L'uomo che piantava gli alberi
di Jean Giono
Perché la personalità di un uomo riveli qualità veramente eccezionali, bisogna
avere la fortuna di poter osservare la sua azione nel corso di lunghi anni. Se
tale azione è priva di ogni egoismo, se l'idea che la dirige è di una generosità
senza pari, se con assoluta certezza non ha mai ricercato alcuna ricompensa e
per di più ha lasciato sul mondo tracce visibili, ci troviamo allora, senza
rischio d'errore, di fronte a una personalità indimenticabile.
Una quarantina circa di anni fa, stavo facendo una lunga camminata, tra cime
assolutamente sconosciute ai turisti, in quella antica regione delle Alpi che
penetra in Provenza. Questa regione è delimitata a sud-est e a sud dal corso
medio della Durance, tra Sisteron e Mirabeau; a nord dal corso superiore della
Drôme, dalla sorgente fino a Die; a ovest dalle pianure del Comtat Venaissin e i
contrafforti del Monte Ventoux. Essa comprende tutta la parte settentrionale del
dipartimento delle Basse Alpi, il sud della Drôme e una piccola enclave della
Valchiusa. Si trattava, quando intrapresi la mia lunga passeggiata in quel
deserto, di lande nude e monotone, tra i milledue e i milletrecento metri di
altitudine. L'unica vegetazione che vi cresceva era la lavanda selvatica.
Attraverso la regione per la sua massima larghezza e, dopo tre giorni di marcia,
mi trovavo in mezzo a una desolazione senza pari. Mi accampai di fianco allo
scheletro di un villaggio abbandonato. Non avevo più acqua dal giorno prima e
avevo necessità di trovarne. Quell'agglomerato di case, benché in rovina, simile
a un vecchio alveare, mi fece pensare che dovevano esserci stati, una volta, una
fonte o un pozzo. C'era difatti una fonte, ma secca. Le cinque o sei case senza
tetto, corrose dal vento e dalla pioggia, e la piccola cappella col campanile
crollato erano disposte come le case e le cappelle dei villaggi abitati, ma la
vita era scomparsa. Era una bella giornata di giugno, molto assolata ma, su
quelle terre senza riparo e alte nel cielo, il vento soffiava con brutalità
insopportabile. I suoi ruggiti nelle carcasse delle case erano quelli d'una
belva molestata durante il pasto. Dovetti riprendere la marcia. Cinque ore più
tardi, non avevo ancora trovato acqua e nulla mi dava speranza di trovarne.
Dappertutto la stessa aridità, le stesse erbacce legnose. Mi parve di scorgere
in lontananza una piccola sagoma nera, in piedi. La presi per il tronco di un
albero solitario. A ogni modo mi avvicinai. Era un pastore. Una trentina di
pecore sdraiate sulla terra cocente si riposavano accanto a lui. Mi fece bere
dalla sua borraccia e, poco più tardi, mi portò nel suo ovile, in una
ondulazione del pianoro. Tirava su l'acqua, ottima, da un foro naturale molto
profondo, al di sopra del quale aveva installato un rudimentale verricello.
L'uomo parlava poco, com'è nella natura dei solitari, ma lo si sentiva sicuro di
sé e confidente in quella sicurezza. Era una presenza insolita in quella regione
spogliata di tutto. Non abitava in una capanna ma in una vera casa di pietra, ed
era evidente come il suo lavoro personale avesse rappezzato la rovina che aveva
trovato al suo arrivo. Il tetto era solido e stagno. Il vento che lo batteva
faceva sulla tegole il rumore del mare sulla spiaggia. La casa era in ordine, i
piatti lavati, il pavimento di legno spazzato, il fucile ingrassato; la minestra
bolliva sul fuoco. Notai che anche l'uomo era rasato di fresco, che tutti i suoi
bottoni erano solidamente cuciti, che i suoi vestiti erano rammendati con la
cura minuziosa che rende i rammendi invisibili. Divise con me la minestra e,
quando gli offrii la borsa del tabacco, mi rispose che non fumava. Il suo cane,
silenzioso come lui, era affettuoso senza bassezza. Era rimasto subito inteso
che avrei passato la notte da lui: il villaggio più vicino era a più di un
giorno e mezzo di cammino. E, oltretutto conoscevo perfettamente il carattere
dei rari villaggi di quella regione. Ce ne sono quattro o cinque sparsi lontani
gli uni dagli altri sulle pendici di quelle cime, nei boschi di querce al fondo
estremo delle strade carrozzabili. Sono abitati da boscaioli che producono
carbone di legno. Sono posti dove si vive male. Le famiglie, serrate l'una
contro l'altra in quel clima di una rudezza eccessiva, d'estate come d'inverno,
esasperano il proprio egoismo sotto vuoto. L'ambizione irragionevole si sviluppa
senza misura, nel desiderio di sfuggire a quei luoghi. Gli uomini portano il
carbone in città con i camion, poi tornano. Le più solide qualità scricchiolano
sotto questa perpetua doccia scozzese. Le donne covano rancori. C'è concorrenza
su tutto. Per la vendita del carbone come per il banco di chiesa, per le virtù
che lottano tra loro e per il miscuglio generale dei vizi e delle virtù, senza
posa. Per sovrappiù, il vento altrettanto senza posa irrita i nervi. Ci sono
epidemie di suicidi e numerosi casi di follia, quasi sempre assassina. Il
pastore che non fumava prese un sacco e rovesciò sul tavolo un mucchio di
ghiande. Si mise a esaminarle l'una dopo l'altra con grande attenzione,
separando le buone dalle guaste. Io fumavo la pipa. Gli proposi di aiutarlo. Mi
rispose che era affar suo. In effetti: vista la cura che metteva in quel lavoro,
non insistetti. Fu tutta la nostra conversazione. Quando ebbe messo dalla parte
delle buone un mucchio abbastanza grosso di ghiande, le divise in mucchietti da
