Italia - Repubblica - Socializzazione

 

Rileggendo

 

Rovistando tra le vecchie carte capita spesso di rinvenire libri, saggi ed articoli dei quali si era persa memoria, anche quando furono determinanti la nostra formazione e le nostre scelte politiche.

Queste pagine di "Azimut" (quindicinale della Federazione Nazionale Combattenti della RSI), nel rileggerle, hanno rinnovato in noi l'emozione di quei giorni lontani quando, giovanissimi, scoprimmo che esisteva un altro fascismo. Un «Fascismo» speciale, sofferto e vissuto in modo totalmente diverso da quello «nostalgico» e un po' «trombonesco» delle federazioni missine.

Leggendo "Azimut" e "Corrispondenza Repubblicana" conoscemmo un "Che" Guevara ben diverso da quello che dipingevano "Il Secolo d'Italia" e tutta la stampa e pubblicistica destrorsa; capimmo le ragioni dei Vietnamiti impegnati in una durissima guerra per l'indipendenza e l'unità nazionale. Ci fu spiegato il dramma del Popolo palestinese che la propaganda missina dipingeva come un'accozzaglia di selvaggi terroristi.

Quelle pagine ci insegnarono che vi era una «certa» differenza tra il fascismo e i militari golpisti dell'Europa e dell'America Latina e che Fidel Castro, Nasser e gli esponenti della Teologia della Liberazione non erano dei «servi di Mosca», ma degli uomini che lottavano per la libertà della loro terra, la dignità ed il benessere dei loro popoli.

Riproponiamo una di queste pagine, quale doveroso omaggio a coloro che non tradirono se stessi, vissero e vivono la loro «eresia» con la coerenza e l'umiltà proprie di chi ha la certezza di adempiere ad un dovere verso la propria comunità politica e l'intera nazione.

 

 

28 maggio 1972

 

Mi è doveroso rivolgere, nell'atto di assumere la Presidenza della Federazione, per designazione della Direzione Nazionale, un cordiale saluto a tutti Voi che mantenete, da ventisette anni, la più alta tensione ideale, come vinti solo dalla spada e non dallo spirito della buona causa.

Se qualcuno volesse, col furore teologico che contraddistingue tanta parte dello schieramento politico italiano, istruire ancora il processo al nostro passato, noi avvertiamo che il giudizio appartiene, ormai, al tribunale della Storia, il cui metro di valore si flette, da tempo, ad esigenze di pensiero, dal quale rifugge ogni residuo teocratico di popolo eletto o di impero universale, ma anche ogni meccanicistica determinazione di fattori di potenza o mistica del successo.

Le idee dei vinti affiorano all'orizzonte terrestre della catastrofe umana, prodotta dalla supremazia pragmatica del messianismo economico, per lievitare le speranze del mondo, dal quale nessun livore di parte può estraniarci.

Vi sono alcune intuizioni storiche, gravide di futuro e risolutive dell'ordine sociale, di cui ci sentiamo depositari e responsabili di fronte alle nuove generazioni italiane ed europee.

Ma, se qualcuno volesse confonderci con strumenti banali di interessi costituiti o con infantili farneticazioni di servi sciocchi, per avallare il suo pervicace rifiuto alla nostra presenza sulla scena dei destini, prossimi o futuri, della nostra civiltà, avremmo da offrire alcune chiare precisazioni.

Noi non abbiamo bisogno di fare apologia del regime mussoliniano del ventennio, poiché lo consideriamo un fenomeno irripetibile di potere personale, nel compromesso esiziale con le forze del privilegio e dell'ingiustizia sociale, dei suoi errori siamo i critici più severi e che, comunque, consideriamo storicamente concluso.

