La destra, il
tradizionalismo e noi
Fabio Calabrese
Dichiararsi di destra o di sinistra sono due modi per proclamarsi
imbecille. Più che un paradosso, è una verità lapalissiana. Consideriamo quel
che è oggi la sinistra. L'Italia e l'Europa sono ancora piene di
semi-intellettuali (e semianalfabeti), di mezze tacche del pensiero, di nullità
della politica che continuano a proclamarsi di sinistra ad un quindicennio di
distanza dal crollo dei regimi del "socialismo reale". Eppure il fallimento
dell'ideologia marxista, la sua inapplicabilità all'universo reale erano
evidenti a chiunque non soffrisse di accecamento -volontario o dovuto a
ristrettezza mentale- ben prima di allora. Nell'occidente industriale le classi
sociali, contrariamente alle profezie di Marx, tendevano a convergere sempre più
verso il ceto medio, mentre nei regimi comunisti, invece della società senza
classi stava emergendo una società piramidale di tipo più che feudale,
schiavistico, con una ristretta èlite di privilegiati sulla cima ed il popolino
sprofondato nella miseria oltre che nell'oppressione, nella mancanza di libertà.
La sinistra, molto prima degli anni '80 del XX secolo, era un cimitero di
fallimenti.
La destra se la passava o se la passa meglio? Io direi che la principale
differenza è che mentre a sinistra l'idiozia regna sovrana, a destra, invece,
l'idiozia regna sovrana. Diciamo la verità: l'uomo è un essere fondamentalmente
pigro, e la maggior parte degli uomini farebbe qualsiasi cosa pur di evitare la
fatica di usare quella strana escrescenza che ha dentro la scatola cranica. I
paraocchi marxisti sono un eccellente modo per evitare la fatica di pensare, ma
un modo altrettanto eccellente è rappresentato dalla mentalità di destra o
conservatrice. Non è necessario valutare un'idea, una posizione politica,
sociale o culturale per cercare di capirne la giustezza o l'errore, basta
semplicemente stabilirne la priorità temporale. Questa mentalità si crede
"forte" ma è solo ristretta.
Facciamo qualche esempio. Di fronte al "marxismo ateo" ed ai culti portati in
Europa dagli immigrati, l'islam prima di tutto, l'uomo di destra, il
conservatore, è "naturalmente cristiano", non perché gliene freghi qualcosa, in
definitiva, di quel che predicò o delirò duemila anni fa Gesù Cristo in
Palestina, ma come «difesa della nostra identità culturale» perché «è sempre
stato così». A parte il fatto che non è sempre stato così, costoro non si
avvedono, o fanno finta di non avvedersi che sono proprio le Chiese cristiane,
quella cattolica in testa, a spingere per il cosmopolitismo, il meticciato, la
compromissione delle basi etniche e culturali dell'Europa.
Altro esempio: poiché in ordine di tempo il liberalismo in campo socio-economico
arriva prima del socialismo, il "destro", il conservatore sarà "liberal" (senza
la "e" finale, mi raccomando, tanto per esprimere il debito servilismo verso i
padroni d'oltreoceano), laddove occorrerebbe chiedersi come sarebbe possibile
per un'eventuale classe politica che volesse essere rivoluzionaria e/o riformare
radicalmente la società lasciare intatto il potere economico del grosso
capitale, soprattutto finanziario, e come possa uno stato che voglia essere
stato-nazione radicato nella coscienza dei propri cittadini, permettere pesanti
sperequazioni sociali, avere "figli e figliastri", tollerare una classe di
apolidi e zingari di lusso come sono gli appartenenti a quel ceto alto-borghese
che sicuramente hanno molto più in comune con i "pari grado" del cosiddetto jet
set internazionale che non con i propri concittadini.
Se il liberalismo aveva aspetti positivi nel XVIII secolo, non ne ha più
nell'età presente: riuscite ad interpretare la difesa fatta da John Locke della
«proprietà che nasce dal lavoro» come un'arringa a favore di un Lapo Elkann che
non ha mai lavorato un giorno in vita sua e sperpera in una sera tra cocaina e
travestiti quello che basterebbe ad una famiglia media per vivere un paio di
mesi?
L'errore dei "compagni" non è stato il socialismo ma "l'internazionalismo
proletario" che in pratica significava piegare il bene nazionale agli interessi
dell'imperialismo sovietico. Un socialismo nazionale, un nazional-socialismo
(per carità, tenete ben presente il trattino), mantiene intatta la sua ragion
d'essere. Il fatto che una serie di leggi liberticide c'impedisce di chiamarci
con il nostro vero nome, ma ci obbliga a ricorrere ad espressioni come "estrema
destra" o "destra radicale" ha generato anche fra noi parecchi equivoci. Ad
esempio oggi AN sempre più lontana da quel che un tempo fu il MSI, abbandona
anche "la destra" e si sposta sempre più verso in centro, presentandosi come un
partito neo-democristiano. Cosa cambia questo per noi? Giuda sarà pur libero di
scegliersi il sicomoro nel Campo del Vasaio!
In una serie di scambi epistolari che ho avuto con lui, il nostro Alberto B.
Mariantoni ha voluto ribadire più volte un concetto che ha dalla sua la forza e
la chiarezza della semplicità: "destra" e "sinistra" appartengono non solo al
linguaggio ma alla mentalità, al mondo democratico-parlamentare. Dal momento che
noi ci poniamo come ribelli verso questo mondo, questo sistema, questa
mentalità, non possiamo essere di destra esattamente come non siamo di sinistra
o di centro.
Se le cose stessero esattamente in questi termini, il discorso potrebbe anche
essere finito qui, ma ho il sospetto che stavolta la semplificazione sia un po'
eccessiva. Julius Evola, ad esempio, è stato autore di un libro che s'intitola
"Il fascismo dal punto di vista della destra" (o più semplicemente, a seconda
delle edizioni, visto da destra), badate bene, non "La destra dal punto di vista
del fascismo", o simili. Sono sicuro che "la destra" cui faceva riferimento
Evola, e nella quale si collocava, non era intesa in senso puramente
conservatore, né tanto meno parlamentare. E allora, il termine "destra" può
essere assunto come sinonimo di "tradizione"? Sicuramente Evola, collocandosi "a
destra" l'intendeva in quel modo.
