da "notizie dalla Terra
Santa"
http://www.terrasantalibera.org/LucaF_veri_italiani.htm
I veri italiani non devono
disperare
Luca Fantini
«Nulla mi è più comprensibile e più
simpatetico dell'idea di Machiavelli, che se in questo mondo gli
uomini fossero buoni sarebbe da malvagi mentire e ingannare; ma
poiché evidentemente non vi è che plebe e canaglia, sarebbe da
sciocchi essere nobili e decenti».
Carl Schmitt,
Tagebucher. Oktober 1912 bis Februar 1915, Berlin 2003, pag. 163
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Risulta non facilmente comprensibile -ad ogni
osservatore di situazioni politiche internazionali- il motivo per cui dal '45 ad
oggi gli angloamericani abbiano in un certo senso eletto l'Italia, una Nazione
priva di un valore centrale nella partita geostrategica o geoenergetica che si
va annunciando (sono addirittura più importanti, in tal senso, paesi come il
Kazakhstan o il Venezuela stesso), a territorio privilegiato di esperimenti
"psicologici" o "sociali" della peggiore specie, per continuare il loro
indisturbato, totale dominio sulla nostra Nazione.
Sono talmente tanti e vari gli esempi che si potrebbero portare, sulla
centralità assunta dall'Italia nelle più delicate vicende di politica
internazionale quantomeno dal '45 al '93, che è certamente inutile tornarci
sopra. Oggi, ad esempio, siamo arrivati ad una continua, ossessiva campagna di
stampa internazionale, ma più precisamente angloamericana, contro un Presidente
del Consiglio il cui unico irrimediabile torto, agli occhi di Londra e degli
USA, è quello di tentare di recuperare dei minimi spazi di autonomia politica
tattica in una chiave sovranista nazionale, con l'apertura di un dialogo
strategico geoenergetico e geopolitico di largo respiro con Mosca, Tripoli, Il
Cairo ed anche con Pechino, dialogo che a fronte di investimenti e relazioni
commerciali ha posto il governo italiano come garante per svariati benefici e
vantaggiosi ritorni.
Ciò ha portato alle esplicite proteste politiche di USA (tramite l'ambasciatore
in Italia) e Londra verso la "preoccupante" politica estera italiana, troppo
poggiata su Mosca, a loro dire.
Certamente, il fatto che il Presidente del Consiglio si giochi la partita
fondamentale sul piano del gossip (peraltro a mio modesto avviso, sbagliando
obiettivo: si veda vicenda Feltri-Boffo, comunque centrato da "Libero": caso
Elkann-Agnelli), piuttosto che su quello della pura politica decisionista, "di
forza", in una situazione di emergenza quale è effettivamente quella odierna,
non depone a suo onore, tanto meno a suo vantaggio: tutt'altro.
Ciò che tuttavia lascia assai perplessi è il fatto -per chi consulta testate
inglesi o americane- che una linea politica di iniziale "indipendenza nazionale"
avviata dal Berlusconi IV abbia destato in tali ambienti tante preoccupazioni
che addirittura non si parli più in prima pagina del "dittatore Putin", e che
vicende talmente importanti per gli atlantici, come quelle dei "diritti umani"
dei buddisti tibetani o dei musulmani in Xinjiang, che fino a poco fa
costituivano il problema principale di ogni dibattito politico internazionale,
ora vengano affrontate in secondari trafiletti. Tali testate si soffermano
invece continuamente sulle presunte "ore contate" del Berlusconi IV, sulla
necessità di un nuovo governo italiano, più ligio alle direttive d'oltreoceano.
È necessario quindi avviare una lettura estremamente sintetica dei fatti
essenziali del secolo appena passato, per leggere con attenzione gli eventi che
si vanno sviluppando e in futuro si acuiranno.
Il Novecento, l'«inquieto Novecento», rimane certamente il secolo da analizzare
a lungo per comprendere i fatti di oggi e quelli di domani. Nessun secolo come
il Novecento ha veduto l'irrompere sulla scena storica di autentici "geni
strategici" che hanno condizionato e determinato il destino stesso degli eventi
planetari. È un fatto sorprendente, che lascia addirittura sbigottiti se solo si
pensa che secoli interi passavano lentamente e stancamente senza "decisive"
intuizioni strategiche. Il Novecento è stato per eccellenza il secolo di
terremoti e rotture strategiche vere e proprie.