dieci. Così facendo, eliminò ancora i frutti piccoli o quelli leggermente
screpolati, poiché li esaminava molto da vicino. Quando infine ebbe davanti a sé
cento ghiande perfette, si fermò e andammo a dormire. La società di quell'uomo
dava pace. Gli domandai l'indomani il permesso di riposarmi l'intera giornata da
lui. Lo trovò del tutto naturale o, più esattamente, mi diede l'impressione che
nulla potesse disturbarlo. Quel riposo non mi era affatto necessario, ma ero
intrigato e ne volevo sapere di più. Il pastore fece uscire il suo gregge e lo
portò al pascolo. Prima di uscire, bagnò in un secchio d'acqua il sacco in cui
aveva messo le ghiande meticolosamente scelte e contate. Notai che in guisa di
bastone portava un'asta di ferro della grossezza di un pollice e lunga un metro
e mezzo. Feci mostra di voler fare una passeggiata di riposo e seguii una strada
parallela alla sua. Il pascolo delle bestie era in un avvallamento. Lasciò il
piccolo gregge in guardia al cane e salì verso di me. Temetti che venisse per
rimproverarmi della mia indiscrezione ma niente affatto, quella era la strada
che doveva fare e m'invitò ad accompagnarlo se non avevo nulla di meglio. Andava
a duecento metri da lì, più a monte. Arrivato dove desiderava, cominciò a
piantare la sua asta di ferro in terra. Faceva così un buco nel quale depositava
una ghianda, dopo di che turava di nuovo il buco. Piantava querce. Gli domandai
se quella terra gli apparteneva. Mi rispose di no. Sapeva di chi era? Non lo
sapeva. Supponeva che fosse una terra comunale, o forse proprietà di gente che
non se ne curava? Non gli interessava conoscerne i proprietari. Piantò così le
cento ghiande con estrema cura. Dopo il pranzo di mezzogiorno, ricominciò a
scegliere le ghiande. Misi, credo, sufficiente insistenza nelle mie domande,
perché mi rispose. Da tre anni piantava alberi in quella solitudine. Ne aveva
piantati centomila. Di centomila ne erano spuntati ventimila. Di quei ventimila,
contava di perderne ancora la metà, a causa dei roditori o di tutto quello che
c'è di imprevedibile nei disegni della Provvidenza. Restavano diecimila querce
che sarebbero cresciute in quel posto dove prima non c'era nulla. Fu a quel
momento che mi interessai dell'età di quell'uomo. Aveva evidentemente più di
cinquant'anni. Cinquantacinque, mi disse lui. Si chiamava Elzéard Bouffier.
Aveva posseduto una fattoria in pianura. Aveva vissuto la sua vita. Aveva perso
il figlio unico, poi la moglie. S'era ritirato nella solitudine dove trovava
piacere a vivere lentamente, con le pecore e il cane. Aveva pensato che quel
paese sarebbe morto per mancanza di alberi. Aggiunse che, non avendo altre
occupazioni più importanti, s'era risolto a rimediare a quello stato di cose.
Poiché conducevo anch'io in quel momento, malgrado la giovane età, una vita
solitaria, sapevo toccare con delicatezza l'anima dei solitari. Tuttavia,
commisi un errore. La mia giovane età, appunto, mi portava a immaginare
l'avvenire in funzione di me stesso e di una qual certa ricerca di felicità.
Dissi che, nel giro di trent'anni, quelle diecimila querce sarebbero state
magnifiche. Mi rispose con gran semplicità che, se Dio gli avesse prestato vita,
nel giro di trent'anni ne avrebbe piantate tante altre che quelle diecimila
sarebbero state come una goccia nel mare. Stava già studiando, d'altra parte, la
riproduzione dei faggi e aveva accanto alla casa un vivaio generato dalle
faggine. I soggetti, che aveva protetto dalle pecore con una barriera di rete
metallica, erano di grande bellezza. Pensava inoltre alle betulle per i terreni
dove, mi diceva, una certa umidità dormiva a qualche metro dalla superficie del
suolo. Ci separammo il giorno dopo.
L'anno seguente, ci fu la guerra del '14, che mi impegnò per cinque anni. Un
soldato di fanteria non poteva pensare agli alberi. A dir la verità, la cosa non
mi era nemmeno rimasta impressa; l'avevo considerata come un passatempo, una
collezione di francobolli, e dimenticata. Finita la guerra, mi trovai con
un'indennità di congedo minuscola ma con il grande desiderio di respirare un po'
di aria pura. Senza idee preconcette, quindi, tranne quella, ripresi la strada
di quelle contrade deserte. Il paese non era cambiato. Tuttavia, oltre il
villaggio abbandonato, scorsi in lontananza una specie di nebbia grigia che
ricopriva le cime come un tappeto. Dalla vigilia, m'ero rimesso a pensare a quel
pastore che piantava gli alberi. Diecimila querce mi dicevo, occupano davvero un
grande spazio. Avevo visto morire troppa gente in cinque anni per non
immaginarmi facilmente anche la morte di Elzélard Bouffier, tanto più che,
quando si ha vent'anni, si considerano le persone di cinquanta come dei vecchi a
cui resta soltanto da morire. Non era morto. Era anzi in ottima forma. Aveva
cambiato mestiere. Gli erano rimaste solo quattro pecore ma, in cambio,
possedeva un centinaio di alveari. Si era sbarazzato delle bestie che mettevano
in pericolo i suoi alberi. Perché, mi disse (e lo constatai), non s'era per
nulla curato della guerra. Aveva continuato imperturbabilmente a piantarle. Le
querce del 1910 avevano adesso dieci anni ed erano più alte di me e di lui. Lo
spettacolo era impressionante. Ero letteralmente ammutolito e, poiché lui non
parlava, passammo l'intera giornata a passeggiare in silenzio per la sua
foresta. Misurava, in tre tronconi, undici chilometri nella sua lunghezza
massima. Se si teneva a mente che era tutto scaturito dalle mani e dall'anima di