Ciò è assolutamente scorretto, dati i legami del termine "destra" con il
parlamentarismo (sarebbe come chiedersi, se avete presente l'Assemblea Nazionale
uscita dal giuramento di Pallacorda durante la rivoluzione francese, se siamo
"di montagna", "di pianura" o "di palude", anzi, quest'ultimo dubbio sarebbe
forse più gradevole per le sue similitudini naturalistiche), ma se il grande
Julius (perché, riconosciamolo, era un grande, anche se questo non vuole certo
dire che fosse immune dall'errore), è caduto in una scorrettezza,
riconosciamogli che si tratta di una scorrettezza molto diffusa. Solo che,
concedendo che in taluni casi il termine "destra" è usato impropriamente come
sinonimo di "tradizione" o di "tradizionalismo" (c'è una differenza fra le due
cose che vedremo più avanti di approfondire), non siamo in una posizione molto
migliore di prima, perché a sua volta il termine "tradizione" è oggetto di
ambiguità non minori. Alcune accezioni di questo termine possono essere più o
meno interessanti, magari nell'ambito di un discorso politico rappresentano
qualcosa di meritevole non solo di un interesse ma di una tutela in un'ottica di
preservazione identitaria, ma non rientrano in un ambito politico in senso
stretto, come quando si parla di "tradizioni popolari", dalle leggende alla
gastronomia.
Naturalmente, quello che qui c'interessa è però qualcosa di più attinente alla
dimensione etica, politica, religiosa, all'orizzonte dei valori e dei rapporti
fra gli uomini. Quanto meno, nell'ambito del tradizionalismo, ci sono due
correnti nettamente riconoscibili: quello cattolico e quello che forse
impropriamente si può definire esoterico, ispirato a Julius Evola e René Guenon,
che si definisce talvolta come "tradizionalismo integrale".
Riguardo al primo, non possono sussistere dubbi: è qualcosa che va scartato a
priori, il tradizionalismo cattolico è una variante del cattolicesimo, che a sua
volta è una branca del cristianesimo, e su questo -per dirla in parole povere-
non ci piove, rimane dunque una di quelle forme di pensiero
semitico-mediorientale in definitiva estranee all'Europa ed alla nostra
sensibilità: ebraismo, cristianesimo, islam, marxismo, psicanalisi; sarà forse
la più vicina al bordo, ma rimane al di là dell'abisso che separa "loro" da
"noi". «Con il cristianesimo siamo diventati spiritualmente semiti», l'ha detto
Pio XI, e per dei cattolici la parola di un pontefice dovrebbe essere
vincolante. Non basta? Ricordiamo Giovanni Paolo II, secondo il quale i
cristiani sono "fratelli minori" dell'ebraismo.
Julius Evola ha cercato di costruire con molta abilità una specie di ponte fra
cose eterogenee: fascismo, "destra", tradizionalismo; e non è nemmeno stato il
solo, qualcuno ricorderà la celebre frase contenuta ne "Il mattino dei maghi" di
Pauwels e Bergier secondo la quale il nazionalsocialismo sarebbe stato «il
guenonismo più le divisioni corazzate» (1), ma se alcuni tradizionalisti sono
compatibili con ciò che noi siamo, mentre altri no, allora il discrimine, ciò
che realmente fa la differenza, non può essere rappresentato dal
tradizionalismo, ma dev'essere qualcos'altro.
Questo è il primo punto da tenere in considerazione; il secondo è che abbiamo
qui a che fare con un'ambiguità doppia, che è connessa proprio alla differenza
fra i concetti di "tradizione" e "tradizionalismo". Ambiguità doppia perché non
c'è solo la contraddizione fra tradizionalisti cattolici ed "evoliani" o
"pagani", ma anche una contraddizione interna a questi ultimi, la cui posizione,
lungi dall'essere "forte" od "integrale" si rivela in effetti molto debole.
In un suo recente scritto, Mario Polia, che è un antropologo oltre che un
esponente dell'intellettualità cattolica tradizionale oggi in Italia, mi sembra
abbia centrato bene il punto:
«Una tradizione, del resto, non può essere definita solo in senso negativo, come
opposizione ad un'anti-tradizione, ma richiede di essere definita principalmente
in senso positivo nei riguardi del messaggio che essa tramanda e dal quale trae
il motivo e la legittimazione della propria esistenza. Esiste, inoltre, un
"tradizionalismo" in senso lato nel quale si riconoscono appartenenti singoli o
gruppi, diversi in quanto a impostazione e tendenze, ma accomunati da un
pronunciato antagonismo nei confronti del mondo moderno, delle sue strutture
(religiose, sociali, politiche) e della sua cultura (neo-illuminista, edonista,
materialista) in quanto ne avvertono fortemente le limitazioni e le aberrazioni.
È comune alle varie tendenze del "tradizionalismo" (cultural-politico e/o
spiritualista) la tensione verso il recupero di un'identità "spirituale" dai
contorni in genere mal definiti, non-confessionale, caratterizzata dal
sincretismo in campo religioso e, spesso, da una componente marcatamente
anti-cristiana». (2)
In tutta franchezza, e dispiace che a farlo sia nell'ambito delle due forme di
tradizionalismo a confronto, quello che possiamo considerare un avversario,
questo si che si chiama mettere il dito sulla piaga! A fronte della tradizione
cattolica «definita in senso positivo nei riguardi del messaggio che essa
tramanda» (prescindiamo per un momento dal valore di questo messaggio) c'è il
«"tradizionalismo" in senso lato» (se non ricordo male le regole della lingua
italiana, si usa porre una parola fra virgolette o quando si fa una citazione, o
quando si vuole evidenziare il fatto che se ne sta facendo un uso improprio, per
cui l'ulteriore specificazione "in senso lato" è pleonastica e l'insieme della
frase ha un tono dispregiativo) che consisterebbe più nell'antagonismo rispetto
a ciò che si ritiene sia anti-tradizione che in un contenuto positivo, che
quando lo si cerca di definire, risulta al più una «tensione verso il recupero»
(non il possesso!) di «un'identità "spirituale" (di nuovo virgolettato!) dai
contorni in genere mal definiti», un "sincretismo" e chi più ne ha più ne metta.
Possiamo dire che Mario Polia ha torto perché quello che dice non ci garba?
