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Parma - Dalle barricate dannunziane alla marcia su Roma

 

Franco Morini    

 

È risaputo che la marcia su Roma era stata originariamente ipotizzata e teorizzata da D'Annunzio in quel di Fiume, nell'autunno del 1920.

Lo schema del progetto insurrezionale fu inviato da D'Annunzio a Mussolini per sottoporlo a sue eventuali osservazioni e valutazioni.

Mussolini rispose rilevando la necessità che la presumibile opposizione da parte di socialisti e popolari non dovesse riuscire pregiudizievole alla riuscita del disegno rivoluzionario.

Per tale ragione Mussolini considerava "necessario che sin dall'inizio (l'insurrezione) batta apertamente la bandiera repubblicana" seppure guardandosi da brutalità nei confronti dei membri della casa reale.

Riguardo ai popolari, a parere di Mussolini era necessario dare garanzie che il movimento rivoluzionario non era anti religioso o anticlericale e che il Vaticano, quale centro di una fede universale, sarebbe stato rispettato.

Dal punto di vista sindacale, Mussolini riteneva fosse indispensabile "lavorarsi" la CGdL offrendo agli esponenti più disponibili, di entrare a far parte di un comitato amministrativo di reggenza nell'intervallo fra decadenza del regime ed elezioni per la Costituente.

Ruolo fondamentale doveva essere svolto dalla Marina militare e particolarmente dell'ammiraglio Millo il quale avrebbe dovuto occupare le città portuali di La Spezia e Taranto mentre il sindacato gente di mare di capitan Giulietti, colui che aveva ispirato a D'Annunzio l'idea della marcia su Roma nel '19, doveva sovraintendere al traffico marittimo civile.

Largo spazio a ufficiali e sottufficiali i quali avrebbero dovuto formare la testa della colonna marciante per inibire con la loro presenza eventuali azioni di contrasto da parte dell'esercito.

Passando all'analisi delle varie regioni di transito delle colonne in marcia, oltre a segnalare le inevitabili difficoltà che si sarebbero incontrate in Piemonte e in Liguria, altre riserve erano nutrite da Mussolini circa le reazioni che potevano scaturire in aeree parabolsceviche della Toscana, dell'Emilia e, in misura minore, della Romagna.

Sostanzialmente incerta, secondo Mussolini, la situazione generale che si poteva incontrare in Val Padana, salvo a Parma, centro rivoluzionario corridoniano su cui D'Annunzio poteva sempre contare grazie ad Alceste De Ambris e alla sua organizzata C.d.L. sindacalista dal vasto seguito popolare specie nell'Oltretorrente cittadino. (1)

Durante il biennio 1919-20, D'Annunzio e Mussolini, fiumani e fascisti, legionari e squadristi, erano un tutt'uno come tutt'uno sarebbe stata la progettata marcia fiumana su Roma qualora si fosse realizzata. Altrettanto unitario era l'accordo politico e operativo fra il Fascio di Parma e la C.d.L. sindacalista di borgo delle Grazie diretta da De Ambris il quale, per inciso, era stato oratore ufficiale alla prima manifestazione pubblica tenuta a Milano dal neo costituito Fascio di Combattimento. (2) A parte ciò, basterà ricordare che fra i vari dirigenti transitati dalla C.d.L. di borgo delle Grazie, si contavano personaggi come Michele Bianchi, Edmondo Rossoni e Cesare Rossi.

L'idillio fra D'Annunzio e Mussolini, e di conseguenza tra dannunziani e fascisti, s'incrinò repentinamente nel dicembre del 1920, quando, trovandosi sotto attacco a Fiume, D'Annunzio ritenne d'essere stato abbandonato da Mussolini per il mancato intervento dei fascisti al suo fianco. In realtà prima ancora che da Mussolini, D'Annunzio era stato abbandonato da Millo, così come dalla pretesa solidarietà di quella casta militare che aveva invece permesso, e poi compiuto, l'attacco militare a Fiume.

Di conseguenza il pragmatismo mussoliniano aveva evitato ai fascisti d'imbarcarsi in una causa persa in partenza poiché, come già aveva illustrato in precedenza a D'Annunzio, un moto rivoluzionario che si fosse dovuto confrontare con l'esercito, era destinato a sicuro fallimento con spargimento inutile di sangue. (3)

Frattura destinata ad allargarsi quando, solo qualche mese dopo, e sempre in via pragmatica, Mussolini aderiva al Blocco giolittiano nelle elezioni politiche anticipate dell'aprile del '21.

Fatto questo che fece infuriare D'Annunzio essendo stato proprio Giolitti a sloggiarlo da Fiume a cannonate.

Senza poi contare che nel frattempo si andava radicalizzando in varie zone d'Italia, uno squadrismo di marca agraria che, seppure contrastato da Mussolini con la firma il patto di pacificazione con i socialisti, non per questo tendeva a mitigarsi essendo all'epoca i vari Fasci, per quanto federati, sostanzialmente indipendenti l'uno dall'altro.

In tal frangente matura la scissione della corrente di sinistra all'interno dell'Associazione Arditi di Roma con la conseguente nascita degli Arditi del popolo, un organismo ben presto strumentalizzato da ambienti nittiani, in funzione più antigiolittiana che non antifascista e comunque con risposta alla speculare manovra che Giolitti aveva avviato nei confronti dei Fasci. (4)

Venne così a crearsi una sempre più marcata bi-polarizzazione degli ambienti combattentistici attorno a D'Annunzio e Mussolini; il primo più o meno forzatamente sospinto a sinistra e l'altro ugualmente incalzato a destra e ciò indipendentemente dalle loro effettive posizioni che, tutto sommato, erano sostanzialmente simili e persino intercambiabili. (5)

Dal '22 si va rinsaldando pezzo per pezzo un largo fronte politico e sindacale che intravede in D'Annunzio l'antidoto combattentistico al dilagante squadrismo che tende ormai alla conquista dello Stato.

Nell'estate di quell'anno (1922) D'Annunzio può contare oltre che sui fidi legionari, anche su vari sindacati: dai marittimi di Giulietti al sindacato ferrovieri diretto da Renato Ronzani, dagli anarco-sindacalisti dell'Unione Sindacale Italiana (USI) ai corridoniani della UIL con la loro roccaforte nella C.d.L. sindacale di Parma e i sindacalisti rivoluzionari di Angelo Oliviero Olivetti.

Anche i vertici delle maggiori associazioni combattentistiche, reduci e mutilati di guerra, erano a favore di D'Annunzio, così come a livello strettamente politico, gran parte del partito repubblicano e la componente turatiana del Psi con i relativi corrispondenti all'interno della CGdL D'Aragona e Baldesi; seguivano singolarmente lo stesso Nitti con codazzo di Arditi del popolo, i ministri del governo Facta, Giovanni Amendola e Paolino Taddei, ed inoltre, Vittorio Emanuele Orlando (6) grandi industriali come Agnelli e Pirelli (7), senza contare la massoneria cui D'Annunzio si era affiliato in segno di riconoscenza per l'appoggio materiale fornito dai massoni alla causa fiumana. (8)

C'erano infine le quinte colonne dannunziane interne al fascismo, a cominciare da Marsich cui si aggiunsero nel tempo i deputati Finzi e Terzaghi e altri ancora di cui diremo in seguito.

Potendo contare su un fronte così articolato, non meraviglia affatto che nell'estate del '22 il Comandante avesse di nuovo maturato l'idea di prendere Roma senza alcuna marcia di sorta ma, più semplicemente, facendo affluire a Roma ex combattenti e mutilati ivi convogliati a spese delle rispettive associazioni, insieme con altri suoi fedeli e, nel corso di una traboccante manifestazione da tenersi davanti all'altare della Patria, il Poeta sarebbe stato acclamato dittatore, invito che egli avrebbe accolto limitandolo tuttavia nel tempo a non più di tre mesi di regime totalitario finalizzato del resto a pacificare le varie fazioni politiche ed economiche in lotta, dopo di ché sarebbero state indette le elezioni. (9)

D'Annunzio avrebbe proposto a Mussolini di entrare far parte del suo direttorio insieme a Nitti, Agnelli e Pirelli, presumendo che il Duce non avrebbe mai accettato di subordinarsi alla sua persona. (10)

La data inizialmente prescelta era la ricorrenza massoneggiante del 20 settembre, rinviata poi al 4 novembre, causa il serio incidente subito da D'Annunzio a metà agosto nella sua villa di Gardone.