Tra questi "geni strategici", emergono: Wilson, se oggi l'angloamericanismo
(anche e soprattutto nelle sue torsioni più realiste alla Brzezinski o alla
Kissinger) detta le condizioni planetarie lo dobbiamo senza meno al messianismo
wilsoniano; Lenin, il primo a trasferire concretamente sul piano politico il
fulcro concettuale della guerra, ossia la distinzione amico/nemico, nonostante
il suo disegno strategico definitivo si rivelava infine fallimentare; Mussolini,
l'unico a dare nel corso dell'intero secolo una risposta spiritualmente europea
all'offensiva strategica angloamericana; De Gaulle, l'unico ad uscire
pragmaticamente dalla logica dei blocchi impostasi dal 1945 con un atto politico
essenziato di puro decisionismo e di sovranismo nazionalista; Deng Xiaoping,
infine, il quale, frantumando decenni di sterili utopismi maoisti e/o
linbiaoisti, comprendeva che l'unica sfida strategica con l'Occidente poteva
essere giocata dalla Cina solo sul piano della conquista dei mercati e dei
capitali (cuius regio ejus industria).[1]
Mussolini e noi
Ora, se dovessimo stabilire chi tra questi "geni strategici" ha meglio
concretizzato, in termini storico-politici, la hegeliana essenza dell'«anima del
mondo», ovverosia la necessità strategica, nel processo della storia universale,
di prendere coscienza della realizzazione dell'opera universale che lo spirito
del mondo esige, direi senza dubbio Mussolini. E questo va detto proprio
prescindendo radicalmente da ogni fattore ideologico e/o emotivo-passionale.
Dopo anni di attento studio di tutti i più importanti testi storiografici o
filosofici riguardanti il fenomeno, testi dai quali sono stato peraltro anche in
passato condizionato (De Felice, Gentile E., Sternhell, Del Noce), sono infatti
arrivato alla definitiva conclusione che il mussolinismo e il Fascismo sono,
nelle loro linee essenziali, degli illustri sconosciuti. Basterebbe consultare i
testi di E. Gentile o di Sternhell, ad esempio, sulle origini l'uno, su la
nascita l'altro, di una "ideologia fascista", per rendersi conto di quanto siano
pretenziosi i due volumi e di come arrivato alla fine dei volumi stessi, il
lettore attento prenda coscienza che proprio in base a quanto ha letto non è
possibile parlare di una "ideologia fascista".
È ben difficile, infatti, che uno storico o un filosofo possa spiegarci l'azione
intima, strategica, del Politico. È possibile ricostruire storicamente l'azione
di un fondatore di stati o di un generale, ma risulta veramente difficile,
arduo, immedesimarsi nello spirito intimo di un genio creatore (uso
l'espressione nella sua declinazione etimologica, non apologetica)
strategico-politico. Inoltre Mussolini è evidentemente ancor più difficile da
comprendere di un Lenin, le cui radici marxiste (fortemente
ideologico-messianiche) erano rivendicate dallo stesso, fino alla fine, per
quanto avessero subito una determinante declinazione
soggettivistica-volontaristica senz'altro non ortodossa, o di un Hitler, il cui
progetto strategico (fortemente ideologico-messianico anche questo) era
perfettamente esposto nel "Mein Kampf" e nel "Mein Leben" ed allo stesso appunto
l'hitlerismo si adeguava nel corso della sua azione politica.
Al contrario, Mussolini ha fornito un esempio radicale di spietato realismo
politico basato in sostanza su un "machiavellismo superiore": nella sua azione
non vi è stato affatto eccessivo spazio per un ideologismo messianico né per una
declinazione della politica in senso ideologico.
Lenin imprimeva in sostanza una svolta storica, una rottura di paradigma la
possiamo chiamare, al movimento comunista mondiale, sacrificando ogni mossa
tattica (l'interventismo politico volontarista, il movimento del partito e
dell'organizzazione centralizzata) al fine strategico fondamentale: la classe
quale prospettiva strategica storico-universale, con il partito macchina da
guerra esterna, organizzazione tattica di appoggio alla classe. La base del
leninismo è l'analisi politica della rivoluzione. Nel settembre del '17
supportava il punto di svolta della rivoluzione che si andava allargando: «Se
non prendiamo il potere adesso, la storia non ci perdonerà. Il partito ha
l'obbligo di riconoscere che l'insurrezione è posta all'ordine del giorno… In
questo momento non si può rimanere fedeli al marxismo e alla rivoluzione senza
considerare l'insurrezione come arte».