Sappiamo benissimo che ha ragione! Se quello che abbiamo non è "una tradizione"
che concretamente si tramanda, ma le suggestioni di un "pensiero primordiale" da
ricostruire in via ipotetica, è chiaro che navighiamo nel soggettivismo,
nell'astratto, in una «identità da recuperare» «dai contorni mal definiti», nel
campato in aria. Da qui il bisogno di molti di poggiare infine i piedi sul
terreno solido appoggiandosi ad una "tradizione positiva" che da due millenni in
qua non può essere altro che quella delle religioni semitiche, cosa della quale
ha dato l'esempio lo stesso René Guenon facendosi mussulmano nell'ultimo periodo
della sua vita, ma quanti "camerata Tizio" abbiamo conosciuto che se non sono
diventati "don Tizio", non sono poi andati tanto lontani da ciò? Scusate il
paragone calcistico, ma cosa ce ne facciamo di centravanti specializzati in
autogol? Se quella che sembrava una via maestra ci porta dritto nelle paludi,
allora forse è il caso di cambiare strada.
Torniamo un attimo ad esaminare il concetto di religione: esso ha due aspetti,
uno è il rapporto "verticale" di ciascuno con la/le divinità, il destino dopo la
morte e tutto quello che volete, e qui siamo in un orizzonte che non ha
relazione con la politica, che è affidato alla coscienza di ciascuno e dove da
un punto di vista politico non si ha diritto ad entrare; l'altro è l'aspetto
"orizzontale" dei sistemi etici, di valori, dei rapporti interpersonali, e
quest'ultima dimensione, inutile nasconderselo, non è estranea alla politica.
Secondo l'etimologia più diffusa della parola, religio viene da religo, ossia
"lego", "collego" (3).
La religione è ciò che lega gli uomini gli uni agli altri ed il singolo alla
comunità attraverso i comportamenti condivisi, il doppio legame rappresentato
dai riti e dall'etica comune, almeno questa è la concezione esistita prima del
cristianesimo. Nel libro "Gli "adelphi" della dissoluzione" del giornalista
Maurizio Blondet è riportata un'intervista con il filosofo-sindaco di Venezia
Massimo Cacciari, ed il suo contenuto è davvero sorprendente, considerati
soprattutto il taglio culturale e la visione ideologica sia dell'intervistatore
sia dell'intervistato (Maurizio Blondet è noto soprattutto come autore di "Auto-attentato
in USA", un libro-denuncia sull'11 settembre 2001, e come impostazione culturale
è un cattolico tradizionalista. Massimo Cacciari, maestro del "pensiero debole"
assieme a Gianni Vattimo, non credo abbia bisogno di presentazioni).
«Per cominciare [va] sgombrato il campo dall'abuso, dalla ripetizione a vanvera
del termine "etica". Ethos, o per i latini Mos, non è affatto ciò che noi oggi
intendiamo per "etico" o "morale". Ethos non indicava comportamenti soggettivi;
indicava la "dimora", l'abitare in cui ogni uomo si trova alla nascita, la
radice a cui ogni uomo appartiene. In questo senso, un greco non era più o meno
"etico" per sua scelta o volontà. Egli apparteneva a un ethos. A una stirpe, a
un linguaggio, a una polis. Che non era stato lui a scegliere (...). Ogni
società tradizionale ha, o meglio è, un ethos. Ogni società tradizionale, come
un albero rovesciato, ha la sua radice nella legge divina, nel nomos. La legge
della polis, dice Erodoto, è l'immagine di Dike [la dea della Giustizia]. Un
ethos impone all'uomo valori che non è lui a scegliere, a decidere, ma a cui
appartiene. Ma in Europa questa appartenenza è entrata in crisi quasi fin
dall'inizio. Per l'uomo europeo è venuto molto presto il tempo della frattura
con l'ordine degli Dei, il tempo della de-cisione. L'ethos era già in crisi
profonda con l'Ellenismo, "cosmopolita" ossia sradicato. "E duemila anni fa,
l'ethos ha cessato completamente di esistere". Il Cristianesimo è stato
dirompente rispetto ad ogni ethos" (...). Il Cristianesimo non ha più radici in
costumi tradizionali, in una polis specifica, in un ethos; non ha più nemmeno
una lingua sacra (...). Il Cristianesimo si rivela essenzialmente sovversivo
dell'Antichità e dei suoi valori; che esso spezza definitivamente i legami fra
gli Dei e la società. L'ethos antico era una religione civile (...). Il
Cristianesimo, consumando la rottura con gli dei della Città, sradica l'uomo
(.). Uno stato doloroso: il Cristianesimo getta l'uomo nella libertà come un
naufrago è gettato in [un] mare in tempesta». (4)
Credo che raramente un "maestro della Tradizione" o presunto tale abbia centrato
il punto con la stessa efficacia di Cacciari. La dissoluzione dell'Ethos come
legame sacrale-comunitario: questo è l'effetto più tipico del cristianesimo, il
suo "marchio di fabbrica". Occorrerebbe soltanto aggiungere che "la libertà"
nella quale il cristianesimo «ha gettato l'uomo come un naufrago in un mare in
tempesta» è soltanto apparente. Ad un sistema di fedeltà verso la propria
civitas, la stirpe, le tradizioni, gli dei patri, il cristianesimo sostituisce
l'esigente obbedienza a se stesso, a coloro che si presentano come i
rappresentanti terreni della divinità che, in quanto portatori del messaggio
divino si sentono legittimati ad usare i mezzi più spietati per imporlo, secondo
la stessa prassi tirannica, omicida e genocida che sarà poi ripresa dalle
moderne filiazioni del cristianesimo, il giacobinismo ed il bolscevismo. Occorre
davvero fare l'elenco delle vittime della "libertà" cristiana da Ipazia a
Galileo? Più chiaro di Cacciari, forse è stato solo Jean Jacques Rousseau che
con il suo mito del "buon selvaggio" avrà anche inventato una favola delirante
dalle conseguenze nefaste, ma sul cristianesimo aveva capito tutto: «Il
cristianesimo separa l'uomo dal cittadino».
Il punto è proprio questo, la separazione dell'uomo dal cittadino, inconcepibile
nella grecità classica o nella Roma repubblicana, meglio ancora l'introduzione
di un doppio sistema di fedeltà e di valori perennemente in conflitto, la
lacerazione fra "l'etica" cristiana (caricatura dell'Ethos antico) ed i valori
civici. Gli aspetti aberranti della modernità non sono altro che le estreme
conseguenze della rivoluzione cristiana. Stavolta non sono René Guenon o Julius
Evola a dircelo, ma sempre Massimo Cacciari: «Tutta la cultura cristiana è un
correre ai ripari contro la tragedia che ha provocato, una tensione disperata a
riparare il pericolo che viene dalla frattura tra la Città di Dio e la città
dell'Uomo (...). La secolarizzazione totale che viviamo [è] figlia della
sovversione originaria operata dal Cristianesimo (...). Lo spirito
estetico-economico borghese non tollera di essere messo in discussione; non
ammette di poter essere superato". (...) Verso ciò che è esterno ai suoi
"valori" non ha pietà".