Al fine di alimentare la soluzione pacificatoria si rendeva utile se non necessario, stemperare la pulsione squadrista con una forte e articolata reazione; un vero e proprio braccio di ferro teso a bloccarne l'impeto. In questo senso già dal febbraio 1922, grazie all'attivismo del sindacalista dannunziano Renato Ronzani si era formata una federazione politico-sindacale denominata "Alleanza del lavoro" cui avevano aderito più o meno ufficialmente le già elencate tendenze filo dannunziane. Il braccio di ferro da attuarsi tramite uno sciopero generale antifascista ad oltranza era stato concordato fin da aprile. Per proclamarlo si colse l'occasione fornita dalla marcia compiuta da Balbo nel ravennate alla fine di luglio del '22. In segno di protesta un comitato segreto in rappresentanza dell'Alleanza del lavoro, proclamò lo sciopero generale a tempo indeterminato con inizio dall'1 agosto.

Il periodo prescelto era stato considerato il più favorevole non solo per una più facile tenuta ferragostana dello sciopero da una parte e la scadenza ravvicinata del 20 settembre dall'altra, ma soprattutto perché il precedente 19 luglio era caduto il governo Facta e si riteneva pertanto di poter meglio perseguire il disegno prestabilito agendo anche sulla crisi di governo.

Capita, invece, che l'1 agosto in coincidenza con l'inizio dello sciopero, Facta sia urgentemente reincaricato insieme a tutto il suo vecchio gabinetto con l'esclusione del ministero dell'Interno assegnato alla matricola ministeriale Paolino Taddei, del gruppo parlamentare massonofilo d'Unione Democratica, decisamente antifascista ma ben disposto verso D'Annunzio.

Da parte sua il PNF concesse 48 ore di tempo al rinato Governo per stroncare lo sciopero poiché, in caso contrario, sarebbero intervenuti i fascisti a riportare l'ordine nel Paese.

A Parma, che in questo contesto avrebbe dovuto rappresentare la città simbolo della riscossa antifascista, fra il 3 e 4 agosto iniziarono ad apparire nel rione Oltretorrente trincee e barricate scavate e innalzate fra l'apparente indifferenza delle autorità preposte all'ordine pubblico.

Si saprà poi che il neoministro Taddei aveva disposto che forza pubblica e truppa si disponessero esternamente a protezione delle barricate con l'ordine di sparare sui fascisti qualora le avessero prese d'assalto.

Per questo e altri motivi non meno eccentrici, i barricadieri dell'Oltretorrente riuscirono a resistere fino al 6 agosto, giorno in cui fu proclamato lo stato d'assedio con relativo passaggio di poteri all'autorità militare.

Comunque sia, non vi furono attacchi diretti all'Oltretorrente da parte dei fascisti i quali, infatti, non subirono alcun perdita in città durante l'intero periodo delle barricate, sicché non si può certo affermare che essi subirono una sconfitta sul piano militare come invece asserito dall'ormai consolidata vulgata. (11)

Anche perché nel corso di un convegno di studi su D'Annunzio tenutosi a Gardone nel 1985, è emerso un rapporto trasmesso dal questore di Roma in data 23 aprile 1923, alla Direzione generale di P.S. in cui si legge che: «… il Picelli è apparso un esaltato, evidentemente inorgoglito di qualche successo parziale a Parma, la quale è stata risparmiata dai fascisti unicamente per rendere un servizio a De Ambris attraverso la raccomandazione di Gabriele D'Annunzio».

Più intrigante ancora sarebbe conoscere l'identità dell'esponente fascista protettore occulto delle barricate, ammesso che anche il compilatore della citata relazione ne fosse a conoscenza.

A parere dello storico del sindacalismo rivoluzionario Umberto Sereni, sarebbe stata opera dello stesso Mussolini ipotizzando così che la resistenza barricadiera …. era stata resa possibile anche dalla speciale condizione di Parma, posta da De Ambris sotto la protezione di D'Annunzio e quindi in un sistema di equilibri che Mussolini preoccupato di non irritare il Comandante non si sente di rompere. Ed è proprio nel nome di D'Annunzio che i sindacalisti alla vigilia delle barricate avevano chiamato i lavoratori alla prova di forza contro i fascisti. (12)

A dar retta a quanto riportato da Balbo nel suo "Diario 1922", compilato abbondantemente a posteriori, l'iniziativa sarebbe partita da Michele Bianchi e più ancora da Michele Terzaghi, deputato fascista di Parma, il quale avrebbe implorato l'intervento personale di Balbo dopo avergli comunicato che «… i comunisti (erano) padroni d'interi quartieri con barricate e conflitti aperti con la forza pubblica». (13)

Nulla di vero, specie per quanto concerne i comunisti che a quel tempo a Parma erano pressoché inesistenti non assommando a più di 20 gli iscritti tra città e provincia, tant'è che la federazione si era sciolta dopo il passaggio del segretario provinciale alla compagine futurista e i rimanenti iscritti erano stati aggregati alla limitrofa federazione comunista di Reggio Emilia. (14)

In realtà il "disperato appello" rivolto da Terzaghi a Balbo era essenzialmente finalizzato alla tutela dei beni e all'incolumità di alcuni professionisti massoni di Parma che in quei primi giorni di agosto erano stati presi particolarmente di mira da squadristi farinacciani che predominavano nel Fascio di Parma e nella Bassa parmense.

Non potendo confrontarsi apertamente con i trincerati nell'Oltretorrente, protetti dal dispiegamento di truppa, i farinacciani oltre a sparacchiare per lo più a vuoto da tetti e torri in direzione delle barricate, nella parte di città sotto il loro controllo avevano inaugurato la caccia a massoni e nittiani da loro considerati, e non a torto, ispiratori e sodali del movimento barricadiero.

A questo punto occorre aggiungere che anche Terzaghi era un convinto massone e in quanto tale più incline alla fratellanza massonica che non al cameratismo partitico e questa sua spiccata inclinazione gli costò poi l'espulsione dal partito quando Farinacci ne divenne segretario.

Non a caso, quando Balbo approdò a Parma sul far dell'alba del 4 agosto, per prima cosa assunse i pieni poteri esautorando il quadrunvirato locale che stava già dirigendo l'azione di contrasto fascista.

Dopo di ché si recò in visita al prefetto con il quale concordò un'iniziale tregua unilaterale di qualche ora protrattasi poi, di fatto, fino a tarda sera. Il tempo necessario per togliere dai guai i suburbi più popolari della città borghese, Naviglio-Trinità, che stavano ormai soccombendo alla pressione squadrista, permettendo che fossero presidiati all'interno dalla truppa. Contestualmente mobilitava altre squadre da Ferrara, Bologna e Reggio Emilia motivando il provvedimento sul Diario col fatto che: «… per la prima volta il Fascismo si trova di fronte un nemico agguerrito e organizzato, armato ed equipaggiato e deciso a resistere a oltranza» (pag. 119). E anche: «… Se Picelli dovesse vincere, i sovversivi di tutta Italia rialzerebbero la testa. Sarebbe dimostrato che armando organizzando le squadre rosse si neutralizza ogni offensiva fascista» (pag. 118). In realtà la mobilitazione di ulteriori forze esterne tendeva a neutralizzare i fascisti più che altro farinacciani di Parma, Mantova e Piacenza, già presenti sulla piazza e piuttosto ribelli a talune disposizioni impartite da Balbo, come il disporre presidi fascisti a tutela di uffici e abitazioni di quegli esponenti massonici che erano stati presi più di mira dai fascisti stessi. Non mancarono scontri e colluttazioni tra fascisti diversamente orientati. Annota, infatti, Balbo sul suo Diario: «La disciplina di guerra impera. Provvedimenti severi sono stabiliti per coloro che compissero azioni isolate e non autorizzate (pag. 125) … Disciplina rigorosissima che giunge sino a incarcerare i fascisti, se gli ordini non sono eseguiti scrupolosamente» (pag. 119).

