Italia - Repubblica - Socializzazione

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Perchè non possiamo non dirci pagani

 

Alfonso Piscitelli   

 

L'uomo che piantava gli alberi

di Jean Giono


Perché la personalità di un uomo riveli qualità veramente eccezionali, bisogna avere la fortuna di poter osservare la sua azione nel corso di lunghi anni. Se tale azione è priva di ogni egoismo, se l'idea che la dirige è di una generosità senza pari, se con assoluta certezza non ha mai ricercato alcuna ricompensa e per di più ha lasciato sul mondo tracce visibili, ci troviamo allora, senza rischio d'errore, di fronte a una personalità indimenticabile.

Una quarantina circa di anni fa, stavo facendo una lunga camminata, tra cime assolutamente sconosciute ai turisti, in quella antica regione delle Alpi che penetra in Provenza. Questa regione è delimitata a sud-est e a sud dal corso medio della Durance, tra Sisteron e Mirabeau; a nord dal corso superiore della Drôme, dalla sorgente fino a Die; a ovest dalle pianure del Comtat Venaissin e i contrafforti del Monte Ventoux. Essa comprende tutta la parte settentrionale del dipartimento delle Basse Alpi, il sud della Drôme e una piccola enclave della Valchiusa. Si trattava, quando intrapresi la mia lunga passeggiata in quel deserto, di lande nude e monotone, tra i milledue e i milletrecento metri di altitudine. L'unica vegetazione che vi cresceva era la lavanda selvatica. Attraverso la regione per la sua massima larghezza e, dopo tre giorni di marcia, mi trovavo in mezzo a una desolazione senza pari. Mi accampai di fianco allo scheletro di un villaggio abbandonato. Non avevo più acqua dal giorno prima e avevo necessità di trovarne. Quell'agglomerato di case, benché in rovina, simile a un vecchio alveare, mi fece pensare che dovevano esserci stati, una volta, una fonte o un pozzo. C'era difatti una fonte, ma secca. Le cinque o sei case senza tetto, corrose dal vento e dalla pioggia, e la piccola cappella col campanile crollato erano disposte come le case e le cappelle dei villaggi abitati, ma la vita era scomparsa. Era una bella giornata di giugno, molto assolata ma, su quelle terre senza riparo e alte nel cielo, il vento soffiava con brutalità insopportabile. I suoi ruggiti nelle carcasse delle case erano quelli d'una belva molestata durante il pasto. Dovetti riprendere la marcia. Cinque ore più tardi, non avevo ancora trovato acqua e nulla mi dava speranza di trovarne. Dappertutto la stessa aridità, le stesse erbacce legnose. Mi parve di scorgere in lontananza una piccola sagoma nera, in piedi. La presi per il tronco di un albero solitario. A ogni modo mi avvicinai. Era un pastore. Una trentina di pecore sdraiate sulla terra cocente si riposavano accanto a lui. Mi fece bere dalla sua borraccia e, poco più tardi, mi portò nel suo ovile, in una ondulazione del pianoro. Tirava su l'acqua, ottima, da un foro naturale molto profondo, al di sopra del quale aveva installato un rudimentale verricello. L'uomo parlava poco, com'è nella natura dei solitari, ma lo si sentiva sicuro di sé e confidente in quella sicurezza. Era una presenza insolita in quella regione spogliata di tutto. Non abitava in una capanna ma in una vera casa di pietra, ed era evidente come il suo lavoro personale avesse rappezzato la rovina che aveva trovato al suo arrivo. Il tetto era solido e stagno. Il vento che lo batteva faceva sulla tegole il rumore del mare sulla spiaggia. La casa era in ordine, i piatti lavati, il pavimento di legno spazzato, il fucile ingrassato; la minestra bolliva sul fuoco. Notai che anche l'uomo era rasato di fresco, che tutti i suoi bottoni erano solidamente cuciti, che i suoi vestiti erano rammendati con la cura minuziosa che rende i rammendi invisibili. Divise con me la minestra e, quando gli offrii la borsa del tabacco, mi rispose che non fumava. Il suo cane, silenzioso come lui, era affettuoso senza bassezza. Era rimasto subito inteso che avrei passato la notte da lui: il villaggio più vicino era a più di un giorno e mezzo di cammino. E, oltretutto conoscevo perfettamente il carattere dei rari villaggi di quella regione. Ce ne sono quattro o cinque sparsi lontani gli uni dagli altri sulle pendici di quelle cime, nei boschi di querce al fondo estremo delle strade carrozzabili. Sono abitati da boscaioli che producono carbone di legno. Sono posti dove si vive male. Le famiglie, serrate l'una contro l'altra in quel clima di una rudezza eccessiva, d'estate come d'inverno, esasperano il proprio egoismo sotto vuoto. L'ambizione irragionevole si sviluppa senza misura, nel desiderio di sfuggire a quei luoghi. Gli uomini portano il carbone in città con i camion, poi tornano. Le più solide qualità scricchiolano sotto questa perpetua doccia scozzese. Le donne covano rancori. C'è concorrenza su tutto. Per la vendita del carbone come per il banco di chiesa, per le virtù che lottano tra loro e per il miscuglio generale dei vizi e delle virtù, senza posa. Per sovrappiù, il vento altrettanto senza posa irrita i nervi. Ci sono epidemie di suicidi e numerosi casi di follia, quasi sempre assassina. Il pastore che non fumava prese un sacco e rovesciò sul tavolo un mucchio di ghiande. Si mise a esaminarle l'una dopo l'altra con grande attenzione, separando le buone dalle guaste. Io fumavo la pipa. Gli proposi di aiutarlo. Mi rispose che era affar suo. In effetti: vista la cura che metteva in quel lavoro, non insistetti. Fu tutta la nostra conversazione. Quando ebbe messo dalla parte delle buone un mucchio abbastanza grosso di ghiande, le divise in mucchietti da dieci. Così facendo, eliminò ancora i frutti piccoli o quelli leggermente screpolati, poiché li esaminava molto da vicino. Quando infine ebbe davanti a sé cento ghiande perfette, si fermò e andammo a dormire. La società di quell'uomo dava pace. Gli domandai l'indomani il permesso di riposarmi l'intera giornata da lui. Lo trovò del tutto naturale o, più esattamente, mi diede l'impressione che nulla potesse disturbarlo. Quel riposo non mi era affatto necessario, ma ero intrigato e ne volevo sapere di più. Il pastore fece uscire il suo gregge e lo portò al pascolo. Prima di uscire, bagnò in un secchio d'acqua il sacco in cui aveva messo le ghiande meticolosamente scelte e contate. Notai che in guisa di bastone portava un'asta di ferro della grossezza di un pollice e lunga un metro e mezzo. Feci mostra di voler fare una passeggiata di riposo e seguii una strada parallela alla sua. Il pascolo delle bestie era in un avvallamento. Lasciò il piccolo gregge in guardia al cane e salì verso di me. Temetti che venisse per rimproverarmi della mia indiscrezione ma niente affatto, quella era la strada che doveva fare e m'invitò ad accompagnarlo se non avevo nulla di meglio. Andava a duecento metri da lì, più a monte. Arrivato dove desiderava, cominciò a piantare la sua asta di ferro in terra. Faceva così un buco nel quale depositava una ghianda, dopo di che turava di nuovo il buco. Piantava querce. Gli domandai se quella terra gli apparteneva. Mi rispose di no. Sapeva di chi era? Non lo sapeva. Supponeva che fosse una terra comunale, o forse proprietà di gente che non se ne curava? Non gli interessava conoscerne i proprietari. Piantò così le cento ghiande con estrema cura. Dopo il pranzo di mezzogiorno, ricominciò a scegliere le ghiande. Misi, credo, sufficiente insistenza nelle mie domande, perché mi rispose. Da tre anni piantava alberi in quella solitudine. Ne aveva piantati centomila. Di centomila ne erano spuntati ventimila. Di quei ventimila, contava di perderne ancora la metà, a causa dei roditori o di tutto quello che c'è di imprevedibile nei disegni della Provvidenza. Restavano diecimila querce che sarebbero cresciute in quel posto dove prima non c'era nulla. Fu a quel momento che mi interessai dell'età di quell'uomo. Aveva evidentemente più di cinquant'anni. Cinquantacinque, mi disse lui. Si chiamava Elzéard Bouffier. Aveva posseduto una fattoria in pianura. Aveva vissuto la sua vita. Aveva perso il figlio unico, poi la moglie. S'era ritirato nella solitudine dove trovava piacere a vivere lentamente, con le pecore e il cane. Aveva pensato che quel paese sarebbe morto per mancanza di alberi. Aggiunse che, non avendo altre occupazioni più importanti, s'era risolto a rimediare a quello stato di cose. Poiché conducevo anch'io in quel momento, malgrado la giovane età, una vita solitaria, sapevo toccare con delicatezza l'anima dei solitari. Tuttavia, commisi un errore. La mia giovane età, appunto, mi portava a immaginare l'avvenire in funzione di me stesso e di una qual certa ricerca di felicità. Dissi che, nel giro di trent'anni, quelle diecimila querce sarebbero state magnifiche. Mi rispose con gran semplicità che, se Dio gli avesse prestato vita, nel giro di trent'anni ne avrebbe piantate tante altre che quelle diecimila sarebbero state come una goccia nel mare. Stava già studiando, d'altra parte, la riproduzione dei faggi e aveva accanto alla casa un vivaio generato dalle faggine. I soggetti, che aveva protetto dalle pecore con una barriera di rete metallica, erano di grande bellezza. Pensava inoltre alle betulle per i terreni dove, mi diceva, una certa umidità dormiva a qualche metro dalla superficie del suolo. Ci separammo il giorno dopo.