Circa un mese dopo, sosteneva che il partito non si può lasciar guidare dallo
stato d'animo delle masse poiché è instabile e non può essere esattamente
calcolato e quindi si doveva lasciar guidare solamente dall'analisi obiettiva e
dalla valutazione della rivoluzione. La svolta storica era definitivamente posta
da Lenin quando determinava dall'alto l'ordine dell'offensiva finale, chiamando
tutti -il partito, i soviet, le masse, gli operai- alla insurrezione armata. Si
ha in quel preciso momento storico uno spostamento decisivo, assoluto, nella
lotta politica mondiale. Lenin teorico del proletario e Lenin politico
rivoluzionario sono ormai coincidenti in un singolo destino storico. Il nemico
di Lenin è il nemico della classe operaia: nemico assoluto, nemico dell'umanità.
Inizia dunque -con Lenin, come ormai noto- la massima radicalizzazione storica
del concetto politico. Ogni guerra dovrà avere un carattere "ideologico", di
guerra definitiva e finale per i destini dell'umanità.
«Lenin, in quanto rivoluzionario di professione della guerra civile mondiale,
andò oltre, e fece del vero nemico il nemico in assoluto. Clausewitz aveva
parlato di guerra assoluta, ma presupponendo la regolarità di una struttura
statuale. Certo non poteva ancora immaginare lo Stato come strumento di un
partito e un partito che comanda uno Stato. Con l'assolutizzazione del partito,
anche il partigiano diventava qualcosa di assoluto, e veniva elevato a portatore
di inimicizia assoluta».[2]
L'iniziativa leninista dell'ottobre bolscevico pone il partito verso la classe
nel quadro del momento tattico rispetto al disegno strategico messianico finale.
Per questo il disegno strategico finale sarà fallimentare: la classe come
sostanza dialettica, quale automovimento, della futura società senza classe si
rivelerà un fallimento. Le basi dello Stato operaio debbono essere tattiche ed
identificarsi con le funzioni del partito, nella visione leninista. Ma per
salvare il disegno strategico, che si comprende dall'inizio è posto su fragili
basi, destinate a crollare, Stalin è costretto a ripiegare il leninismo e a fare
della tattica di Lenin la sua strategia portante.
Ora, il Mussolini vincitore della guerra civile italiana (1919-1922), di contro
alle visioni ideologiche che pongono il momento strategico come sintesi assoluta
dei movimenti tattici, sembra decisamente privilegiare una metodologia politica
antidogmatica e antideologica per eccellenza. Di puro realismo politico. Nel
"Popolo d'Italia" (22 novembre 1921), Egli scrive un pezzo fondamentale
intitolato: "Relativismo e fascismo" in cui, dopo aver proclamato la morte
storica dello scientismo quale metodo di conoscenza esatta, con sconcertante
sincerità, afferma: «Se per relativismo deve intendersi il dispregio per le
categorie fisse, per gli uomini che si credono portatori di una verità obiettiva
immortale, per gli statici che si adagiano invece di tormentarsi e rinovvellarsi
incessantemente, per quelli che si vantano di essere sempre uguali a se stessi,
niente è più relativistico della mentalità e dell'attività fascista».
A Trieste, d'altra parte, nel settembre del 1920 aveva già dichiarato che
«fascismo significa antidemagogia e pragmatismo» ed il mese successivo su "Il
Popolo d'Italia" aveva ribadito che il fascismo è tale «in quanto permette una
pragmatica latitudine di atteggiamenti, a secondo delle circostanze di tempo, di
luogo, di ambiente», tutti riferimenti che servivano chiaramente a porre una
netta differenziazione tra il fascismo «atto di vita» e «il dottrinarismo
ideologico» che è «esercitazione di parole».