quell'uomo, senza mezzi tecnici, si comprendeva come gli uomini potrebbero
essere altrettanto efficaci di Dio in altri campi oltre alla distruzione. Aveva
seguito la sua idea, e i faggi che mi arrivavano alle spalle, sparsi a perdita
d'occhio, ne erano la prova. Le querce erano fitte e avevano passata l'età in
cui potevano essere alla mercè dei roditori; quanto ai disegni della Provvidenza
stessa per distruggere l'opera creata, avrebbe dovuto ormai ricorrere ai
cicloni. Bouffier mi mostrò dei mirabili boschetti di betulle che datavano a
cinque anni prima, cioè 1915, l'epoca in cui io combattevo a Verdun. Le aveva
piantate in tutti i terreni in cui sospettava, a ragione, che ci fosse l'umidità
quasi a fior di terra. Erano tenere come delle adolescenti e molto decise. Il
processo aveva l'aria, d'altra parte, di funzionare a catena. Lui non se ne
curava; perseguiva ostinatamente il proprio compito, molto semplice. Ma,
ridiscendendo al villaggio, vidi scorrere dell'acqua in ruscelli che, a memoria
d'uomo, erano sempre stati secchi. Era la più straordinaria forma di reazione
che abbia mai avuto modo di vedere. Quei ruscelli avevano già portato
dell'acqua, in tempi molto antichi. Alcuni dei tristi villaggi di cui ho parlato
all'inizio del mio racconto sorgevano su siti di antichi villaggi gallo-romani
di cui restavano ancora le vestigia, nelle quali gli archeologi avevano scavato,
trovando ami in posti dove nel ventesimo secolo si doveva far ricorso alle
cisterne per avere un po' d'acqua. Anche il vento disperdeva certi semi. Con
l'acqua erano riapparsi anche i salici, i giunchi, i prati, i giardini, i fiori
e una certa ragione di vivere. Ma la trasformazione avveniva così lentamente che
entrava nell'abitudine senza provocare stupore. I cacciatori che salivano in
quelle solitudini seguendo le lepri o i cinghiali s'erano accorti del rigoglio
di alberelli, ma l'avevano messo in conto alle malizie naturali della terra.
Perciò nessuno disturbava l'opera di quell'uomo. Se l'avessero sospettato,
l'avrebbero ostacolato. Era insospettabile. Chi avrebbe potuto immaginare, nei
villaggi e nelle amministrazioni, una tale ostinazione nella più magnifica
generosità?
A partire dal 1920, non ho mai lasciato passare più d'un anno senza andare a
trovare Elzélard Bouffier. Non l'ho mai visto cedere o dubitare. Eppure, Dio
solo sa di averlo messo alla prova! Non ho fatto il conto delle sue delusioni. È
facile immaginarsi tuttavia che, per una simile riuscita, sia stato necessario
vincere le avversità; che, per assicurare la vittoria di tanta passione, sia
stato necessario lottar contro lo sconforto. Bouffier aveva piantato, un anno,
più di diecimila aceri. Morirono tutti. L'anno dopo, abbandonò gli aceri per
riprendere i faggi che riuscirono ancora meglio delle querce. Per farsi un'idea
precisa di quell'eccezionale carattere, non bisogna dimenticare che operava in
una solitudine totale; al punto che, verso la fine della sua vita, aveva perso
del tutto l'abitudine a parlare. O, forse, non ne vedeva la necessità. Nel 1933,
ricevette la visita di una guardia forestale sbalordita. Il funzionario gli
intimò l'ordine di non accendere fuochi all'aperto, per non mettere in pericolo
la crescita di quella foresta naturale. Era la prima volta, gli spiegò
quell'uomo ingenuo, che si vedeva una foresta spuntare da sola. A quell'epoca,
Bouffier andava a piantare faggi a dodici chilometri da casa. Per evitare il
viaggio di andata e ritorno, poiché aveva ormai settantacinque anni, stava
considerando la possibilità di costruirsi una casupola di pietra sul luogo
stesso dove piantava. Ciò che fece l'anno seguente. Nel 1935, una vera e propria
delegazione governativa venne a esaminare la foresta naturale. C'erano un pezzo
grosso delle Acque e Foreste, un deputato, dei tecnici. Fu deciso di fare
qualcosa e, fortunatamente, non si fece nulla, tranne l'unica cosa utile:
mettere la foresta sotto tutela dello Stato e proibire che si venisse a farne
carbone. Perché era impossibile non restare soggiogati dalla bellezza di quei
giovani alberi in piena salute. Esercitò il proprio poter di seduzione persino
sul deputato. Un capitano forestale mio amico faceva parte della delegazione.
Gli spiegai il mistero. Un giorno della settimana seguente, andammo insieme a
cercare Elzélard Bouffier. Lo trovammo in pieno lavoro, a venti chilometri da
dove aveva avuto luogo l'ispezione. Quel capitano forestale non era mio amico
per nulla. Conosceva il valore delle cose. Seppe restare in silenzio. Offrii le
uova che avevo portato in regalo. Dividemmo il nostro spuntino in tre e restammo
qualche ora nella muta contemplazione del paesaggio. La costa che avevamo
percorso era coperta di alberi che andavano da sei a otto metri di altezza. Mi
ricordavo l'aspetto di quelle terre nel 1913, il deserto… Il lavoro calmo e
regolare, l'aria viva d'altura, la frugalità e soprattutto la serenità
dell'anima avevano conferito a quel vecchio una salute quasi solenne. Era un
atleta di dio. Mi domandavo quanti altri ettari avrebbe coperto d'alberi. Prima
di partire, il mio amico azzardò soltanto qualche suggerimento a proposito di
certe essenze alle quali il terreno sembrava adattarsi. Non insistette. «Per la
semplice ragione» mi spiegò poi, «che quel signore ne sa più di me». Dopo un'ora
di cammino, dopo che l'idea aveva progredito in lui, aggiunse: «Ne sa di più di
tutti. Ha trovato un bel modo di essere felice!».