L'anno seguente, ci fu la guerra del '14, che mi impegnò per cinque anni. Un soldato di fanteria non poteva pensare agli alberi. A dir la verità, la cosa non mi era nemmeno rimasta impressa; l'avevo considerata come un passatempo, una collezione di francobolli, e dimenticata. Finita la guerra, mi trovai con un'indennità di congedo minuscola ma con il grande desiderio di respirare un po' di aria pura. Senza idee preconcette, quindi, tranne quella, ripresi la strada di quelle contrade deserte. Il paese non era cambiato. Tuttavia, oltre il villaggio abbandonato, scorsi in lontananza una specie di nebbia grigia che ricopriva le cime come un tappeto. Dalla vigilia, m'ero rimesso a pensare a quel pastore che piantava gli alberi. Diecimila querce mi dicevo, occupano davvero un grande spazio. Avevo visto morire troppa gente in cinque anni per non immaginarmi facilmente anche la morte di Elzélard Bouffier, tanto più che, quando si ha vent'anni, si considerano le persone di cinquanta come dei vecchi a cui resta soltanto da morire. Non era morto. Era anzi in ottima forma. Aveva cambiato mestiere. Gli erano rimaste solo quattro pecore ma, in cambio, possedeva un centinaio di alveari. Si era sbarazzato delle bestie che mettevano in pericolo i suoi alberi. Perché, mi disse (e lo constatai), non s'era per nulla curato della guerra. Aveva continuato imperturbabilmente a piantarle. Le querce del 1910 avevano adesso dieci anni ed erano più alte di me e di lui. Lo spettacolo era impressionante. Ero letteralmente ammutolito e, poiché lui non parlava, passammo l'intera giornata a passeggiare in silenzio per la sua foresta. Misurava, in tre tronconi, undici chilometri nella sua lunghezza massima. Se si teneva a mente che era tutto scaturito dalle mani e dall'anima di quell'uomo, senza mezzi tecnici, si comprendeva come gli uomini potrebbero essere altrettanto efficaci di Dio in altri campi oltre alla distruzione. Aveva seguito la sua idea, e i faggi che mi arrivavano alle spalle, sparsi a perdita d'occhio, ne erano la prova. Le querce erano fitte e avevano passata l'età in cui potevano essere alla mercè dei roditori; quanto ai disegni della Provvidenza stessa per distruggere l'opera creata, avrebbe dovuto ormai ricorrere ai cicloni. Bouffier mi mostrò dei mirabili boschetti di betulle che datavano a cinque anni prima, cioè 1915, l'epoca in cui io combattevo a Verdun. Le aveva piantate in tutti i terreni in cui sospettava, a ragione, che ci fosse l'umidità quasi a fior di terra. Erano tenere come delle adolescenti e molto decise. Il processo aveva l'aria, d'altra parte, di funzionare a catena. Lui non se ne curava; perseguiva ostinatamente il proprio compito, molto semplice. Ma, ridiscendendo al villaggio, vidi scorrere dell'acqua in ruscelli che, a memoria d'uomo, erano sempre stati secchi. Era la più straordinaria forma di reazione che abbia mai avuto modo di vedere. Quei ruscelli avevano già portato dell'acqua, in tempi molto antichi. Alcuni dei tristi villaggi di cui ho parlato all'inizio del mio racconto sorgevano su siti di antichi villaggi gallo-romani di cui restavano ancora le vestigia, nelle quali gli archeologi avevano scavato, trovando ami in posti dove nel ventesimo secolo si doveva far ricorso alle cisterne per avere un po' d'acqua. Anche il vento disperdeva certi semi. Con l'acqua erano riapparsi anche i salici, i giunchi, i prati, i giardini, i fiori e una certa ragione di vivere. Ma la trasformazione avveniva così lentamente che entrava nell'abitudine senza provocare stupore. I cacciatori che salivano in quelle solitudini seguendo le lepri o i cinghiali s'erano accorti del rigoglio di alberelli, ma l'avevano messo in conto alle malizie naturali della terra. Perciò nessuno disturbava l'opera di quell'uomo. Se l'avessero sospettato, l'avrebbero ostacolato. Era insospettabile. Chi avrebbe potuto immaginare, nei villaggi e nelle amministrazioni, una tale ostinazione nella più magnifica generosità?
A partire dal 1920, non ho mai lasciato passare più d'un anno senza andare a trovare Elzélard Bouffier. Non l'ho mai visto cedere o dubitare. Eppure, Dio solo sa di averlo messo alla prova! Non ho fatto il conto delle sue delusioni. È facile immaginarsi tuttavia che, per una simile riuscita, sia stato necessario vincere le avversità; che, per assicurare la vittoria di tanta passione, sia stato necessario lottar contro lo sconforto. Bouffier aveva piantato, un anno, più di diecimila aceri. Morirono tutti. L'anno dopo, abbandonò gli aceri per riprendere i faggi che riuscirono ancora meglio delle querce. Per farsi un'idea precisa di quell'eccezionale carattere, non bisogna dimenticare che operava in una solitudine totale; al punto che, verso la fine della sua vita, aveva perso del tutto l'abitudine a parlare. O, forse, non ne vedeva la necessità. Nel 1933, ricevette la visita di una guardia forestale sbalordita. Il funzionario gli intimò l'ordine di non accendere fuochi all'aperto, per non mettere in pericolo la crescita di quella foresta naturale. Era la prima volta, gli spiegò quell'uomo ingenuo, che si vedeva una foresta spuntare da sola. A quell'epoca, Bouffier andava a piantare faggi a dodici chilometri da casa. Per evitare il viaggio di andata e ritorno, poiché aveva ormai settantacinque anni, stava considerando la possibilità di costruirsi una casupola di pietra sul luogo stesso dove piantava. Ciò che fece l'anno seguente. Nel 1935, una vera e propria delegazione governativa venne a esaminare la foresta naturale. C'erano un pezzo grosso delle Acque e Foreste, un deputato, dei tecnici. Fu deciso di fare qualcosa e, fortunatamente, non si fece nulla, tranne l'unica cosa utile: mettere la foresta sotto tutela dello Stato e proibire che si venisse a farne carbone. Perché era impossibile non restare soggiogati dalla bellezza di quei giovani alberi in piena salute. Esercitò il proprio poter di seduzione persino sul deputato. Un capitano forestale mio amico faceva parte della delegazione. Gli spiegai il mistero. Un giorno della settimana seguente, andammo insieme a cercare Elzélard Bouffier. Lo trovammo in pieno lavoro, a venti chilometri da dove aveva avuto luogo l'ispezione. Quel capitano forestale non era mio amico per nulla. Conosceva il valore delle cose. Seppe restare in silenzio. Offrii le uova che avevo portato in regalo. Dividemmo il nostro spuntino in tre e restammo qualche ora nella muta contemplazione del paesaggio. La costa che avevamo percorso era coperta di alberi che andavano da sei a otto metri di altezza. Mi ricordavo l'aspetto di quelle terre nel 1913, il deserto… Il lavoro calmo e regolare, l'aria viva d'altura, la frugalità e soprattutto la serenità dell'anima avevano conferito a quel vecchio una salute quasi solenne. Era un atleta di dio. Mi domandavo quanti altri ettari avrebbe coperto d'alberi. Prima di partire, il mio amico azzardò soltanto qualche suggerimento a proposito di certe essenze alle quali il terreno sembrava adattarsi. Non insistette. «Per la semplice ragione» mi spiegò poi, «che quel signore ne sa più di me». Dopo un'ora di cammino, dopo che l'idea aveva progredito in lui, aggiunse: «Ne sa di più di tutti. Ha trovato un bel modo di essere felice!».
È grazie a quel capitano che, non solo la foresta, ma anche la felicità di quell'uomo furono protette. Fece nominare tre guardie forestali per quella protezione e le terrorizzò a tal punto che rimasero sempre insensibili alle mazzette offerte dai boscaioli. L'opera corse un grave rischio solo durante la guerra del 1939. Poiché le automobili andavano allora a gasogeno, non c'era mai abbastanza legna. Cominciarono a tagliare le querce del 1910, ma l'area era talmente lontana da tutte le reti stradali che l'impresa si rivelò fallimentare dal punto di vista finanziario. Fu abbandonata. Il pastore non aveva visto nulla. Era a trenta chilometri di distanza, e continuava pacificamente il proprio lavoro, ignorando la guerra del '39 come aveva ignorato quella del '14.