Usando la medesima tattica armata leninista (dove il partito fascista deve però
supportare -dogmaticamente e totalitariamente in tal caso- l'azione del
Principe: Mussolini) ma in un progetto strategico antidemocratico e
anticomunista, finalizzato a portare su posizioni di interventismo
nazionalrivoluzionario il gruppo strategico di potere della borghesia
conservatrice italiana (o almeno una consistente parte di esso), Mussolini
introduce la guerra di movimento nella società civile italiana (lo squadrismo
fascista ha la funzione politica fondamentale di compenetrare di dinamismo
attivista nazionalrivoluzionario le sfere conservatrici dell'esercito, non
viceversa), avendo gradualmente ragione e di una dirigenza socialista e
comunista e di una liberale e democratica che ragionavano e agivano ancora nei
termini e nei modelli di guerra di posizione, di blocchi politici statici, tutti
fondati sulla strategia, assolutamente privi di qualsivoglia sperimentalismo
tattico.
Il realismo politico mussolinista emerge chiaramente dalla dottrina politica
italiana, quella che ha reso il Machiavelli il profeta armato di tutti i tempi.
E come il Segretario fiorentino, Mussolini non usa la formula dogmatica del
"miglior governo", ma si chiede sempre quale è "il possibile governo". Come
Machiavelli, Mussolini è un pessimista antropologico: l'uomo è nella maggior
parte dei casi essenzialmente dominato dall'impulso al male, dall'egoismo più
abietto, dall'edonismo e dall'utilitarismo sfrenato (B. Mussolini, "Preludio a
Machiavelli", Gerarchia, III, 1924; Id., "Forza e consenso", Gerarchia, IV,1925).
Interessante al riguardo, la lettura data da Gramsci del mussolinismo nei
Quaderni (3, 34), in base a cui la formula Machiavelli=machiavellismo=Stato-potenza,
diviene la principale arma della "reazione" e pura apologia dell'antidemocrazia,
dell'antiegualitarismo e dell'autoritarismo. Il campione ottocentesco
dell'antidemocrazia neo-machiavellica è identificato da Gramsci in Hegel, sulla
base della visione di quest'ultimo della servitù quale culla di libertà
(Quaderni 11, 18).
Tutto questo dovrebbe bastare a farci comprendere l'essenza assolutamente
tatticista del realismo politico mussolinista. La strategia viene da Mussolini
stravolta e ripiegata completamente nel momento tattico. Come nessun altro ha
saputo declinare la sua visione del mondo fondamentale (rivoluzionaria
conservatrice) azzerando e annichilendo il progetto strategico nelle esigenze
tattiche del momento. Con un assoluto senso del limite, un freddo equilibrio
strategico, che, almeno fino al 1938, nessuno si può vantare di possedere allo
stesso modo.
Il Mussolini vincitore della guerra civile italiana (1919-1922) fornisce un
quadro sintetico radicale di una doppia strategia (illegalità e legalità) che
viene apparentemente sacrificata nelle piccole conquiste tattiche, nei piccoli
ma fondamentali avanzamenti di posizioni. Partito originariamente -una volta
tornato dal fronte - da posizioni di assoluta minoranza e di totale marginalità
politica, Egli sacrifica totalmente la teoria (la conoscenza soggettiva,
unilaterale del processo storico oggettivo in divenire) all'atto politico puro,
all'intervento-decisione (volontà di sovvertire il processo storico
inarrestabile: democrazia, diritti, neo-illuminismo). Con Mussolini, la politica
diviene pura, totale azione soggettiva del capo, la guerra è l'idea, l'atto
soggettivo -ancora- è l'intervento su ciò che precede la oggettività storica,
affinché questa non passi e trionfi (la necessità della svolta tattica continua
e dell'estremo tatticismo mussolinista risiede qui).
Gli avversari più seri, tra cui il condottiero e fondatore dell'Armata Rossa, si
trovano costretti ad indicare in Mussolini un esempio strategico (H. Abosch, "Trockij
e il bolscevismo", Milano 1977, pag. 47). Agli inizi del 1925, Egli si fa infine
Dittatore. La sovranità politica è ormai totalmente riposta nel suo pensiero e
nella sua azione decisionista. Non può così stupire che Carl Schmitt, in quegli
anni a ridosso di tali eventi, scriva che «un Italiano ha espresso di nuovo,
come già nel XVI secolo (chiara l'allusione a Machiavelli), il principio della
realtà politica».[3]
Se Mosca e New York sono le capitali ideologiche in cui viene particolarizzato
un disegno strategico di progressismo estremista e dogmatico razionalista di
radice neo-illuminista (da cui lo stalinismo poi, soprattutto dal '41, tenterà
di uscire completamente), l'Italia di Mussolini è essenzialmente "bonapartista",
diviene il centro della Machtpolitik, una scuola di modernismo politico
d'avanguardia, fondata sul culto mistico dello Stato di potenza.
