Italia - Repubblica - Socializzazione

 

Ancora sul 25 aprile ...

 

Giorgio Vitali
 

 

L’imminenza della data con la quale da mezzo secolo si "festeggia" un’ipotetica "liberazione" dell’Italia, non si sa bene da chi, (notare come troppo spesso si sorvola il nome o i nomi delle "potenze" dalle quali saremmo stati liberati, per cui il concetto va acquistando una sempre più marcata astrattezza) è stata caratterizzata da un ritorno d’interesse (peraltro del tutto scemato nel gran pubblico, dal dopoguerra ad oggi quasi sempre assente alle manifestazioni di parte) per cui ne vediamo gli echi sui Media a causa innanzitutto dell’uscita di alcuni libri di critica, eppoi delle probabili manifestazioni programmate per festeggiare la vittoria del centro sinistra sulla compagine berlusconiana. I libri di critica sugli avvenimenti che comunemente vanno sotto il nome di resistenza sono, per chi avesse voglia di comprarli, i seguenti:
"La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano" di Filippo Focardi, Laterza, 2005, € 20.00; "25 aprile. La competizione politica sulla memoria" di Roberto Chiarini. Marsilio, 2005, € 9.00; "La resistenza spiegata a mia figlia" di Alberto Cavaglion. L’ancora del Mediterraneo, 2005, € 9.00. A questi oserei aggiungere, il recente libro di Gianni Oliva: "L’alibi della Resistenza", Mondatori e dello stesso autore "Le tre Italie", Mondatori 2004. Infine, sull’argomento, fra molti altri volumi che potrei citare, vale la pena di leggere il recente libro di Carlo Mazzantini "L’ultimo repubblichino" con due sottotitoli interessanti: "Sessant’ anni son passati" e "Io c’ero e non mi sono scordato nulla". [Di quest’ultimo autore ricordo le sue reiterate dichiarazioni secondo cui la maggioranza dei giovani che aderirono volontariamente alla Repubblica Sociale non erano fascisti. Posso convenire con lui su quest’assunto, ma occorre ricordare che è la partecipazione ad un evento storico che qualifica le persone. Soprattutto se la lotta nella quale ci si trova ad un certo punto invischiati assume i caratteri inconfondibili di lotta ideologica e molto spesso di religione. Nessuno oggi andrebbe a ricercare se chi combatté e s’immolò a Waterloo era un bonapartista convinto. La stessa questione si pone per tutti coloro che hanno partecipato ad un qualsiasi evento di carattere storico].

