto") aveva già messo in subbuglio l'ambiente letterario conservatore  con il libro "La chiave della Divina Commedia"; procedendo felicemente lungo la linea interpretativa tracciata dal Foscolo, seguita dal Rossetti, dal Perez, dal Pascoli, era riuscito a porre in evidenza trenta simmetrie tra l'Aquila e la Croce ed a rintracciare, almeno in parte, sotto il velame delli versi strani la dottrina nascosta di Dante.

Secondo il Valli, il pensiero di Dante abilmente occultato nel suo linguaggio, sarebbe sinteticamente questo: la Croce si è dimostrata impotente a redimere di fatto l'umanità, e non può redimerla da sola. Occorre il concorso dell'Aquila, ossia dell'autorità e della giustizia imperiale; occorre ristabilire l'Impero, ritogliere alla chiesa l'infausta dote datale da Costantino; avrà fine  senz'altro la corruzione del clero e l'umanità, grazie alla doppia virtù della croce e dell'aquila potrà finalmente salvarsi.

Dante denunciava apertamente i predicatori di ciance che non possedevano il verace intendimento dato da Cristo al suo primo Convento, e pensava all'intervento dell'Aquila imperiale per salvare l'umanità. Questa concezione ardita e per quei tempi eterodossa inspirava non solo gli scritti ma l'azione stessa di Dante, intesta a realizzare il programma con l'intervento dell'Ordine del Tempio prima e dello stesso Imperatore poi.

Seguendo il filo di questo studio, la storia e le lotte di quei tempi, oggetto de "Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d'Amore", prendono un aspetto inaspettato ed insospettato. Con un lavoro paziente, metodico ed imponente l'autore, riprendendo l'opera incompresa e negletta di Gabriele Rossetti, dimostra l'esistenza nella letteratura italiana degli inizi di un linguaggio segreto, di un gergo settario, il gergo dei Fedeli d'Amore. Ne decifra il senso, l'allegoria dottrinale settaria e politica e riporta alla luce un movimento, ispirato alla tradizione italica, pitagorica e neo-platonica.

Di conseguenza, i poeti d'amore (tra i quali eccellono Dante e Cecco d'Ascoli), gli scrittori del "dolce stil novo", che sembravano perduti nel canto di un loro amore assurdo, manierato e inconsistente, si trasformano in paladini della loro Fede Santa.

L'amore di cui ardeva il cuore dei Fedeli d'Amore ricorda i versi mistici della poesia persiana e quelli del "Cantico dei Cantici". Gabriele Rossetti lo fa discendere dal mistero dell'amor platonico che, nonostante la trasparente bellezza e la sublime perfezione, continua ancor oggi a sollevare curiosi dubbi e indecenti interrogativi.

Il Valli ha dimostrato che la rosa, il fiore, la donna, l'unico oggetto di questo amore sotto vari nomi, è l'intelligenza attiva che innamora di sé l'intelletto possibile; è, come canta Dino Compagni nella poesia L'Intelligenza:

L'Amorosa Madonna  Intelligenza

Che fa nell'alma la sua residenza 

Che con la sua beltà m'ha innamorato

o, come Dante, che al principio della Commedia parla della

... divina potestate, la somma sapienza e il primo amore,

ponendo il suo amore in una triade simile alla sephirot della Cabala: kether, cochma, binah, ossia la Corona, la Sapienza e l'Intelligenza, sulla quale alcuni secoli dopo Tommaso Campanella costruirà la sua Metafisica.

Se questa è la donna, la domina dei Fedeli d'Amore, appare logico che Francesco da Barberino nei suoi "documenti d'Amore" ponga la docilitas, la docilità, per prima tra le dodici virtù che l'Amore deve risvegliare.

Questa verità era conosciuta fin dai tempi più antichi, perché ne troviamo l'impronta in più di una lingua. In latino (e in italiano) la parola disciplina ha il duplice senso di scienza e di costrizione. Alla voce discere che significa apprendere, è dunque intimamente legato il concetto che nel linguaggio cristiano denominava disciplina il tenore rigoroso di vita e la regola monastica dei religiosi. La voce docile che esprime la mansuetudine di carattere, la remissività dell'animo, viene dal verbo docere che vuol dire insegnare; è docile, cioè atto ad essere istruito, chi è docile di carattere. La passività della coscienza è dunque conforme alla docilità di carattere. Nè questa conformazione si limita all'antichissima sapienza italica che Vico ricercava nelle origini della lingua latina.