Mussolini, come Napoleone nel secolo precedente, è lo spirito europeo che
applica il katechon (S. Paolo 2 Ts, 2,6), ossia lo spirito potenza che frena,
trattiene e cerca di stravolgere l'irruzione messianico-escatologica del
nichilismo moderno tecnicamente più distruttivo incarnato dalla grande nave
angloamericana: «priva della determinazione del proprio senso interiore, che
scivola nel maelstrom della storia».[4]
Nemmeno andrebbe ricordato, tanto è ormai noto, che nelle università cinesi si
studia in quegli anni diritto corporativo, che nel primo New Deal roosveltiano
si hanno vasti richiami all'economia programmata di radice fascista, che un po'
ovunque nel mondo abbiamo intellettuali o movimenti che si richiamano
esplicitamente (non è questo il contesto per stabilire con quale coerenza) al
fascismo di Mussolini; basterebbe ricordare quanto di più geograficamente
lontano possa esservi, ossia le note "Camicie Verdi" del brasiliano Delgado che
permettono a Getulio Vargas di conquistare il potere.
Il disegno strategico di Mussolini è di grande respiro. Oltre alla radicale
modernizzazione dell'Italia, alla volontà di militarizzare il popolo italiano,
riallacciandolo -in un passato troppo lontano effettivamente- al mito della
romanità ed in tempi più vicini, oltre alla battaglia di Legnano e alla disfida
di Barletta, al radicalismo nazionale, eroico e volontaristico che nel
Risorgimento viene comunque ben distinto dal filone democratico-progressista e
positivista, al superamento interno di ogni materialismo astratto e distruttivo
e di ogni economicismo, l'aspetto strategico del regime fascista si fonda sulla
volontà metastorica assoluta di rendere l'Italia una Grande Potenza. Assumendo
l'aspetto di potenza mondiale che aspira alla grandezza totale, al proprio
"spazio vitale", l'Italia di Mussolini rivendica al tempo stesso la
primogenitura di un momento spirituale puro, di un autentico movimento
spirituale che si può caratterizzare come una "rivoluzione conservatrice
europea". Il capo del fascismo italiano, con la sicurezza di una intuizione
strategica che nella storia dell'arte si definirebbe geniale, fornisce una
inscindibile formulazione politica ad un impulso spirituale che milioni di
giovani europei avvertono discendere come un'onda spirituale. Quando Mussolini
si proclama Dittatore, i reduci dell'intero continente europeo, ovunque derisi e
diffamati, sanno che i loro valori possono diventare forza di stato, che
l'animazione spirituale sperimentata nelle trincee può, nel destino della
civiltà europea, prendere il posto delle astratte mitologie ideologiche di
taglio razionalista, umanitarista, progressista, egualitarista. Significativo,
che in piena guerra, dal 1943, l'idea di un eurofascismo o di un fascismo
europeo compiuto prende piede in seguito ad un'intuizione strategica di
Mussolini, che già aveva teorizzato del resto negli anni Trenta: il fenomeno
volontarista paneuropeo della "terza ondata", quello del 1943, è infatti un
fenomeno eurofascista e mussolinista.[5]
Non è questo il contesto per approfondire la relazione tra fascismo e
nazionalsocialismo tedesco, ma va comunque detto che le simpatie mussoliniane
-in Germania- andavano originariamente più agli Elmi d'Acciaio-Lega dei Soldati
del Fronte (Stahlhelm-Bund der Frontsoldaten)[6]
che ai nazionalsocialisti di Adolf Hitler, di cui Mussolini probabilmente non
approvava il dogmatico estremismo strategico di fondo, che era chiaramente
antitetico alla metodologia politica ultratatticista e antidogmatica del capo
italiano.