Assumendo il fatto d'essere in attesa di rinforzi, Balbo riuscì a congelare l'attività delle squadre per l'intera giornata del 4 agosto fino a sera inoltrata quando, a suo trasmodante dire, poteva finalmente disporre di ben 10 mila squadristi al suo comando e questo in una città come Parma che di abitanti ne contava allora non più di 50 mila. Un'evidente frottola tesa a svisare il vero obiettivo di neutralizzare un migliaio di squadristi refrattari agli ordini con altrettanti maggiormente allineati; si trattava in ogni caso di non più di 3-4 mila presenze che si erano peraltro variamente alternate.

Stima avvalorata dagli accadimenti del giorno dopo, 5 agosto, quando Balbo manifestò l'intenzione di arrischiare... l'invasione fascista per smantellare definitivamente la fortezza sovversiva (dell'Oltretorrente). Per questa decisiva e apparentemente temeraria azione sull'Oltretorrente, pur asserendo di poter disporre di 10 mila squadristi, Balbo ne utilizzò per l'occasione solo la centesima parte -100 uomini circa- con i quali cercò di penetrare nell'Oltretorrente attraversando il greto del torrente in secca estiva per evitare i ponti presidiati dalla truppa. Come siano andate effettivamente le cose, è arduo da stabilire anche perché limitandoci alla cronaca del "Diario", Balbo passa dalla descrizione delle difficoltà incontrate nell'attraversare il torrente, al fatto del tutto inopinato di ritrovarsi già in pieno Oltretorrente e per di più davanti all'ingresso della C.d.L. di borgo delle Grazie e tutto ciò senza dover ricorrere all'uso delle armi.

A questo punto Balbo e i suoi avrebbero varcato tranquillamente la soglia della tana del lupo, se l'edificio non fosse stato presidiato da un drappello di militari al comando di un ufficiale il quale, sbarrandogli la strada, lo informò dell'ordine scritto che aveva ricevuto di sparare sui fascisti senza troppe riserve, ordine al quale avrebbe adempiuto qualora i fascisti non si fossero ritirati per poi «farsi saltare le cervella».

Tanto bastò per far tornare Balbo e i suoi sui loro passi com'erano venuti in barba alla pretesa "resistenza ad oltranza" delle barricate.

Questo episodio piuttosto lunatico e dal taglio vagamente onirico, resta tuttavia confermato nei particolari da varie fonti coeve e ciò indurrebbe a varie considerazioni come ad esempio l'ipotesi che le temibili barricate di Parma fossero state in realtà una specie di melò burlesco o, più verosimilmente, che l'intrusione di Balbo in Oltretorrente non fosse da considerare un'azione intrusiva ma, piuttosto, una specie di visita più o meno concordata con esponenti della C.d.L. dai quali era forse atteso.

Non è del resto plausibile, dopo quanto esposto in precedenza, che di tutti i possibili e variegati obiettivi dell'Oltretorrente, Balbo si sia impuntato sulla C.d.L. corridoniana e dannunziana; quella stessa C.d.L. che fino a qualche tempo prima era ancora diretta da Edmondo Rossoni, cioè lo stesso esponente sindacale che Balbo aveva voluto a capo del sindacalismo fascista ferrarese.

In tutti i casi, i possibili canali di contatto fra le due parti, che a questo punto si potrebbe addirittura evitare di definire opposte, non difettavano specie a riguardo della trasversale fratellanza massonica.

È il caso, per esempio, del prof. Giovanni Valla, massone dichiarato che in quei giorni aveva libero accesso sia al Q.G. fascista, sia negli opposti fortilizi dell'Oltretorrente ivi compresa la C.d.L. di borgo delle Grazie dove i massoni erano di casa a partire dal capo famiglia, Alceste De Ambris. (15)

Al rientro dall'enigmatica puntata all'interno delle barricate, Balbo fu subito convocato in prefettura, dove gli fu notificato che dalla mezzanotte di quello stesso giorno, 5 agosto, sarebbe entrato in vigore lo stato d'assedio militare a Parma come in altre città, dove ancora permanevano bellicosi assembramenti. Ben si può immaginare il sollievo di Balbo per questa notizia, anche perché a quanto scrive sul "Diario", il passaggio di poteri ai militari era la conditio sine qua non da lui dettata al prefetto per smobilitare le squadre. (16)

La partita si chiudeva così con un apparente pareggio giacché le barricate non avevano ceduto alla mobilitazione fascista da una parte, mentre Balbo aveva ottenuto il preteso passaggio dei poteri in mano militari, dall'altra.

Esauritasi l'emergenza parmense, in data 6 agosto Balbo registra sul "Diario" la richiesta di un suo nuovo intervento ad Ancona dove, a suo dire, … la normalità non è ancora ristabilita (pag. 136).

Ancona era una delle varie città dove, al pari di Parma, dal 6 agosto era in vigore lo stato d'assedio e per questa ragione i fascisti che vi erano confluiti da più parti, Ferrara compresa, se n'erano già andati.

Giunto, infatti, ad Ancona il 7 agosto, Balbo doveva costatare che «…contrariamente a quanto mi attendevo, in città è stata raggiunta la calma» (pag. 137).

Il solo estraneo fascista che ancora si aggirava per Ancona era Grandi che vi era approdato il 5 agosto e ciò fa ritenere che proprio il ricongiungimento a Grandi non sia stato per niente estraneo all'ulteriore tappa di Balbo.

Fatto sta che da Ancona i due ras romagnoli si portarono insieme a Gardone dove, il 9 agosto, ottennero d'incontrare D'Annunzio.

Stando a quanto scritto dal Tamaro nei primi anni '50, scopo della visita al Poeta era la richiesta da parte dei due ras di poter partecipare al suo eccentrico progetto dittatoriale con scadenza trimestrale, pacificazione nazionale inclusa.

A questo proposito, Grandi e Balbo avevano qualche credenziale da far valere: l'intervento sostanzialmente pacificatorio di Balbo a Parma e il patto di pacificazione sottoscritto nel luglio precedente da Grandi con i repubblicani di Ravenna rappresentati per l'occasione dall'esponente massonico-repubblicano, Comandini.

Parma corridoniana e Ravenna repubblicana erano care ambedue a D'Annunzio, specie in considerazione dei giorni a venire.

Il Comandante non nascose un certo imbarazzo per quella visita, evidentemente urtato dal fatto che i suoi disegni più riservati erano ormai di pubblico dominio. Colpa di Finzi che, dopo essere stato arruolato dallo stesso D'Annunzio nell'impresa, era andato a sbandierarne i particolari al fratello del direttore del Corriere della Sera, Alberto Albertini, il quale a sua volta informò il prefetto di Milano, Lusignoli e ambedue, dopo averne dato notizia telegrafica al ministro Taddei, si misero in contatto con D'Annunzio per riceverne conferma. Ovviamente D'Annunzio smentì categoricamente, anzi, autorizzò Albertini a far sapere ai suoi lettori che [ D'Annunzio ] " tiene per la legalità". Dopo di ché il Poeta inviò a Finzi un ambiguo telegramma col quale lo invitava " a dissuadere i fascisti da colpi avventati" e sarebbe francamente interessante sapere a chi e a cosa si volesse riferire D'Annunzio.

Per non sbilanciarsi e prendere tempo, D'Annunzio replicò all'offerta di Balbo e Grandi con la bubbola che doveva consigliarsi con la Diana astrale; passassero pure l'indomani a ritirare il verdetto lunare. Il giorno seguente il Poeta si fece negare incaricando però Maroni di riferire che, causa foschia notturna, Diana non era venuta all'appuntamento. Ancor più che da parte di Diana, un qual certo responso il Vate lo attendeva da Nitti e Mussolini con i quali doveva incontrasi di lì a poco, il 15 agosto. (17)

Riferisce comunque il Tamaro che la beffa mandò sulle furie Balbo mentre Grandi la prese con più filosofia. Balbo si era nel frattempo fissato con l'insurrezione e poco gli sarebbe importato farla con D'Annunzio, Mussolini o altri ancora. (18)

Da questo momento si susseguono rapidi colpi di scena che porteranno infine alla marcia fascista su Roma.