Una ricostituzione del partito nazionale fascista, con strutture di tipo militare o casermiero, provocherebbe, tra le nostre file, sonorosissime risate, ma, se si volesse ipotizzare simile eventualità, l'evento ci troverebbe, inevitabilmente sull'altra sponda, considerando il funesto esperimento del partito unico, mutuato dal bolscevismo, non solo antitetico agli strumenti istituzionali dello Stato di popolo, che noi vagheggiamo, ma uno degli errori contingenti dell'azione mussoliniana.

Siamo contro l'organizzazione sistematica della violenza civile che lasciamo all'iniziativa dei lazzaroni del capitalismo e delle iene dell'odio di classe, poiché la nostra carica spirituale esclude sia la canagliata privata, che l'oltraggio pubblico.

Neghiamo, infine, ogni teorizzazione filosofica a giustificazione dottrinaria della dittatura personale e delle caste sociali.

Ciò per evitare le commistioni arbitrarie e gli scambi d'indirizzo.

Ma dobbiamo, alle mezzecalzette della cultura, della politica e della stampa, alcune altre indicazioni sulla presenza ideologica delle nostre formazioni.

Della religiosità dello spirito e, quindi, dell'invarcabile mistero della trascendenza, noi abbiamo un concetto filosofico ed umano, che ci permette di respingere tutte le mitologie e tutte le istituzioni terrene che discendono dai mito.

Dello Stato di popolo, a correzione di ogni tentativo di identificarlo con forme tradizionali del passato, noi abbiamo un modello ideale che comporta schemi assolutamente e mai realizzati nella storia di tutte le istituzioni del consenso, della rappresentanza e dell'inserimento dell'individuo nella società.

Della libertà umana, quale momento della piena realizzazione individuale, abbiamo sì alto concetto, da identificarla con lo stesso fine dell'individuazione storica dello Stato.

Del marxismo noi non neghiamo, anzi confermiamo, in termini originali e categorici, il supremo anelito alla giustizia sociale, ma confutiamo l'errore della sua metodologia collettivista e materialista, pertanto, lo scavalchiamo a sinistra della sua burocratica cristallizzazione di partito, del suo permanente furore persecutorio e della sua infernale gerarchia di setta, per confinarlo nel suo pesante ruolo di comprimario della reazione.

Siamo per la subordinazione essenziale dell'economia, come necessaria produzione della ricchezza, alle attività superiori dello spirito umano, la cui rivoluzione deve precedere il nuovo assetto delle strutture e degli strumenti istituzionali.

Siamo per la Storia come contingenza e cioè come svolgimento spirituale, senza disegni provvidenziali e senza dialettiche determinazioni, nel cui alveo la molteplicità degli uomini si convogli come unità di libertà e di giustizia, e, nella congiuntura storica, siamo per un'Europa che ritrovi le vie dello spirito, senza ricadere negli equivoci del suo fanatismo religioso, dei suoi miti nazionali, del suo culto del privilegio, per uno Stato europeo che non concilii temporaneamente gli interessi incancreniti nell'ingiustizia, ma attui definitivamente quella libertà e quella giustizia.

(...)

La sinistra marxista, cosciente dell'impossibilità di revocare a breve scadenza l'ipoteca capitalista degli Usa e del consumismo animale, rinnega il suo miglior defunto, che ha lasciato scritto il suo pensiero sull'incompatibilità di progresso proletario e società borghese, e promette, coprendolo con uno sipario di carta e di parole il plotone d'esecuzione alla democrazia e ai partiti.

La destra nazionale blatera di ordine e di dignità dello Stato, rispolvera macabre alleanze massoniche e tradisce miserevolmente il suo gioco, rispolverando l'inganno corporativo per concludere con l'equilibrio padronale dei costi e dei ricavi.

In tale prospettiva di confusioni e di falsità, noi portiamo l'annuncio, tutto da svolgere, per la più vasta comunità di uomini, ove il territorio, la bandiera e la popolazione siano concetti superati di un secolo concluso, ma anche i municipalismi ed i razzismi regionali siano residui barbarici di un'epoca medioevale.

