Italia - Repubblica - Socializzazione

 

da "Rinascita" (9 maggio 2012)

 

Parliamo di cooperative

(di produzione)

Rutilio Sermonti        

 

Una considerazione sulle imprese socializzate, configurate, regolate e realizzate dalla Repubblica Sociale Italiana

 

Per ovvi motivi cronologici, la quasi totalità dei fedeli lettori di "Rinascita", ma anche quella dei suoi validi redattori, non ha mai visto un'impresa socializzata, né vissuto l'atmosfera ardente in cui esse furono configurate, regolate e realizzate dalla Repubblica Sociale Italiana. Ciò spiega e giustifica ampiamente alcuni equivoci in argomento che circolano tra coloro che (con merito assai maggiore di quello di noi vecchioni che c'eravamo), nonostante la mollaccia di coglionerie e di falsi ,tra cui la "cultura antifascista" li ha condannati a "formarsi", son riusciti a non farsene invischiare, e tengono tuttora alta la bandiera della libertà nazionale. Tutti loro, però, hanno una qualche diretta o indiretta esperienza di cooperative di produzione, che ci sono anche oggi, e ritengo che questo mi offra il destro per alcune valutazioni comparative, valide forse a chiarire le idee.

Anche le cooperative hanno, come soci, coloro che personalmente partecipano al processo produttivo. Ciò che le caratterizza, però, è lo scopo mutualistico, e cioè l'intento dei soci di meglio conseguire il proprio interesse ponendosi ciascuno al servizio della propria comunità. È una motivazione meramente privatistica, profondamente diversa da quella delle imprese socializzate secondo il modello RSI, che ha natura decisamente pubblicistica. Con la concezione organica dello Stato, già espressa nella dichiarazione 1ª della Carta del Lavoro, e la 2ª e la 7ª, in cui sia il lavoro che l'iniziativa privata sono concepiti come mezzi al servizio dell'interesse nazionale, non soltanto economico, l'impresa-persona giuridica diviene simile a un reparto militare, il cui Capo risponde della propria gestione davanti allo Stato. Certo che egli deve preoccuparsi anche delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori associati, ma anche quello è un interesse nazionale, e il suo è quindi un munus publicum.

Vediamo ora ciò che accade in pratica per le cooperative (si ripete: di produzione, perché quelle di consumo seguono altra logica).

Molto bene, sia per i soci che per i loro clienti, funzionano le piccole. Ma "piccole" è un termine troppo elastico. Intendiamo per piccole quelle in cui ciascuno dei componenti è in grado di valutare l'effetto del proprio apporto sull'andamento generale. Prendiamo quelle, con una decina di soci, per la gestione di una trattoria o tavola calda, o per un servizio di pulizie o disinfestazione, o per una piccola officina di riparazione, o simili. Prendiamo invece le grandi, con centinaia o migliaia di soci, in cui il rapporto tra opera di un singolo e risultato generale non è evidente, ma oggetto della soggettiva valutazione del competente ufficio. Pensiamo alla Coop, o alla Cooperativa per la gestione del mattatoio. Esse funzionano esattamente come una s.p.a., e la partecipazione del singolo alla gestione è simile a quella del possessore di una sola azione di una casa automobilistica.

Per le imprese socializzate, invece, essendo state concepite non nel privato interesse dei lavoratori di ciascuna, ma al fine di riforma di tutta l'attività economica, anzi, addirittura dell'intera struttura sociale e morale della nazione, era logico e inevitabile cominciare proprio dalle imprese più grandi, sia come capitale che come numero di dipendenti. E questo, come sappiamo, fu fatto. Se consideriamo quanto è avvenuto in seguito, con la folle sostituzione dell'economia produttiva con quella finanziaria (per non dire usuraria), ci stupiremo della preveggenza dei legislatori fascisti-repubblicani, che, con la socializzazione, rendevano letteralmente impossibile che tale ultima degradazione avvenisse. Ed erano proprio le imprese maggiori, col massimo distacco umano tra dirigenza e manodopera, quelle più esposte alle manovre dell'alta finanza apolide, e quindi le prime da riformare, anche se le più difficili.

Per le costatazioni che precedono, consideriamo ora che cosa sarebbe una forma di socializzazione introdotta nell'attuale contesto. Scomparsa ogni sovranità e dignità nazionale; con la cosa pubblica interamente nelle mani di squallidi emissari della Grande Usura e scomparsa quindi ogni politica nell'interesse della nazione italiana e del suo popolo, l'ipotesi è del tutto irreale, e lo stitico art. 46 Co. è destinato a macerarsi sotto formalina nel barattolo dove l'hanno schiaffato. Ma supponiamo pure -tanto non costa nulla- che lo si volesse applicare, come, tra i nostri, qualcuno chiede. In assenza di tutte le alte motivazioni che mossero la nostra RSI, che altro ci resterebbe se non lo... scopo mutualistico? Insomma: non faremmo che cooperative, a partecipazione tanto più illusoria quanto più grosse esse sarebbero.

Vi sembra una soluzione?

Sì, alla socializzazione, quindi. Sì, con tutto il cuore! Ma che sia quella che intendiamo noi, per la quale occorre, innanzi tutto, creare le premesse.

 

Rutilio Sermonti         
 

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