Ho visto Elzélard Bouffier per l'ultima volta nel giugno del 1945. Aveva ottantasette anni. Avevo ripreso la strada del deserto, ma adesso, nonostante la rovina in cui la guerra aveva lasciato il paese, c'era una corriera che faceva servizio tra la valle della Durance e la montagna. Misi sul conto di quel mezzo di trasporto relativamente rapido il fatto che non riconoscessi più i luoghi delle mie prime passeggiate. Mi parve anche che l'itinerario mi facesse passare in posti nuovi. Ebbi bisogno del nome di un villaggio per concludere che invece mi trovavo proprio in quella zona un tempo in rovina e desolata. La corriera mi depositò a Vergons. Nel 1913, quella frazione di una dozzina di case contava tre abitanti. Erano dei selvaggi, si odiavano, vivevano di caccia con le trappole; più o meno erano nello stato fisico e morale degli uomini preistorici. Le ortiche divoravano attorno a loro le case abbandonate. Ora tutto era cambiato. L'aria stessa. Invece delle bufere secche e brutali che mi avevano accolto un tempo, soffiava una brezza docile carica di odori. Un rumore simile a quello dell'acqua veniva dalla cima delle montagne: era il vento della foresta. Infine, cosa più sorprendente, udii il vero rumore dell'acqua scrosciante in una vasca. Vidi che avevano costruito una fontana; l'acqua vi era abbondante e, ciò che soprattutto mi commosse, vidi che vicino ad essa avevano piantato un tiglio di forse quattro anni, già rigoglioso, simbolo incontestabile di una resurrezione. In generale, Vergons portava i segni di un lavoro per la cui impresa era necessaria la speranza. La speranza era dunque tornata. Avevano sgomberato le rovine, abbattuto i muri crollati e ricostruito cinque case. La frazione contava ormai ventotto abitanti, tra cui quattro giovani famiglie. Le case nuove, intonacate di fresco, erano circondate da orti in cui crescevano, mescolati ma allineati, verdure e fiori, cavoli e rose, porre e bocche di leone, sedani e anemoni. Era ormai un posto dove si aveva voglia di abitare.
Da lì, proseguii a piedi. La guerra da cui eravamo appena usciti non aveva consentito il rifiorire completo della vita, ma Lazzaro era ormai uscito dalla tomba. Sulle pendici più basse della montagna, vedevo i campielli di orzo e segale in erba; in fondo alle strette vallate, qualche prateria verdeggiava.
Sono bastati gli otto anni che ci separano da quell'epoca perché tutta la zona risplenda di salute e felicità. Dove nel 1913 avevo visto solo rovine, sorgono ormai fattorie pulite, ben intonacate, che denotano una vita lieta e comoda. Le vecchie fonti, alimentate dalle piogge e le nevi che la foresta ritiene, hanno ripreso a scorrere. Le acque sono state canalizzate. A lato di ogni fattoria, in mezzo a boschetti di aceri, le vasche delle fontane lasciano debordare l'acqua su tappeti di menta. I villaggi si sono ricostruiti poco a poco. Una popolazione venuta dalle pianure, dove la terra costa cara, si è stabilita qui, portando gioventù, movimento, spirito d'avventura. S'incontrano per le strade uomini e donne ben nutriti, ragazzi e ragazze che sanno ridere e hanno ripreso il gusto per le feste campestri. Se si conta la vecchia popolazione, irriconoscibile da quando vive nell'armonia, e i nuovi venuti, più di diecimila persone devono la loro felicità a Elzélard Bouffier.
Quando penso che un uomo solo, ridotto alle proprie semplici risorse fisiche e morali, è bastato a far uscire dal deserto quel paese di Canaan, trovo che, malgrado tutto, la condizione umana sia ammirevole. Ma, se metto in conto quanto c'è voluto di costanza nella grandezza d'animo e d'accanimento nella generosità per ottenere questo risultato, l'anima mi si riempie d'un enorme rispetto per quel vecchio contadino senza cultura che ha saputo portare a buon fine un'opera degna di Dio. Elzélard Bouffier è morto serenamente nel 1947, all'ospizio di Banon.