È grazie a quel capitano che, non solo la foresta, ma anche la felicità di
quell'uomo furono protette. Fece nominare tre guardie forestali per quella
protezione e le terrorizzò a tal punto che rimasero sempre insensibili alle
mazzette offerte dai boscaioli. L'opera corse un grave rischio solo durante la
guerra del 1939. Poiché le automobili andavano allora a gasogeno, non c'era mai
abbastanza legna. Cominciarono a tagliare le querce del 1910, ma l'area era
talmente lontana da tutte le reti stradali che l'impresa si rivelò fallimentare
dal punto di vista finanziario. Fu abbandonata. Il pastore non aveva visto
nulla. Era a trenta chilometri di distanza, e continuava pacificamente il
proprio lavoro, ignorando la guerra del '39 come aveva ignorato quella del '14.
Ho visto Elzélard Bouffier per l'ultima volta nel giugno del 1945. Aveva
ottantasette anni. Avevo ripreso la strada del deserto, ma adesso, nonostante la
rovina in cui la guerra aveva lasciato il paese, c'era una corriera che faceva
servizio tra la valle della Durance e la montagna. Misi sul conto di quel mezzo
di trasporto relativamente rapido il fatto che non riconoscessi più i luoghi
delle mie prime passeggiate. Mi parve anche che l'itinerario mi facesse passare
in posti nuovi. Ebbi bisogno del nome di un villaggio per concludere che invece
mi trovavo proprio in quella zona un tempo in rovina e desolata. La corriera mi
depositò a Vergons. Nel 1913, quella frazione di una dozzina di case contava tre
abitanti. Erano dei selvaggi, si odiavano, vivevano di caccia con le trappole;
più o meno erano nello stato fisico e morale degli uomini preistorici. Le
ortiche divoravano attorno a loro le case abbandonate. Ora tutto era cambiato.
L'aria stessa. Invece delle bufere secche e brutali che mi avevano accolto un
tempo, soffiava una brezza docile carica di odori. Un rumore simile a quello
dell'acqua veniva dalla cima delle montagne: era il vento della foresta. Infine,
cosa più sorprendente, udii il vero rumore dell'acqua scrosciante in una vasca.
Vidi che avevano costruito una fontana; l'acqua vi era abbondante e, ciò che
soprattutto mi commosse, vidi che vicino ad essa avevano piantato un tiglio di
forse quattro anni, già rigoglioso, simbolo incontestabile di una resurrezione.
In generale, Vergons portava i segni di un lavoro per la cui impresa era
necessaria la speranza. La speranza era dunque tornata. Avevano sgomberato le
rovine, abbattuto i muri crollati e ricostruito cinque case. La frazione contava
ormai ventotto abitanti, tra cui quattro giovani famiglie. Le case nuove,
intonacate di fresco, erano circondate da orti in cui crescevano, mescolati ma
allineati, verdure e fiori, cavoli e rose, porre e bocche di leone, sedani e
anemoni. Era ormai un posto dove si aveva voglia di abitare.
Da lì, proseguii a piedi. La guerra da cui eravamo appena usciti non aveva
consentito il rifiorire completo della vita, ma Lazzaro era ormai uscito dalla
tomba. Sulle pendici più basse della montagna, vedevo i campielli di orzo e
segale in erba; in fondo alle strette vallate, qualche prateria verdeggiava.
Sono bastati gli otto anni che ci separano da quell'epoca perché tutta la zona
risplenda di salute e felicità. Dove nel 1913 avevo visto solo rovine, sorgono
ormai fattorie pulite, ben intonacate, che denotano una vita lieta e comoda. Le
vecchie fonti, alimentate dalle piogge e le nevi che la foresta ritiene, hanno
ripreso a scorrere. Le acque sono state canalizzate. A lato di ogni fattoria, in
mezzo a boschetti di aceri, le vasche delle fontane lasciano debordare l'acqua
su tappeti di menta. I villaggi si sono ricostruiti poco a poco. Una popolazione
venuta dalle pianure, dove la terra costa cara, si è stabilita qui, portando
gioventù, movimento, spirito d'avventura. S'incontrano per le strade uomini e
donne ben nutriti, ragazzi e ragazze che sanno ridere e hanno ripreso il gusto
per le feste campestri. Se si conta la vecchia popolazione, irriconoscibile da
quando vive nell'armonia, e i nuovi venuti, più di diecimila persone devono la
loro felicità a Elzélard Bouffier.
Quando penso che un uomo solo, ridotto alle proprie semplici risorse fisiche e
morali, è bastato a far uscire dal deserto quel paese di Canaan, trovo che,
malgrado tutto, la condizione umana sia ammirevole. Ma, se metto in conto quanto
c'è voluto di costanza nella grandezza d'animo e d'accanimento nella generosità
per ottenere questo risultato, l'anima mi si riempie d'un enorme rispetto per
quel vecchio contadino senza cultura che ha saputo portare a buon fine un'opera
degna di Dio. Elzélard Bouffier è morto serenamente nel 1947, all'ospizio di
Banon.
Jean Giono. La bellezza e la gioia portano al divino
Jean Giono e "Le chant du
monde"
Il paganesimo di Jean Giono è stato ben identificato da Thierry Maulnier, che
scriveva nel 1943, nella sua rubrica del quotidiano "L'action française": «Il
signor Giono è uno di quei rari artisti per i quali il grande Pan non è morto e
non è ancora pronto a morire». Punto di vista rafforzato da quello di Henry
Miller: «Nell'opera di Giono chiunque possiede una dose sufficiente di vitalità
e di sensibilità, riconosce subito "le chant du monde". Secondo me questo canto,
di cui egli ci dà con ogni nuovo libro delle variazioni senza fine, è molto più
prezioso, più commovente, più poetico del Cantico delle creature». ("The books
in my life", 1951) Non si saprebbe spiegare meglio quale abisso separi il mondo
biblico dall'universo di Giono.
