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Quei ragazzi erano della RSI e furono uccisi dagli slavo-comunisti!

Sulla lapide di Ossero più ombre che luci

 

 

Il 12 luglio dello scorso anno, a Ossero, sull'isola di Cherso, nel Quarnaro, venne inaugurata una lapide in ricordo dei ventotto combattenti della Repubblica Sociale Italiana trucidati dai partizan di Tito il 22 aprile 1945.

La lettura dell'epitaffio mi lasciò alquanto dubbioso, ma decisi di non commentare per non sollevare le solite polemiche. Tuttavia, a un anno da quell'episodio, ben poco si è fatto per ristabilire la verità storica e non pochi si sono "adagiati sugli allori" e si sono compiaciuti di come è stata "gestita" l'intera operazione.

Ho quindi deciso di «mettere i puntini sulle i», rischiando di entrare in polemica, ma salvaguardando nello stesso tempo la serietà storica e, soprattutto, la dignità di quei ragazzi morti per la Patria.

Sulla lapide compare scritto a caratteri cubitali: «Vennero stroncate ventotto giovani vite italiane, vittime della barbarie della guerra».

Un turista potrebbe benissimo pensare che queste "vittime" furono degli sventurati, dei semplici civili italiani, magari morti in seguito ad un incidente. Non a caso la dizione riporta, tali e quali, gli epitaffi che siamo costretti a leggere ai lati delle strade sulle lapidi delle vittime -queste sì!- degli incidenti stradali.

Ebbene, quelle «giovani vite italiane» è solo un arzigogolato giro di parole per non specificare che i ventotto caduti -e non vittime!- di Ossero erano combattenti della Repubblica Sociale Italiana, in maggioranza Marò della Decima MAS, a cui furono accumunate anche delle Camicie Nere del locale Presidio GNR-MDT.

Però, questo non poteva essere detto. Meglio sorvolare. Sorvolare sugli ultimi difensori dell'italianità dell'Istria e della Dalmazia?

Certamente, le Autorità -italiane e straniere- non avrebbero digerito il "boccone amaro" e, quindi, fu giudicato "opportuno"… sorvolare sull'identificazione dei caduti, dipinti per l'occasione come "vittime". Povere "vittime".

No. Questo non è corretto. Quei ragazzi avevano una divisa -quella italiana!- e combattevano una guerra. Erano consapevoli della loro scelta, una scelta che avrebbe potuto comportare anche il sacrificio supremo. Quali vittime?

Basta con questo vittimismo che sa tanto di politicamente corretto e di conformismo.

Ma dove si è giunti al paradosso, è nella seconda frase in cui si "specifica" che questi caduti furono «vittime della barbarie della guerra». Un secondo schiaffo alla loro dignità di combattenti e di soldati.

Nel vortice del pacifismo d'accatto imperante, certamente, cosa si poteva scrivere? Forse che erano stati gli slavo-comunisti a fucilarli? No. Questo non poteva essere scritto e, secondo il nostro avviso, sarebbe stato anche di poco gusto. A noi non interessano le lapidi "politiche", cioè quelle che usano i morti per gli sporchi giochi della politica democratica. Quelle studiate a tavolino dall'antifascismo sempre pronto a speculare sui morti per fini politici, evidenziando che a uccidere erano "sempre e solamente" i "barbari tedeschi assetati di sangue", le "spie fasciste loro serve", ecc.

No, noi siamo di altra tempra. Sappiamo rispettare i caduti. Tutti i caduti.

Forse sarebbe bastato dire che quei ventotto ragazzi erano combattenti della RSI, caduti per la Patria. Ma anche questo, oggi, in quelle terre temporaneamente occupate dallo straniero, non può essere detto. E chi dovrebbe farlo si guarda bene dal dirlo, tutto preso a farsi fotografare con le democratiche Autorità "legittime"…

Del resto, quante sedicenti associazioni degli esuli hanno abbandonato l'irredentismo per più piacevoli e rimunerativi compromessi con chi gli esuli ha venduto e tradito?

Ora si parla di riportare "in Patria" quei caduti. Come se Ossero, come se Cherso, come se la Dalmazia, il Quarnaro e l'Istria non fossero Italia!

E, poi, per che farne? Per gettarne i poveri resti in qualche sperduto e abbandonato cimitero della Prima Guerra Mondiale?

Offesa su offesa.

Che quei caduti riposino degnamente nel luogo ove combatterono e morirono. Perché un giorno, nell'italianissima Ossero sventoli nuovamente il tricolore ad accarezzare le migliaia di combattenti della RSI caduti per la Patria e per l'italianità dell'Istria e della Dalmazia.

A chi predica il pacifismo rinunciatario e antinazionale noi rispondiamo con le parole di Stefano Petris di Cherso. Parole che scrisse poco prima di essere ucciso dagli slavo-comunisti e che suonano come uno schiaffo sul viso dei pavidi italioti: «Non piangere per me. Non mi sono mai sentito così forte come in questa notte di attesa, che è l'ultima della mia vita. Tu sai che io muoio per l'Italia. Siamo migliaia di Italiani, gettati nelle foibe, trucidati e massacrati, deportati in Croazia falciati giornalmente dall'odio, dalla fame, dalle malattie, sgozzati iniquamente. Aprano gli occhi gli Italiani e puntino i loro sguardi verso questa martoriata terra istriana che è e sarà italiana. Se il Tricolore d'Italia tornerà, come spero, a sventolare anche sulla mia Cherso, bacialo per me, assieme ai miei figli. Domani mi uccideranno. Non uccideranno il mio spirito, né la mia fede. Andrò alla morte serenamente e come il mio ultimo pensiero sarà rivolto a Dio che mi accoglierà e a voi, che lascio, così il mio grido, fortissimo, più forte delle raffiche dei mitra, sarà: "Viva l'Italia!"».

 

Pietro Cappellari

Ricercatore

Fondazione RSI - Istituto Storico

Terranuova Bracciolini (AR)