 

 

Jean Giono. La bellezza e la gioia portano al divino
Jean Giono e "Le chant du monde"


Il paganesimo di Jean Giono è stato ben identificato da Thierry Maulnier, che scriveva nel 1943, nella sua rubrica del quotidiano "L'action française": «Il signor Giono è uno di quei rari artisti per i quali il grande Pan non è morto e non è ancora pronto a morire». Punto di vista rafforzato da quello di Henry Miller: «Nell'opera di Giono chiunque possiede una dose sufficiente di vitalità e di sensibilità, riconosce subito "le chant du monde". Secondo me questo canto, di cui egli ci dà con ogni nuovo libro delle variazioni senza fine, è molto più prezioso, più commovente, più poetico del Cantico delle creature». ("The books in my life", 1951) Non si saprebbe spiegare meglio quale abisso separi il mondo biblico dall'universo di Giono.
Questo universo è bagnato di sole, di profumo di timo e lavanda, di canti di cicale. Figlio della Provenza, la sua patria, con la quale ha un profondo legame carnale, Jean Giono è nato a Manosque il 30 Marzo 1895. Suo padre, calzolaio, era anche un po' guaritore. Jean ne erediterà senza dubbio il gusto di guarire gli animi, e si cimenterà in ciò nel Contadour. Si ricorderà per tutta la vita del saggio consiglio paterno: «Diffida della ragione». Quanto al nonno, era un carbonaro, come Angelo dell'"Hussard sur le toit" ("L'Ussaro sul tetto")... Bella eredità.
La sua infanzia, che egli descrive in "Jean le bleu", è il momento di una scoperta meravigliata del mondo. Lui che diventerà, grazie ai suoi testi, un incantatore, è prima incantato, vale a dire è sensibile, intuitivamente, sensualmente, all'incanto del mondo. Il canto del mondo lo porta prima di tutto in se stesso.
C'è qualche merito: avendo deciso a sedici anni di lavorare per aiutare i genitori, entra come "sbriga-faccende" al Banco Nazionale di Sconto di Manosque, ove doveva restare per diciotto anni. Per evadere da questo grigiore divora in continuazione e in modo disordinato: "Il libro della giungla", Omero, Virgilio, Stendhal, Dostoevskij, Shakespeare, i poeti tragici greci in una edizione molto popolare a 50 centesimi il volume. Questa copiosa iniziazione alla letteratura gli apre il cammino verso l'universo magico della scrittura.
Ma il destino ha preparato per lui, come per quelli della sua generazione, la prova più tragica tra tutte: a venti anni conosce, durante quattro interminabili anni, l'inferno dei campi di battaglia, da Eparges a Verdun (solo undici sono i superstiti della sua compagnia), da Chemin des Dames alla Somme. Egli esorcizzerà questo bagno di sangue dipingendo in "Le grand truopeau" il quadro più terribile, tra quelli che conosco, delle carneficine del 1914-1918.
Dal suo matrimonio nel 1920 nasceranno Aline nel 1926 e Sylvie nel 1934. Saranno loro le custodi benevole ma tenaci del rifugio dello scrittore, che è la sua casa, poi, più tardi, della sua memoria. Ritrovando, dopo l'incubo, la sua Provenza, Giono si purifica camminando zaino in spalla sui sentieri degli altipiani spazzati dal vento e si siede, al crepuscolo, davanti al fuoco dei pastori, con i quali parla molto e dei quali saprà raccontare con fervore l'antica e semplice saggezza.
Nel 1924 inizia, a dire il vero modestamente, la sua carriera letteraria: il suo amico Lucine Jacques pubblica a proprie spese dei poemi in prosa intitolati "Accompagnés de la flûte", stampati in 300 esemplari dei quali solo 30 furono venduti. Tuttavia qui si ritrova tutto Giono: «Il silenzio a denti stretti cammina, a piedi nudi, lungo i sentieri».
Nel 1927, Giono scrive "Nascita dell'Odissea" (decisamente questo provenzale si sente molto vicino a «nostra madre la Grecia»), testo rifiutato da Grasset, che si precipiterà a pubblicarlo nel 1930, perché nel frattempo Giono si è fatto conoscere. Grazie a Gide, che ha diffuso a Parigi tutte le opinioni positive che ha di questo sconosciuto nella rivista "Commerce" (che ha lanciato, pensate un po', Fargue, Valéry, Joyce), egli ha pubblicato nel 1929 "Colline", il cui tema è il ritorno del "Grande Pan". Lo stesso paganesimo, campestre e gioioso, si esprime in "Un de Baumugnes", pubblicato anch'esso nel 1929, poi, l'anno successivo, con "Regain". Seguono a raffica: "Solitude de la pitié", "Présentation de Pan", "Manosque des plateaux" e "Le serpent d'étoiles" (1933), "Le chant du monde" (1934), "Que ma joie demeure" (1935). Ecco un autore inesauribile. ma il fatto è che lui canta, in ogni libro, il suo Paese, la Haute Provence, questa terra di montagne aspre ove bruciano il sole e le erbe aromatiche. Un Paese di grande tradizione pastorale e poetica, dove la montagna realizza, nel suo silenzio e nella sua nudità, l'unione dell'uomo con l'Universo. «La montagna è mia madre» dichiara Giono in "Voyage en Italie" (1953).
Lassù, sulle rocce, tra i cespugli secchi odorosi o nelle foreste e nell'erba alta, la vita è potente e semplice, il ritmo dei giorni è lo stesso ritmo della natura. I venti avvolgono tutto. Gli alti pianori sono luoghi d'esaltazione, di comunione, agitati da un fremito continuo, da un linguaggio, come le querce di Dodona. Perché la natura parla a quelli che sanno ascoltarla (gli incantatori lo sanno, e Giono è un incantatore). E questo linguaggio afferma che tutto è vita: desiderio, piacere, dolore, crescita, scambio. La natura è vita. Il contadino di "Colline" lo sa bene: «Egli pensa che uccide quando taglia un albero. Uccide quando falcia… Ogni cosa è dunque vivente? Tutto, bestie, piante, e chi lo sa? Forse anche le pietre». Questo è, dalla Grecia antica, il messaggio panteista che, camminando attraverso il tempo, è giunto fino a noi, grazie ad una catena di messaggeri, e Giono ne è evidentemente un anello fondamentale. Perché i personaggi di Giono camminano in mezzo all'«immensa folla degli dei». Dove sono questi dei? «Sono nell'animo e nella bellezza degli alberi, succo e cuore brillante dei vegetali, istinto di battersi e di amare delle giovani bestie, dolcezza feconda delle donne». Tutto è un segno. Bobi, in "Que ma joie demeure" è affascinato dalle costellazioni, che sono altrettanti messaggi nel cielo: «Guarda i segni». E "Jean le bleu", cominciando la sua vita di uomo, afferma: «Ogni parola mi diceva l'importanza del sangue».
L'uomo e gli alberi appartengono allo stesso mondo: «Gli alberi avevano l'odore penetrante di quando sono in amore». E aggiunge: «L'uomo è come il fogliame attraverso il quale bisogna che passi il vento perché questo canti». Il panteismo è la comunione con l'Universo, consiste nel collegarsi al divino dappertutto presente nel mondo, poiché il mondo è divino, e Giono lo sa bene: «I temporali, il vento, la pioggia, non ne gioisco più come un uomo, ma sono io il temporale, il vento, la pioggia».
Bisogna qui metter fine allo stupido controsenso operato da Claudine Chonez ("Giono", 1956, Le Seuil) quando afferma perentoria: «Non c'è religione in Giono». Due possibilità: o lei non ha letto veramente Giono o confonde (ma non è la sola, perché duemila anni di condizionamento mentale hanno avuto la stessa difficoltà a distinguerli) religione e monoteismo. Sicuramente lo stesso Giono può aumentare la confusione quando dichiara a Jean Carrière (Giono, "La Manufacture", 1985): «Ammetto di non essere adatto per Dio». Ma è un errore precisare che il Dio biblico e gli Dei non solo non sono la stessa cosa, ma che sono anche, senza possibilità d'errore, due concezioni perfettamente e irrimediabilmente incompatibili. D'altronde ogni ambiguità sparisce quando Giono si prende la pena di demolire la truffa intellettuale che è la confusione tra ateismo e paganesimo. Egli spiega il suo punto di vista, ed in maniera insistente, dialogando con Christian Michelfelder ("Jean Giono et les religions de la terre", 1938, Gallimard): «L'affermazione dell'uomo libero si esprimerà sempre in una sorta di paganesimo molto colorato d'umanesimo. E questo è il motivo per cui sarà un paganesimo umano a salvarci. L'ateo dice no, si accontenta di rifiutare. Ma il pagano desidera, vuole, e quindi distrugge e ricostruisce. Il vero mondo sarà un mondo di pagani. L'umanesimo pagano è la grande affermazione dell'uomo pieno di vita. Resta nell'ateismo qualcosa dell'atmosfera triste delle religioni spiritualiste. Bisogna tuttavia mettere da parte i mistici. Ma il paganesimo libera veramente». Gran lettore di Omero, di Eschilo, di Sofocle, Giono afferma un paganesimo vitale e cosmico per mezzo di numerosi suoi testi. Perché là sono le vere ricchezze ("Les vraies richesses", 1937): «Noi siamo degli elementi cosmici».
