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Nel muro di gomma resistenziale si è aperta una crepa

Giorgio Vitali
 

Non sarà molto, ma sicuramente è un segno. Noi sappiamo, per averlo imparato in mezzo secolo d’investigazioni e ricerche, che buona parte della mitologia resistenziale è falsa, mentre i pochi eventi di un certo valore sono stati gonfiati appositamente per supportare l’attuale classe dirigente economico-politica tributaria del potere atlantico. La creazione del mito resistenziale avviene nell’immediato dopoguerra, ed esattamente in funzione del trattato di pace. Si trattava in sostanza di ottenere dai «vincitori» condizioni di pace più miti, dimostrando che non solo la casta militare sabauda, detestata dagli americani tanto da imporre la vittoria della repubblica al famoso referendum, aveva saltato il fosso, ma anche il popolo aveva «collaborato» all’invasione, mosso da sincere ed entusiastiche «istanze di libertà».
[Per inciso, il mito olocaustico nasce negli anni settanta con grandi investimenti economici, reintegrati di volta in volta con i soldi estorti a banche, assicurazioni, enti pubblici, singoli cittadini, per garantire il consolidamento dello stato israeliano]
Anche l’attentato di Via Rasella contiene molti elementi di falsità, che il tempo demolisce gradualmente, a cominciare da quelle primitive attestazioni secondo le quali in via Rasella si sarebbe svolto un vero e proprio combattimento fra partigiani e SS. [Questo primitivo mito aveva lo scopo di mostrare il coraggio dei partigiani che avevano affrontato le temibilissime SS]
Tuttavia il mito della resistenza a Roma, città nota per il suo torpore e caratterizzata prima del giugno 1944 da traffici di varia natura, ricatti, delazioni, borsa nera e quant’altro, deve rimanere intatto o salvaguardato per il maggior tempo possibile. Ecco quindi che via Rasella deve rimanere l’espressione di un eroismo indomito e la strage delle Ardeatine deve essere ricordata come prova della cattiveria dell’occupante tedesco. Qualsiasi tentativo di scalfire il mito deve essere stroncato. Anche perché esiste una "tecnica", nata in concomitanza con la creazione del sistema di condizionamento psichico legato alla propaganda politica, economica, commerciale, alla quale è stato assegnato il nome di "Debunking".
Il "debunking", come scrive Marco della Luna ("Nexus", n. 67, ago-sett 2007) consiste nello smontare e confutare, persuadendo della loro infondatezza e capziosità, teorie ed informazioni che vanno contro il pensiero ufficiale o dominante, il "mainstream", o semplicemente contro la vulgata della realtà che si vuole preservare.
Il debunking è anche una tecnica di «distrazione» dell’opinione pubblica, attraverso azioni apparentemente scollegate dal tema che si vuole occultare. Ad esempio, il crollo delle Torri Gemelle, provocato come si sa dall’Intelligence usa-israeliana al fine di giustificare la corsa agli armamenti e l’invasione dell’Iraq, ha prodotto delle polveri micidiali, impreviste, sprigionatesi dalle cariche poste per tutta la lunghezza delle costruzioni, che stanno portando a morte circa 400.000 cittadini della Grande Mela. Su di loro il silenzio è assordante, ma puntellato da notizie del tutto superflue, di gossip, di manifestazioni artistiche musicali cinematografiche che agiscono pesantemente su quell’individualismo di massa (il cittadino è isolato di fronte ai messaggi dei Media, TV in testa) a suo tempo denunciato da Bernays e da Chomsky.
Ma il monolite ha avuto una crepa. "Avvenire", il quotidiano dei vescovi italiani, contravvenendo alla linea politica che pare espressa dal Vaticano col noto articolo de "l’Osservatore Romano", già commentato, che pone la sostanziale differenza fra coloro che combatterono per la libertà e coloro che invece erano contro, in occasione della nota sentenza della Cassazione secondo la quale l’attentato di Via Rasella fu un atto di guerra, ha pubblicato l’intervento di due opinionisti di opinioni differenti se non contrarie sull’argomento, ed un editoriale di Paolo Simoncelli, dal titolo: "Ma in Via Rasella la Resistenza divenne rossa". Vi si tratta del diario del sacerdote tedesco Hubert Jedin, in quegli anni a Roma.
In quest’articolo si sottolinea che mentre Montezemolo aveva escluso atti di violenza, ben sapendo quali sarebbero state le conseguenze, di carattere politico più che umano, qualcun altro aveva in mente di creare una situazione capace di «... guastare la riconciliazione della popolazione civile con la potenza occupante».
L’articolista scrive anche che «... Non solo all'interno del CLN la presenza del gruppo azionista di "Giustizia e libertà" era forte ma, peggio, a sinistra del PCI si era sviluppata un’organizzazione politico-militare concorrente, frazionista, "Bandiera Rossa"».
Conclusione: «... alle Ardeatine morirono 68 esponenti di "Bandiera Rossa", 52 azionisti, una trentina di membri della resistenza militare compreso il colonnello Montezemolo. Fu in concreto decapitata ogni organizzazione resistenziale alternativa a quella comunista».
Non è poco. Se si paragona l’immagine di una lotta generosa e pulita contro l’occupante feroce e spietato, data per decenni agli italiani con la forza di tutti i mezzi di comunicazione di massa ad iniziare dalla fase scolastica, e quanto trapela dall’articolo di "Avvenire", la differenza balza con estrema evidenza. Da lotta popolare a faida interna fra partiti politici di varia estrazione e natura per il controllo dell’Italia quale sarebbe uscita alla fine dell’immane conflitto.
Un’ultima annotazione: non sembra che fra i caduti delle Ardeatine ci siano esponenti del partito cristiano, o almeno non figurano ufficialmente. Ed anche questo è un dato da ricordare.
 

Giorgio Vitali