Annunciamo l'Europa, come Stato di popolo, in cui la libertà non sia un mito naturale della spontaneità animale, ma una luminosa conquista morale dell'uomo, come liberazione da tutte le servitù, da attuare per gli altri, con gli altri, nessuno escluso, neanche il peggiore nemico, senza la cui umanità non esiste la nostra umanità.

Nessuno s'illuda di fabbricarsi un Dio per sé o per la propria tribù.

Ciascuno registri la propria presenza nel mondo, come limite e condizione, cioè viva in termini di altissima religiosità.

 

p. F. Altomonte      

 

 

 

«Italia per bene»

Giorgio Pini      

 

Tristemente nostalgica del più grigio passato, la vignetta di copertina di un fascicolo de "il Borghese" presentava due carabinieri in contemplazione di un aulico ritratto di Umberto I, con la didascalia: «L'Italia per bene».

Queste assurde, incredibili serenate a un tempo che fu e che non tornerà, ispirate all'ottusa concezione dello Stato di polizia, non sono sentite nemmeno da chi le suona per sfruttare ai fini editoriali i deteriori sentimentalismi dei ceti conservatori più chiusi, dei pensionati ancora vaghi delle fallite imprese autoritarie dei Bava Beccaris e dei Pelloux, squallidi eroi dell'Italia umbertina, e per deviare su strada sbagliata le idee dei giovani più sprovveduti.

Italiani onesti, dotati di civiche virtù, ce ne furono senz'altro in quel periodo spiritualmente e materialmente depresso dopo il magnifico slancio risorgimentale, come ce n'erano stati prima, ce ne furono dopo, ce ne sono, checché ne dicano i disfattisti professionali di oggi, e ce ne saranno domani. Ma resta fermo che l'Italia dell'ultimo quarto dell'Ottocento visse una fase spiritualmente, politicamente, socialmente, economicamente depressa, di paese che stentava a maturare come nazione e a rendere tutti i cittadini partecipi alla vita dello Stato.

Ai lodatori del passato per diffamare il presente, che non sanno o fingono di non sapere cosa davvero fu quel passato, potremmo rinfacciare autorevoli testimonianze e giudizi degli scontenti di allora. Ma occorrerebbero volumi. Basti ricordare i famosi versi coi quali il Carducci fustigò la classe dirigente sua contemporanea. «Più che ci allontaniamo dalla grande rivoluzione -scrisse Crispi- e più gli animi diventano gelidi, meschini, quasi anti-patriottici». Di ciò fu non meno insofferente Oriani denunciante come reazionaria la monarchia.

Clamorosi, gravissimi furono gli scandali scoppiati in quell'«Italia perbene», che i borghesi de "il Borghese" vogliono far passare per candido agnello. Nulla, da allora, si è visto di simile allo scandalo della Banca Romana, che coinvolse i maggiori politici del tempo, e sfiorò la Corte. Non parliamo dei brogli elettorali, del trasformismo politico, ch'era il contrario e molto peggio della partitocrazia, delle lotte personali fra notabili condotte senza esclusione di colpi, delle occulte influenze della massoneria in tutti i settori pubblici, burocratici, giudiziari e perfino militari. Fu quella una Italia tutt'altro che da rimpiangere; un'Italia che non meritò affatto poeti come Carducci, Pascoli, e D'Annunzio, come non meritò e perfino misconobbe un Oriani, un Marconi.

Solo degli snobs discendenti dei «consorti» che per decenni fecero il bello e il brutto tempo, dei «padroni» dalla mentalità feudale, dei baroni latifondisti, degli oziosi salottieri possono rimpiangere quell'epoca di squilibrio economico, di sottoproletariato costretto alla fame o alla emigrazione, di piccola borghesia ridotta cliente della grossa borghesia insaziata di privilegi e di sovvenzioni, arbitra dello Stato, i cui funzionari perseguivano come malfattori quanti si impegnavano in difesa dei diritti del lavoro, e li diffamavano con motivazioni come la seguente a carico di Andrea Costa, arrestato e denunciato «per oziosità, vagabondaggio, e per sospetto di reato contro le persone e la proprietà»: motivazioni che marcano di supremo ridicolo la mentalità di quell'«Italia perbene» e del suo braccio secolare.