La parola sanscrita yoga, il metodo, la regola, la pratica per raggiungere la conoscenza è affine alla parola jugum di cui parla Gesù nel Vangelo (Matt.II, 24-30).

Luigi Valli riteneva che Gabriele Rossetti, nella sua imponente opera in 5 volumi su "Il Mistero dell'Amor platonico nel Medio Evo", attingesse alla conoscenza di antiche tradizioni segrete e soprattutto allo studio sistematico del gergo settario medievale.

Abbiamo veduto che l'Amore è l'Intelligenza attiva ed è, dice Dante nell'ultimo verso della Commedia, l'Amor che move il sole e l'altre stelle.

Nell'intelletto possibile del Fedele d'Amore questa intelligenza è desta ed attiva, mentre nel profano è dormiente e inoperosa. Conseguentemente, nel gergo settario dormire significa essere nell'errore, essere lontano dalla verità. È il simbolismo usato da Dante negli ultimi canti del Purgatorio, in cui all'immersione nel fiume Lete, il fiume del sonno e dell'oblio, segue quella nell'Eunoé, in virtù della quale, come pianta novella (neo-fita) rinnovellata di novella fronda, Dante diviene puro e disposto a salire alle stelle, ossia capace si ascendere al "regno dei cieli".

Com'è noto si tratta di un simbolismo pagano, adoperato da Virgilio e da Platone, e che si ritrova nell'orfismo e nei misteri eleusini. Ivi al fiume Lete che travolge la coscienza degli uomini, è contrapposta la fresca sorgente della Memoria o la virtù mnemonica del melograno, che dona il risveglio e l'immortalità.

L'anamnesi platonica, il ricordo, si identifica con la conoscenza e, di conseguenza, la verità, la a-leteia, si ottiene con la negazione, col superamento del Lete. Il conseguimento della verità è una conquista della coscienza sopra il sonno e la morte; occorre mantenere la continuità della coscienza attraverso il sonno e la morte.

L'amore ha dunque la capacità di sottrarre il neo-fita al sonno e alla morte, dando al Fedele d'Amore una vita nuova.

Ciò si raggiunge per gradi di perfezionamento successivo, come è provato nei "Documenti d'Amore" di Francesco da Barberino, dove nei primi gradi il Fedele d'Amore è rappresentato trafitto dal dardo d'amore e negli ultimi è rappresentato con delle rose in mano.

Interessanti analogie ci è dato di scoprire inoltre tra il simbolismo dei Fedeli d'Amore con l'ermetismo e l'alchimia, ciò che prova certamente un legame poco esplorato tra le confraternite medievali e le correnti sapienziali italiane.

L'affinità tra il simbolismo d'amore e quello ermetico ed il legame tra le due tradizioni  risultano manifeste per la presenza del Rebis ermetico in uno dei disegni  che illustrano i "Documenti d'Amore" di Francesco da Barberino.

La figura del Rebis o androgino ermetico riprodotta dal Valli risale al tempo di Dante, ma la più antica rappresentazione dell'ermafrodito ermetico e la sua connessione con l'alchimia viene attribuita a Zosimo di Panopoli filosofo vissuto tra il III° e il IV° secolo dell'era volgare.

Altre concordanze col simbolismo e con la terminologia alchemica si ritrovano nei versi di un oscuro poeta d'amore,Nicolò dei Rossi, il quale in una sua canzone esprime i gradi e la virtude del vero amore. Questi gradi sono quattro: il primo si chiama liquefatio, che si oppone – dice il de Rossi – alla congelazione;  il secondo grado si chiama languor, il terzo zelus e nel quarto l'amore attinge il punto sommo mediante l'estasi o excessus mentis.