Qualche giorno dopo, il 13 agosto, il Poeta ruzzolava da una finestra della sua villa ferendosi in modo così grave da non far più ritenere attuabile il pronunciamento del 20 settembre.

Per lungo tempo si è sospettata una qualche responsabilità fascista all'origine di quel grave infortunio, anche perché proprio in quei giorni era ospite di D'Annunzio in veste di stretto collaboratore, Aldo Finzi. Solo grazie alla recente testimonianza della governante della Bàccara, Elena Dell'Acqua si è giunti alla conclusione che si era trattato in realtà di un gesto d'insofferenza da parte della sorella minore della Bàccara, Jolanda che, respingendo con troppa energia la corte di Gabriele, lo aveva fatto precipitare dal basso parapetto su cui si era appoggiato.

Il mattino di quello stesso 13 agosto, a Milano si era riunito un summit del PNF: Direzione del partito, Comitato Centrale, Gruppo parlamentare e vertici della Confederazione sindacale.

Riferendosi ai fatti di Parma, Balbo biasimò aspramente le azioni isolate che avevano ostacolato il suo tentativo di normalizzazione e da ciò venne la proposta di varare un nuovo regolamento delle squadre di tipo militare in vista di una possibile mobilitazione generale; una severa militarizzazione del partito come risposta o affiancamento, secondo le varie prospettive, all'imminente pronunciamento dannunziano.

Il C.C. ristretto cui Balbo si era rivolto, lo autorizzò a ristrutturare su basi prettamente militari le squadre che sarebbero state d'ora in poi guidate da vere e proprie gerarchie militari che avrebbero trasformato le squadre locali in una quadrata milizia di partito.

Mussolini non smise, però, di perseguire uno sbocco politico come la partecipazione a un governo di alleanza o elezioni anticipate. Ipotesi di soluzioni politiche si consoliderà il giorno seguente quando si venne a sapere dell'incidente occorso la sera innanzi al Comandante, insieme alle prime preoccupanti notizie sul suo stato di salute.

Nonostante tutto, poche settimane bastarono a D'Annunzio per riprendersi sicché già il 10 settembre, la Federazione legionari fiumani poteva annunciare la costituzione di un Comitato d'azione sindacale dannunziano con lo scopo di raccogliere:

«… le adesioni spontanee di sindacalisti di gruppi operai che dichiarino di accettare i princìpi della Costituzione del Carnaro riconoscendo come loro capo spirituale il Comandante Gabriele D'Annunzio (…) per realizzare l'unità operaia sulla piattaforma del riconoscimento esplicito della Nazione e della indipendenza da ogni partito». (19)

Con D'Annunzio si rianimava anche la gara fra i suoi legionari e i fascisti per la sfida politica al potere e, in questo contesto, tornava anche a riaffacciarsi il nodo insoluto di Parma a cui si era intanto cominciato a far fronte con la marcia, organizzata da Starace e Farinacci, su altre città parimenti recalcitranti come Trento e Bolzano.

In connessione alle puntate fasciste su Trento e Bolzano, veniva stampato a Parma in quello stesso periodo il primo (ed unico) numero de "l'Ardito del popolo" nel cui editoriale, a firma di Guido Picelli, si chiamavano a raccolta «... tutti gli organismi politici sovversivi», invitati a convegno a Parma in giorno e luogo da stabilirsi in diretta relazione con eventuali minacce squadriste di occupazione della città.

Di là dalla retorica rivoluzionaria o pseudo sovversiva, l'unico articolo di analisi politica del foglio picelliano, "Il fascismo cospetto alla storia", ricalcava l'usuale tormentone del "fiumanesimo tradito" con le solite accuse al fascismo di aver trescato con l'ex neutralista Giolitti il quale… «bombardò e sgozzò Fiume col consenso e l'appoggio di Mussolini» (20) avvalorando con tale prosa una più o meno legittima inclinazione dannunziana dei pretesi "sovversivi".

Sempre a questo proposito, Balbo accenna ad una nota inviatagli a fine settembre da Mussolini, dove il Duce manifestava una certa preoccupazione per la situazione che stava montando a Parma con relativo commento di Balbo: «Evidentemente a Cremona [Mussolini] è stato informato delle assurde conseguenze del patto di pacificazione». (21)

Occorre infatti sapere che il 18 agosto era stato sottoscritto a Parma un patto di pacificazione tra fascisti e le camere del lavoro sindacalista e confederale. Sottoscrissero l'accordo, Alceste De Ambris e Vittorio Picelli -fratello di Guido- per i corridoniani, Simonini per la CGdL e Terzaghi per i fascisti. Ricusarono la pacificazione, che si proponeva di evitare ogni altra violenza a persone o cose, sia gli Arditi del popolo di Guido Picelli che la fazione fascista intransigente legata a Farinacci i cui maggiori esponenti locali vennero per questo espulsi dal partito e la federazione commissariata. Mentre Terzaghi e il nuovo commissario federale, il modenese Enzo Ponzi, favorivano il gioco di Balbo, i farinacciani di Parma si trovavano in piena diaspora non solo a causa dei pesanti provvedimenti disciplinari, ma anche per le denunce e gli arresti seguiti ai disordini precedenti.

Farinacci aveva dunque informato Mussolini, in visita a Cremona, circa la situazione del Fascio di Parma che, a suo dire, era stato scompaginato da Ponzi e Terzaghi i quali non mancavano fra l'altro di trescare con l'infida massoneria locale, mentre i vecchi militanti erano stati emarginati dal partito con espulsioni, denunce, arresti, latitanze per non parlare dello stesso patto di pacificazione che inibiva qualsiasi atto di difesa da quando erano stati delegati a dirimere ogni nuova violenza o controversia gli stessi vertici politici e sindacali che avevano aderito al patto.

Certo è che di questa singolare situazione si era avvantaggiata le sia pur esigua compagine degli Arditi del popolo, i quali arditi potevano ancora agire senza eccessivi vincoli creando così non pochi inconvenienti all'incerto equilibrio politico che si voleva stabilire; inconvenienti che si sarebbero ben più accentuati qualora "sovversivi" di altre città avessero positivamente risposto all'appello di Picelli, per creare a Parma un polo di contrasto alle attività squadriste, un vero e proprio tappo antifascista al centro della Val Padana..

Il rischio più temuto era che potesse crearsi una situazione specularmente opposta a quella già ipotizzata da Mussolini per la marcia su Roma dannunziana del '20 in cui Parma era considerata l'unica città della Val Padana su cui D'Annunzio poteva contare e che, per lo stesso motivo, poteva diventare ora un possibile scoglio all'eventuale azione fascista su Roma.

Il nucleo centrale di Parma era sorto in epoca romana ai bordi della via Emilia, via che tuttora interseca da un capo all'altro la città a cominciare dall'Oltretorrente. Perifericamente, la via Emilia si prestava a essere isolata all'altezza del vecchio e stretto ponte sul fiume Taro ma, più ancora della via Emilia, a preoccupare Mussolini era il possibile sabotaggio alla linea ferroviaria Milano-Roma, linea che, mancando all'epoca di un tratto diretto, doveva deviare in direzione dell'Appennino parmense. Chi da Milano fosse andato a Roma a quel tempo era costretto, una volta giunto a Parma, a prendere la deviazione per Borgo Taro verso La Spezia per poi proseguire sul litorale tirrenico; una stretta e insidiosa linea appenninica che più di ogni altra si prestava egregiamente ad ogni genere di sabotaggio, considerando che il 29 ottobre lo stesso Mussolini vi transitò recandosi a Roma.