Connotazioni del mito resistenziale.
Il mito resistenziale si sviluppa negli anni settanta, in conseguenza di una serie di eventi cui non sono estranei tanto le agitazioni del sessantotto quanto la guerra israelo-palestinese. Prima degli anni settanta, il mito resistenziale era trascorso in sordina per molte ragioni tra cui: la vicinanza dell’evento non permetteva di enfatizzare più di tanto un dato storico su cui oggi si può ricamare quanto si vuole proprio perché quei due anni di guerra risultano schiacciati in una dimensione irreale nell’immaginario collettivo dei giovani che ne sanno qualcosa soltanto attraverso libri scolastici molto riduttivi, film, sceneggiati. Pochi ne hanno coscienza critica. Un’altra ragione era senza ombra di dubbio la politica del partito egemone, la Democrazia Cristiana, che aveva conservato, direi meglio salvaguardato, buona parte della legislazione fascista, in primis quella di carattere sociale, e la cui classe dirigente era composta per lo più da elementi della piccola-media borghesia cattolica che aveva assecondato il regime dopo il concordato. A dire il vero, anche il PCI aveva assorbito una parte dei repubblichini più sbilanciati verso sinistra, nel segno della continuità della politica ostile agli Atlantici, per cui era giocoforza non sbilanciarsi troppo, come ricorda su "Il Domenicale" del 9 aprile scorso Giuseppe Parlato, autore di una essenziale opera sul fascismo di sinistra, in un articolo dal titolo: "25 aprile. Una data strumentalizzata che non può fondare una nazione". Il mito resistenziale, lo è stato scritto più volte, nasce quindi in un momento di particolare fragilità politica, per trovare un elemento comune su cui fondare una "nuova Italia" capace di sorvolare sul passato e collocarsi fra le "democrazie" avanzate.
Ma si tratta di un tentativo ampiamente fallito, come possiamo vedere dalla crisi del sistema, che si trascina da decenni, mentre la classe politica che si richiama a quel mito è sempre più delegittimata e viene tollerata dalla solita passività degli italiani. Né possono rivitalizzarla alcuni tentativi mediatici. (Ultimo fra tutti la fiction televisiva dedicata a Cefalonia). Come ho scritto più volte, il popolo vuole condividere storie che narrano di eroi vincenti, non di "eroi" malgrado loro, che perdono in maniera deludente.
A Cefalonia, ad esempio, gli italiani avevano una schiacciante superiorità di uomini rispetto ai tedeschi, ma appunto erano del tutto demotivati a causa del vergognoso armistizio di cui sentivano di doverne "malgrado tutto" pagare le conseguenze. E le conseguenze, come sempre in questi casi, sono tragiche. Pertanto, qualsiasi cosa si possa dire o scrivere contro tedeschi e fascisti del pre e post 25 luglio, e ce n’è davvero molto, siamo i primi a saperlo ed ammetterlo, nessun popolo sarà mai disposto ad accettare il fondamento dell’unità nazionale sul tradimento e la diserzione. E questa è stata e continua ad essere la vera condanna storica dell’Italia post-resistenziale. La storia infatti non condanna mai per giudizi morali, ma col silenzio. Ed il silenzio (la mancanza di interesse) avvolge il concreto evento storico resistenziale, (come dimostra il caso del vero capo della resistenza, sul quale è uscito solo recentemente un libro, e di cui taceremo il nome per puntiglio) mentre l’interesse è sempre vivo per i fatti della Repubblica Sociale Italiana, in qualunque maniera essi vengono narrati.