Si comprende dunque come una delle più importanti opere della letteratura d'amore, il "Roman de la Rose" (di cui il  "Fiore" è la versione italiana dovuta quasi sicuramente a Dante), tratti esplicitamente di alchimia e venga catalogato nella letteratura alchemica. Questa rosa cantata con così commovente accordo da tutti questi poeti, a cominciare da Ciullo d'Alcamo, la candida rosa dantesca, è evidentemente affine, se non identica, alla rosa ermetica dei Rosacroce.

Tutti i dantisti inoltre ammettono, anche quando non lo comprendono, un valore notevole al simbolismo numerico contenuto nei versi della Divina Commedia. Basti ricordare l'importanza data da Dante al tre ed al nove e con quanta frequenza il nove ricorra nella  Vita Nuova. Il Valli cita dei versi in cui Jacopo da Lentini, anche questi rimatore d'amore manifesta il medesimo grado di padronanza della numerologia riferita alla poesia amorosa.

Dante nella Via Nuova fa morire Beatrice nel  nono giorno del mese di giugno del 1281, avendo cura di specificare che in Siria il mese di giugno è il nono e che Beatrice era morta quando lo perfetto numero nove volte era compiuto nel terzo decismo secolo,ossia nel 1281. Per quanto riguarda l'81 Dante aveva scritto nel "Convivio": Platone, del quale ottimamente si può dire che fosse maturato... vivette ottantun anno..." considerata l'età ottimale per morire.

Scrive Gabriele Rossetti nel "Il Mistero dell'Amor Platonico" (V° Vol. pag.1626): "... poichè 81 era perfezione, secondo l'età  per Platone, secondo il secolo per Beatrice. Dante dunque, (se vogliamo stare alla lettera) volle indicare che la sua Beatrice  nove si partì nell'anno 81 di quel secolo, quando il perfetto numero (9) era compiuto nove volte (81) in quel centinaio (Vita Nuova), cioè nel 1281".

Vale la pena infine accennare all'unica Fenice di cui si fa un continuo parlare nella letteratura amorosa del Medio Evo, che come dimostra il Valli, rappresenta i Fedeli d'Amore e la tradizione spirituale da essi incarnata, sempre rinascente in mezzo alle fiamme che di volta in volta la divorano.

La purpurea fenice, simbolo alchemico dell'opera al rosso, vive tra le fiamme del fuoco filosofico, come il Fedele d'Amore ardendo di santo zelo, lo zelus di Niccolò de Rossi, rinasce alla vita nuova mediante l'excessus mentis.

Amore e il cor gentile sono una cosa...

dice Dante prendendo da Virgilio lo bello stile che si esprime con il latin sangue gentile.

Per concludere questa lettura che affronta solo in maniera sintetica un movimento filosofico ed esoterico di portata universale, mi è doveroso ricordare che è stato Dante  nel Convivio a sostenere che nel linguaggio allegorico fossero quattro i sensi da considerare, corrispondenti forse ai quattro gradi della setta.

Di questi quattro significati il più importante, a mio vedere, è l'ultimo, ossia il senso anagogico.

Naturalmente questo senso speciale che si riferisce al perfezionamento spirituale dell'uomo, non può essere inteso e talora semplicemente intraveduto fuori dall'esperienza personale: intender non lo può chi non lo prova, dice Dante. Ed è per questo che esso è sfuggito quasi sempre all'attenzione di coloro che si sono occupati sin'ora dei Fedeli d'Amore.

A differenza del senso che potremmo chiamare sinagogico, dove, per esempio dormire significa allegoricamente vivere nell'ignoranza, nell'inerzia dell'intelletto, moralmente significa non partecipare al lavoro della setta, anagogicamente la incoscienza durante il sonno, l'incapacità a raggiungere la coscienza estatica.

Il senso anagogico è necessariamente nascosto sotto il velo del simbolismo, e per interpretarlo occorre possedere l'esperienza degli stati di coscienza cui si riferisce e la conoscenza dei simboli tradizionalmente adoperati per indicarli. Per questa ragione il vero e supremo significato del linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d'Amore rimane e rimarrà sempre un mistero per tutti coloro che dormono e seguiteranno a dormire.

  

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