Questo spiega le allarmate annotazioni di Balbo datate 29 settembre per «… l'imbarazzante pericolo dei nuclei fascisti a Parma, isola di bolscevismo armato e delinquente, che si ricovera sotto le ali della polizia ed è aiutato da forze oscure della borghesia antifascista. Anche Mussolini giudica la situazione di Parma paradossale e pericolosa per la compattezza dell'Italia centrale. Illustro sommariamente il carattere che dovrebbe avere un'azione fascista su Parma col proposito di stroncare per sempre l'organizzazione sovversiva. Bisogna occupare l'oltretorrente con forze adeguate prima che inizi qualsiasi movimento fascista di larga portata in Alta Italia.Il progetto è approvato e la sua esecuzione rinviata a ottobre». (22)

In ogni caso, rompere il patto di pacificazione con corridoniani e confederali proprio nel momento in cui il Fascio di Parma era in pratica sciolto, lacerato al suo interno e sotto tiro di magistratura e polizia, si prospettava non meno controproducente. Da qui nasce la programmata marcia su Parma, da effettuarsi da parte di squadre dalle provincie limitrofe, qualora l'appello di Picelli fosse stato effettivamente accolto. Se da una parte si minacciava di radere al suolo l'intero Oltretorrente, dall'altra si agiva più sottotraccia agevolando l'infiltrazione nello schieramento avversario dello stesso commissario federale Ponzi il quale, ostentando una grande comunanza ideale con D'Annunzio e massoneria, si era guadagnato la piena fiducia di nittiani e arditi del popolo a cui aveva addirittura promesso di metterli sull'avviso per tempo se e quando fosse stata decisa l'azione squadrista su Parma. (23)

Già dal 7 ottobre, Balbo in persona si aggirava in incognito nei pressi di Parma per cercare di seguire da vicino l'evolversi degli avvenimenti in città. Dichiarerà poi nel "Diario" che l'azione su Parma era stata ormai decisa mancando solo il via di Mussolini, quando l'11 ottobre gli arrivò l'ordine perentorio del Duce di lasciar perdere tutto e tornare urgentemente a Milano, facendo passare così in archivio anche i piani della prevista azione su Parma. (25)

Ma se il "caso Parma" rappresentava realmente un grosso nodo gordiano che doveva essere reciso, perché fu poi improvvisamente accantonato?

È ipotizzabile che Balbo, sia stato rassicurato da Ponzi che il temuto concentramento dei "sovversivi" a Parma era sostanzialmente fallito e i corridoniani -senza l'aiuto dei quali gli arditi rossi ben poco avrebbero potuto fare- si sarebbero attenuti al patto di pacificazione sottoscritto e pertanto venne accantonata, in quanto ormai superflua, l'azione su Parma.

In effetti, il 28 ottobre i fascisti parmensi occuparono gli edifici della prefettura, della questura, delle poste centrali, dei telefoni e la stazione ferroviaria, senza incontrare reazioni organizzate, salvo un blando tentativo -del resto subito rientrato- d'innalzare una barricata nel quartiere Naviglio, mentre nessun incidente era segnalato in Oltretorrente.

Il successivo primo novembre, dopo aver partecipato al corteo della vittoria avviatosi dall'Oltretorrente, Ponzi si recò in visita al quartiere Naviglio-Trinità, in cui c'era stato il tentativo di erigere barricate, per parlare direttamente ai popolani ai quali assicurò che i fascisti di Parma non nutrivano ostilità o spirito di vendetta nei loro confronti. Rassicurata da quel bonario approccio, la folla dei popolani che si era stretta attorno a Ponzi, dopo averlo calorosamente applaudito, lo dirottò in una vicina osteria, noto covo "sovversivo", in cui gli venne offerto pacificamente da bere.

Ponzi a sua volta, per sdebitarsi, invitò popolani ed ex nemici a seguirlo al bar "Centrale", noto ritrovo di fascisti, dove a sua volta offrì generosamente da bere. Il giorno dopo il quotidiano cittadino riportando la cronaca dei brindisi e dei reciproci auguri tra ex avversari, paragonò il loro contegno ai "cavalieri antiqui". (25)

Sempre dalle cronache giornalistiche dell'epoca si apprendono altri curiosi particolari: «... Gli arditi del popolo vanno da Ponzi alla sede del Fascio e, cresciuti notevolmente di numero in una trentina, incolonnati se ne ritornano al loro quartiere. La pace è fatta. Ma quelli dell'oltretorrente [prevalentemente corridoniano] protestano. E noi niente? E allora cercano [lo squadrista] Caramatti. Due di essi lo trovano al [bar] "Centrale" e salutandolo con gesto romano chiedono [e ottengono] lo stesso trattamento degli altri. (26)

Resta infine d'aggiungere che nel giro di poche settimane l'organizzazione degli Arditi del popolo si sciolse volontariamente (27) mentre i corridoniani a partire dal 1923 entrarono, o più che altro, rientrarono, quasi tutti nelle fila fasciste, dalle quali si erano staccati un paio d'anni prima per le note cause, per rimanere da allora e fino alla fine tra i più fedeli all'idea fascista. (28)

Fra i diversi motivi del loro definitivo rientro nell'alveo fascista, oltre al provvedimento mussoliniano istitutivo delle tanto agognate 8 ore di lavoro giornaliere, c'era anche la lotta intrapresa subito dopo la marcia su Roma, dal sindacalista fascista Alcide Aimi, nei confronti della potente e influentissima Associazione Agraria locale che, in effetti, fu sconfitta e debellata in pochi anni (29) riscattando in tal modo lo smacco subito dai sindacalisti parmensi nello storico sciopero agrario del 1908 personalmente diretto da Filippo Corridoni.

 

Franco Morini       

 

NOTE:

 

(1) Cfr. Risposta di Mussolini al secondo schema dannunziano in appendice a R. De felice "Mussolini il rivoluzionario 1883-1920" Ed. Einaudi 1965, pp. 756-759.

 

(2) Cfr. A. Fraschini "Il primo comizio pubblico fascista" in "Il Popolo d'Italia" del 9 giugno 1934.

 

(3) Alle accuse d'ignavia di fronte al "Natale di sangue" fiumano, Mussolini così replicava dalla tribuna del convegno regionale dei Fasci tenutosi a Trieste il 6 febbraio 1921: «Così oggi in Italia incontrate due categorie d'individui: gli uni, tipo Malagodi o Papini che rimproverano D'Annunzio di essere sopravvissuto alla tragedia fiumana [nella sua allocuzione ai fiumani del 5 dicembre, D'Annunzio aveva concluso con un'apocalittica promessa non mantenuta: "Ma se questo non potessimo ottenere, se non potessimo superare l'iniquità degli uomini e l'avversità delle sorti, io vi dico sul mio onore di soldato e di marinaio italiano che fra l'Italia e Fiume, tra l'Italia e la Dalmazia, resterà per sempre il mio corpo insanguinato"] e altri che rimproverano a Mussolini di non aver fatto quella piccola cosa che si chiama "rivoluzione". Io ho sempre disdegnato gli alibi vigliacchi, coi quali e pei quali, in Italia -deficienze, impotenze, rancori e miserie- ci si sfoga su teste di turco reali o immaginarie. I Fasci di Combattimento non hanno mai promesso di fare la rivoluzione in Italia, in caso di attacco a Fiume, e specialmente dopo la defezione di Millo. Io poi, personalmente, non ho mai scritto o fatto sapere a D'Annunzio che la rivoluzione in Italia dipendeva dal mio capriccio. Non faccio bluff e non vendo fumo. La rivoluzione non è una "boite à surprise" che scatta a piacere. Io non la porto in tasca e non la portano nemmeno coloro che del suo nome si riempiono la bocca incessantemente e all'atto pratico non vanno oltre il tafferuglio di piazza dopo la dimostrazione inconcludente, magari col provvidenziale arresto che salva da guai peggiori. Conosco la specie degli uomini. A guerra iniziata tra Caviglia e Fiume, o c'era la possibilità di scatenare grandi cose o, altrimenti, per un senso di pudore, bisognava evitare l'eccessivo vociare e le sparate fumose, dileguate subito senza traccia e senza sangue». (B. Mussolini, "Scritti e discorsi 1934", vol. II pag. 145).