Eccessiva importanza al fenomeno resistenziale.
Da quanto scritto finora sorge spontanea la constatazione che i libri ai quali ho fatto riferimento, i quali mettono in discussione i rapporti fra gli esponenti dei partiti costituenti il CLN per contrastare la finora vantata egemonia del PCI, non possono portare a risultati consistenti per la semplice ragione, e non intendo fare una battuta di spirito, che il CLN in realtà non contava nulla. Era un semplice trait d’union fra gli eserciti vincenti e la classe dirigente borghese (industriali in testa) che si apprestavano a gestire il dopoguerra secondo gli assetti politici previsti dai futuri padroni. E la transizione sarebbe stata del tutto tranquilla (come in sostanza è successo, mattanza di social-repubblicani a parte, che però non ha minimamente toccato la grande borghesia del Nord che aveva ampiamente approfittato della guerra) se non ci fosse stato il gappismo comunista interessato a creare non solo un contrasto tra fascisti (considerati espressione della borghesia!) e classe dirigente borghese, ma anche la sparizione [e di ciò ancora troppo poco si scrive] delle formazioni spontanee di trotzkisti ed anarchiche similmente ad identici comportamenti tenuti durante la guerra civile spagnola, fatte fare a pezzi dalla reazione fascista e tedesca quando non eliminati direttamente dalle formazioni garibaldine, come ampiamente documentato dallo storico torinese Gremmo, da me più volte citato. L’inconsistenza del fenomeno "partigiano" è dimostrata da moltissimi elementi che nel tempo si aggiungono a precedenti informazioni. Per citarne alcuni: fuori dei confini d’Italia il fenomeno è del tutto ignorato; secondo l’opinione corrente l’Italia ha continuato a battersi con il Tripartito fino alla fine del conflitto. Defezione savoiarda a parte. Nell’importante testo di Ezio Cecchini, "Storia della guerriglia", Mursia, 1990, libro di 369 pagine, alla guerriglia partigiana italiana sono dedicate sei pagine, contro un numero identico per i Mau Mau in Kenya, nove all’Indocina, sei a Cipro, dodici all’Algeria, e così via.
Va peraltro ricordato che l’Italia era per i tedeschi un luogo di riposo cui venivano inviati i militari che erano stati piuttosto provati al fronte dell’Est. A seguito dello sbarco in Normandia, l’Italia fu ulteriormente sguarnita di truppe,tanto era grande la preoccupazione dei comandi germanici per la guerriglia italiana. Va inoltre ricordato che uno dei responsabili dell’ingrandimento del fenomeno partigiano è stato proprio Kesselring, il quale al processo a lui intentato per le stragi compiute dalle sue truppe addusse a propria giustificazione la necessità di salvaguardare i propri uomini di fronte all’imponente fenomeno partigiano. D’altronde il fenomeno di rigonfiamento del numero dei "patrioti" a guerra finita fu incentivato dai governi del dopoguerra per chiedere un miglior trattamento nel trattato di pace. L’inconsistenza storico-politica del fenomeno partigiano (utilizzato dagli Atlantici finché serviva) è ulteriormente dimostrata dall’immediata liquidazione a guerra compiuta. Giorgio Bocca, costretto, dopo cinquant’anni a rimasticare amaro, costretto inoltre a scrivere di "resistenza tradita", così si esprime su "L’Espresso" del 7 aprile scorso: «L’alleanza democratica che aveva funzionato durante la guerra fu affossata, i comunisti sistemati in un’opposizione senza alternativa, i partigiani cacciati dalla polizia e dall’esercito, le prefetture e le questure in mani fidate». [Per non dire di "Stay behind" ed altri organismi escogitati dagli apportatori delle libertà].
Capisco il disappunto del vecchio "resistente" ma vorrei fargli capire che, se le questure e le prefetture furono messe in mani fidate (evidentemente dagli Atlantici, che lui tanto ammirava e, sotto sotto continua ad ammirare, per i quali aveva preso a scarpinare per le montagne a guerra pressoché finita) ciò significa che la partigianeria rappresentava solo una minima parte del paese, e non era quella "rivolta di popolo" su cui tanto si è favoleggiato e speculato. Salvo prova contraria, quando si vince si prende anche il potere. Come han fatto i Vietcong in Vietnam, gli algerini in Algeria; altrimenti si è solo una pedina nelle mani di altri.
Per cui mi sovviene di uno dei capitoli del grande libro di Enrico De Boccard, "Donne e mitra", intitolato "Il ragazzo della pistola", che narra del solito "dritto" che arriva a Milano da Roma per fare affari sulla pelle dei morti ammazzati ed al quale rubano la macchina appena comprata. Di carattere esattamente opposto il fatto storicamente incontestabile dell’imponente nonché inattesa ribellione giovanile contro il tradimento e la resa. Avvenimento inconsueto nella storia del nostro paese, che si cerca di mistificare attribuendo questo scoppio di autentica sollevazione popolare alla parte antifascista (sarebbe stata del tutto comprensibile, visto il modo incredibile con cui la guerra era stata condotta), ma che non si verificò per ragioni storico ideologiche per le quali l’antifascismo resta qualificato per sempre come l’ideologia dell’inconcludenza, della resa, e della sconfitta, ragion per cui il fuggiasco diventa eroe, lo sbandato diventa un leader politico, il rifugiato fra le montagne un ribelle alla Robin Hood, il sicario diventa un garibaldino.
Per nostra fortuna, nostra in senso nazionale, i militari della RSI sono stati presenti su tutti i fronti di guerra. Estremo oriente compreso. In Russia, in Francia, in Croazia, in Albania, nell’Egeo, in Bosnia, in Serbia, in Montenegro, a Creta, sul Baltico, in Ucraina, in Finlandia e perfino in Cina. Il battaglione San Marco che risiedeva nel nostro possedimento in Cina, infatti, aveva aderito alla RSI e fu l’ultimo reparto armato fra le truppe dell’Asse che ammainò la bandiera. È grazie al sacrificio di queste persone se all’estero il nome d’Italia non è stato squalificato.