Questa comunione con il cosmo è il messaggio che predica il patriarca di Contadour, in questa comunità fervente e calorosa che ha raggruppato in un luogo solitario una cinquantina di persone tra il 1935 e il 1939. Con la pubblicazione dei "Cahiers de Contadour", ai quali ha collaborato un certo Marc Augier, sedotto dal carattere fortemente influenzato da Nietzsche di un Giono che insegna, come Zarathustra, ai suoi ascoltatori-discepoli: «La soluzione è attuabile attraverso ciascuno».
Il divino, Giono lo percepisce nelle stelle (Le serpent d'étoiles), nell'acqua (Colline), nella terra (Que ma joie demeure), questa terra materna e dura, amara e dolce. Ma anche negli animali, questi intermediari tra l'uomo e l'inanimato (o almeno che ha l'aspetto dell'inanimato). Tutto è vita: «Tutti gli errori dell'uomo derivano dal fatto che egli immagina di camminare su una cosa morta mentre i suoi passi s'imprimono in una carne piena di grande volontà».
Giono è un autore che scuote dal torpore (alcuni direbbero un iniziato ma è la stessa cosa). Egli ha in effetti la capacità rara di risvegliare il lettore, di farlo passare dall'altro lato dello specchio, con poche parole molto semplici. Lo testimonia Jean Carrière: «Avevo quattordici anni quando ho letto il primo libro di Giono, "Que ma joie demeure". La prima frase resterà per me la chiave di volta della magia, "Era una notte straordinaria". Ogni volta che rileggo quella frase passa in me la stessa piccola scossa, quella di un bambino meravigliato dal respiro delle foreste. La magia funziona ancora oggi. Divento di nuovo lo stesso bambino meravigliato».
Stupore: la capacità di stupire è una qualità rara, una ricchezza che proviene dall'infanzia e che pochi hanno la fortuna (o la volontà) di conservare e che provoca la presa in giro delle "persone serie", vale a dire vecchie (perché l'età non c'entra niente, nel caso specifico molti sono vecchi a vent'anni: poveri loro). Stupore davanti al mondo, davanti alla vita, questo miracolo, perché al contrario di ciò che dice "L'Ecclesiaste" ("Vanità delle vanità, tutto è vanità" Bibbia, Libro dell'Ecclesiaste, Prologo 1,2-11), Giono afferma che "Rien n'est vanité" ("Nulla è vanità", inedito, presentato da Christian Michelfelder): «Guarda come tutto conta, come tutto prende posto. Perché ci si è lasciati dire che tutto è vanità? L'acqua, e il prato, e il vento, e Yvonne (…) Colui che è solo, in piedi nella notte, canta come un albero ed è tutto sconvolto dalla canzone della sua carne (…) Sono sempre gli stessi che si stupiscono di San Francesco che parla agli uccelli».
Perché la vita è un'acqua di sorgente che cola tra le dita. Bisogna vivere ogni istante come se dovesse essere l'ultimo. In Svizzera, spellando un camoscio, Giono medita: «Qui è il mistero della vita e del mondo. È un po' di succo verde, come una pania tra le mie dita. Ciò che sarò un giorno io stesso nel corso della mia trasformazione tra carne e pianta, tra pianta e pietra, tra pietra e cielo, tra polvere di stella e spermatozoo in cammino nelle spine dorsali». Ecco sorto il tema dell'eterno ritorno, della ruota che gira senza fine, la ruota solare che è simbolo di ogni vita. Una vita che non ha bisogno di giustificazioni, che basta a se stessa come portatrice di senso in sé: «Noi abbiamo dimenticato che il nostro solo scopo è quello di vivere e che, vivere, noi lo facciamo ogni giorno e tutti i giorni e che a tutte le ore del giorno noi raggiungiamo il nostro vero scopo se viviamo». ("Rondeur des Jours", 1937).
Apollineo per molti tratti della sua opera, Giono è anche, profondamente, dionisiaco, come l'ha ben compreso Christian Michelfelder sottolineando che uno degli obiettivi dello scrittore è quello di «rimettere l'uomo nel seguito di Dioniso». L'eremita di Manosque, del resto, spiega lui stesso ciò attraverso certe immagini evocatrici. Per esempio, per descrivere nella prefazione delle "Vraies richesses" (1936) la montagna, la sua montagna di Lure dice: «Questa montagna di Lure, che si alza nel cielo non come un picco ma come il dorso mostruoso del toro di Dioniso». Davanti a questa montagna l'uomo si sente «messo di fronte alla terra».
Si ritrova qui l'influenza di Virgilio, già manifesta dagli "Accompagnés de la flûte": «Sia che discenda nel mezzo dei fiumi del frutteto, o che s'insinui nel canneto, questo respiro che tu credi essere il vento è esalato dal dio seduto lassù, sulla collina, in mezzo alle piante di salvia del cielo». Si pensa all'Eneide, libro VIII: «Su questa collina dalla cima verdeggiante, un dio, quale non si sa, sì, un dio risiede qui». E, dice Giono, bisogna tendere l'orecchio: «E vedi, sotto la sua voce musicale, che goccia a goccia questa sera cola attraverso i pini, commuoversi le piccole gole bianche di questo caprifoglio, ed alzarsi l'onda silenziosa degli ulivi argentati».
Giono il meditativo è anche un uomo impegnato civilmente. Fa parte di quelli che, avendo vissuto sulla loro pelle il 14-18, non vogliono veder tornare la carneficina stupida e fratricida. È in prima fila nella lotta dei pacifisti quando firma un telegramma intimidatorio a Daladier e Chamberlain, in data 11 settembre 1938. Per questo è arrestato e rinchiuso nel forte di Saint-Nicolas a Marsiglia, il 3 settembre 1939. Nonostante le proteste di qualche coraggioso, tra cui Gide, ci resta fino a novembre. Durante la guerra conduce una vita ritirata scrivendo poco. Ma commette un errore fatale facendo pubblicare una novella sul giornale "La Gerbe". (1)
Questo lo porta ad essere arrestato nel 1944 per collaborazionismo da giustizieri improvvisati, e messo in prigione per sette mesi, nel forte di Saint-Vincent, nelle Hautes Alpes. Il comitato centrale degli scrittori, controllato dai comunisti, lo iscrive, naturalmente, nella sua lista nera, destinata ad impedire di esprimersi ormai ad un gran numero di scrittori, tra i quali figurano i più grandi nomi della letteratura contemporanea. Ciò si chiama epurazione. Il crimine di Giono? Tutta la sua opera lo dice: avrebbe potuto essere l'autore della famosa formula "maréchaliste" (del Maresciallo Pétain), «la terra non mente». Si capisce di colpo perché egli abbia potuto essere considerato da alcuni come un elemento particolarmente perverso e pericoloso.
Disincantato, Giono si volta verso una nuova tappa della sua opera. I suoi romanzi, che conosceranno un grande successo, sono ormai sprovvisti di ogni aspetto militante. Ma lo fanno affermare definitivamente come un grandissimo scrittore, riconosciuto come tale durante la sua elezione nel 1954 all'Accademia Goncourt (e, segno degli dei, per occupare il posto di Colette). Quindi fa l'esperienza dell'avventura cinematografica, realizzando nel 1960 il suo "Crésus", impersonato da Fernandel. Il mondo del cinema gli affida la presidenza della giuria del Festival di Cannes nel 1961. Giono non è più un maledetto, perché il suo genio ha vinto i mediocri. Dopo la sua morte a Manosque nella notte tra l'8 e il 9 ottobre 1970, la Pléiade gli rende molto in fretta un giusto riconoscimento pubblicando in sei volumi la sua opera romanzesca, tra il 1971 e il 1983.
Noi conserviamo nel cuore l'immagine di colui che ci ha risvegliato al canto del mondo. Colui che diceva: «Il poeta deve essere un professore di speranza». E nell'ultima frase dei "Grands Chemins" ci dà la ricetta della speranza: «Il sole non è mai così bello come il giorno in cui ci si mette in cammino».
Allora mettiamoci in cammino. Sappiamo che Jean Giono camminerà al nostro fianco.