Questo universo è bagnato di sole, di profumo di timo e lavanda, di canti di
cicale. Figlio della Provenza, la sua patria, con la quale ha un profondo legame
carnale, Jean Giono è nato a Manosque il 30 Marzo 1895. Suo padre, calzolaio,
era anche un po' guaritore. Jean ne erediterà senza dubbio il gusto di guarire
gli animi, e si cimenterà in ciò nel Contadour. Si ricorderà per tutta la vita
del saggio consiglio paterno: «Diffida della ragione». Quanto al nonno, era un
carbonaro, come Angelo dell'"Hussard sur le toit" ("L'Ussaro sul tetto")...
Bella eredità.
La sua infanzia, che egli descrive in "Jean le bleu", è il momento di una
scoperta meravigliata del mondo. Lui che diventerà, grazie ai suoi testi, un
incantatore, è prima incantato, vale a dire è sensibile, intuitivamente,
sensualmente, all'incanto del mondo. Il canto del mondo lo porta prima di tutto
in se stesso.
C'è qualche merito: avendo deciso a sedici anni di lavorare per aiutare i
genitori, entra come "sbriga-faccende" al Banco Nazionale di Sconto di Manosque,
ove doveva restare per diciotto anni. Per evadere da questo grigiore divora in
continuazione e in modo disordinato: "Il libro della giungla", Omero, Virgilio,
Stendhal, Dostoevskij, Shakespeare, i poeti tragici greci in una edizione molto
popolare a 50 centesimi il volume. Questa copiosa iniziazione alla letteratura
gli apre il cammino verso l'universo magico della scrittura.
Ma il destino ha preparato per lui, come per quelli della sua generazione, la
prova più tragica tra tutte: a venti anni conosce, durante quattro interminabili
anni, l'inferno dei campi di battaglia, da Eparges a Verdun (solo undici sono i
superstiti della sua compagnia), da Chemin des Dames alla Somme. Egli
esorcizzerà questo bagno di sangue dipingendo in "Le grand truopeau" il quadro
più terribile, tra quelli che conosco, delle carneficine del 1914-1918.
Dal suo matrimonio nel 1920 nasceranno Aline nel 1926 e Sylvie nel 1934. Saranno
loro le custodi benevole ma tenaci del rifugio dello scrittore, che è la sua
casa, poi, più tardi, della sua memoria. Ritrovando, dopo l'incubo, la sua
Provenza, Giono si purifica camminando zaino in spalla sui sentieri degli
altipiani spazzati dal vento e si siede, al crepuscolo, davanti al fuoco dei
pastori, con i quali parla molto e dei quali saprà raccontare con fervore
l'antica e semplice saggezza.
Nel 1924 inizia, a dire il vero modestamente, la sua carriera letteraria: il suo
amico Lucine Jacques pubblica a proprie spese dei poemi in prosa intitolati "Accompagnés
de la flûte", stampati in 300 esemplari dei quali solo 30 furono venduti.
Tuttavia qui si ritrova tutto Giono: «Il silenzio a denti stretti cammina, a
piedi nudi, lungo i sentieri».
Nel 1927, Giono scrive "Nascita dell'Odissea" (decisamente questo provenzale si
sente molto vicino a «nostra madre la Grecia»), testo rifiutato da Grasset, che
si precipiterà a pubblicarlo nel 1930, perché nel frattempo Giono si è fatto
conoscere. Grazie a Gide, che ha diffuso a Parigi tutte le opinioni positive che
ha di questo sconosciuto nella rivista "Commerce" (che ha lanciato, pensate un
po', Fargue, Valéry, Joyce), egli ha pubblicato nel 1929 "Colline", il cui tema
è il ritorno del "Grande Pan". Lo stesso paganesimo, campestre e gioioso, si
esprime in "Un de Baumugnes", pubblicato anch'esso nel 1929, poi, l'anno
successivo, con "Regain". Seguono a raffica: "Solitude de la pitié", "Présentation
de Pan", "Manosque des plateaux" e "Le serpent d'étoiles" (1933), "Le chant du
monde" (1934), "Que ma joie demeure" (1935). Ecco un autore inesauribile. ma il
fatto è che lui canta, in ogni libro, il suo Paese, la Haute Provence, questa
terra di montagne aspre ove bruciano il sole e le erbe aromatiche. Un Paese di
grande tradizione pastorale e poetica, dove la montagna realizza, nel suo
silenzio e nella sua nudità, l'unione dell'uomo con l'Universo. «La montagna è
mia madre» dichiara Giono in "Voyage en Italie" (1953).
Lassù, sulle rocce, tra i cespugli secchi odorosi o nelle foreste e nell'erba
alta, la vita è potente e semplice, il ritmo dei giorni è lo stesso ritmo della
natura. I venti avvolgono tutto. Gli alti pianori sono luoghi d'esaltazione, di
comunione, agitati da un fremito continuo, da un linguaggio, come le querce di
Dodona. Perché la natura parla a quelli che sanno ascoltarla (gli incantatori lo
sanno, e Giono è un incantatore). E questo linguaggio afferma che tutto è vita:
desiderio, piacere, dolore, crescita, scambio. La natura è vita. Il contadino di
"Colline" lo sa bene: «Egli pensa che uccide quando taglia un albero. Uccide
quando falcia… Ogni cosa è dunque vivente? Tutto, bestie, piante, e chi lo sa?