Povera Italia uscita con le «mani nette» dalla conferenza di Berlino, perdente la partita di Tunisi, battuta ad Adua, priva di un programma per il Mezzogiorno abbandonato alla estrema miseria, ma rifiutante a lungo il diritto di sciopero, insidiata dall'opposizione clericale, dalle «questioni morali» che Crispi e Giolitti si rilanciavano. «Solo l'interesse materiale, la borsa, le importazioni e le esportazioni sono diventati il nostro Dio», scriveva nel suo Diario il presidente del Senato Domenico Farini. E se oggi Merzagora lamenta gli eccessi della partitocrazia, allora Farini deplorava invece la mancanza di una netta distinzione fra i partiti, e così dipingeva la Camera dei Deputati dell'epoca: «Una bettola dove trenta energumeni urlano come ossessi, bestemmiano come ubriachi e si impongono col chiasso, col turpiloquio, colle minacce alla grande maggioranza». Aggiungeva: «Come noi abbiamo uno spaventevole disavanzo finanziario, ne abbiamo un altro non meno spaventevole di forza e di rispettabilità militare».

Ecco serviti gli adoratori dell'Italia umbertina, che sono poi i destrorsi conservatori, autoritari, ossia la più dannosa e tenace gramigna che da un secolo infesta la vita politica nazionale.

A motivarne la condanna siamo d'accordo con le ragioni esposte da Silvano Spinetti nel suo "Vent'anni dopo - Ricominciare da zero", edito da Solidarismo. «Lo Stato liberal-capitalista -scrive Spinetti- si propone l'assoluto prepotere del potere economico sul potere politico, la subordinazione all'interesse economico di una minoranza del benessere della maggioranza, lo Stato al servizio dell'imprenditore da considerare come l'unico o il più grande benefattore della collettività, presentato come la vittima incompresa o tartassata del potere politico che egli invece indirettamente dirige o pone al suo servizio».

«Si consideri la storia d'Italia dall'unità all'avvento del fascismo. La storia di uno Stato che, essendo apertamente o dietro le quinte diretto dai liberali o dai possidenti del tempo, fece dell'Italia il paese dove le distanze sociali erano maggiormente sentite. Fra il Nord e il Sud, fra gli imprenditori e i lavoratori. Fra i proprietari terrieri e i contadini. Dove le ricchezze e le terre erano più iniquamente distribuite. Dove si riscontrava il maggior numero di analfabeti e di disoccupati, il minor numero di ospedali, i più scadenti servizi pubblici».

Questi, non altri, i veri connotati della «Italia perbene» cui si rivolgono i sensi elegiaci de "il Borghese" e la sua frusta apologia ispirata da aprioristica smania di contraddizione al presente, da una presentuosa formula etica, estetica e di costume che va respinta, soprattutto da furbo sfruttamento dell'animo dei farisei «benpensanti» e «uomini d'ordine», individualisti fanatici del più tetragono conservatorismo, dei più gretti egoismi antisociali.

Ma peggio della speculazione editoriale sul vizio conservatore è la vergogna dei politici monarchici, missini, liberali che si assumono di sostenere in Parlamento non gli interessi della nazione, ma quelli di una classe, sempre di quella, soltanto di quella detentrice del potere economico, mai delle altre, con una tenacia degna di cani da guardia.

Avete sentito come sono scattati mentre Gronchi confermava le sue vedute sociali al Senato? Nelle loro interruzioni si smascherava uno zelo sfacciato assolutamente unilaterale, e si scopriva la incredibile vocazione al rinnegamento di ciò che di valido resta del passato ciclo politico in tal modo offeso proprio da certuni che pretendono rappresentarlo.

 

Giorgio Pini      

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