Far diventare l'Italia grande potenza, come detto. In tal senso, Mussolini gioca
strategicamente la carta più rischiosa, ma che si rivelerà decisiva:
distruggere, annichilire quell'apparente equilibrio europeo interno che si regge
su un concerto franco-inglese. Accelerando le nostre posizioni di forza nel
Mediterraneo, prendendosi la spazio vitale in Africa, intuendo la strategia
fondamentale dei tempi nuovi (e oggi, a quasi un secolo di distanza, ne iniziamo
a prendere consapevolezza…) ossia che "il numero è potenza", realizzando infine
l'Impero, il capo fascista mette in moto l'azione offensiva di una modernità
politica europea, statalistica ed eurocentrica (un nuovo ordine fascista) che
gioca sull'elemento dello squilibrio, nel noto nesso del nomos della terra, per
colpire mortalmente, definitivamente, l'espansionismo despazializzato,
tecnico-artificiale (non politico) dello Stato marittimo inglese. Non è un caso
che la vittoria di Mussolini -antianglosassone anzitutto- del maggio 1936, che
colpisce alla radice l'equilibrio statico antieuropeo franco-inglese, avrà la
inevitabile conseguenza strategica di condurre alla fine storica dell'impero
anglosassone.
Una vendetta postuma di Napoleone Bonaparte realizzata tramite Mussolini. Si
potrebbe giustamente notare che Londra guiderà in seguito -dopo veder franare il
proprio impero- o meglio coadiuverà tatticamente l'espansione americana, nel
quadro strategico unipolare angloamericano: ma anche questo si rivela alla lunga
un fallimento strategico, con la Russia potenza spaziale terrestre -politica-
che "gioca" quantomeno alla pari con gli angloamericani sulla logica dei grandi
spazi quasi fino alla fine del secolo XX, e con l'emergere in seguito di nuove
potenze che hanno lanciato una chiarissima offensiva strategica volta al primato
mondiale sugli angloamericani.
In un unico caso della sua storia, l'Italia, con Mussolini appunto, entra
attivamente nella Grande Politica.
Ed infatti, le sconfitte del 25 luglio, dell'8 settembre, del 25 aprile, sono le
sconfitte del popolo italiano intero (tranne una minoranza) che ha fallito
ingloriosamente il suo appuntamento con la storia. Non certamente di Mussolini e
dei fascisti. A differenza del popolo tedesco e del popolo russo i quali, oltre
il risultato strategico, erano evidentemente da secoli preparati a quella sfida
a cui hanno dato vita, venti anni non sono stati sufficienti per preparare
l'italiano ad entrare come un blocco di potenza sull'arena della "grande
politica". Solo le minoranze, come noto, hanno risposto positivamente a tale
appuntamento. Vengono in proposito alla mente taluni giudizi di Hegel sui popoli
latini: lo sdoppiamento nella coscienza dello spirito ed una astratta tensione
verso l'elemento sentimentale unilaterale, che è quasi una vera e propria
negazione dello spirituale.[7]
E appunto la maggioranza del popolo italiano fallisce miseramente il suo
decisivo appuntamento storico, rifiuta quel senso di autocoscienza nazionale e
di "coscienza planetaria" che un capo di avanguardia le offre, mentre il popolo
russo, in condizioni ben peggiori e ben più dure, fornisce un esempio di
"stoicismo" e di solidità veramente "eroico".
Potrebbe sembrare dunque quasi incredibile che un genio strategico quale
Mussolini, che i più consapevoli fascisti che fino alla fine sono stati presenti
a se stessi in questo supremo appuntamento storico, che il messaggio spirituale
di estrema autodifesa europea e di veloce contrattacco continentale rispetto
all'invasione nichilista di "civiltà" angloamericana, che tutti questi impulsi
siano venuti fuori dall'Italia. Ed invece questa, per assurdo, è una costante
storica.
E chi oggi fa la "grande politica" -chi sta dunque a Londra e Washington, ed
anche a Pechino, ma in tal caso Pechino c'entra ben poco- sa naturalmente tutto
questo.