Forse anche le pietre». Questo è, dalla Grecia antica, il messaggio panteista
che, camminando attraverso il tempo, è giunto fino a noi, grazie ad una catena
di messaggeri, e Giono ne è evidentemente un anello fondamentale. Perché i
personaggi di Giono camminano in mezzo all'«immensa folla degli dei». Dove sono
questi dei? «Sono nell'animo e nella bellezza degli alberi, succo e cuore
brillante dei vegetali, istinto di battersi e di amare delle giovani bestie,
dolcezza feconda delle donne». Tutto è un segno. Bobi, in "Que ma joie demeure"
è affascinato dalle costellazioni, che sono altrettanti messaggi nel cielo:
«Guarda i segni». E "Jean le bleu", cominciando la sua vita di uomo, afferma:
«Ogni parola mi diceva l'importanza del sangue».
L'uomo e gli alberi appartengono allo stesso mondo: «Gli alberi avevano l'odore
penetrante di quando sono in amore». E aggiunge: «L'uomo è come il fogliame
attraverso il quale bisogna che passi il vento perché questo canti». Il
panteismo è la comunione con l'Universo, consiste nel collegarsi al divino
dappertutto presente nel mondo, poiché il mondo è divino, e Giono lo sa bene: «I
temporali, il vento, la pioggia, non ne gioisco più come un uomo, ma sono io il
temporale, il vento, la pioggia».
Bisogna qui metter fine allo stupido controsenso operato da Claudine Chonez
("Giono", 1956, Le Seuil) quando afferma perentoria: «Non c'è religione in
Giono». Due possibilità: o lei non ha letto veramente Giono o confonde (ma non è
la sola, perché duemila anni di condizionamento mentale hanno avuto la stessa
difficoltà a distinguerli) religione e monoteismo. Sicuramente lo stesso Giono
può aumentare la confusione quando dichiara a Jean Carrière (Giono, "La
Manufacture", 1985): «Ammetto di non essere adatto per Dio». Ma è un errore
precisare che il Dio biblico e gli Dei non solo non sono la stessa cosa, ma che
sono anche, senza possibilità d'errore, due concezioni perfettamente e
irrimediabilmente incompatibili. D'altronde ogni ambiguità sparisce quando Giono
si prende la pena di demolire la truffa intellettuale che è la confusione tra
ateismo e paganesimo. Egli spiega il suo punto di vista, ed in maniera
insistente, dialogando con Christian Michelfelder ("Jean Giono et les religions
de la terre", 1938, Gallimard): «L'affermazione dell'uomo libero si esprimerà
sempre in una sorta di paganesimo molto colorato d'umanesimo. E questo è il
motivo per cui sarà un paganesimo umano a salvarci. L'ateo dice no, si
accontenta di rifiutare. Ma il pagano desidera, vuole, e quindi distrugge e
ricostruisce. Il vero mondo sarà un mondo di pagani. L'umanesimo pagano è la
grande affermazione dell'uomo pieno di vita. Resta nell'ateismo qualcosa
dell'atmosfera triste delle religioni spiritualiste. Bisogna tuttavia mettere da
parte i mistici. Ma il paganesimo libera veramente». Gran lettore di Omero, di
Eschilo, di Sofocle, Giono afferma un paganesimo vitale e cosmico per mezzo di
numerosi suoi testi. Perché là sono le vere ricchezze ("Les vraies richesses",
1937): «Noi siamo degli elementi cosmici».
Questa comunione con il cosmo è il messaggio che predica il patriarca di
Contadour, in questa comunità fervente e calorosa che ha raggruppato in un luogo
solitario una cinquantina di persone tra il 1935 e il 1939. Con la pubblicazione
dei "Cahiers de Contadour", ai quali ha collaborato un certo Marc Augier,
sedotto dal carattere fortemente influenzato da Nietzsche di un Giono che
insegna, come Zarathustra, ai suoi ascoltatori-discepoli: «La soluzione è
attuabile attraverso ciascuno».
Il divino, Giono lo percepisce nelle stelle (Le serpent d'étoiles), nell'acqua
(Colline), nella terra (Que ma joie demeure), questa terra materna e dura, amara
e dolce. Ma anche negli animali, questi intermediari tra l'uomo e l'inanimato (o
almeno che ha l'aspetto dell'inanimato). Tutto è vita: «Tutti gli errori
dell'uomo derivano dal fatto che egli immagina di camminare su una cosa morta
mentre i suoi passi s'imprimono in una carne piena di grande volontà».
Giono è un autore che scuote dal torpore (alcuni direbbero un iniziato ma è la
stessa cosa). Egli ha in effetti la capacità rara di risvegliare il lettore, di
farlo passare dall'altro lato dello specchio, con poche parole molto semplici.
Lo testimonia Jean Carrière: «Avevo quattordici anni quando ho letto il primo
libro di Giono, "Que ma joie demeure". La prima frase resterà per me la chiave
di volta della magia, "Era una notte straordinaria". Ogni volta che rileggo
quella frase passa in me la stessa piccola scossa, quella di un bambino
meravigliato dal respiro delle foreste. La magia funziona ancora oggi. Divento
di nuovo lo stesso bambino meravigliato».
Stupore: la capacità di stupire è una qualità rara, una ricchezza che proviene
dall'infanzia e che pochi hanno la fortuna (o la volontà) di conservare e che
provoca la presa in giro delle "persone serie", vale a dire vecchie (perché
l'età non c'entra niente, nel caso specifico molti sono vecchi a vent'anni:
poveri loro). Stupore davanti al mondo, davanti alla vita, questo miracolo,
perché al contrario di ciò che dice "L'Ecclesiaste" ("Vanità delle vanità, tutto
è vanità" Bibbia, Libro dell'Ecclesiaste, Prologo 1,2-11), Giono afferma che "Rien
n'est vanité" ("Nulla è vanità", inedito, presentato da Christian Michelfelder):
«Guarda come tutto conta, come tutto prende posto. Perché ci si è lasciati dire
che tutto è vanità? L'acqua, e il prato, e il vento, e Yvonne (…) Colui che è
solo, in piedi nella notte, canta come un albero ed è tutto sconvolto dalla
canzone della sua carne (…) Sono sempre gli stessi che si stupiscono di San
Francesco che parla agli uccelli».