 

(4) Il 27 giugno 1921 dalla scissione interna guidata da Argo Secondari nell'Associazione Arditi di Roma nascono ufficialmente gli Arditi del popolo. Qualche giorno dopo, il 13 luglio, il Consiglio nazionale dei Fasci approvava il seguente ordine del giorno: «Il Consiglio Nazionale dei Fasci Italiani di Combattimento denuncia al Paese e alle organizzazioni fasciste la subdola nefasta azione di Nitti e della plutocrazia demagogica ed antinazionale di cui sono frutto la costituzione degli Arditi del Popolo, le nefande campagne del "Paese" [giornale nittiano] e le oblique manovre tentate per dividere i legionari e gli arditi dai fascisti e di cui sono segni indubitabili gli avvenimenti recenti di Roma e del Lazio ove con aperta menzogna si affermano provocazioni fasciste mai avvenute» (G. A. Chiurco, "Storia della rivoluzione fascista", vol. III 1921 - Ed, Vallecchi 1929, pag. 441). Affatto dissimile, da parte opposta, l'analisi di Ruggero Grieco in replica ad un articolo di "Kommunistische Internationale" a favore degli Arditi del popolo: «… non ci sono quasi comunisti nelle file degli Arditi e i pochi che ancora vi si trovano ne usciranno tosto e questi in base a decisioni prese dal Comitato esecutivo del partito. Non si tratta del desiderio di isolare i comunisti da un movimento di massa e nemmeno un sentimento d'intransigenza aprioristica ad averci indotto a prendere una disposizione di questo tipo (…) nel marzo di quest'anno [1921] a Roma vide la luce il quotidiano "Il Paese", organo di Nitti l'aspirante alla successione di Giolitti, e questo giornale era il solo nell'Italia centrale e meridionale a volgersi in maniera ardita contro il fascismo. Improvvisamente in luglio apparvero dei gruppi organizzati militarmente che si denominavano "Arditi del Popolo" dichiarando di voler lottare contro il fascismo (…) Il proletariato di tutta Italia si univa attorno a questa organizzazione e in molte città si costituirono organi analoghi in cui si univano comunisti, socialisti, anarchici, repubblicani, persino popolari; per un momento sembrava che il fascismo andasse in rovina, "Il Paese" sostenuto da "Epoca", un altro giornale di Nitti, rafforzò la sua campagna e il ministero Giolitti cadde. Contemporaneamente cadde tutto il segreto che aveva prima coperto la fondazione degli Arditi e si venne a sapere che doveva ringraziare Nitti della sua nascita, che aveva per obiettivo di dare vita ad un movimento contro i fascisti e quindi contro Giolitti. Il capo dell'organizzazione Argo Secondari, ex tenente volontario di guerra, interventista e dannunziano, è diventato noto lo scorso anno per una congiura militare il "complotto di Pietralata", in cui è stato compromesso; accusato pubblicamente di essere un agente di polizia non ha ritenuto di giustificarsi; tutto questo dà un'idea della organizzazione da lui diretta» (R. Grieco, "Scritti scelti", Roma 1966 vol. I, nota pag. XXIII).

 

(5)sarebbe erroneo ritenere che il contrasto di D'Annunzio col fascismo fosse di indole ideologica. D'Annunzio era antidemocratico e antiparlamentare quanto, e forse più di Mussolini (A. Répaci, "Sessant'anni dopo", Ed. Rizzoli 1982, pag.53)

 

(6) Cfr. G. Vannoni, "Massoneria, fascismo e Chiesa cattolica", Ed. Laterza 1979, pag 75.

 

(7) Cfr. A. Albertini, "Vita di Luigi Albertini", Ed. Mondadori 1945, 209.

 

(8) D'Annunzio era stato iniziato alla massoneria dal maestro venerabile ing. Attilio Prodam presso la loggia massonica "XXX Ottobre" di Fiume (Cfr. ACS-Ministero Interno Dir. Gen. Di P.S. - div. Affari generali e riservati 1928, pacco n.179 cat. 2 e 3).

 

(9) Accogliendo una delegazione capeggiata De Ambris, recatasi il 6 agosto 1922 a Gardone per riferire sulle recenti vicende barricadiere di Parma, il Poeta informò i vari delegati sulla sua intenzione «… di indire a Roma una grande adunata di combattenti di tutti i partiti, per ristabilire l'ordine pur conservando il regime parlamentare giacché si faranno le elezioni regolari e libere dopo tre mesi di dittatura» (A. Tasca, "Nascita e avvento del fascismo", Bari 1974 vol. II, pag. 418). Sullo stesso episodio, il Répaci mette in bocca a D'Annunzio ben altri concetti: non elezioni bensì un plebiscito imperniato sulla sua persona: «… sono stato sollecitato anche dai conservatori e ho rifiutato. Solo i combattenti possono ribaltare la situazione. Mi propongo di convocarli in una grande spianata, là li interpellerò e li inviterò a seguirmi. Allora coi miei vecchi soldati, mi impadronirò del potere. Tre mesi dopo, con un largo libero plebiscito, farò appello al Paese e gli chiederò di eleggere un Parlamento, espressione diretta della volontà del popolo al di sopra del gruppo fascista e dei partiti» (A. Répaci, Op. cit. pag. 55).

 

(10) D'Annunzio aveva incaricato Tom Antognini nell'aprile del 1922 di sondare Mussolini sulla possibilità di una eventuale intesa politica. Secondo l'Antognini, questa fu la risposta di Mussolini: «Caro Antognini, lei si sforza con la sua dialettica di farmi digerire le vedute politiche e le teorie paradossali del suo maestro. In realtà io credo relativamente in lui … in questo campo, si capisce, come del resto egli non crede a me né in me, il che è ancora peggio. I nostri temperamenti sono antitetici. In troppe cose siamo lontani per poterci intendere» (T. Antognini, "Un segreto di Palazzo Venezia" in "l'Epoca" n. 265 del 10 gennaio 1953).

 

(11) Se i fascisti nel periodo considerato non ebbero a registrare alcuna perdita nell'area cittadina delle barricate, in provincia si contarono alcune vittime: un contadino che non aveva aderito allo sciopero ucciso sulla strada di Sala Baganza mentre si recava a consegnare un carico di pomodoro a una vicina industria alimentare e uno squadrista modenese, inviato la notte stessa a recuperare con altri la salma del contadino ucciso, colpito da una fucilata mentre nei pressi di Sala Baganza sostava davanti a una fontana (Cfr. "Per l'Italia - I Caduti della causa nazionale 1919-1932", Ed. Campo di Marte 2002; si veda pag. 12 alla voce Amadei Odoardo e pag. 169 alla voce Tanzi Ettore). Da parte barricadiera si contarono ufficialmente cinque morti in prevalenza vittime delle armi malamente utilizzate all'interno dei quartieri trincerati. Stando alla cronaca giornalistica dell'epoca «… i fascisti secondo gli ordini ricevuti, non hanno risposto ai colpi di fucile. Si sono uditi pochi colpi, ma verso l'alba, un po' smorzata dalla lontananza, è stata sentita crepitare intensissima la fucileria. Si è dapprima creduto che una squadra dispersa fosse stata assalita verso la campagna, ma si è saputo oggi invece che i sovversivi presi dal panico si sono uccisi fra loro in un urto cruentissimo. Vi sarebbero tre morti e vari feriti» (T. Pedrazzini, "I rivoltosi a Parma sono tutt'ora padroni nell'Oltretorrente", in "Il Resto del Carlino" del 6 agosto 1922, pag. 1).

 

(12) U. Sereni, "D'Annunzio, De Ambris e il caso Parma", in Gazzetta di Parma del 19 ottobre 1985.

 

(13) I. Balbo, "Diario 1922", Ed. Mondadori 1932, pag. 113.

 

(14) Cfr. G. Bottioni, "La nascita del PCI a Parma: 1921-1926". Pubblicazione fuori commercio a cura della Biblioteca "U. Balestrazzi" Parma - Collana Studi e ricerche n. 2 - s.d. - pag. 124.

 

(15) G. Valla, "La smobilitazione fascista - La testimonianza di un protagonista", in "Gazzetta di Parma" del 5 agosto 1972.

 

(16) I. Balbo, Op. cit. pag. 125.

 

(17) «Nell'estate del 1922, vengono intrecciati una serie di contatti fra Nitti, Mussolini e D'Annunzio, su iniziativa dello stesso Nitti, per gettare le basi di un accordo che sancisse la pacificazione fra i tre». (F. Perfetti, op. cit. pag. 146).