Tratto dal libro di Pierre Vial

"Anthologie païenne",

Les Editions de la Forêt,

Solstizio d'estate 2757 Ab Urbe Condita (2004) 308 pagine, formato 210 x 140


A lungo si rinfaccerà a Giono la pubblicazione di "Deux cavaliers de l'orage" nella rivista "La Gerbe" (1), e "Description de Marseille le 16 octobre 1939" ne "La Nouvelle revue française" (2) di Drieu La Rochelle, ed un reportage fotografico su di lui apparso su "Signal" (edizione francese del periodico tedesco). A lui sarà imputata anche una certa vicinanza alle idee del regime di Vichy (ritorno alla terra e all'artigianato, esaltazione della giovinezza), idee che Giono veicolava da molti anni. Le idee di Giono si riaffermano nella nuova edizione del 1941 del "Triomphe de la vie". Il libro, assai ben accolto dalla stampa della collaborazione, sarà uno dei capi d'accusa per lo scrittore al termine della guerra. Nel 1943 Giono pubblica "L'eau vive" e "Fragments d'un paradis".

(1) «La Gerbe, fondato e diretto da Alphonse de Châteaubriant l'11 luglio 1940 reca come sottotitolo "Settimanale della volontà francese". Con tiratura di 140.000 copie è, dopo, "Je suis partout" la pubblicazione collaborazionista più seguita. I suoi principali redattori sono il corrispondente di guerra Marc Augier, più prossimo al direttore e noto in seguito come Saint-loup, il cattolico monarchico Bernard Fay, l'ex comunista poi doritista Camille Fégy, e diversi altri, tra i quali Alfred Canton, Luois-Charles Lecoc, Louis Thomas, Michèle Lapierre, Jean Passere, Maurice Morel, Aimé Cassar, André Castelot, Claude Cabry. Tra i collaboratori del giornale figura inoltre il quasi intero Gotha della Collaborazione: Jacques Benoist-Méchin, Abel Bonnard, Georges Montandon, Pierre Drieu La Rochelle, Jacques de Lesdain, Ramon Fernandez, Jean Hérold-Paquis, il nipote di Gobineau Clément Serpeille, Armand Petitjean e ancora Jean Anouilh, Henry de Montherlant, Paul Morand, Jean-Pierre Maxence, Marcel Aymé, Dominique Sordet, Pierre Mac Orlan, Maurice Rostand, Jean Giono, Jean de La Varende». Da Moreno Marchi "I duri di Parigi. L'ideologia, le riviste, i libri" Ed. Settimo Sigillo, 1997, pag. 67.
"L'antesignano ecologista Giono, piuttosto prossimo al governo del Maresciallo" (pag. 13) «Al di là dei suoi atteggiamenti intransigenti, o forse proprio per questo, collaborano a "Je suis partout" molti tra i maggiori intellettuali dell'epoca, tra i quali Pierre Drieu La Rochelle, Jean Anouilh, Marcel Aymé, Jean Goino, Pierre Mac Orlan, André Fraigneau, Jean de La Varende, Abel Bonnard. Vi compaiono inoltre alcune lettere di Louis-Ferdinand Céline, secondo la sua abitudine di mantenere rapporti con i giornali solo a livello epistolare, e addirittura, 11 agosto 1941, un racconto Mort subite, dell'italiano Alberto Moravia. Ma… sapeva quest'ultimo che si trattava di una pubblicazione antisemita? E, di converso, sapeva la redazione che si trattava di uno scrittore per metà ebreo?» Moreno Marchi "I duri di Parigi. L'ideologia, le riviste, i libri" Ed. Settimo Sigillo, 1997, pag. 65.

(2) «"La Nouvelle revue française" è una prestigiosa rivista letteraria mensile fondata nel 1909 da Gaston Gallimard. Dopo aver interrotto le pubblicazioni per motivi bellici nel luglio del 1940, "La Nouvelle revue française" ricompare nel successivo dicembre, per volontà e sotto gli auspici dell'ambasciatore ed alto commissario tedesco a Parigi Otto Abetz. La dirige Pierre Drieu La Rochelle. (...) Lo stesso fatto di scrivere o meno sulla NRF rappresenta un termometro della popolarità alla quale è difficile rinunciare. Ecco così che tra scrittori ed intellettuali direttamente impegnati nella politica di collaborazione ed altri, che non lo sono o che vi discordano, su "la Nouvelle revue française" si ritrova alfine quasi l'intero l'empireo delle lettere francesi: André Gide, Paul Valere, Henry de Montherlant, Paul Léautaud, Marcel Aymé, Paul Morand, Abel Bonnard, Paul Eluard, Marcel Jouhandeau, Jean Giono, Ramon Fernandez, Alfred Fabre-Luce, Jacques Chardonne, Marcel Arland, André Fraigneau». Moreno Marchi "I duri di Parigi. L'ideologia, le riviste, i libri" Ed. Settimo Sigillo, 1997, pag. 76