Perché la vita è un'acqua di sorgente che cola tra le dita. Bisogna vivere ogni
istante come se dovesse essere l'ultimo. In Svizzera, spellando un camoscio,
Giono medita: «Qui è il mistero della vita e del mondo. È un po' di succo verde,
come una pania tra le mie dita. Ciò che sarò un giorno io stesso nel corso della
mia trasformazione tra carne e pianta, tra pianta e pietra, tra pietra e cielo,
tra polvere di stella e spermatozoo in cammino nelle spine dorsali». Ecco sorto
il tema dell'eterno ritorno, della ruota che gira senza fine, la ruota solare
che è simbolo di ogni vita. Una vita che non ha bisogno di giustificazioni, che
basta a se stessa come portatrice di senso in sé: «Noi abbiamo dimenticato che
il nostro solo scopo è quello di vivere e che, vivere, noi lo facciamo ogni
giorno e tutti i giorni e che a tutte le ore del giorno noi raggiungiamo il
nostro vero scopo se viviamo». ("Rondeur des Jours", 1937).
Apollineo per molti tratti della sua opera, Giono è anche, profondamente,
dionisiaco, come l'ha ben compreso Christian Michelfelder sottolineando che uno
degli obiettivi dello scrittore è quello di «rimettere l'uomo nel seguito di
Dioniso». L'eremita di Manosque, del resto, spiega lui stesso ciò attraverso
certe immagini evocatrici. Per esempio, per descrivere nella prefazione delle "Vraies
richesses" (1936) la montagna, la sua montagna di Lure dice: «Questa montagna di
Lure, che si alza nel cielo non come un picco ma come il dorso mostruoso del
toro di Dioniso». Davanti a questa montagna l'uomo si sente «messo di fronte
alla terra».
Si ritrova qui l'influenza di Virgilio, già manifesta dagli "Accompagnés de la
flûte": «Sia che discenda nel mezzo dei fiumi del frutteto, o che s'insinui nel
canneto, questo respiro che tu credi essere il vento è esalato dal dio seduto
lassù, sulla collina, in mezzo alle piante di salvia del cielo». Si pensa
all'Eneide, libro VIII: «Su questa collina dalla cima verdeggiante, un dio,
quale non si sa, sì, un dio risiede qui». E, dice Giono, bisogna tendere
l'orecchio: «E vedi, sotto la sua voce musicale, che goccia a goccia questa sera
cola attraverso i pini, commuoversi le piccole gole bianche di questo
caprifoglio, ed alzarsi l'onda silenziosa degli ulivi argentati».
Giono il meditativo è anche un uomo impegnato civilmente. Fa parte di quelli
che, avendo vissuto sulla loro pelle il 14-18, non vogliono veder tornare la
carneficina stupida e fratricida. È in prima fila nella lotta dei pacifisti
quando firma un telegramma intimidatorio a Daladier e Chamberlain, in data 11
settembre 1938. Per questo è arrestato e rinchiuso nel forte di Saint-Nicolas a
Marsiglia, il 3 settembre 1939. Nonostante le proteste di qualche coraggioso,
tra cui Gide, ci resta fino a novembre. Durante la guerra conduce una vita
ritirata scrivendo poco. Ma commette un errore fatale facendo pubblicare una
novella sul giornale "La Gerbe". (1)
Questo lo porta ad essere arrestato nel 1944 per collaborazionismo da
giustizieri improvvisati, e messo in prigione per sette mesi, nel forte di
Saint-Vincent, nelle Hautes Alpes. Il comitato centrale degli scrittori,
controllato dai comunisti, lo iscrive, naturalmente, nella sua lista nera,
destinata ad impedire di esprimersi ormai ad un gran numero di scrittori, tra i
quali figurano i più grandi nomi della letteratura contemporanea. Ciò si chiama
epurazione. Il crimine di Giono? Tutta la sua opera lo dice: avrebbe potuto
essere l'autore della famosa formula "maréchaliste" (del Maresciallo Pétain),
«la terra non mente». Si capisce di colpo perché egli abbia potuto essere
considerato da alcuni come un elemento particolarmente perverso e pericoloso.
Disincantato, Giono si volta verso una nuova tappa della sua opera. I suoi
romanzi, che conosceranno un grande successo, sono ormai sprovvisti di ogni
aspetto militante. Ma lo fanno affermare definitivamente come un grandissimo
scrittore, riconosciuto come tale durante la sua elezione nel 1954 all'Accademia
Goncourt (e, segno degli dei, per occupare il posto di Colette). Quindi fa
l'esperienza dell'avventura cinematografica, realizzando nel 1960 il suo "Crésus",
impersonato da Fernandel. Il mondo del cinema gli affida la presidenza della
giuria del Festival di Cannes nel 1961. Giono non è più un maledetto, perché il
suo genio ha vinto i mediocri. Dopo la sua morte a Manosque nella notte tra l'8
e il 9 ottobre 1970, la Pléiade gli rende molto in fretta un giusto
riconoscimento pubblicando in sei volumi la sua opera romanzesca, tra il 1971 e
il 1983.
Noi conserviamo nel cuore l'immagine di colui che ci ha risvegliato al canto del
mondo. Colui che diceva: «Il poeta deve essere un professore di speranza». E
nell'ultima frase dei "Grands Chemins" ci dà la ricetta della speranza: «Il sole
non è mai così bello come il giorno in cui ci si mette in cammino».
Allora mettiamoci in cammino. Sappiamo che Jean Giono camminerà al nostro
fianco.