 

(18) Stando al De Felice, l'anno indicato dal Tamaro circa l'incontro di Gardone fra Balbo, Grandi e D'Annunzio, non è attinente essendosi svolto l'incontro, a suo dire, nell'agosto del 1921 (Cfr. R. De Felice, "Mussolini il fascista", Ed. Einaudi vol. I, nota n.3 pag. 151). L'obiezione avanzata da De Felice prende corpo dalla tarda autobiografia compilata da Grandi con la supervisione e la prefazione del De Felice stesso e ove effettivamente, pur confermando l'episodio in questione, questo viene retrodatato al 1921 e inserito all'interno dello scontro che nell'agosto di quell'anno oppose Grandi e Balbo a Mussolini per le antitetiche valutazioni concernenti il patto di pacificazione sottoscritto con i socialisti e a cui si erano tenacemente opposti vari ras veneti, toscani e padani. Di conseguenza, il 16 agosto si erano riuniti a Bologna i rappresentanti dei vari Fasci che si opponevano alle aperture mussoliniane ai socialisti. A fronte di questa sedizione interna, Mussolini rassegnava le dimissioni dalla Commissione esecutiva del C.C. dei Fasci e, anche in rapporto a quel fatto, i convenuti a Bologna approvavano un O.d.G. che autorizzava Grandi e Marsich di recarsi da D'Annunzio a Gardone «… per esporgli le rinnovate direttive del fascismo» (D. Grandi, "Il mio Paese - Ricordi autobiografici", Ed. Il Mulino 1985, pag. 147).

Da qui la presunta idea di Grandi e Balbo, di subordinare il fascismo non più al dimissionario Mussolini ma a D'Annunzio affinché il Poeta «… prendesse il comando dei Fasci e li trascinasse alla vittoria». (A. Tamaro, "Venti anni di storia 1922-1943", Ed. Tiber 1953 vol. I, pag. 236).

Solidale con Mussolini, Cesare Rossi si era pure dimesso da vice segretario dei Fasci con una lettera in cui si dichiarava «… disgustato dall'ondata degli ultimi venuti nel movimento, quando il nemico batteva in ritirata; molti fra gli accorsi nell'ora del successo erano vecchie cariatidi delle consorterie clerico-agrario-conservatrici paesane, frettolose di accanirsi contro le conquiste sociali del lavoro, il diritto di sciopero, di riunione e di stampa. Altro che Carta del Carnaro; si stava cercando di retrocedere oltre lo Statuto albertino» (G. Pini-D. Susmel, "Mussolini l'uomo e l'opera", Ed. La Fenice 1973, vol. II, pag. 134.)

Effettivamente gli oppositori interni a Mussolini ben rappresentavano quel blocco agrario-squadrista inaugurato da Balbo dopo che, nel febbraio del '21, era traghettato dal partito repubblicano alla guida del Fascio di Ferrara, sostenuto e finanziato dall'Agraria locale. Sembra quindi piuttosto fuori luogo la sola ipotesi di chiamare D'Annunzio a capo dello squadrismo agrario in opposizione ai socialisti quando, secondo la testimonianza del fascista fiumano Giovanni Giuriati, il patto di pacificazione con i socialisti sarebbe stato suggerito a Mussolini dallo stesso D'Annunzio (Cfr. P. Alatri, "D'Annunzio", Ed. UTET, pag. 497).

In tutti i casi, la Commissione esecutiva dei Fasci appositamente convocata a Firenze il 19 agosto, respingeva a larga maggioranza le dimissioni di Mussolini confermando inoltre la piena validità del patto di pacificazione, tramite il seguente O.d.G.: «Considerando che il trattato di pace fu stipulato per quasi unanime deliberazione del Consiglio nazionale, unico ente preposto a segnare le direttive del Fascismo, considerando che non possono ammettersi dissensi dalle deliberazioni prese a maggioranza del Consiglio nazionale cosicché è fatto obbligo a tutte le sezioni di applicare ed eseguire lealmente le clausole del trattato di pace; considerando che solo il Congresso nazionale [tenuto il successivo novembre al Teatro "Augusteo" di Roma] dovrà competere il diritto di rilevare le varie tendenze idonee a determinare i dissidenti a scegliere la propria via all'infuori delle direttive della maggioranza; si respingono le dimissioni di Benito Mussolini, il quale ha dato nel presente momento, come sempre, inequivocabile prova di elevato sentimento di disciplina, rivolgendo vive premure allo stesso di voler ritirare le dimissioni» (G. A. Chiurco, op. cit. pag. 504).

Ciò premesso, se l'incontro con D'Annunzio fosse effettivamente avvenuto nel 1921, avrebbe dovuto aver luogo entro la limitata finestra temporale del 17-19 agosto,ovvero tra il convegno di Bologna e l'O.d.G. della Commissione esecutiva. Taluni hanno provato a far luce sulla più probabile collocazione dell'incontro: G. B. Guerri, ad esempio, prospetta questa deduzione: «Tamaro indica [trascurando l'anno] la data errata del 9 agosto; anche De Felice non la situa esattamente: dai documenti del fascio ferrarese risulta che Balbo non tornò a Ferrara fino al 22 agosto, quindi l'episodio deve essere avvenuto fra il 19 e il 21 (G. B. Guerri "Italo Balbo", Ed. Vallardi 1984, nota 14 a pag. 102). Il Guerri non tiene però conto che se l'ipotetico episodio fosse avvenuto nell'intervallo da lui indicato, ogni possibile accordo col Poeta sarebbe stato vanificato in partenza dalle direttive dell' O.d.G. del 19 agosto.

D'Altra parte quando Guerri compilò la nota, non poteva essere al corrente di ciò che Grandi scriverà in proposito nella sua autobiografia data alle stampe l'anno dopo: «Conformemente alle deliberazioni del convegno dei fasci del 16 agosto 1921, io mi recai accompagnato da Balbo, il 14 settembre 1921, a Gardone da Gabriele D'Annunzio. Il poeta ci accolse gentilmente e ci ascoltò, ma la sua risposta fu vaga, distratta, deludente. Era chiaro che il comandante della marcia su Ronchi e la vittima dell'olocausto di Fiume intendeva rimanere estraneo ai progetti insurrezionali degli accesi leaders della valle Padana» (D. Grandi, op. cit. pag. 151).

Nell'autunno del '21 non sussistevano oggettive prospettive rivoluzionarie o insurrezionali da parte fascista o dannunziana, contrariamente all'anno seguente allorché, dopo aver metodicamente sistemato gran parte dei lavori nella sua villa di Cargnacco, villa alla quale dedicò gran parte delle sue energie per tutto il 1921, D'Annunzio sempre più incalzato da varie forze esterne, iniziò a considerare possibile un suo più incisivo ruolo nella deteriorata situazione politica italiana.

In sintesi: se l'incontro citato dal Tamaro è avvenuto -e che si sia verificato lo conferma anche Grandi- non può essersi realizzato che nel 1922.

L'incontro di metà settembre indicato da Grandi è palesemente sviante poiché, se c'è stato, rientrava comunque in un complesso di cerimonie fasciste dedicate alla ricorrenza della marcia su Ronchi del settembre 1919 (Cfr. G. A. Chiurco, Op. cit. vol. III pag. 520) da cui anche il plausibile omaggio personale al Comandante da parte di Grandi e Balbo. Incontro, questo, che in ogni caso non aveva alcun rapporto diretto con l'iniziativa dei Fasci dissidenti che si erano riuniti a Bologna il mese prima e le cui deliberazioni erano state prontamente censurate dalla Giunta del C.C. L'iniziativa d'agosto di rapportarsi a D'Annunzio non ebbe pertanto alcun seguito, anche perché in quel periodo Grandi e Balbo rappresentavano poco più di se stessi in quanto ambedue da poco pervenuti al fascismo e privi in quel momento di carche di partito, cariche che assumeranno invece l'anno dopo quando entrarono a far parte della Direzione nazionale proprio mentre Mussolini, al contrario, al congresso dell'Augusteo aveva ricusato ogni carica ufficiale nel partito affermando che: «nella nuova organizzazione io voglio sparire, perché voi dovete guarire del mio male e camminare da voi» (B. Mussolini, "Scritti e discorsi", Ed. Hoepli 1934, vol. II pag. 206). Evidente il maldestro tentativo di Grandi di mescolare i vari fatti per accordarli ai relativi personaggi, facendo persino ammalare Marsich al fine di poterlo così sostituire con Balbo nell'incontro dannunziano del settembre 1921. Dispiace per Grandi che la cronaca registri in quei giorni l'arresto a Venezia del preteso infermo Marsich, nel corso di violenti tafferugli (Cfr. G. A. Chiurco, op. cit. vol. III, pag. 522).