Dunque, tornando all'inizio dell'articolo, ora si spiega la particolare
attenzione dei circoli strategici angloamericani verso l'Italia. Traendo dunque
velocemente le conclusioni: il berlusconismo è chiaramente un fenomeno
passeggero, che non inciderà nell'anima del popolo, come non vi hanno inciso
peraltro decenni di "cultura democristiana". L'unico elemento che ha veramente
inciso in tal senso, dopo il 1945, è stato l'americanismo sostanziale che ha
ancor più abbassato e degradato il già debole carattere italiano. Ma questa è
stata ed è, purtroppo, la necessaria conseguenza per un popolo il quale, come
visto sopra, si è lasciato prendere dalla decadenza sentimentale nel momento in
cui poteva finalmente iniziare a "fare la storia" concretamente e
metaforicamente parlando, un popolo che non sa tenere le proprie armi deve per
forza di cose portare le armi degli altri. L'unica via da percorrere per ora è
dunque appoggiare e supportare quei gruppi umani o classi dirigenti
strategicamente organizzati/e che sono oggettivamente "meno lontani" dalla
nostra prospettiva immediata (attualmente senza dubbio, quelli che fanno blocco
con Berlusconi, i quali non per un preciso disegno culturale o strategico
-almeno fino ad oggi- ma per una mera necessità di interessi, si vanno
distaccando ed "autonomizzando" dal fronte angloamericano), che è l'indipendenza
dagli angloamericani e la sovranità.
È chiaro che se rinascerà qualcosa che avrà una continuità sostanziale, non
formale, con il fascismo mussolinista, questo verrà inevitabilmente fuori da
tendenze di fondo di questi gruppi umani strategici dirigenziali -che
confliggeranno inevitabilmente tra di loro in una prospettiva di autentica
scossa sistemica che si va chiaramente delineando- di cui ho parlato appena
sopra, non dai gruppuscoli "ideologici" estremisti o di mera testimonianza ed
ortodossia dottrinaria. L'essenza politica dell'amico/nemico appartiene dunque
ormai a questo fronte strategico, mai e poi mai a quello politico-ideologico.
In questo senso, come si è capito, la figura di un capo "illuminato" che sappia
a quel punto declinare tatticamente questi gruppi umani dirigenti in un comune
superiore disegno strategico, che per esempio oggi, come ripeto, è anzitutto
l'indipendenza nazionale e la sovranità, è non solo necessario, ma di più.
Figura che sarà, dovrà essere intensamente italiana ed intensamente europea.
Dunque, si tratta di operare positivamente e creativamente nella consapevolezza
che tutto ciò che abbiamo per ora di fronte è un mero fenomeno passeggero e che
le svolte strategiche fondamentali, le rotture strategiche, sono negli ultimi
secoli partite sempre dall'Italia per poi penetrare rapidamente in Europa.
Prescindendo da quanto si verificherà a breve, che sarà per forza di cose
scavalcato e travolto, ancora una volta, potremo quindi, come italiani ed
europei, essere al centro di svolte strategiche epocali.
Luca Fantini
Dottore di ricerca in storia della filosofia, collabora con nostra Redazione
quale consulente riguardo problematiche storiche e filosofiche.
http://www.terrasantalibera.org/LucaF_veri_italiani.htm
[1] Non emergono invece Hitler e Stalin (che
ha comunque preso una Russia disastrata e in preda alla dissoluzione rendendola
una potenza mondiale di primo piano) in quanto hanno a tratti perduto, nella
visione generale dell'equilibrio strategico, quel senso della misura che,
schmittiamente, è una dote fondamentale ineludibile del "politico".
[2] Carl Schmitt, Teoria del partigiano,
Milano 2005, pag. 129.
[3] C. Schmitt, Die geistesgeschichtliche
Lage des heutigen Parlamentarismus, Berlin 1991, pag. 89.
[4] Id., Il concetto di impero nel diritto
internazionale. Ordinamento dei grandi spazi con esclusione delle potenze
estranee, Istituto nazionale di cultura fascista 1941, pag. 268-269.
[5] H. W. Neulen, L'eurofascismo e la
seconda guerra mondiale. I figli traditi dell'Europa, Roma 1982, pag. 171.
[6] Si consulti al riguardo: Hoepke, La
destra tedesca e il fascismo, Bologna 1971.
[7] Hegel, Lezioni sulla filosofia della
storia, Roma-Bari 2003, pag. 344.
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