Geopolitica e guerra su tre fronti.
Ciò che maggiormente induce ad un mesto sorriso di compassione, è l’assoluta mancanza di valutazioni di carattere geopolitico negli scritti di tutti i "laudatores" del movimento partigiano. Stupisce l’ignoranza di questi chierici di regime, ma rendersene una ragione è necessario stante l’assoluta superficialità delle loro valutazioni, incapaci come sono, [altrimenti non sarebbero "clerici" del regime in atto], di collegare, ad esempio, i comportamenti degli Atlantici durante i due ultimi anni di guerra con la strategia, assolutamente prevalente ed alla quale i capi degli eserciti anglosassoni erano tenuti ad attenersi, dettata dalla visione geostrategica di Mackinder (nonché di Haushofer, Carl Schmitt, Spykmann, Von Lohausen, Ernesto Massi, Cesare Correnti, Olinto Marinelli). Secondo questa teoria, lo scontro a livello mondiale vede sempre il Continente (Heartland eurasiatico) contestare il dominio mondiale alle potenze oceaniche. [Nell’epoca recente: Impero spagnolo contro Francia ed Inghilterra, Impero napoleonico franco-spagnolo contro Inghilterra, Inghilterra ed USA contro Imperi Centrali, tentativo del Terzo Reich di allargare l’Heartland inglobando l’est europeo fino alla Russia, contro Inghilterra ed USA].
Va da sé che, una volta delineatasi la sconfitta del Reich già nel 1943, il vero nemico per le potenze atlantiche diventa l’URSS, la quale ritenta l’operazione tedesca di creare un nuovo heartland su base ideologica e territoriale. La questione fu ben presente alla mente di Rudolf Hess, allievo di Haushofer, che con la sua avventurosa (e non avventata) spedizione in Inghilterra nel 1941 aveva posto chiaramente al mondo l’essenza della questione. Fu internato, condannato all’ergastolo a Norimberga ed assassinato quando si profilava l’eventualità di una sua liberazione, ma il suo insegnamento non è stato inascoltato. Soprattutto da Churchill che nel 41 non lo volle incontrare, ma capì subito la ragione del suo volo. Non è difficile capire che all’origine degli accordi intercorsi in Italia (in Vaticano) fra gli esponenti del nazismo (SS) e gli angloamericani nel 1943 sta proprio il viaggio di Hess.
In questa situazione, assolutamente razionale in termini geopolitica, sta il dramma degli uomini della RSI che si dovettero confrontare con un’alleanza di fatto anglo-tedesca (non nuova nella storia perché fino al primo conflitto mondiale il Regno di Prussia e l’Impero austro-ungarico erano stati utilizzati dall’Impero britannico in senso antifrancese ed antirusso). Questa alleanza entrò subito in funzione quando si trattò di contrastare tutte le iniziative repubblicane per la socializzazione in un’ottica liberista che sarebbe stata applicata a guerra finita in tutta la zona europea di influenza atlantica. In questo senso va considerata la lentezza con la quale gli Alleati avanzavano in Italia, la scelta dello sbarco in Francia meridionale il 15 agosto del 44 anziché l’avanzata in Padania, ed il conseguente trattamento riservato alla resistenza, costretta a muoversi nei limiti, molto ristretti, ad essa concessi dai vertici militari atlantici.