E mi elencò i genocidi liberali: a cominciare dallo sterminio dei Pellerossa. «I
Pellerossa erano radicati nel loro ethos, e l'americano vedeva nel loro ethos un
sistema di non-libertà. Lo sterminio delle società sacrali, degli ethoi
tradizionali, è prescritto dal liberalismo per il "bene" stesso dell'uomo». Per
sradicare il Giappone dal proprio sacro nomos, non ci volle nulla di meno che
l'olocausto nucleare. Migliaia di tonnellate di bombe furono necessarie per
stroncare Fascismo e Nazismo, «forme di neopaganesimo che cercavano di
ricollegare la società a un Ethos» (5).
In realtà, nelle cose affermate da Cacciari non c'è nulla di assolutamente
nuovo, semmai la novità consiste nel trovare simili parole in bocca ad un
intellettuale di sinistra (e se queste sono le sue convinzioni, non si capisce
bene quale altro motivo, tranne l'opportunismo, gli imponga di collocarsi in
quell'area politica). Già Niccolò Machiavelli si era espresso in termini
elogiativi verso le antiche religioni pagane che consolidavano il senso di
appartenenza del singolo alla comunità, tenevano uniti l'uomo ed il cittadino
invece di scindere le due cose. Proprio per questo motivo, il cristianesimo non
si può considerare religio, ma solamente ciò che conserva i segni esteriori,
superstiti, residuali del sacro, pur avendone smarrito il significato e la
funzione, in una parola, superstitio. Occorre essere chiari ed onesti: nessuno
può pretendere di avanzare prove certe dell'esistenza di un destino ultraterreno
e di quale esso sia, e nemmeno l'ateo può dimostrare la sua convinzione negativa
al riguardo. Ciò che interessa ai fini del nostro discorso è altro: la religione
come datrice della morale, i sistemi di valori (o di disvalori) che reggono (o
affossano) le comunità umane. Se la sopravvivenza individuale post mortem resta
nella migliore delle ipotesi una speranza estremamente vaga, allora è sulla
sopravvivenza di noi stessi nell'orizzonte mondano come traccia culturale e come
impronta genetica, che dobbiamo puntare l'attenzione.
A differenza del cristianesimo, le antiche religioni pagane svolgevano entrambe
le funzioni, poiché, oltre a mantenere una speranza ultraterrena, si prendevano
cura della permanenza nel tempo delle comunità assieme all'Ethos, al Nomos che
esse incarnavano, mentre la strada indicata dal cristianesimo è, in termini
culturali ma soprattutto genetici, quella del suicidio, cosa tanto più
pericolosa oggi, in un momento il cui l'Europa si trova come mai in tutta la sua
storia, a causa del decremento demografico degli Europei nativi e
dell'immigrazione, esposta al rischio della cancellazione delle proprie basi
culturali, ma soprattutto etniche per effetto del meticciato,
dell'imbastardimento, oltre che della proliferazione cancerosa di comunità
d'immigrati che sono delle enclave di non-Europa. Che "lo scopo" fondamentale di
ogni vivente, scopo inconscio nella maggior parte delle creature, ma che noi
come esseri senzienti possiamo decidere di perseguire consapevolmente oppure di
pervertire, sia la preservazione e la propagazione dei propri geni nelle
generazioni future, che la vita in tutta la sua bellezza, ricchezza e
complessità si sia costruita a partire da inizi rudimentali grazie alla
selezione derivante dalla competizione fra i diversi genomi, sotto la pressione
di un ambiente implacabile con i deboli ed i rinunciatari, queste non sono certo
cose che scopro io adesso.
Io sono spiacente ma, come dice il proverbio, «medico pietoso fa la piaga
verminosa», e devo qui citare una parola che ha il potere di gettare nel
disgusto, nell'irritazione, nel panico i nostri conservatori, "destri" e
tradizionalisti, tutti coloro che sono convinti di avere una Weltanschauung
forte solo perché hanno una mentalità ristretta: evoluzione. Comunemente, sia "a
destra" sia "a sinistra" si ha la sensazione che l'evoluzionismo sia «una cosa
di sinistra». Il fatto è che "destra" e "sinistra" sbagliano alla stessa maniera
sul medesimo punto, confondendo il concetto di evoluzione con quello di
progresso, anche se poi alla risultante di questo malinteso appiccicano reazioni
emotive opposte.
Per capire quanto ciò sia erroneo, basterebbe considerare semplicemente la scala
dei tempi: un homo sapiens anatomicamente moderno, non distinguibile da noi,
esiste su questo pianeta da qualcosa come 50.000 anni (la stima più alta fissa
intorno ai 100.000 anni la comparsa della nostra specie, la più bassa la situa
intorno ai 16.000 anni, con la comparsa dell'uomo di Cro Magnon in Europa);
quando noi invece parliamo di progresso, parliamo di un mutamento culturale e
non biologico iniziato all'interno della cultura europeo-occidentale nel XVIII
secolo con la rivoluzione industriale od al massimo nel XVII secolo con la
rivoluzione scientifica. A sua volta, la nozione di progresso è ambigua e
contraddittoria, al punto che si potrebbe dire che è uno di quei concetti che
non esistono in quanto corrispondenti ad un oggetto reale, ma soltanto il
ragione di una strumentalizzazione politica. Si considera assodato che esista
una relazione fra progresso scientifico e tecnologico (il solo ambito nel quale
l'utilizzo della parola "progresso" appare pienamente legittimo) e sviluppo del
rispetto dei diritti umani, delle libertà civili della giustizia sociale e via
dicendo, e tutto ciò è messo in relazione con "l'essere a sinistra" al punto
che, molto spesso, nella terminologia inconsistente dei dibattiti politici, "di
sinistra" e "progressista" vengono spesso usati come sinonimi intercambiabili.
Ora, questo è, per usare la terminologia della giurisprudenza, un vero e proprio
abuso della credulità popolare.