Bibliografia italiana:
"Lettera ai contadini sulla povertà e la pace", Ed. Ponte alle grazie, 2004; "Note su Machiavelli. Con uno scritto su Firenze", Medusa Edizioni, 2004; "Due cavalieri nella tempesta", Ed. Guanda, 2003; "L'uomo che piantava gli alberi", Edizioni Angolo Manzoni, 2003; "L'affare Dominaci", Ed. Sellerio, 2002; "Angelo", Ed. Tea, 2002; "Il serpente di stelle", Ed. Guanda, 2002; "Morte di un personaggio", Ed. Passigli, 2001; "Un re senza distrazioni", Ed. Guanda, 2001; "L'ussaro sul tetto", Ed. Corbaccio, 2001; "Il bambino che sognava l'infinito", Ed. Salani, 2000; "La menzogna di Ulisse", Ed. Robin, 2000; "Una pazza felicità", Ed. Tea, 200°; "Il ragazzo celeste", Ed. Guanda, 1999; "Collina", Ed. Guanda, 1998; "Risveglio", Ed. Passigli 1997; "La fine degli eroi", Ed. Sellerio, 1996; "Il disertore", Ed. Guanda,


Traduzione, note, bibliografia e iconografia a cura di Harm Wulf

 

Perchè non possiamo non dirci pagani

 

Alfonso Piscitelli   

 

«Imporre ad un popolo una religione che gli sia estranea è il modo migliore per fargli abbandonare, prima o poi, qualunque religione. Il principale rimprovero che si possa fare al cristianesimo è aver creato le condizioni per l'ateismo»


Noi europei non abbiamo alcun bisogno di tornare al paganesimo: non lo abbiamo mai abbandonato nel profondo dell'anima. La struttura psichica dei "gentili" è naturalmente pagana, sarebbe una grave perversione se cessasse di essere tale. Il cristianesimo diffondendosi nelle quattro aree dell'Europa antica (la greca, la romana, la celtica, la germanica) ha annacquato la sua originaria radice monoteistica. Il cattolicesimo mediterraneo era nella realtà un politeismo lunare incentrato sul culto di tre grandi Dei distinti: Dio Padre (Deus Pater = Zeus), Dio Figlio (generalmente descritto con tratti dionisiaci) e una grande Dea Madre (la Madonna = la Signora). Il cristianesimo europeo ha trasgredito il divieto ebraico di venerare le immagini (un divieto ancora oggi rigorosamente osservato dagli islamici). Da questa trasgressione nasce la grande arte cristiana. A partire dal romanticismo, i poeti germanici hanno cancellato la maledizione biblica che gravava sulla Natura. La psicologia contemporanea ha riscoperto gli Dei sotto forma di archetipi psicologici. L'attitudine moderna allo sport, il diffondersi di palestre hanno recuperato sia pur in forma materializzata l'aspirazione classica al corpo sano.
Sbagliano pertanto coloro che vogliono incatenare l'anima dell'Europa ad un destino abramitico. La nostra anima nel profondo non ha mai smesso di dirsi pagana; basta solo ascoltarla con attenzione per capirlo. Il "nuovo paganesimo" non è affatto un concetto stravagante o qualcosa di intellettuale costruito a tavolino; è semplicemente un atto di auto-consapevolezza: una presa di coscienza della nostra natura e di ciò che è estraneo (e dannoso) ad essa.
È vero che il cristianesimo è stato grecizzato nella sua teologia, romanizzato nella sua struttura gerarchica, celtizzato nelle sue sfumature esoteriche (il Graal), germanizzato nelle sue attitudini crociate e cavalleresche; ma è anche vero che sotto tutti questi vestimenti europei il cristianesimo rimane una forma messianica di giudaismo. Tutti i cristiani venerano come divinità il rabbì Jeshua, della tribù di Giuda. Il rabbì Jeshua si proclamò messia, esattamente come avrebbe fatto Sabbatai Zevi 1600 anni dopo. Ogni secolo dal popolo ebraico sorgono messia, regolarmente avversati dal clero regolare: la tensione tra sacerdoti e messia, tra sacerdoti e profeti ("Ahi Israele che perseguiti i tuoi profeti!") è una costante della storia israelitica. Il rabbi Jeshua si scelse dei collaboratori: tutti ebrei. Shimon conosciuto sotto il nome di Pietro, Saul conosciuto sotto il nome di Paolo. È grazie a questi infaticabili collaboratori che cinquanta generazioni di giovani europei hanno imparato a riconoscere in Israele il "popolo eletto", a sentirsi figli di Abramo, di Isacco e di Giacobbe; a venerare il "leone di Giuda" (il rabbino Jeshua). Non v'è cosa più illogica di un "antisemita cattolico".
Perché il cattolicesimo, più in generale il cristianesimo, è il giudaismo messianico divulgato ai popoli. Cosa leggono i cristiani come libro sacro? La Bibbia, ovvero la Torah più altri scritti giudaici. Nella Bibbia la collettività dei cristiani è orgogliosamente definita come "l'Israele di Dio". La Bibbia si conclude con una esecrazione di Roma "la Grande Meretrice" e con la profezia dell'avvento del paradiso: la "Gerusalemme celeste"! Quanti patologici antisemiti vedono la mano ebraica su ogni male del mondo e poi con assoluta indifferenza professano il cristianesimo, ovvero la versione messianica del giudaismo…
Al cospetto di Hitler un papa molto caro ai tradizionalisti (Pio XII) ebbe l'orgoglio di dire: «Noi siamo spiritualmente semiti». C'è molto coraggio in questo orgoglio espresso a quei tempi. Si può ammirare quel coraggio; e tuttavia anche noi Europei dobbiamo avere coraggio ed esprimere l'orgoglio della nostra "gentilezza". Guardate sulla testa dei vescovi ai quali i cristiani baciano le mani: cosa portano? Che cos'è quel curioso dischetto? Ovvio, è la kippah ebraica: con ciò i successori degli apostoli si qualificano come rabbini.
E del resto tutti i fedeli ogni Domenica ripetono in coro Alleluia(hve), esclamazione ebraica che suona: sia glorificato Jahve. Arriviamo così al nodo di quella fissazione patologica che è l'antisemitismo (ovvero la credenza maniacale che dietro ogni male del mondo vi siano gli ebrei): l'antisemitismo è espressione della lacerazione dell'anima europea, che da una parte accetta il cristianesimo e lo stravolge secondo le proprie tendenze, dall'altra parte avverte che in fondo al cristianesimo vi è qualcosa di irriducibile e di inassimilabile: la radice semita.
Vi sono cose che non si possono imporre. Tu non puoi imporre al rabbino capo di venerare la Dea Afrodite, non puoi cambiare nome a Gerusalemme (come fecero i Flavi che la trasformarono in Helia Capitolina!). Allo stesso modo non si può pretendere che un Europeo d.o.c. si semitizzi. Per porre fine alla triste lacerazione dell'anima europea e per combattere la patologia dell'antisemitismo noi proponiamo uno schietto "non semitismo": vale a dire il riconoscimento del fatto che allo spirito europeo non si addice una religione di origine giudaico-messianica esattamente come non si addice al rabbino capo di Gerusalemme ricercare le radici della propria fede in Omero, nel concetto romano del Pantheon, nel Libro Egizio dei Morti.
La verità è che il cristianesimo dei nostri tempi da un lato sta riscoprendo la sua autentica radice ebraica e si sta liberando di ogni sovrastruttura greco-romana, dall'altro sta spostando il suo baricentro fuori dall'Europa. In Europa non si fanno più preti. E senza preti chiaramente una religione non può sopravvivere. Non a caso le Chiese stanno patrocinando il progetto di spostare in Europa milioni e milioni di africani, amerindi, asiatici. Per avere un prete in più in seminario, ma anche per modificare lo psichismo della civiltà europea con l'afflusso di popoli più docili alle carezze dei monsignori.
Contemporaneamente altri popoli dalla brulicante demografia si spostano verso Nord e per esplicita ammissione dei loro imam si propongono di sottomettere l'Europa ad Allah grazie al ventre delle loro donne. Di fronte a questo movimento di popoli è naturale, per un ovvio principio di azione e reazione, che si ingeneri un movimento di ripaganizzazione dei popoli europei. Ciò che era inconscio deve ritornare ad essere cosciente. La grande cultura europea ci aiuta in questa riscoperta: non fu solo il Rinascimento a riscoprire gli antichi, anche i Monaci della Schola Palatina di Carlo Magno non appena riscoprirono i testi classici se ne innamorarono; compiendo così due peccati in uno: 1) si innamorarono, 2) … di qualcosa di non cristiano
Il senso di fedeltà al mos maiorum ancor più della mera cultura erudita ci induce a spolverare il nostro atavico paganesimo. Si sa, il rabbino Joshua era una persona amabile ma sicuramente peccava di equilibrio. Ai suoi fedeli disse: «fatevi eunuchi (= castrati!) per entrare nel regno dei cieli»! Disse: «se il tuo occhio ti dà scandalo, taglialo via. È meglio essere orbi che bruciare nel fuoco dell'inferno»… Queste massime così illuminate difficilmente potrebbero avere una effettiva applicazione oggi. Fuori che da una ristretta cerchia di fanatici neppure nei secoli precedenti sono state effettivamente adottate. Nelle buone famiglie europee per duemila anni si sono educati i bambini con una saggia miscela di stoicismo e di epicureismo. Lo stoicismo: la convinzione che bisogna affrontare con virilità, con dignità i momenti difficili che ogni vita inevitabilmente comporta. L'epicureismo: la convinzione che anche la vita più seria debba essere condita e addolcita da una giusta dose di piacere. I riti pagani si sono interrotti in Europa, ma lo spirito pagano sotto molti aspetti è continuato. Ininterrottamente.