Tratto dal libro di Pierre Vial
"Anthologie païenne",
Les Editions de la Forêt,
Solstizio d'estate 2757 Ab Urbe Condita (2004) 308 pagine, formato 210 x 140
A lungo si rinfaccerà a Giono la pubblicazione di "Deux cavaliers de l'orage"
nella rivista "La Gerbe" (1), e "Description de Marseille le 16 octobre 1939" ne
"La Nouvelle revue française" (2) di Drieu La Rochelle, ed un reportage
fotografico su di lui apparso su "Signal" (edizione francese del periodico
tedesco). A lui sarà imputata anche una certa vicinanza alle idee del regime di
Vichy (ritorno alla terra e all'artigianato, esaltazione della giovinezza), idee
che Giono veicolava da molti anni. Le idee di Giono si riaffermano nella nuova
edizione del 1941 del "Triomphe de la vie". Il libro, assai ben accolto dalla
stampa della collaborazione, sarà uno dei capi d'accusa per lo scrittore al
termine della guerra. Nel 1943 Giono pubblica "L'eau vive" e "Fragments d'un
paradis".
(1) «La Gerbe, fondato e diretto da Alphonse de Châteaubriant l'11 luglio
1940 reca come sottotitolo "Settimanale della volontà francese". Con tiratura di
140.000 copie è, dopo, "Je suis partout" la pubblicazione collaborazionista più
seguita. I suoi principali redattori sono il corrispondente di guerra Marc
Augier, più prossimo al direttore e noto in seguito come Saint-loup, il
cattolico monarchico Bernard Fay, l'ex comunista poi doritista Camille Fégy, e
diversi altri, tra i quali Alfred Canton, Luois-Charles Lecoc, Louis Thomas,
Michèle Lapierre, Jean Passere, Maurice Morel, Aimé Cassar, André Castelot,
Claude Cabry. Tra i collaboratori del giornale figura inoltre il quasi intero
Gotha della Collaborazione: Jacques Benoist-Méchin, Abel Bonnard, Georges
Montandon, Pierre Drieu La Rochelle, Jacques de Lesdain, Ramon Fernandez, Jean
Hérold-Paquis, il nipote di Gobineau Clément Serpeille, Armand Petitjean e
ancora Jean Anouilh, Henry de Montherlant, Paul Morand, Jean-Pierre Maxence,
Marcel Aymé, Dominique Sordet, Pierre Mac Orlan, Maurice Rostand, Jean Giono,
Jean de La Varende». Da Moreno Marchi "I duri di Parigi. L'ideologia, le
riviste, i libri" Ed. Settimo Sigillo, 1997, pag. 67.
"L'antesignano ecologista Giono, piuttosto prossimo al governo del Maresciallo"
(pag. 13) «Al di là dei suoi atteggiamenti intransigenti, o forse proprio per
questo, collaborano a "Je suis partout" molti tra i maggiori intellettuali
dell'epoca, tra i quali Pierre Drieu La Rochelle, Jean Anouilh, Marcel Aymé,
Jean Goino, Pierre Mac Orlan, André Fraigneau, Jean de La Varende, Abel Bonnard.
Vi compaiono inoltre alcune lettere di Louis-Ferdinand Céline, secondo la sua
abitudine di mantenere rapporti con i giornali solo a livello epistolare, e
addirittura, 11 agosto 1941, un racconto Mort subite, dell'italiano Alberto
Moravia. Ma… sapeva quest'ultimo che si trattava di una pubblicazione
antisemita? E, di converso, sapeva la redazione che si trattava di uno scrittore
per metà ebreo?» Moreno Marchi "I duri di Parigi. L'ideologia, le riviste, i
libri" Ed. Settimo Sigillo, 1997, pag. 65.
(2) «"La Nouvelle revue française" è una prestigiosa rivista letteraria
mensile fondata nel 1909 da Gaston Gallimard. Dopo aver interrotto le
pubblicazioni per motivi bellici nel luglio del 1940, "La Nouvelle revue
française" ricompare nel successivo dicembre, per volontà e sotto gli auspici
dell'ambasciatore ed alto commissario tedesco a Parigi Otto Abetz. La dirige
Pierre Drieu La Rochelle. (...) Lo stesso fatto di scrivere o meno sulla NRF
rappresenta un termometro della popolarità alla quale è difficile rinunciare.
Ecco così che tra scrittori ed intellettuali direttamente impegnati nella
politica di collaborazione ed altri, che non lo sono o che vi discordano, su "la
Nouvelle revue française" si ritrova alfine quasi l'intero l'empireo delle
lettere francesi: André Gide, Paul Valere, Henry de Montherlant, Paul Léautaud,
Marcel Aymé, Paul Morand, Abel Bonnard, Paul Eluard, Marcel Jouhandeau, Jean
Giono, Ramon Fernandez, Alfred Fabre-Luce, Jacques Chardonne, Marcel Arland,
André Fraigneau». Moreno Marchi "I duri di Parigi. L'ideologia, le riviste, i
libri" Ed. Settimo Sigillo, 1997, pag. 76
Bibliografia italiana:
"Lettera ai contadini sulla povertà e la pace", Ed. Ponte alle grazie, 2004;
"Note su Machiavelli. Con uno scritto su Firenze", Medusa Edizioni, 2004; "Due
cavalieri nella tempesta", Ed. Guanda, 2003; "L'uomo che piantava gli alberi",
Edizioni Angolo Manzoni, 2003; "L'affare Dominaci", Ed. Sellerio, 2002;
"Angelo", Ed. Tea, 2002; "Il serpente di stelle", Ed. Guanda, 2002; "Morte di un
personaggio", Ed. Passigli, 2001; "Un re senza distrazioni", Ed. Guanda, 2001;
"L'ussaro sul tetto", Ed. Corbaccio, 2001; "Il bambino che sognava l'infinito",
Ed. Salani, 2000; "La menzogna di Ulisse", Ed. Robin, 2000; "Una pazza
felicità", Ed. Tea, 200°; "Il ragazzo celeste", Ed. Guanda, 1999; "Collina", Ed.
Guanda, 1998; "Risveglio", Ed. Passigli 1997; "La fine degli eroi", Ed.
Sellerio, 1996; "Il disertore", Ed. Guanda,
Traduzione, note, bibliografia e iconografia a cura di Harm Wulf |