Nella storia dell'Europa moderna, sviluppo scientifico e tecnologico e progresso
dei diritti umani e delle libertà civili sono storicamente associati, ma è tutto
da dimostrare che fra le due cose esista una connessione intrinseca: le polis
greche antiche ed i Comuni italiani del Medio Evo ci mostrano la crescita delle
libertà civili in assenza di sviluppo tecnologico, e d'altra parte la storia del
comunismo nel XX secolo ci mostra chiaramente che allo sviluppo scientifico e
tecnologico può non corrispondere una progressione delle libertà civili e dei
diritti umani, ma che può avvenire esattamente il contrario.
Ma il punto più importante è che, impadronendosi del concetto di progresso in
questa maniera, la sinistra (che presume automaticamente ma si esime
assolutamente dal dimostrare di essere dalla parte delle classi lavoratrici) ha
compiuto una vera e propria, gigantesca appropriazione indebita.
Consideriamo i Paesi del "socialismo realizzato" nei tardi anni '80, prima che
il tipo di regimi che li governava si dissolvesse sotto il suo stesso peso,
sotto il peso di un fallimento che ha ben pochi o nessun uguale nella storia.
Con quale incredibile faccia di tolla la sinistra internazionale osava
presentare quei regimi elefantiaci come "progressisti", come "democrazie
popolari" (questo era il ridicolo eufemismo allora in uso!)? Si trattava di
autocrazie elefantiache dove nessuno godeva di nessun diritto, eccetto l'élite
dirigente al potere, e molto arretrate rispetto all'Occidente "capitalista"
anche dal punto di vista tecnologico, capaci solo di distribuire ai propri
sudditi oppressione e miseria. Dov'era "il progresso" qualunque cosa questa
parola volesse significare?
Una volta liberatici dall'equivoco "progressista", vediamo che l'evoluzionismo
correttamente inteso dal punto di vista scientifico-biologico, non solo non
fornisce alcun appiglio alla mentalità di sinistra, ma ne è la più bruciante
sconfessione. Nulla quanto il ruolo creativo della selezione naturale che
attraverso la lotta incessante costruisce i tipi più elevati, può essere messo
alla base di una visione aristocratica della vita, la giusta risposta, come già
osservava Friedrich Nietzsche, alla predilezione cristiana per tutto ciò che è
debole, deforme e malriuscito.
Parliamo del più deleterio mito marxista, quello dell'internazionalismo
proletario. Da cosa se ne può dedurre l'infondatezza meglio che dalla
competizione fra genomi simili, dalla tendenza insita in ogni vivente a
trasmettere il proprio patrimonio genetico, che viene piuttosto a convalidare
quelle "brutte cose" che nell'ottica progressista si chiamano "nazionalismo" e
perfino "razzismo"? Vogliamo credere che sia più coerente con la nostra visione
del mondo in termini sociali e politici un cascame di anacronismi morti e
sepolti, oppure, come effettivamente è, i risultati di un secolo e mezzo di
ricerca in campo biologico? Vi ripugna l'idea di discendere dalle scimmie? A
parte il fatto che nelle questioni di conoscenza le nostre reazioni emotive non
hanno il minimo valore, io trovo più ripugnante prostituire la propria
intelligenza mettendosi al livello dei Testimoni di Geova, perché, volendo
respingere l'idea evoluzionistica, alla fin fine non c'è alternativa al
creazionismo, ossia proprio a quel monoteismo semitico di cui ci volevamo
liberare. Cerchiamo di essere sinceri, di essere veramente sinceri, di non
tenere compartimenti stagni fra le parti della nostra cultura e della nostra
esperienza: l'idea cristiano-biblica di un Dio creatore, di un "padre celeste"
era certamente più credibile qualche secolo fa, quando non conoscevamo le reali
dimensioni dell'universo ed era più facile credere che esso fosse tutto
gerarchizzato intorno a noi ad opera di una Causa Prima simile a noi, «a nostra
immagine e somiglianza». A paragone, oggi torna ad essere più credibile il
paganesimo con le sue divinità "piccole" e "terrestri" da un lato, dall'altro
con la sua concezione del Fato come forza impersonale, trascendente ed
imperscrutabile, al punto che potremmo giudicare il monoteismo di origine
semitica come un gigantesco abbaglio durato duemila anni.
La ripugnanza che molti provano all'idea di «discendere dalle scimmie» è la
ripugnanza ad ammettere che l'uomo fa parte del mondo naturale, è il marchio più
evidente che il cristianesimo ha lasciato su di noi, o su molti di noi, ma
questa concezione schizofrenica non si limita a tracciare barriere fra l'uomo ed
il resto della realtà naturale, le deve tracciare anche all'interno dell'uomo
stesso demonizzando le "parti animali" del suo essere, a cominciare dalla
sessualità.
Contro queste aberrazioni valga in primo luogo la grande, fulminante oserei
dire, risposta di Friedrich Nietzsche. I piccoli, i mezzi pensatori saranno
sempre pronti a stravolgere il pensiero dei grandi a misura dei loro pregiudizi.
Un ex-scienziato, Giuseppe Sermonti, fratello fra l'altro di uno dei mini-leader
che pullulano nel radicalismo di destra, Rutilio Sermonti, ed autore di un
libello antievoluzionista, "La luna nel bosco", ha prodotto qualche tempo
addietro uno scritto, "Nietzsche contro Darwin", il cui tema è stato poi
riproposto in diverse conferenze.
Friedrich Nietzsche, filosofo del nichilismo aristocratico è forse l'unico
pensatore di grande levatura che "la destra" possa in qualche modo attribuirsi,
sebbene il suo franco ateismo, il suo rifiuto di ogni trascendente
indimostrabile la metta costantemente in imbarazzo. Nietzsche era un
antievoluzionista?