Si capisce allora perché lo storico Denis Mack Smith alla morte di Grandi lo ricordò con un suo articolo intitolato "Grandi, quel gran bugiardo" (Cfr. "Corriere della Sera" del 24 maggio 1988).

Ad ogni buon conto, per dirimere ogni residuo dubbio circa il fatto in oggetto, segnaliamo un'ultima e definitiva contraddizione: alla tentazione di disfarsi di Mussolini a favore di D'Annunzio da parte del trio massonico Grandi-Balbo-Marsich nell'agosto del '21, si deve aggiungere che lo stesso disegno proseguì invariato fino al marzo del '22 quando, in occasione di un viaggio all'estero di Mussolini, i tre congiurati, ai quali si era unito nella circostanza anche il generale massone Capello, già si erano accordati per una specie di 25 luglio anticipato con D'Annunzio al posto di Badoglio. In tale occasione Mussolini, avuto sentore della manovra in atto ai suoi danni, interruppe il viaggio rientrando precipitosamente dalla Germania, riuscendo a sventare il complotto (Cfr. A. Tamaro, op. cit. vol. I, pag. 219).

Quest'ulteriore episodio sarebbe del tutto incoerente, considerando i partecipanti, qualora si fosse effettivamente svolto dopo la frustrante esperienza di Grandi e Balbo a Gardone. Se invece s'inverte la sequenza dei fatti riportandoli ambedue al 1922, le varie sequenze si collocano in modo ben più conseguente e lineare.

 

(19) Nel settembre [1922] vi fu un abboccamento fra il segretario della Federazione legionari fiumani Eno Mecheri e i dirigenti dell'Associazione combattenti in vista del pronunciamento dannunziano del 4 novembre (G. Vannoni, op. cit. pag. 75).

 

(20) S. Motta, "Il fascismo al cospetto della storia", in "L'Ardito del Popolo" n. 1 dell'1 ottobre 1922.

 

(21) I. Balbo, op. cit. pag. 158.

 

(22) I. Balbo, op. cit. pag. 159.

 

(23) Cfr. G. Valla, art. cit.

 

(24) Nella riunione di Milano del 16 ottobre in cui fu decisa l'azione su Roma, stando al memoriale compilato nel dopo guerra dall'ex quadrunviro De Vecchi, Mussolini si sarebbe così espresso: «L'atto rivoluzionario della marcia su Roma o si compie subito o non si farà più. Il tempo è maturo e il governo è marcio. Lo spettro di Giolitti viene avanti pian piano e voi sapete che con Giolitti al potere è meglio pensare ad altro. Mi risulta che alcuni collaboratori di Facta meditano una clamorosa riconciliazione fra Giolitti e D'Annunzio. L'abbraccio nelle loro intenzioni dovrà avvenire sull'altare della Patria alla presenza di mutilati ed ex combattenti. Non occorre una mente profetica per capire che un simile gesto teatrale fin che volete, ma innegabilmente importante, darà a Giolitti nuova forza. Noi dobbiamo agire prima che ciò si verifichi» (C. M. De Vecchi Val Cismon, "Mussolini vero", Memoriale in varie puntate, pubblicato nel novembre 1959 dal periodico "Tempo"). A ulteriore conferma si veda anche R. De Felice in "Breve storia del fascismo" dove a pag. 16 è riportata una frase ugualmente indicativa riferita a Mussolini nella riunione riservata del Consiglio del PNF tenutasi a Napoli il 24 ottobre 1922: «Bisogna impedire a Giolitti di andare al governo. Come ha fatto sparare su D'Annunzio, farebbe sparare sui fascisti».

 

(25) "Le dimostrazioni fasciste di ieri" in "Il Piccolo" del 2 novembre 1922.

 

(26) "Giornata storica" in "Gazzetta di Parma" del 2 novembre 1922.

 

(27) «Il Direttorio degli Arditi del Popolo, esaminata la situazione creatasi in Italia dopo l'avvento del fascismo al potere, dichiara sciolto l'organismo di Parma e Provincia. Tutti gli iscritti perciò sono da questo momento liberi da ogni impegno» ("Il Piccolo" del 14 dicembre 1922).

Gli Arditi del popolo, in quanto organizzazione nazionale si era già esaurita pochi mesi dopo la fondazione, quando nell'ottobre del '21 «… i Prefetti di tutta Italia poterono annunciare che l'Associazione era ormai sconfitta e pressoché inesistente» (F. Cordova "Arditi e legionari dannunziani", Ed. Marsilio 1969, pag. 107). La fulminea parabola discendente degli AdP era dovuta a più fattori interni ed esterni: contrasto ai vertici, accuse d'indebita appropriazione di finanziamenti e sottoscrizioni, la presa di distanza di socialisti e comunisti; una presa di distanza trasformatasi poi per i comunisti in vera e propria contrapposizione. Già nel patto di pacificazione tra fascisti e socialisti dell'agosto 1921 all'art. 5 il PSI si dichiarava estraneo all'organizzazione e all'opera degli AdP. Solo a Parma, grazie a Guido Picelli, gli AdP restarono sulla breccia della politica cittadina anche se ciò costo l'inevitabile scomunica del PSI nei confronti del suo deputato Picelli. Nel settembre del '22, Picelli chiese l'iscrizione al PCdI che venne respinta «… perché il suo movimento [AdP] è a carattere unitario e non puro» (G. Bottioni, op. cit. pag. 119). Il passaggio di Picelli al PCdI si verificò al principio del 1923, dopo che si era sbarazzato dell'organizzazione locale degli AdP come condizione necessaria per la sua iscrizione al partito comunista.

 

(28) «Sabato 11 agosto [1923] in un locale di Barriera Garibaldi si sono incontrati una cinquantina di sindacalisti corridoniani di Barriera Garibaldi-San Leonardo per deliberare la loro adesione al fascismo. La riunione era stata preparata da Salvatore Sorbi e da Giuseppe Compiani. Alla fine della riunione veniva mandato un telegramma a Mussolini con l'OdG approvato. Il telegramma era firmato da Guido Bia, Primo Balestrazzi, Giuseppe Compiani, Adamo Riva e Severino Benini» (in "La Fiamma" del 15 agosto 1923).

 

(29) «… dopo aver combattuto contro la "sinistra" demagogica e bestiale, dobbiamo lottare contro la "destra" gretta e reazionaria (…) Siamo insorti implacabilmente contro il proletariato che in fondo non aveva che una colpa: aver creduto ai propri capi che invece erano se non dei buffoni e dei ladri. Perché non dovremmo insorgere contro la borghesia che se lo potesse, e tenta ogni giorno di farlo, ci pugnalerebbe alla schiena? (...) sovversivi e reazionari, agrari gretti e borghesi, preti e massoni, il vostro patto di vigliaccheria per combattere il Fascismo è destinato a fallire» (D. Fossa, "Fronte unico antifascista" in "La Fiamma" n. 56 del 14 luglio 1923). Il riferimento antimassonico evidenzia il cambio della guardia nella federazione parmense, dei primi mesi del 1923, a seguito della pronuncia antimassonica del Gran Consiglio. Ponzi risultava fortemente invischiato nella loggia massonica parmense anche se vi aveva aderito su probabile sollecitazione di Balbo con lo scopo di controllare dall'interno i vari esponenti favorevoli al pronunciamento dannunziano. Questo si coglie dalle sue dichiarazioni difensive pubblicate da "La Fiamma" del 17 febbraio 1923 dove, a chi lo accusava di aver trescato con forze avversarie a danno degli stessi fascisti, egli replicava che eseguiva «... degli ordini per cui non poteva permettere si adottassero i metodi del passato». A seguito dell'allontanamento di Ponzi da Parma, erano state condonate le sanzioni disciplinari da lui inflitte e anche i radiati erano stati pienamente riammessi nel partito dopo la visita ispettiva condotta a Parma da Farinacci a dimostrazione della persistente e non più sanata frattura locale tra i vari seguaci dei ras di Cremona e di Ferrara.
        

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