Il cosiddetto tradimento di Karl Wolff.
Si usa abitualmente accusare di tradimento il complotto ordito dalle seguenti persone: il suddetto Wolff, incaricato di Himmler per l’Italia, il generale Wilhelm Harster, rappresentante di Kaltenbrunner e comandante della Gestapo, Rudolf Rahn, ambasciatore del Reich presso Mussolini, l’industriale Franco Marinotti, presidente della SNIA, il barone ed uomo d’affari Luigi Parrilli, il cardinale Ildefonso Shuster ed un’altra quantità di figure minori. Tutti costoro avrebbero iniziato i loro maneggi nell’ottobre del 1944, relazionandosi con Allen W. Dulles venuto appositamente in Svizzera per controllare l’andamento del conflitto in Europa ed organizzare il proseguimento dello scontro Oceani-Continente sotto altra forma [Guerra fredda].
Si tratterebbe di un tradimento ordito alle spalle di Berlino e della RSI. Nulla di più falso perché questa operazioni non sono mai isolate, coinvolgendo strategie belliche e politiche di grandi dimensioni. Né si può lontanamente pensare che sia a Berlino che a Salò vigilassero degli sprovveduti. Al contrario, i sistemi informativi dei due governi hanno sempre funzionato alla perfezione. [Vedi: Bruno Spampanato, "Contromemoriale"]. In realtà, in situazioni come quelle vissute in Italia nel 44-45 ci si comporta esattamente così. I responsabili negoziano, per sé, per i sottoposti e per il paese che rappresentano. D’altra parte, e dando per scontato il comportamento particolarmente ignobile del Wolff, le trattative da costui sviluppate, assieme al Dollmann, furono iniziate, come ho precedentemente scritto, nel 43 ed in Vaticano, interessato, come gli angloamericani, ad interdire l’accesso del comunismo in Europa. Sono noti inoltre gli stretti contatti del Wolff con Himmler il quale riteneva possibile un’alleanza con gli Inglesi in senso anticomunista. In tal senso, egli si riteneva il necessario successore di Hitler. È in conseguenza di questi maneggi che viene a determinarsi lo scontro fra Junkers e Nazisti che porterà all’attentato contro Hitler del 20 luglio 1944.
Lo sfondo è il destino dell’Eurasia. Vinceranno i nazisti, e di conseguenza verrà sancita sul sangue di moltissimi repubblichini l’alleanza di questi ultimi (anche di carattere razzistico), con gli anglosassoni. Grazie agli accordi presi, sui quali è reperibile un’ampia documentazione, i tedeschi poterono sganciarsi dall’Italia e rifluire in Germania pronti ad essere utilizzati contro le armate russe. Sul Wolff è inoltre ipotizzabile un diretto interessamento nell’eliminazione di Mussolini. [Secondo Franco F. Napoli, "Villa Wolkonsky, 1943-1988" Napoli F. edizioni, 1996], fu lui a consegnare di fatto il Duce a Fallmeyer per recapitarlo ai suoi esecutori. Ipotesi del tutto probabile.
Il caso dei molti nazisti che passarono al servizio della OSS prima e della CIA dopo, Heichmann, Priebke, Gehlen in testa, non si spiega soltanto nell’ambito dell’opportunità contingente. C’erano e ci sono delle affinità fra nazismo e liberalcapitalismo che ben poco hanno a che vedere col socialismo nazionale italiano, impersonificato dagli uomini del PFR. Ma, poiché non stiamo scrivendo un libro di storia, bensì esternando alcune considerazioni, dobbiamo tagliare corto. Resta il fatto che in frangenti simili, l’alleato più forte abbandona quello più debole. Così ha fatto la Francia di De Gaulle nei confronti degli algerini alleati, salvando l’onore grazie all’OAS, così gli USA nei confronti dei Sudvietnamiti e dei Cambogiani loro alleati.
D’altronde, chi crede nella storia come il frutto dell’azione degli uomini, delle loro passioni e delle politiche alla luce del sole si sbaglia di grosso. In mezzo c’è un mondo di azioni segrete ancora coperte dal top secret di Stato.