Se noi vogliamo partire dal presupposto che gli scritti di un pensatore servono
per rendere noto il suo pensiero e non per nasconderlo, proprio non si direbbe;
se leggiamo quello che è forse lo scritto più famoso di Nietzsche, "Così parlò
Zarathustra", uno dei suoi brani più noti, il Discorso di Zarathustra al
mercato, troviamo:
«Tutti gli esseri crearono qualche cosa che sorpassa loro stessi: e voi volete
essere il riflusso di questa grande marea, e tornare piuttosto al bruto che
superare l'uomo? (...) Voi avete percorso la strada che porta dal verme
all'uomo, ma molto c'è ancora in voi del verme. Una volta eravate scimmie, e
ancora adesso l'uomo è più scimmia di tutte le scimmie». (6)
Che strano, sembra proprio di sentir parlare un evoluzionista! «Un'idea moderna,
quindi un'idea falsa», così la pensano i campioni del conservatorismo e del
tradizionalismo, ma se non vogliamo cadere nella semplificazione volta a
sostituire la riflessione sul significato delle idee con il semplice stabilire
la loro priorità temporale, dobbiamo distinguere fra le concezioni che sono la
"seconda fase" della rivoluzione cristiana (o della perversione cristiana):
democraticismo, egualitarismo, progressismo, marxismo, da quelle che nascono
invece dall'ampliamento delle conoscenze che la rivoluzione scientifica ha
portato con sé, ed allora potremmo trovarci di fronte a delle sorprese, come il
fatto di scoprire che l'evoluzionismo non è affatto un'idea moderna, ma
s'incontra con gli esiti di un antico pensiero naturalistico che il
cristianesimo ha cancellato dalla cultura europea.
Allora, studiando la filosofia antica, ci accorgeremo che quella linea di
pensiero che attraverso Socrate, Platone ed Aristotele va infine a sboccare
nella filosofia cristiana è una sorta di deviazione dal pensiero filosofico più
antico, forse spiegabile con il fatto che con Socrate siamo già in un'epoca
tarda, di decadenza delle polis, posteriore alla guerra del Peloponneso, e lo
scopo della filosofia non era tanto conoscere la verità quanto offrire
consolazione; ad esempio, l'abbandono della più moderna e più esatta teoria
astronomica eliocentrica già sostenuta dai Pitagorici a favore del ritorno al
geocentrismo compiuto da Aristotele, potrebbe essere interpretato come
espressione del bisogno di sottolineare la centralità del mondo umano rispetto a
quell'orizzonte naturalistico nel quale la più antica filosofia greca si era
invece mossa. Dopo Talete, il filosofo greco più antico, di cui non ci è stato
tramandato nessuno scritto, incontriamo il suo discepolo Anassimandro che ci si
presenta con un pensiero -purtroppo un frammento- di notevole spessore:
«Da dove le cose hanno origine, là esse ritornano. Morendo, i viventi pagano
l'uno all'altro il fio dell'ingiustizia commessa vivendo».
Analizzando i concetti espressi, vi troviamo una grande complessità: la vita,
l'esistenza, prima di tutto è ciclica; inevitabilmente, prima o poi, ogni cosa
deve ritornare a quel nulla, a quel non essere originario dal quale è emersa.
Vivere, in secondo luogo, significa commettere ingiustizia, la vita si nutre di
altra vita per poter esistere: gli animali erbivori si nutrono di piante, i
carnivori di erbivori. Vivere significa causare e patire dolore. Lo si
riconoscerà, siamo molto vicini al concetto darwiniano di lotta per la vita, ed
alla visione di una natura che non ha alcuna misericordia per coloro che
soccombono. Sarà un'opinione personale, ma a me sembra di cogliervi anche -come
dire- un'eco anticipatrice del concetto esistenzialista di Kierkegaard per il
quale "esistere" è un "ek-sistere", un "porsi fuori" dall'indifferenziato grembo
del non essere, l'esito di una sorta di ribellione e quindi in un certo qual
modo compiere un'ingiustizia.
Vista da una certa distanza la vita è equilibrio, è armonia, ma considerato da
vicino "il cerchio della vita" è assai meno idilliaco di quanto non reciti la
pellicola-favola de "Il Re Leone". Non possiamo immaginarci una gazzella che,
caduta sotto gli artigli di un grosso felino, riesca ad apprezzare l'equilibrio
e l'armonia superiori che portano alla sua morte, nel momento in cui questi la
sta sbranando. Io direi che qui sono avvertibili anche le somiglianze con il
pensiero indiano e buddista: la vita come violenza ed il desiderio, l'istinto
vitale come causa di sofferenza, che a sua volta costituisce un karma che andrà
espiato, e ci dà l'impressione di essere molto vicini ad un originario fondo di
pensiero indoeuropeo ma c'è ancora una cosa che va notata a questo riguardo.
Talete, Anassimandro e tutti gli altri prima di Platone non si definivano, non
erano chiamati filosofi, ma sofoi, saggi oppure fisiologoi, studiosi/conoscitori
della natura.
Il termine filosofo, filo-sofos, amante della conoscenza, è introdotto da
Platone, ma facciamo attenzione, ci spiega il grande studioso della cultura
greca Giorgio Colli, se questo termine in Platone significa ancora la ricerca di
una conoscenza perduta da ritrovare, è con Aristotele che esso assume il
significato della ricerca di una conoscenza nuova, mai da nessuno posseduta, che
il filosofo inventa grazie alla forza del suo ingegno. È a partire da
Aristotele, quindi a trapasso concluso dalla civiltà classica all'ellenismo, che
il termine "filosofia" assume il significato che le diamo oggi, di elaborazione
mentale personale astratta, talvolta frivola, perché -come faceva osservare
Cicerone- tra i filosofi ha maggior reputazione chi inventa un'assurdità nuova
che chi ripete una verità detta da altri.
Fino ad allora, i sofoi o fisiologoi erano delle scuole, delle comunità di saggi
che si trasmettevano attraverso le generazioni un sapere condiviso, riguardante
sia gli insegnamenti etici sia la conoscenza del mondo naturale, in modo
sostanzialmente analogo ai druidi ed alle scuole vediche dell'India.
Riconosciuta la tragicità dell'esistenza, possiamo cadere nel pessimismo
paralizzante di Kierkegaard, oppure accettarla, poiché essa è il prezzo
necessario della bellezza e della gioia; è questo lo spirito del nichilismo
aristocratico di Nietsche, ed è l'unica filosofia compatibile con il pensiero
evoluzionista e con il ruolo creativo che esso assegna alla dura legge della
selezione naturale.
Tornando ad Anassimandro, le analogie con il pensiero evoluzionista sono più
forti di quel che crederemmo: non solo il senso della vita riposto nell'ineludibile
lotta per la sopravvivenza, ma, di più, l'idea che l'uomo deve discendere da
antenati non umani, poiché, essendo il cucciolo dell'uomo totalmente inetto, a
differenza di quelli di molte altre specie, come avrebbero fatto altrimenti i
primi uomini a sopravvivere durante l'infanzia? Inoltre, seguendo probabilmente
in questo l'insegnamento del suo maestro Talete che sosteneva essere l'acqua l'arché,
il principio di tutte le cose, egli riteneva che la vita terrestre avesse avuto
antenati acquatici. Tuttavia il pensatore che ci dà più di ogni altro
l'impressione che i venticinque secoli che lo separano da Darwin e da Nietzsche
siano stati una lunga e tutto sommato improduttiva digressione, non è
Anassimandro, ma Eraclito, il grande Eraclito che fu forse suo discepolo, e del
quale Nietzsche disse di «mettere a parte il nome con venerazione».