Alfonso Piscitelli    

 

il COMMENTO di Giorgio Vitali:

 

È veramente necessario pubblicare sul nostro sito la sequenza di articoli, di cui raccomandiamo vivamente la lettura, per la ragione che capiranno i lettori quando avranno letto tutto.
A noi ci basta aggiungere alcuni concetti al primo articolo della serie, intitolato (giustamente) ... "Perchè non possiamo non dirci pagani".
Le tesi qui sostenute sono condivisibili, a parte le considerazioni che qui seguono. Secondo noi, infatti, all'origine del Cristianesimo non c'è il giudaismo, come credono di poter insistere alcuni «sprovveduti» a ciò interessati.
E d'altronde, occorre ben poco per capire che una dottrina religiosa, che ha avuto la necessità di BEN MEZZO MILLENNIO di elaborazione concettuale non poteva non tener conto della religiosità di base diffusa capillarmente in quel mondo (che è la cultura ellenistica, frutto della sintesi fra TUTTE le culture mediterranee unificate e armonizzate dal "grande Impero")
Il Cristianesimo è sicuramente religione sincretica. Ed ancorchè la figura di tale Gesù reciti la parte in uno scenario che è la Palestina d'allora, che ha ben poco a che vedere con la Palestina che conosciamo noi, tale ambientazione è stata a suo tempo inventata da personaggi di cultura ellenistica come Filone Alessandrino e Clemente d'Alessandria, fioriti appunto in Alessandria, fiore d'Egitto e crogiolo dell' ellenismo. Il Cristianesimo infatti è nato e si è sviluppato proprio all'ombra della grande civiltà simboleggiata dalla Biblioteca di Alessandria, perchè è proprio in questa biblioteca che venivano conservati TUTTI i simboli e le documentazioni della CONOSCENZA superiore. Il Cristianesimo pertanto è più egiziano che palestinese, come simboleggiato nel mito della "fuga in Egitto". E ci vuole altrettanto poco a capire che un tale che viene dall'Egitto e che predica per tre anni in "Palestina" deve pur aver fatto qualcosa nei trent'anni precedenti vissuti in Egitto. Ad esempio: oggi un tale vissuto per l'arco quasi intero della vita in Polonia, ancorché ebreo di religione, viene NORMALMENTE definito polacco.
È pertanto evidente che il nascondere questo aspetto fondamentale e soprattutto STORICAMENTE rilevante costituisce una vera occultazione intenzionale, chiamata più appropriatamente «malafede».
Un'ultima annotazione: mentre la cultura attuale tende, giustamente, ad attribuire gli avvenimenti studiati a trasformazioni sociali che coinvolgono raggruppamenti umani sempre più vasti, l'antichità più o meno classica era usa identificare uno o più eventi con il nome di una singola persona: Omero per l'Epica che, come sappiamo, è corale.
Platone per significare una Scuola, l'Accademia, durata ininterrottamente per oltre un millennio, Aristotele al posto di Liceo o Peripato, durata anch'essa una quantità di tempo tale da determinare una mentalità talmente diffusa da ritrovarcela pressochè intatta anche oggi alla base di qualsiasi pensiero filosofico o scientifico.
Secondo gli antichi, per di conseguenza anche per noi, Aristotele, Platone, Plotino e tutti gli altri creatori di Scuole simboleggiano una linea di pensiero che ha avuto nel tempo migliaia di insegnanti che si sono alternati sostituendo -alla morte- gli insegnanti che li hanno preceduti. Similmente, la parola Gesù Cristo simboleggia una «Summa» che racchiude tutto il vastissimo movimento di «sintesi» che è culminato NON con le predicazioni del tutto ipotetiche di ipotetici personaggi migranti (gli apostoli), ma nell'azione della ROMANITÀ interpretata dai grandi Imperatori, Costantino in testa, che vanno considerati, ed a ragione, i veri creatori del Cristianesimo.
Che poi esistano degli "studiosi" che scrivono "Storie di Cristo" nelle quali il personaggio viene descritto come "rivoluzionario", è già indicativo. È evidente che il Cristianesimo costituisce qualcosa d'altro rispetto all'insegnamento giudaico!
È come se si dicesse che la Romana Religio costituisce una rivoluzione rispetto al Buddismo. E basterebbe leggere in filigrana i Vangeli, nella loro accezione canonica, gnostica, monofisita, trinitaria, riformata o post-tridentina.
Infine, il fatto stesso che la dottrina cristiana, unica fra le religioni del mondo, abbia avuto il bisogno di un'elaborazione bimillenaria teologico-filosofica, (con continui aggiustamenti dovuti all'evoluzione del pensiero filosofico), basata su concilii, discussioni fra filosofi (im)propriamente definiti «Padri della Chiesa», elaborazioni concettuali, imposizioni di carattere dogmatico a seguaci ed avversari ideologici, e conseguente creazione perpetua di "eretici" e di "roghi purificatori", non è indicativo del fatto che si tratta di una religione impregnata di filosofia? E filosofia è pensiero, non illuminazione mistica!! O meglio, articolazione di pensiero sulla base di categorie mentali che risalgono alla grecità classica. Certamente NON alla cosiddetta "Bibbia", costruita peraltro a tavolino anch'essa ad Alessandria in epoca "storica".
(Tenendo presente anche che Teologia significa filosofia. Da non confondere con Teosofia, che è invece legata all'esoterismo!!)
 

Giorgio Vitali