Il caso Romualdi.
È in questo contesto che va visto il caso di Romualdi il quale si trovò ad affrontare, nella sua veste di vice segretario del PFR, una situazione come quella che ho appena delineato. Si trattava di salvare il salvabile in una situazione necessariamente piena di doppiogiochisti, attendisti, opportunisti, giocatori d’azzardo, idealisti, estremisti. La società italiana è molto frammentata, mai netta. E solo chi ha vissuto certi momenti lo può capire. Il compromesso è sempre alle porte e quando c’ è di mezzo la vita di moltissime persone e delle loro famiglie le scelte non sono facili. Noi non abbiamo mai accettato la scelta filo-atlantica di Borghese nel dopoguerra, e conseguentemente quella del MSI, ma mi trovo d’accordo con lui quando dichiara ai suoi uomini, nel disordine della sconfitta, che quella era l’ora di vivere, non di morire. Borghese, d’accordo con la Marina del Sud, aveva contribuito a salvare parte dell’integrità italiana dall’aggressione delle orde titine, mentre, come ricorda Vivarelli nell’ottimo libro di memorie "La fine di una stagione", gli ufficiali delle Fiamme Bianche che avevano svolto egregiamente la funzione di guardia della sede milanese del segretario Pavolini si batterono, cambiata la divisa, contro i franchi tiratori fascisti nella stessa Milano di fine aprile. Ho pertanto apprezzato per coerenza e modernità di spunti l’intervento di Ernesto Roli su questo argomento.

Conclusioni.
«Le azioni umane possono conseguire fini diversi da quelli che persegue chi le compie». È il principio dell’eterogenesi dei fini, formulato dallo psicologo tedesco Guglielmo Wundt, fondatore nel 1879 del primo Istituto di Psicologia Sperimentale. Ed è anche il significato del termine: "serendipity". Al principio dell’eterogenesi dei fini si sono ispirati anche Julius Evola ed Augusto Del Noce.
Ferma restando una possibilità di evento migliore di quello atteso, solitamente si verifica un evento imprevisto (ed imprevedibile), un incidente di percorso. Se gli atlantici hanno creduto di vincere la forza del socialismo nazionale vincendo con lo strapotere dei mezzi tecnici il secondo conflitto mondiale, si sono sbagliati. La forza dirompente che coniuga i principi della socializzazione, in tutte le sue possibili realizzazioni, con l’istinto di indipendenza e di appartenenza è invincibile. È possibile abbattere il comunismo, questo scimmiottamento del capitalismo in forma slava, con semplici operazioni economico finanziarie, ma non lo slancio dei popoli verso una forma più umana di giustizia sociale perché si ratta di un’esigenza incomprimibile, come l’identificazione con il gruppo, la terra, e, se vogliamo, anche il sangue.
Questi sono i risvolti positivi della globalizzazione (un’altra forma di eterogenesi dei fini). Più loro sfruttano, più i popoli si ribellano. La guerra dichiarata dal potere finanziario che ha trovato alloggio nel cuore degli Stati Uniti contro il mondo intero è un esempio tangibile della crisi che la concezione della società basata sulla finanza sta vivendo. E non credano, i supposti padroni della Terra, che questa crisi non sia percepita, anche se coperta dal truce spiegamento delle armi di distruzione di massa e dalla mistificazione mediatica. Ma la crisi non può che coinvolgere anche il sistema di "democrazia" esportato con la violenza con cui gli USA pensano di continuare a soggiogare i popoli. Una democrazia che esporta un sistema conflittuale: tra impresa e lavoratore, tra singolo territorio e Stato, tra partiti e partiti, tra partiti (o sette religiose) e comunità nazionale. Come tristemente costatiamo in Iraq.
Ma i popoli si stanno ribellando. Dalla Cina all’India, all’Islam, all’Unione Europea, alla Russia, l’accerchiamento contro gli USA è molto più imponente di quello che gli USA pensano di attuare riempiendo di basi militari l’Asia, l’Europa, il Vicino e Medio Oriente. Il nuovo Papato, a mio modesto avviso, è una presa d’atto di questa nuova situazione.
E quindi non sarà certamente la polemica sul 25 aprile, cara ad intellettuali da cortile anche se in buona fede, che potrà soverchiare queste semplici elementari constatazioni.

 

Giorgio Vitali