Eraclito fu detto dai suoi contemporanei skoteinos, "oscuro", poiché,
esattamente come Darwin e come Nietzsche, parlava un linguaggio talmente chiaro
da indurre i più a preferire di non capire. Eraclito è noto come il filosofo del
panta rei, del "tutto scorre", del «non ci si bagna due volte nello stesso
fiume, perché l'acqua nella quale ci eravamo immersi la prima volta è già scorsa
a valle», ma è soprattutto il pensatore che vede il mondo, nella sua essenza,
basato sul conflitto, sull'antagonismo, la lotta, l'equilibrio dinamico di
tensioni opposte, che scrive che «Omero ed Esiodo, che pregano gli dei di dare
la pace al mondo, non sono consapevoli di pregare per sua morte». Egli fa il
paragone dell'arco che, in quanto tale, esiste soltanto perché le opposte
tensioni della corda e dell'asta sono in equilibrio; se prevale la tensione
della corda e l'asta si spezza, non avremo più l'arco ma una corda con due pezzi
di legno alle estremità; se prevale la tensione dell'asta ed è la corda a
spezzarsi, avremo invece un bastone con alle estremità due funicelle. Eraclito
non si ferma a questo: il conflitto fra tensione antagoniste, la guerra, la
competizione, non solo mantengono l'equilibrio del mondo, ma, e qui pare
veramente di leggere Darwin con venticinque secoli di anticipo, hanno un potere
creatore, sono il potere creatore, egli scrive: «La guerra è madre e regina di
tutte le cose». Subito dopo egli sposta l'attenzione dalla realtà naturale al
mondo umano, aggiungendo: «Di alcuni essa fa degli uomini, di altri degli dei».
Su questo punto è necessario essere molto chiari e non prestare il fianco ad
equivoci. In altre epoche, quando la guerra non era, come oggi, l'assoluto
dominio della tecnologia, quando l'abilità ed il coraggio dei combattenti
contavano più del potenziale distruttivo, del livello tecnologico degli
armamenti, essa poteva trasformare i ragazzi in uomini e gli uomini in eroi.
Oggi certamente non è più così; nella nostra epoca non ci sono più guerrieri, ma
le guerre non sono scomparse ma hanno, se possibile, ampliato indefinitamente la
loro brutalità e distruttività. Ciò non è avvenuto solo in conseguenza
dell'evoluzione tecnologica degli armamenti, ma anche di una precisa "filosofia"
bellica. I nostri antenati avevano un'idea di conflitto "leale" che prevedeva
una sostanziale parità dei combattenti ed il fatto di tenere gli inermi quanto
più possibile fuori da esso. Questa concezione è stata ribaltata dalla comparsa
sulla scena mondiale degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica.
La "filosofia" bellica degli Stati Uniti non tende ad evitare, ma prescrive il
massacro di civili inermi come metodo per demoralizzare la resistenza
avversaria, e per creare una situazione che assicuri morti tendenzialmente zero
alle proprie truppe e morti tendenzialmente infiniti all'avversario. Questo
concetto bellico fu ampiamente sperimentato nella seconda guerra mondiale con
bombardamenti che fecero quattro milioni di morti fra la popolazione civile in
Europa e che possono essere a tutti gli effetti considerati un genocidio, non un
crimine di guerra ma un crimine contro l'umanità e, per citare di nuovo
Cacciari, «niente di meno dell'olocausto nucleare» contro il Giappone, ma è
importante notare che nel XIX secolo, quando ancora in Europa si credeva ad
un'idea di guerra "leale" e tutto sommato romantica, gli Stati Uniti procedevano
allo sterminio, al genocidio degli Americani nativi, i cosiddetti "Pellirosse"
che avevano la colpa di abitare i territori che gli yankee andavano occupando,
qualcosa come cinque milioni di persone.
Un uguale contributo all'imbarbarimento dell'idea stessa di conflitto è venuto
dai Sovietici sinistramente animati dal comunismo, ideologia assassina di per
sé. Noi non abbiamo dati precisi, ma sappiamo che prima della seconda guerra
mondiale vivevano nelle terre ad est dell'Oder quindici milioni di tedeschi, la
cui presenza è stata cancellata dall'Armata Rossa. Dopo il conflitto, sono stati
contati dodici milioni di profughi, ed i tre milioni che mancano all'appello?
Con ogni probabilità hanno fatto la stessa fine degli Italiani massacrati sulla
sponda orientale dell'Adriatico dalle truppe del maresciallo Tito, qualcosa come
80-100 mila persone secondo le stime più attendibili. La guerra moderna, quindi,
è qualcosa di molto diverso rispetto a ciò cui pensava Eraclito. Tanto più che
oggi che le guerre non sono decise in alcun modo dalla superiorità fisica o
genetica dei contendenti ma esclusivamente dal loro livello tecnologico, esse
non esercitano alcuna funzione selettiva, ma sono esclusivamente distruzione
indifferenziata.
Ad ogni modo, dovremmo ammirare la grande intuizione circa il ruolo creativo
della lotta per l'esistenza che precorre Darwin di due millenni e mezzo,
concepita senza disporre dei metodi d'indagine della scienza moderna, ma
probabilmente frutto di una conoscenza empirica, di una protratta familiarità
con il mondo naturale che noi, civilizzati ed auto-addomesticati (direbbe Konrad
Lorenz) uomini moderni non riusciamo più, perlopiù, ad avere.
«Idee moderne, dunque false» apparirebbero piuttosto il creazionismo e la netta
separazione fra essere umano e mondo naturale approdati in Europa con il
cristianesimo oltre mezzo millennio più tardi.
Io credo che nessun'altra concezione del mondo, nessun'altra Weltanschauung
possa ricevere un avallo così esplicito dalla conoscenza scientifica, la
preservazione della comunità nazionale intesa come identità etnica, comune
genoma, Volksgemeinschaft e lo spirito della selezione che sta all'opposto
dell'adorazione cristiana della deformità, della malattia, della bruttura, di
tutto ciò che è malriuscito. Sono concetti che bisognerebbe avere estremamente
chiari nel momento in cui la nostra identità etnico- biologica è minacciata
dall'immigrazione, e la nostra identità culturale è sottoposta al doppio attacco
del fondamentalismo islamico ma anche ed ancor di più, perché non ci aggredisce
da fuori dai nostri confini, del simmetrico fondamentalismo biblico
"neo-conservatore" oggi emergente negli USA, che non a caso vede nel darwinismo
uno dei suoi bersagli preferiti. Ciò nonostante, non preferiamo accantonare ciò
e ricorrere a vaghe suggestioni spiritualiste; scusate tanto, ma è come se
avessimo nel nostro arsenale un potente pezzo d'artiglieria ma preferissimo
scendere in battaglia con le fionde! I vagheggiatori di vaghi spiritualismi, che
purtroppo abbondano fra i conservatori, i tradizionalisti, le file della
"destra", qualunque cosa ciò significhi, potrebbero obiettare che ciò non sia
altro che un "razzismo" od un "materialismo biologico" od un "biologismo
materialista"; ebbene, in tal caso, costoro non hanno capito nulla, poiché
«razza non è altro che spirito visto dall'esterno, così come "spirito" è razza
vista dall'interno». (A. Rosenberg)
In un recente saggio apparso su "Thule Italia", "Origine del monoteismo e sue
conseguenze in Europa", Silvano Lorenzoni e Gianantonio Valli hanno scritto che
sostituire all'esperienza del sacro la "fede in Dio" è come sostituire un arto
vivente con una protesi. (7)
Si può essere d'accordo a patto di comprendere cosa si debba intendere per
"esperienza del sacro": escludendo la dubbia casistica paranormale nella quale
rientrano anche i "miracoli" cattolici o le visioni mistiche degli anacoreti
così simili agli esiti di un'intossicazione tossicologica, mi pare che esista
un'unica esperienza possibile del sacro: la percezione della sacralità della
vita stessa. La sacralità della vita, la percezione della santità della vita che
scorre attraverso di noi, attorno a noi, che ci precede nel tempo e proseguirà
dopo la nostra esistenza fisica, formando delle comunità cui gli uomini possono
dare il nome di Patria.
Se noi abbiamo compreso questo, possiamo anche capire che sebbene le leggi
imposte sessant'anni fa dai vincitori ed applicate con zelo crescente dai loro
lacché c'impediscono di usare il termine giusto e ci costringono a ricorrere a
perifrasi, noi sappiamo benissimo ciò che siamo, e non abbiamo alcun bisogno di
definirci di destra, di estrema destra, conservatori, tradizionalisti, o
quant'altro. Ciò che noi siamo è definito perfettamente da una parola di otto
lettere.
Fabio Calabrese
Note
1) Louis Pauwels, Jacques Bergier: Il mattino
dei maghi (Le matin des magiciens), Mondadori, Milano 1962.
2) Mario Polia : Che cos'è la tradizione, "Minas Tirith" n. 13, Società
Tolkieniana Italiana, Udine 2005.
3) Al riguardo, Alberto B. Mariantoni mi ha fatto pervenire questa
interessantissima precisazione: Quando citi religione, da religo, as, religavi,
religatum, religare ("legare", "rilegare" e, per estensione forzata, "legarsi
nei confronti di qualcuno o di qualcosa"), dovresti ugualmente precisare: "In
senso giudeo-cristiano".
Le ragioni sono le seguenti:
religo, as -usato nel senso di religione- è semplicemente un verbo improprio.
Nella letteratura classica latina, infatti, si attribuisce a questo verbo il
significato ed il senso di "legare indietro", "legare da dietro o per di dietro"
un carro. (Cicerone, "Tuscolanae disputationes" 1, 105); oppure, di "fissare gli
ormeggi", "legare le gomene" di una nave. (Cesare, "De bello civili" 3, 15, 2);
o ancora di "legare" le travi alle tavole o agli assi. (Cesare, "De bello
civili" 2, 9, 5; 2, 10, 3). Come sai, invece, questo verbo è stato artatamente e
volutamente utilizzato e diffuso dalla Patristica occidentale (Tertullianus,
Minucius Felix, Ireneus, Lactantius, Augustinus, Servius, Calcidius, ecc.) per
tentare di dimostrare, ad usum delphini, l'indimostrabile tesi dell'Ipostasi,
oppure quella di presupposti "legami" tra l'uomo e Dio o tra il cosiddetto
aldiquà ed un congetturato aldilà.
b. In senso Latino e Romano (come precisa Cicerone in "De natura deorum" 2, 28;
2, 72), infatti, il vocabolo religione, viene etimologicamente fatto derivare da
relego, is, relegi, relectum, relegere che significa "rileggere", "scorrere di
nuovo", "rivedere con cura" e, per estensione, "osservare scrupolosamente un
rito o le gestualità di un culto".
Ciò non altera la sostanza del mio discorso, ma semmai la rafforza, perché per
l'uomo antico, i riti ed i comportamenti condivisi erano precisamente ciò che
legava gli uni agli altri i membri di una comunità, in vita e nel destino
ultraterreno; al contrario, la parola nel senso cristiano viene ad indicare il
legame con un presunto trascendente che azzera i legami civili e l'eticità
civica, appunto "separa l'uomo dal cittadino". Quando noi parliamo di una
religione di tipo semitico (ebraismo, cristianesimo, islam), non dobbiamo
dimenticare che per essa agire moralmente significa solo cercare di compiacere
il volere inesplicabile della propria divinità: è solo un caso fortuito se essa
prescrive comportamenti eticamente accettabili, ma essa può prescrivere
altrettanto bene lo sterminio degli "infedeli",
la conversione forzata, la messa al rogo degli eretici, o la presunzione
razzista della superiorità della tribù degli adoratori del suddetto "Dio", del
"popolo eletto" su tutte le altre nazioni della Terra.
4) Maurizio Blondet: "Gli "adelphi" della dissoluzione", Ares, Milano 2000.
5) Ibid.
6) Friedrich Nietzsche: "Così parlò Zarathustra" (Also sprach Zarathustra),
Mursia, Milano 1962.
7) Silvano Lorenzoni, Gianantonio Valli: "Origine del monoteismo e sue
conseguenze in Europa", "Thule Italia", on line, www.thule-italia.net
http://www.thule-italia.net/religione/monoteismo.html |